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Autore: Hiram

OSHO Kundalini Meditation ®

Questa meditazione trova il suo momento migliore se fatta al tramonto o nel tardo pomeriggio. Immergersi totalmente nello scuotimento e nella danza durante i primi due stadi aiuta a sciogliere il proprio essere rigidi come sassi, in qualsiasi punto il fluire dell’energia sia stato represso e bloccato. Poi quell’energia può scorrere, danzare ed essere trasformata in gioia e beatitudine.
Gli ultimi due stadi permettono a tutta questa energia di scorrere verticalmente, di muoversi verso l’alto nel silenzio. Una maniera estremamente efficace di rilassarsi e lasciarsi andare alla fine della giornata.

Questa meditazione deve essere praticata usando la musica specifica per la OSHO Kundalini Meditation, che scandisce e sostiene energicamente le diverse fasi.
Per la disponibilità della musica vai a fondo pagina.

Istruzioni:
La meditazione dura un’ora e ha quattro fasi. La meditazione termina quando senti tre colpi di gong.

Primo stadio: 15 minuti
Sii sciolto e lascia che tutto il corpo si scuota. Senti salire le energie dai piedi verso l’alto. Lascia andare ogni singola parte e diventa lo scuotimento. Gli occhi possono essere aperti o chiusi.

Secondo stadio: 15 minuti
Danza – come più ti piace, e lascia che tutto il corpo si muova come desidera. Gli occhi possono essere aperti o chiusi.

Terzo stadio: 15 minuti
Chiudi gli occhi e rimani immobile, seduto o in piedi, osserva come un testimone qualsiasi cosa stia succedendo dentro e fuori di te.

Quarto stadio: 15 minuti
Tenendo gli occhi chiusi, sdraiati e rimani immobile.

N.B.
Nel quarto stadio puoi scegliere di rimanere seduto, se lo desideri.

 

Alcuni suggerimenti di Osho per questa meditazione:

Il primo stadio:
“Se stai facendo la Meditazione Kundalini, lascia accadere lo scuotimento – non farlo! Stai in piedi in silenzio, sentilo arrivare; e quando nel tuo corpo inizia un piccolo tremito, incoraggialo, ma non farlo! Goditelo, sentiti estatico, dagli spazio, accoglilo, dagli il benvenuto, ma non farlo! Se lo forzi, diventerà un esercizio, un esercizio fisico del corpo. In questo caso lo scuotimento ci sarà, ma sarà solo in superficie; non entrerà in profondità dentro di te. Rimarrai solido, simile a una roccia, incrollabile; rimarrai il manipolatore, colui che agisce, e il corpo si limiterà a seguirti. Il corpo non è il problema, il problema sei tu. Quando dico scuotiti, mi riferisco alla tua solidità; il tuo essere incrollabile come una roccia deve scuotersi proprio dalle fondamenta, in modo che diventi liquido, fluido, si sciolga e scorra. E quando il tuo essere pietrificato si scioglierà, anche il tuo corpo lo seguirà. A quel punto non ci sarà colui che si scuote, ma solo lo scuotimento; allora nessuno lo starà facendo, semplicemente accadrà da solo. Colui che agisce non c’è più. Gioisci, ma non volerlo. E ricorda, ogni volta che vuoi una cosa, non ne puoi godere. Sono contrari e opposti, non si incontrano mai. Se vuoi una cosa non ne puoi godere, se ne godi non puoi volerla.”

“Se scuoti il tuo corpo correttamente per quindici minuti, con una sensazione totale, allora tutta l’energia repressa inizierà a manifestarsi e fluire.”

Il secondo stadio:
“Danza con gioia perché più sei felice, più l’energia si muove verso l’alto; più l’energia si sposta verso l’alto, più diventi estatico.”

Il terzo stadio:
“È utile sedersi, in modo che tutto il corpo scompaia e rimanga solo la colonna vertebrale. L’energia si muove verso l’alto attraverso la colonna vertebrale e tutte le energie si raccolgono nella colonna vertebrale.”

Per una descrizione approfondita della OSHO Kundalini Meditation clicca qui

Puoi scaricare la musica per questa meditazione qui

OSHO Nadabrahma Meditation ®

Nadabrahma è la meditazione dell’“humming” –  è con l’emissione del suono “mmmmmmm” a bocca chiusa e i movimenti delle mani che le parti in conflitto iniziano a sintonizzarsi, portando armonia a tutto il tuo essere. Poi, con il corpo e la mente in totale sintonia, scivoli fuori dalla loro presa e diventi un testimone di entrambi. Questo osservare dall’esterno è ciò che porta pace, silenzio e beatitudine.

Questa meditazione deve essere praticata usando la musica specifica per la OSHO Nadabrama Meditation, che scandisce e sostiene energicamente le diverse fasi.
Per la disponibilità della musica vai a fondo pagina.

Istruzioni:
La meditazione dura un’ora e ha quattro fasi. La meditazione termina quando senti tre colpi di gong.
Gli occhi rimangono chiusi per tutta la meditazione.

Primo stadio: 30 minuti
Siediti in una posizione rilassata con gli occhi chiusi e le labbra unite. Inizia a emettere il suono continuo “mmmmmm” – con un volume sufficiente da farti udire da chi ti è vicino, se una persona fosse seduta accanto a te – e da creare una vibrazione in tutto il corpo. Puoi visualizzare una canna cava o un recipiente vuoto, riempito solo con la vibrazione del suono “mmmmmm”. Arriverà un punto in cui il suono continua da solo e tu diventi l’ascoltatore. Non c’è bisogno di respirare in modo particolare, puoi anche modificare la tonalità del suono e muovere il corpo con dolcezza e lentamente, se senti che accade naturalmente.

Secondo stadio: 15 minuti
Il secondo stadio è diviso in due parti, ciascuna di sette minuti e mezzo. Nella prima parte, muovi le mani, con i palmi rivolti verso l’alto, in un movimento circolare diretto verso l’esterno. Partendo all’altezza dell’ombelico, entrambe le mani si muovono in avanti per poi dividersi e comporre due larghi cerchi speculari, a destra e a sinistra. Il movimento dovrebbe essere così lento che, a volte, sembrerà non esserci affatto movimento. Senti che stai dando energia all’esterno, all’universo.
Quando la musica cambia, dopo sette minuti e mezzo, gira le mani con il palmo verso il basso e inizia a muoverle nella direzione opposta. Ora le mani si accosteranno l’una all’altra in direzione dell’ombelico e da lì si separeranno, andando verso l’esterno ai lati del corpo. Senti che stai ricevendo energia all’interno.

Come nel primo stadio, non inibire gli eventuali movimenti lenti e morbidi del resto del corpo.

Terzo stadio: 15 minuti
Ora ferma il movimento delle mani e semplicemente siedi rilassato.

 

Un suggerimento di Osho per questa meditazione:
“Quindi in Nadabrahma, ricorda questo: lascia che corpo e la mente siano totalmente uniti, ma ricorda che devi diventare un testimone; liberatene con leggerezza, lentamente, dalla porta sul retro, senza combattere, senza lottare.”

 

Puoi scaricare la musica per questa meditazione qui

OSHO Dynamic Meditation ®

Questa meditazione è un modo rapido, intenso, profondo e diretto per rompere schemi e modelli atavici e fortemente radicati nel corpomente – qualcosa che tiene imprigionati nel passato – così da sperimentare la libertà, l’essere un testimone, il silenzio e la pace nascoste dietro le mura di quella prigione.

La mattina presto è il momento migliore per praticare questa meditazione quando “tutta la natura si ravviva, la notte se n’è andata, il sole sta sorgendo e tutto diventa consapevole, attento e presente”.

Puoi fare questa meditazione da solo, ma per iniziare può essere utile farla con altre persone. È un’esperienza individuale, quindi ignora gli altri intorno a te. Indossa abiti larghi e comodi.

Questa meditazione deve essere praticata usando la musica specifica per la OSHO Dynamic Meditation, che scandisce e sostiene energicamente le diverse fasi.
Per la disponibilità della musica vai a fondo pagina.

Istruzioni
La meditazione dura un’ora ed è composta da cinque stadi. Tieni gli occhi chiusi per tutto il tempo e, se necessario, usa una mascherina.

Questa è una meditazione in cui devi restare costantemente all’erta, consapevole, conscio, qualsiasi cosa tu faccia. Resta un testimone. E quando – nel quarto stadio – ti fermi completamente, ti immobilizzi, congelato, allora questa attenzione raggiungerà il suo culmine.

Primo stadio: 10 minuti
Respira attraverso il naso in modo caotico, lascia che la respirazione sia intensa, profonda, veloce, senza ritmo, senza schemi – e resta sempre concentrato sull’espirazione. Il corpo si prenderà cura di inspirare. Fai in modo che il respiro penetri in profondità nei polmoni. Fallo nel modo più veloce e intenso possibile, fino a quando diverrai letteralmente il respiro. Usa i movimenti naturali del corpo per aiutarti ad accumulare l’energia: sentila crescere, ma, in questo primo stadio, non lasciarla andare.

Secondo stadio: 10 minuti
ESPLODI!… Lascia uscire tutto ciò che deve essere buttato fuori. Segui il tuo corpo. Dai al tuo corpo la libertà di esprimere qualsiasi cosa sia presente. Diventa totalmente matto: urla, grida, piangi, salta, scalcia, scuotiti, balla, canta, ridi, buttati per terra, rotolati. Non trattenere niente; mantieni tutto il corpo in movimento. Un po’ di recitazione, spesso, aiuta l’inizio di questa fase. Non permettere mai alla tua mente di interferire con quello che accade. Diventa matto in modo consapevole. Sii totale.

Terzo stadio: 10 minuti
Con le braccia alzate sopra la testa, salta su e giù gridando il mantra: “Hu! Hu! Hu!” il più profondamente possibile. Ogni volta che atterri sulla pianta dei piedi, lascia che il suono martelli in profondità nel centro sessuale. Dai tutto ciò che hai; sfinisciti, esaurisciti completamente.

Quarto stadio: 15 minuti
STOP! Immobilizzati dove sei, in qualsiasi posizione ti trovi. Non aggiustare la posizione del corpo in alcun modo. Un colpo di tosse, un movimento – qualsiasi cosa dissiperà il flusso dell’energia, e lo sforzo sarà stato inutile. Sii un testimone di tutto ciò che ti accade.

Quinto stadio: 15 minuti
Celebra! Con la musica e la danza, esprimi qualunque cosa sia presente in te. Porta questa vitalità con te durante l’intera giornata.

N.B.
Se lo spazio in cui mediti non ti permette di fare rumore, puoi praticare questa alternativa silenziosa: anziché sfogare con i suoni, lascia che la catarsi del secondo stadio si verifichi totalmente attraverso i movimenti del corpo. E nel terzo stadio, il suono “Hu!” può essere martellato all’interno in silenzio. Il quinto stadio può diventare una danza espressiva.

 

Osho descrive questa meditazione

“Rimani un testimone. Non perderti. È facile perdersi. Mentre stai respirando, te ne puoi dimenticare; si può diventare tutt’uno con il respiro tanto da dimenticare il testimone. Ma così si perde il punto. Respira il più veloce e il più profondamente possibile, con tutta la tua energia, ma rimani sempre un testimone. Osserva ciò che sta accadendo come se tu fossi solo uno spettatore, come se tutto stesse accadendo a qualcun altro, come se tutto stesse accadendo nel corpo e la tua consapevolezza è solo centrata nell’osservare. Questo essere testimone deve avvenire in tutti i primi tre stadi. E quando nel quarto stadio tutto si ferma, e diventi completamente inattivo, congelato, allora questa consapevolezza arriverà al suo picco.

Ci vuole tempo: sono necessarie almeno tre settimane per sentirne il sapore e tre mesi per entrare in un mondo diverso. Ma non è sempre uguale per tutti; varia da individuo a individuo. Se la tua intensità è molto grande, può anche accadere in tre giorni.”
Osho parla dell’importanza della meditazione dinamica qui

Per una descrizione approfondita della OSHO Dynamic Meditation con sottotitoli in italiano clicca qui

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Umiltà e Libertà di Corrado Pensa

La parola ‘umiltà’ ha un profondo legame con la parola ‘libertà’. Questo legame non è così evidente, perché spesso noi parliamo di ‘umiltà’ in un senso diverso dal vero significato di questa parola. Ne parliamo troppo, ne parliamo a sproposito, e, a forza di parlarne, logoriamo questa parola delicata e la facciamo diventare inutile e consunta. Essere umili significa ‘stare con i piedi per terra’, sull’humus. Questa dimensione appartiene alla stessa area indicata da parole come ‘accettazione’, ‘equanimità’, ‘oltrepassamento dell’io’, perché in una modalità umile di vita si impara pian piano ad andare oltre l’egocentrismo e si acquista una nuova libertà.
Vivere umilmente non è affatto il nostro solito modo di vivere, anche se forse potremmo esserne convinti. È stato acutamente osservato da H. Benoit che ogni forma di disagio che incontriamo è da noi vissuta come un’umiliazione: perdiamo il treno e ci sentiamo umiliati; prendiamo un raffreddore e ci chiediamo perché proprio a noi debba toccare questa sfortuna, magari nei giorni in cui avevamo bisogno di tutta la nostra lucidità, e ancora una volta ci sentiamo perciò umiliati; e via dicendo.
Qualsiasi sofferenza ci umilia. E ciò accade per il semplice motivo che essa ci costringe ad ammettere che non siamo onnipotenti. Fa cadere il nostro io da un piedistallo. In un regime in cui l’io prevale, anche un piccolo disagio, anche una minima contrarietà minacciano la presunta onnipotenza dell’io. L’io scopre di avere dei limiti, e questo è percepito come umiliante.

 

Io-mio, umiltà e umiliazione
Accorgersi di quanto siano strettamente connessi egocentrismo e umiliazione è un primo passo fondamentale verso una diminuzione della sofferenza che ogni inconveniente provoca nella nostra vita. Non è un caso che nei termini tradizionali del Dharma l’io-mio si traduca con l’insieme di attaccamento, avversione e ignoranza. Finché questi tre prosperano, l’io-mio rimane al centro; e, finché permane l’atteggiamento divisivo e separativo portato dall’io, l’umiliazione è sempre dietro l’angolo. Se invece l’egocentrismo si indebolisce, c’è più umiltà, e di conseguenza ci sono minori umiliazioni. Infatti chi intraprende il cammino dell’umiltà non tende più a esperire tutto quello che gli capita di disagevole come un’umiliazione: al contrario, comincia ad accogliere le cose in modo radicalmente diverso.

 

La proposta della pratica
La pratica della meditazione consiste appunto nell’imparare ad accogliere le contrarietà in un modo nuovo. Essa ci propone qualcosa che all’inizio può sconcertare: non si tratta più di seguire ciecamente l’impulso a fuggire lo spiacevole a tutti i costi, bensì di abitare con calma l’umiliazione che tale spiacevole suscita.
È certamente una proposta paradossale, e lo si vede bene dalla difficoltà con cui l’io-mio la considera. Per l’io-mio questa è una prospettiva assolutamente intollerabile, perché va in senso opposto all’indicazione che esso dà in ogni circostanza: ricercare il piacevole e respingere lo spiacevole.
A prima vista la reazione dell’io-mio potrebbe sembrare molto ragionevole: non si vede perché mai dovremmo andare a incontrare il disagio.
Ma questa non è che un’impressione superficiale. Se approfondiamo la questione, ci rendiamo conto che l’atteggiamento egocentrato è assennato solo in apparenza. In realtà ci sono situazioni in cui è possibile vedere molto chiaramente come tale atteggiamento non sia di alcuna utilità, anzi, sia esclusivamente fonte di sofferenza. Pensiamo per esempio a quelle che potremmo chiamare le ‘umiliazioni inevitabili della vita’: l’invecchiamento, la malattia, la morte. Noi percepiamo il passare del tempo e il mutamento del corpo come un’umiliazione, e facciamo resistenza: questo significa che non riusciamo ad accettare la vita così com’è. E il nucleo portante dell’io è costituito proprio da questa contrazione di fondo, da questa incapacità ad abbracciare la vita come ci si presenta. Di qui nasce l’umiliazione, ed è in questo frangente che si crea la sofferenza.
Forse siamo convinti che la contrazione di fondo delle nostre vite non si possa eliminare. Ma tutte le grandi tradizioni spirituali concordano nel dire che non è così. Gli esempi nel senso dello scioglimento sono senza numero. Voglio ricordare a questo proposito il racconto di un’infermiera americana che, in un ospedale, si occupava di un’anziana donna di colore, malata in maniera terminale. Un giorno la vide nel letto che sorrideva, e le domandò: “Come va?”. La donna rispose: “Bene, sto pregando per te”.
Un episodio del genere ci tocca proprio perché in esso è sorprendentemente assente quella contrazione di cui parlavamo. In questo racconto c’è un senso miracoloso di libertà, la libertà dall’umiliazione che viene inflitta all’io-mio da una malattia incurabile.

 

Il tirocinio della presenza mentale
In un percorso meditativo non ci viene chiesto di riuscire immediatamente a stare con il disagio. Nella maggior parte dei casi l’incontro consapevole con le contrarietà, che permette di abitare saldamente l’umiliazione, è un obiettivo per raggiungere il quale occorre un certo tempo. Prima di fare questa esperienza ci si può quindi allenare gradualmente con oggetti piacevoli o neutri. Per esempio, il respiro è un oggetto neutro o piacevole che può essere usato nella prospettiva di passare poi a un oggetto spiacevole, perché non bisogna dimenticare che la pratica meditativa non può limitarsi all’area del piacevole e del neutro.
Ovviamente dinanzi a una modalità più impegnativa o spiacevole di pratica ci si deve rapportare in modo diverso, a seconda della propria esperienza. Le persone che praticano da molto tempo verificheranno queste indicazioni con la loro meditazione; le persone che stanno incominciando o hanno cominciato da poco intenderanno queste parole come una prospettiva aperta sul futuro.
Non è affatto inutile notare la differenza fra queste due situazioni, perché se non se ne tiene conto si rischia di formulare un giudizio superficiale sulla propria attitudine a praticare con il disagio. Chi non ha esperienza può pensare che, poiché non ha alcuna propensione né facilità a stare con l’umiliazione, non è il caso che insista in questa direzione.
Tuttavia l’arte di abitare il disagio non richiede uno speciale talento. Al contrario, è un fatto che può rivelarsi naturale e organico. Ma questa naturalezza non è in genere immediatamente accessibile, e richiede un graduale tirocinio. Aiutati da esso, si passa dalla capacità di stare con il piacevole e il neutro a quella di conservare la presenza mentale anche nelle situazioni spiacevoli, difficili e umilianti. Questa è una transizione di fondamentale importanza, che può essere compiuta più facilmente con l’ausilio del sangha, degli insegnanti e della pratica intensiva di ritiro.

 

La pace incondizionata
Nel corso di tale transizione si possono incontrare vari equivoci. Un equivoco notevole è quello che ci fa credere che l’obbiettivo della pratica sia una pace condizionata anziché incondizionata. Immaginiamo, per esempio, di praticare già da un certo tempo, di essere soddisfatti della nostra pratica e della sua evoluzione; improvvisamente ci troviamo di fronte a una fase difficile della nostra vita. Non ce lo aspettavamo e restiamo sconcertati. Abbiamo l’impressione che, a causa delle nuove difficoltà, ci manchi la calma necessaria per praticare. In precedenza, in una situazione di relativa tranquillità, riuscivamo a proseguire il nostro percorso; ora non più, perché il contesto è cambiato in peggio.
Questa reazione è comprensibile; tuttavia essa è fondata su un malinteso. Infatti è vero che la pace è uno scopo importante della meditazione di consapevolezza: essa ne è l’oggetto, il traguardo, la meta. Ma quando diciamo di non avere abbastanza calma per praticare, ci riferiamo a una pace dipendente da certe condizioni, quali possono essere, per esempio, la buona salute e l’assenza di preoccupazioni. Ci riferiamo a una pace che non cambia la nostra vita, perché dura soltanto finché sono presenti queste caratteristiche favorevoli. Questa pace è certamente positiva, però è molto fragile: essa ha la durata e la consistenza delle condizioni da cui dipende, e finisce non appena tali condizioni si esauriscono.
Ma la pace che si ripromette un cammino interiore è una pace ‘incondizionata’, perché sempre meno dipendente da condizioni, e quindi sempre più profonda.
Quando cominciamo a capire che questo tipo di pace esiste e può essere avvicinato indipendentemente dallo stato in cui ci troviamo, non ci soffermiamo più nel rimpianto della pace condizionata che prima avevamo e ora abbiamo perso, non diciamo più che in questo momento non possiamo praticare perché ci manca la calma e siamo agitati, ma il nostro orientamento a praticare permane saldo, invece, nell’agitazione, e con l’agitazione. Ed è solo con la sottile comprensione di questa possibilità, che il superamento del nostro pregiudizio riguardo all’incompatibilità fra pratica e situazioni difficili, che può avvenire, a poco a poco, la ‘conversione’ a lavorare con lo spiacevole.

 

Accendere una piccola luce
Ora tale transizione avviene, come già si diceva, abitando l’umiliazione, giacché lo spiacevole ci umilia. E ci offende: a volte, incorrendo in qualcosa che ci contraria, ci sentiamo offesi. Non si tratta di un risentimento di fronte a un’ingiustizia o a un insulto, ma di un broncio che mettiamo alla vita quando le cose non vanno come noi vorremmo che andassero. Per esempio, viene meno una certa occasione che ci sembrava importante e cala sul nostro viso un broncio. Ci sentiamo umiliati, perché diminuiti o perché minacciati.
E, francamente, non avremmo molta voglia di lavorare con le situazioni disagevoli, frustranti, umilianti. Per farlo occorre un interesse, una piccola luce nel buio della circostanza sgradevole. L’interesse, in genere, nasce sempre nello stesso modo: dapprima proviamo fiducia nei confronti di qualche insegnante o di una tradizione e, un po’ timorosi, proviamo a portare il lavoro interiore nella situazione spiacevole. Col tempo, provando e riprovando, tra alti e bassi, scopriamo che non solo non veniamo sommersi – come temevamo – dalla sofferenza, dal disagio, dalla frustrazione, dall’umiliazione, ma che, al contrario, stando dentro alla sofferenza senza ignorarla, siamo stati in ultima analisi meglio, pur soffrendo. E non abbiamo neppure dovuto far ricorso a tutte le nostre abituali strategie per sottrarci a quello che non ci piaceva. Temevamo di rimanere diminuiti, mentre, al contrario, abbiamo toccato una potenzialità dentro di noi che non ci aspettavamo: e ci siamo riusciti rimanendo fermi, invece di agitarci variamente come di solito facciamo.
Questa potenzialità con cui siamo entrati in contatto è un inaspettato elemento di pace dentro la sofferenza; ed è grazie a esso che in noi si sveglia quello specifico interesse a lavorare con lo spiacevole. Non per questo preferiamo lo spiacevole al piacevole: preferiamo sempre il piacevole, ma lo spiacevole non ci umilia più come un tempo. Ora ci interessa, e sempre di più. È un interesse che, una volta sorto, non si spegne, e continuamente ci stimola a lavorare con le situazioni di disagio.

 

“Sopporta te stessa con dolcezza”
Un autore cristiano del XVII-XVIII sec., il Padre Jean-Pierre de Caussade, scrive in una sua lettera di direzione spirituale:

Sopporta te stessa con dolcezza, senza impazienza esteriore o interiore, ma tranquillamente. Questa sola cosa ben praticata può procurarti la calma interiore che ti farà progredire più di tutto ciò che riusciresti mai a fare. Perché? Perché quando si sente un po’ di pace e di dolcezza nel proprio cuore, vi si ritorna con piacere, e ciò che si fa con piacere, lo si fa volentieri, continuamente, senza pena e quasi senza riflettervi 1.

Le parole del Padre de Caussade descrivono qual è secondo lui l’atteggiamento da assumere in una situazione di difficoltà: l’invito è alla dolcezza, alla tranquillità e alla pazienza. Noi diremmo che è un invito a praticare intensamente e con interesse (in questa parola possiamo vedere un equivalente di ciò che il Padre de Caussade chiama ‘piacere’), rimanendo consapevoli di tutto ciò che c’è in noi: consapevoli del contrario della dolcezza, cioè dell’amarezza, del contrario della tranquillità, ossia dell’agitazione, e dell’impazienza.

Vipassana e metta

La via della consapevolezza è un processo di purificazione che affronta direttamente gli ostacoli alla pace, alla saggezza, alla compassione. E dunque, per esempio, per cominciare ad accedere alla pace del non attaccamento occorrerà contemplare l’attaccamento stesso. Così pure tutto ciò che è amarezza, impazienza e agitazione, se guardato affettuosamente (questa è la pratica della vipassana), comincia a mutarsi nel contrario, tanto più se uniamo a questa modalità la pratica di metta o benevolenza, in virtù della quale evochiamo parole di dolcezza, di pazienza e di tranquillità.
Quindi in una situazione disagevole e umiliante contempliamo affettuosamente il contrario della dolcezza, cioè l’amarezza, ed evochiamo deliberatamente la dolcezza attraverso la pratica di metta. Rimanendo in questa posizione ossia in questa fermezza vigile e affettuosa, cresciamo e sviluppiamo interesse; l’interesse a sua volta ci induce fruttuosamente alla pratica.

 

Apprezzare ciò che è piacevole e neutro
Ci accorgiamo a questo punto che una situazione difficile non solo non ci ha nuociuto, ma, al contrario, vissuta in questo modo, ci ha portato vantaggio. È chiaro che non ci auguriamo di incontrare un’altra situazione di questo genere, ma è importante toccare con mano come la capacità di abitare consapevolmente l’umiliazione porti frutto.
E nello stesso tempo scopriamo che lavorare con il disagio non cambia soltanto il rapporto che abbiamo con quanto ci umilia, ma modifica anche il nostro modo di vivere ciò che è piacevole o neutro. Questo nuovo modo si può esprimere in breve con le parole ‘apprezzamento’ e ‘gratitudine’. Non diamo più per scontati il positivo, il piacevole, il sereno, il pacifico, il bello, l’interessante; non li accompagniamo più con qualche lamentela perché non sono all’altezza delle nostre aspettative; semplicemente cominciamo a gustarli meglio mentre in noi aumenta la capacità di essere grati e di apprezzarli.
Quando si cominciano a vedere questi frutti, nella propria esistenza nascono come una densità e uno spazio che prima non c’erano. Un tempo potevamo anche apprezzare qualcosa di gradevole che era stato detto o fatto, o qualcosa che avevamo visto, ma si trattava di un’annotazione veloce, occasionale. Non riuscivamo a fermarci e ad apprezzare una piccola cosa buona, perché subito venivamo catturati dalla mente avida che ne voleva subito un’altra, più grande, o dalla mente giudicante che investiva molta energia a rammaricarsi della piccolezza della cosa. Ora, invece, spontaneamente, il gradevole, anche se marginale, ci colpisce di più; è come se finalmente questa continua corsa a fuggire lo spiacevole e ad arraffare il piacevole prenda a rallentare. Ci svegliamo a minuscole situazioni piacevoli e non le diamo più per scontate. E, così facendo, conosciamo un rilassamento nuovo.

 

Nel presente, senza paura
È in questo modo che cominciamo a stare nel presente. Questa espressione è divenuta ormai fin troppo usata, al punto da sembrare quasi vuota di significato. Ma il rallentamento generato dalla pratica fa sì che noi sperimentiamo proprio nella sua realtà e, verrebbe da dire, nella sua densità, che cosa vuol dire abitare il presente.
Quando rallentiamo la corsa, è come se nella nostra vita nascesse più spazio e più ricchezza. Perché, diventando più capaci di stare in quello che potremmo chiamare il ‘presente scuro’ – l’umiliazione, la frustrazione –, raggiungiamo una maggiore facilità a stare nel ‘presente chiaro’, cioè il piacevole.
Prima di questa svolta, non riuscivamo a stare realmente nel presente, pur avendone l’aspirazione. La realtà del presente ci sfuggiva. Ed era la nostra paura a impedirci di stare pienamente in contatto con esso. Il timore di stare con lo spiacevole, il timore di perdere il piacevole, in altri termini la contrazione di fondo, l’io-mio, ci facevano correre sempre.
Per fermarsi è fondamentale che la paura cominci a sgretolarsi. Una posizione iconografica tipica del Buddha è quella dell’abhayamudra, ‘posizione della non paura’. Se abbiamo paura non possiamo sostare nel presente e radicarci in esso. D’altra parte è soltanto quando riusciamo a radicarci in questo modo che cominciamo a vedere la realtà così com’è.
È l’io che proietta, prolifera, distorce. La paura portata dall’io ci fa vedere una realtà deformata e falsa, e ci impedisce di fermarci. Ma una visione tranquilla della realtà vera ha bisogno di un punto fermo in mezzo a tutto quello che gira, quello still point cantato da T. S. Eliot.
Lo svuotamento, che è l’umiltà, porta più vita. Un grande maestro, Kalu Rinpoche, ha detto:

Noi viviamo nell’illusione, nell’apparenza delle cose, ma c’è una realtà, e noi siamo quella realtà. Quando tu capisci questo, tu vedi che sei nulla, ed essendo nulla sei tutto.

Se ci si svuota dall’egocentrismo si vede la propria interconnessione con gli altri e con tutto il resto del mondo; di conseguenza ci si sente meno soli, perché è proprio l’attività separativa dell’io-mio che genera la solitudine. E venendo meno il senso di solitudine, comincia a venir meno la paura.

A CURA DI ANTONELLA COMBA

L’INTELLIGENZA SPIRITUALE di Corrado Pensa

IL BUDDHA E LA SECONDA FRECCIA
Ripercorriamo per sommi capi il famoso insegnamento del Buddha sulle due frecce 1. All’inizio del discorso il Beato osserva che il nobile discepolo del Dharma e la persona ignorante provano entrambi sensazioni piacevoli, spiacevoli e neutre. Quale sarà, dunque, la differenza tra i due? La risposta è questa, che, allorché l’ignorante sperimenta una sensazione fisica spiacevole egli – a differenza del nobile discepolo – si agiterà e si preoccuperà in vario modo:
È come se un arciere, dopo aver colpito un uomo con una freccia, lo colpisse ancora con una seconda freccia. Sicché quell’uomo patirà il dolore di due ferite. Lo stesso accade all’ignorante, che soffre a causa di due dolori, quello fisico e quello mentale.
Subito dopo il Buddha illustra tre conseguenze importanti della ‘seconda freccia’, ossia dell’avversione nei confronti dello spiacevole. La prima è che, indugiando nell’avversione, si seminano disposizioni latenti (anusaya) di ulteriore avversione; la seconda è un simultaneo accendersi di attaccamento per il piacevole. Ciò è dovuto al fatto che “la persona ignorante non conosce altro modo per liberarsi da una sensazione spiacevole che cercare la distrazione di piaceri sensoriali”. E questo porta a seminare disposizioni latenti di ulteriore attaccamento. Infine, l’essere all’oscuro di tutto questo dinamismo genera un accumulo di disposizioni latenti di ignoranza.
Le cose vanno altrimenti per il nobile discepolo, che al dolore del corpo non aggiungerà la sofferenza dell’avversione mentale. E dunque non sarà colpito dalla seconda freccia e quindi non seminerà avversione, attaccamento e ignoranza.
Mi pare utile cominciare a commentare questo fondamentale discorso del Buddha con un insegnamento di Krishnamurti, che usando un linguaggio diverso, tocca il medesimo tema. Qualcuno – in una conversazione – dice a Krishnamurti di essere pieno di odio e lo prega di insegnargli ad amare. Questa è la risposta: Nessuno ti può insegnare ad amare. Se si potesse insegnare l’amore i problemi del mondo sarebbero molto semplici, no?… Non è facile imbattersi nell’amore. È invece facile odiare e l’odio può accomunare le persone… Ma l’amore è molto più difficile. Non si può imparare ad amare: quello che si può fare è osservare l’odio e metterlo gentilmente da parte. Non metterti a fare la guerra all’odio, non star lì a dire che cosa orribile è odiare gli altri. Piuttosto, invece, vedi l’odio per quello che è e lascialo cadere… La cosa importante è non lasciare che l’odio metta radici nella tua mente. Capisci? La tua mente è come un terreno fertile e qualsiasi problema, solo che gli si dia tempo a sufficienza, vi metterà radici come un’erbaccia e dopo farai fatica a tirarla via. Invece, se tu non lasci al problema il tempo di metter radici, allora non sarà possibile che esso cresca e finirà, piuttosto, con l’appassire. Ma se tu incoraggi l’odio e dai all’odio il tempo di mettere radici, di crescere e di maturare, allora l’odio diventerà un enorme problema. Al contrario, se ogni volta che l’odio sorge tu lo lasci passare, troverai che la mente si fa sensibile senza diventare sentimentale. E perciò conoscerà l’amore 2.
INTERCONNESSIONE DI AVVERSIONE, ATTACCAMENTO E IGNORANZA
A me sembra che entrambi questi insegnamenti descrivono quella che potremmo chiamare la non reattività profonda, ossia una non reattività fondata su consapevolezza, comprensione, accettazione e lasciare andare. Ben diversa, dunque, da una non reattività superficiale, quanto a dire basata non già sulla comprensione bensì sul controllo delle reazioni. E va da sé che il controllo, che pure in tanti casi è una forma di necessaria protezione, tuttavia, essendo alimentato dal nostro desiderio di essere in un certo modo e dall’avversione (o dalla paura) di essere in un altro modo, non potrà rappresentare una forza pacificante.
Osserviamo inoltre che l’esempio di ‘seconda freccia’ addotto nel sutta, vale a dire il turbamento mentale in presenza di dolore fisico, è un esempio deliberatamente semplice. Ma tutti sappiamo come e quanto più complicate possono essere le cose: ad esempio, la prima freccia, invece che un preciso dolore fisico, può essere uno stato d’animo sgradevole, subitaneo quanto incomprensibile, e la seconda freccia una speculazione amara e contorta che si accumula intorno a quello stato d’animo. E può darsi che uno si ritrovi immerso sordamente nel disagio senza avere visto né la prima né la seconda freccia. Questo aggiungere sofferenza a sofferenza, questo fabbricare dolore sul dolore è l’opposto dell’insegnamento quintessenziale che il Buddha impartì a Bahiya, ansioso di sapere in breve cosa mai predicasse Gotama: In ciò che è visto ci sia solo ciò che è visto, in ciò che è udito solo ciò che è udito, in ciò che è sentito col tatto, col gusto e con l’olfatto solo ciò che è sentito, in ciò che è pensato solo ciò che pensato 3.
Una sorta di inno alla semplicità radicale, alla percezione chiara e diretta, non più appesantita e distorta da una incoercibile proliferazione concettuale ed emotiva. E dunque abbiamo da una parte l’abituale universo di sofferenze e di complicazioni che variamente si saldano e si rinforzano a vicenda, dall’altra la possibilità liberante di una chiarezza e una semplicità assolutamente cristallina, con tutta la pace gioiosa che ciò comporta.
Ma guardiamo ora più da vicino l’insegnamento della doppia freccia. Tre punti mi sembrano comunque da sottolineare. Anzitutto il sutta ci invita a riflettere sul fatto che, di fronte a una sensazione spiacevole, noi tendiamo a generare avversione, cioè un’aggiunta dolorosa e non necessaria. Perciò una cosa è la sensazione spiacevole, altra cosa è l’avversione nei suoi confronti. Non di rado, soprattutto se siamo digiuni di qualsiasi lavoro interiore, noi ‘accorpiamo’ sensazione spiacevole e avversione, percependo in tal modo due cose come una cosa sola. In realtà il saper discernere la differenza tra le due è un momento centrale dell’arte della consapevolezza. Una volta toccata con mano questa differenza, ci rendiamo conto che se poco o nulla è in nostro potere quanto alla prima freccia (per esempio una sensazione dolorosa fisica), molto, invece, possiamo riguardo alla risposta cioè alla nostra relazione con la sensazione (spiacevole, piacevole o neutra che essa sia).
Il secondo punto, anch’esso di grande importanza, è questo. Allorché coltiviamo avversione per una sensazione spiacevole, noi non ci limitiamo a creare disagio sul momento ma seminiamo, inoltre, disposizioni latenti (anusaya) di ulteriore futura avversione. Come se l’avversione lasciasse una traccia feconda la quale, al riaffacciarsi di condizioni simili, accenderà e potenzierà di nuovo l’avversione, alimentando così una specie di abbrivio, di progressivo rafforzamento, non diversamente da quanto accade, per esempio, in una dipendenza da sostanze chimiche.
Un terzo punto di rilievo, infine, mi pare che sia l’indicazione, fornita dal sutta, circa altre due conseguenze della ‘seconda freccia’, conseguenze tutt’altro che secondarie. Infatti ci viene detto che, nel seminare avversione, piantiamo contemporaneamente disposizioni latenti di attaccamento e di ignoranza. E ciò perché, in assenza di lavoro interiore, l’individuo davanti per esempio alla sensazione spiacevole di una frustrazione, facilmente e compulsivamente inclina verso desideri ‘compensativi’ di tutti i generi, inclusi quelli distruttivi. E dunque Tizio, amareggiato da un conflitto interpersonale, decide di ricominciare a bere; Caio, umiliato nel suo lavoro, concepisce di ‘rifarsi’ con un tradimento coniugale, eccetera. E anche il desiderio egocentrico, come l’avversione, tende a prosperare, a ‘mettere radici’ come direbbe Krishnamurti. Così come, inevitabilmente, in questa nebbia dolorosa si approfondiscono le radici dell’ignoranza.
IL POTERE DELLA CONSAPEVOLEZZA
Le implicazioni positive di tutto quanto si è fin qui detto sono grandi e notevoli. Giacché, se noi impariamo prima a studiare e a capire il dinamismo della seconda freccia in noi e quindi gradualmente a ‘perdere il vizio’ di scagliarla, il risultato andrà ben oltre un certo prosciugamento dell’avversione, dato che, simultaneamente, cominceranno altresì a disseccarsi attaccamento e ignoranza, ossia l’intera costellazione delle cause della sofferenza, o impedimenti alla felicità. È una conversione lenta e radicale: dalla coltivazione dell’avversione si passa all’addestramento della non avversione, dalla ‘pratica’ dell’attaccamento alla pratica del non attaccamento, dalla fecondità dell’ignoranza alla fecondità del discernimento, indispensabile per guidare tale conversione. E questo mi sembra che possa chiamarsi l’inizio dell’intelligenza spirituale, ossia dell’intelligenza che capisce ciò che è importante capire. La pace che consegue all’esercizio di questa intelligenza, oltre ad essere intrinsecamente appagante, è generatrice, per costituzione, di fiducia e di unità, al contrario della ‘seconda freccia’ e delle sue implicazioni, che vanno tutte in direzione della divisività dolorosa. Le scritture buddhiste in più di una occasione ci mostrano il Buddha che resta serenamente imperturbato sia davanti a biasimo, sia davanti a lode. La chiave, evidentemente, può essere soltanto una pace incrollabile e profonda, in presenza della quale il complimento e l’insulto si spengono in una completa irrilevanza. L’acqua limpida e ferma della pace non ne viene agitata o colorata. Così come, al contrario, in mancanza di pace vera, l’insulto e il complimento diventano invece episodi clamorosi, incancellabili, e fertili di sofferenza.
Ma quali sono – conviene ora chiederci – i fattori che più contribuiscono alla fioritura dell’intelligenza spirituale, ossia di quella intelligenza che sola è capace di emanciparci dallo scenario doloroso della seconda freccia? Lo strumento fondamentale, naturalmente, è la consapevolezza, sati, che ha tra i suoi sinonimi, lo ricordiamo, il termine yoniso-manasikara o attenzione saggia. Questo è importante, poiché differenzia marcatamente sati da due altre forme di attenzione che niente hanno a che vedere con la consapevolezza liberante, ossia l’attenzione funzionale (manasikara) – quella necessaria, appunto, per funzionare nella vita – e l’attenzione non saggia, ayoniso-manasikara. Due esempi di quest’ultima: l’attenzione malevola con la quale scrutiamo un viso che ci suscita antipatia o l’attenzione risentita e puntigliosa che progetta di vendicarsi. Ovviamente, né l’attenzione funzionale, né l’attenzione non saggia hanno alcunché da spartire con sati che la tradizione del Dharma reputa fattore sempre salutare (kusala) e invariabilmente saggio e bello (sobhana) 5. Dunque sati, se è vera sati, ci deve mettere in contatto con la verità e nei due esempi appena addotti la verità è la sofferenza: la sofferenza che è generata dall’antipatia, la sofferenza che è alimentata dallo spirito di vendetta.
Facciamo ancora un esempio per cogliere la differenza tra attenzione semplice o funzionale (manasikara) e attenzione saggia (yoniso-manasikara). Supponiamo che mi siano state dette cose sgradevoli e irritanti che ora ribollono dentro di me. Avere manasikara significa essere cosciente di questa situazione, percepirla, riconoscerla. Questo può essere il presupposto della consapevolezza. Tuttavia, in sé, non è in grado di modificare in nulla la situazione dolorosa. Altra cosa, invece, è esercitare sati sull’irritazione. Infatti, diversamente da una coscienza superficiale, sati finisce col penetrare nell’irritazione, cogliendo al vivo la verità della sofferenza che la connota e scorgendo, con altrettanta chiarezza, la verità del carattere cangiante, dipendente da cause e condizioni e privo, dunque, di realtà intrinseca, dell’irritazione. E in virtù di tale visione di verità, propiziata da sati, l’irritazione perderà del tutto o in parte il suo potere su di noi.
Non a caso questa tradizione definisce sati come un fattore connotato da ‘non superficialità’, ossia sati è tale che, invece di rimanere a galla sulla superficie delle cose e in balìa della corrente, scende dritta, piuttosto, sul fondo delle cose come una pietra 6. Ritornando al discorso delle due frecce, possiamo dire che dietro la seconda freccia c’è una buona dose di attenzione non saggia, mentre, al contrario, è la coltivazione dell’attenzione saggia che porta a superare l’impulso a creare sofferenza, e cioè a scagliare la seconda freccia.
L’INTELLIGENZA SPIRITUALE COME LUCE E CALORE
Abbiamo nominato spesso la parola discernimento. Ed è naturale: insieme a sati, pañña, il discernimento, è paragonabile alla luce portata dall’intelligenza spirituale. Ma questo tipo di intelligenza, tipicamente, oltre che di luce è costituita di calore. E se consapevolezza e discernimento sono la luce, altri fattori-chiave rappresentano il calore. Essi mi sembrano essere, in particolare, la pace, l’accettazione-compassione, la fiducia. È importante comprendere che l’efficacia trasformante della pratica del Dharma sarebbe impensabile qualora consapevolezza e discernimento non fossero accompagnati dagli altri fattori. Cioè la chiara visione diventa feconda di trasformazione in virtù della spaziosità e del calore portati da pace, accettazione e fiducia. È una qualche misura (magari minima, agli inizi) di questi fattori che aiuta il discernimento a portare frutto. Basti pensare, per esempio, a quella pace, spesso non priva di travagli, indotta da un ritiro di meditazione: succede talora che, per sua virtù, ci sembra di capire per la prima volta certe cose importanti della nostra vita. Non che precedentemente non le avessimo capite. Solo che era una comprensione meramente teorica e sterile. Ora invece la spaziosità della pace permette alla comprensione di ‘entrare in circolo’ con possibilità di trasformazioni interne ed esterne all’individuo.
L’accettazione-compassione e la fiducia sono fondamentali per infondere calore nella spaziosità della pace e per rendere in tal modo feconda la comprensione e il discernimento. Evidentemente l’intelligenza spirituale può avere infiniti gradi di sviluppo. Tuttavia, per essere vera intelligenza spirituale, anche un grado minimo di tale intelligenza dovrà avere, insieme, luce e calore: la luce che fa comprendere la ‘seconda freccia’, il calore spazioso che rende più profonda tale comprensione. Quella luce e quel calore che ci portano a una fiduciosa intuizione che, intessuto dentro il condizionato, brilli l’incondizionato.

1 Samyutta-Nikaya, IV, 207-210. Per una traduzione italiana dell’intero sutta cf. P. Confalonieri (a cura di), La saggezza che libera, Oscar Mondadori, Milano 1995, pp. 92-94.

2 Krishnamurti, Think on These Things, New York 1970, p. 76, traduzione nostra, corsivi nostri.

3 Udana, 1, 10.

4 Cf. per esempio Majjhima-Nikaya, 22, p. 140.

5 Basterà consultare, ad esempio, le sezioni concernenti Sati nel Visuddhimagga e nei più importanti testi dell’Abhidhamma, in particolare l’Atthasalini, traduzione inglese Pali Text Society, vol. I, pp. 159 sg. e Abhidhammattha-sangaha, traduzione PTS, pp. 94 sg.

6 Vedi nota precedente e vedi anche C. Pensa, Raccoglimento e investigazione nella meditazione Theravada, Paramita, 59, Estate 1996.

OSSERVAZIONI SULLA PRATICA di Corrado Pensa

LA FASCINAZIONE DEL PENSARE
Ovvero la tendenza ad attribuire il massimo valore possibile al pensare in sé e per sé. Non ci riferiamo, perciò, all’apprezzamento della riflessione saggia o di altre forme costruttive di pensiero, bensì, appunto, a una fascinazione indiscriminata per l’attività mentale. Due aspetti salienti di tale orientamento sembrano questi.
1) Ci sentiamo ‘a posto’ e in regola solo quando la mente pensa molto, non importa a cosa e non importa come. Quello che conta, invece, è il discorrere mentale: e discorrere viene dal latino discurrere, che significa ‘correre di qua e di là’.
2) Ci aspettiamo tutto e la soluzione di tutto in primo luogo dal pensare e poi anche dal leggere e dal parlare. È come se una parte di noi dicesse: se soltanto riesco a pensare abbastanza e abbastanza ripetutamente alla tale questione, se solo rivedo il film mentale di quell’avvenimento tantissime volte, se ce la faccio a leggere in abbondanza sulla meditazione… allora sì, allora succederà sicuramente qualcosa di buono. È una specie di fede cieca, di abbandono a un presunto potere magico del pensare e del ripensare, della cogitazione compulsiva o proliferazione mentale.
In realtà – e questa è una delle lezioni più preziose della pratica – siamo davanti a uno degli attaccamenti più forti e radicati, l’attaccamento al pensare per pensare, l’attaccamento alla concettualizzazione e alla verbalizzazione, la dipendenza dall’incessante discorrere mentale, con la conseguente e inevitabile diffidenza nei confronti di tutto ciò che esula dalla discorsività. Ed è proprio l’attaccamento alla proliferazione che ci rende ciechi a fondamentali capacità della mente diverse dal pensare, in particolare sati (consapevolezza) e metta (benevolenza incondizionata).
Ossia da una parte la capacità di ascolto attento, di intimità non giudicante con ciò che i sensi e la mente via via ci presentano e, dall’altra, la capacità di investire i medesimi oggetti di una tenerezza altrettanto non giudicante e silenziosa (fatte salve, s’intende, le frasi-supporto per la metta). E ugualmente silenziosa – in quanto più intuitiva che discorsiva – è poi la saggezza compassionevole che nasce come frutto dell’esercizio di sati e di metta.
La difficoltà principale circa questo attaccamento è che il continuo discorrere mentale ci sembra una cosa normale o, addirittura, appetibile. Diversamente da quanto può accadere in altre forme di dipendenza, delle quali, pur continuando a coltivarle, conosciamo il carattere nocivo.
E perché la proliferazione mentale e l’attaccamento nei suoi confronti è un impedimento alla crescita interiore? Per molte ragioni. Vogliamo ricordarne una particolarmente importante. La discorsività mentale compulsiva è uno schermo, una barriera alla chiara percezione. Se, per esempio, ci troviamo di fronte a una nostra esperienza dolorosa, il pensarvi in modo ossessivo, in realtà, ci separerà da essa, rendendoci progressivamente più impotenti e più appesantiti. Mentre, al contrario, se impariamo a collocare questa esperienza nel raggio di un’osservazione attenta e affettuosa – il che comporta subito più silenzio mentale – entreremo finalmente in contatto con essa. E a misura che ci apriamo all’esperienza, si rafforzerà la nostra capacità di comprenderla e di lasciarla andare delicatamente, ossia di ampliare il potere liberante della saggezza compassionevole.
Una sequenza cruciale
È la sequenza phassa (contatto tra i sensi, che includono la mente, e i loro rispettivi oggetti) – vedana (sensazione piacevole, spiacevole o neutra) conseguente a tale contatto – tanha (attrazione, repulsione, confusione o distrazione rispettivamente davanti al piacevole, allo spiacevole o al neutro). Questa sequenza è chiamata anche l’‘anello debole’ nella catena della ‘produzione condizionata’ (paticca-samuppada), che è il cuore dell’insegnamento del Buddha circa la sofferenza e le sue cause. Perché anello debole? Perché l’area di phassa-vedana-tanha è quella in cui è possibile intervenire con la pratica, applicando una precisa consapevolezza su tutta la sequenza. Ciò avrà per effetto un progressivo indebolimento dell’attaccamento (upadana, il fattore immediatamente successivo a tanha) e dunque della causa fondamentale, insieme con l’ignoranza, della sofferenza.
Diciamo, dunque, che se la coltivazione della presenza mentale o consapevolezza (sati) è sempre auspicabile, la sequenza suddetta è uno dei suoi campi d’elezione, uno di quei campi dove emerge il carattere intrinsecamente saggio della vera consapevolezza, che non a caso è chiamata ayoniso-manasikara, attenzione saggia. È bene ricordare, in proposito, che è possibile essere meditanti disciplinati e, tuttavia, lavorare poco o nulla in questa zona del contatto-sensazione-reazione. Addirittura, è possibile fare ritiri lunghi, acquisire una buona capacità di pacificazione interiore e però, anche per mancanza di guida, rimanere piuttosto crudi in questo lavoro crucialissimo di investigazione della sequenza fondamentale.
Perciò io credo che sia molto utile prefiggersi deliberatamente di praticare sulla sequenza, sia durante la pratica formale, sia durante la pratica in azione. Altrimenti, se ci limitiamo all’intento generale di attenzione, si corre il rischio, da un certo momento in poi, di girare in tondo, senza entrare mai con pienezza nell’attenzione-investigazione circa le cause del dolore. E dunque, per usare la famosa immagine del Buddha, rischiamo di non mettere mai in acqua la zattera del Dharma per farne l’uso specifico cui essa è adibita, che è quello di portarci al di là delle acque della sofferenza.
I piccoli momenti di reattività che capitano nel quotidiano sono ottimo materiale di lavoro. Ottimo perché, essendo minimi, sono episodi che non ci annebbiano e dunque non spengono il nostro intento di pratica che, soprattutto agli inizi (ma non soltanto), può essere cosa fragile. Immaginiamo, ad esempio, di trovarci di fronte a qualcuno che si comporta in modo lievemente irritante o magari davanti a uno spot televisivo che non ci piace. Se prestiamo la retta consapevolezza (né tesa, né, d’altra parte, vaga e superficiale) sia al fuori (ciò che vediamo e ascoltiamo), sia al dentro (il nostro reagire), percepiremo come il gonfiarsi di una piccola onda di avversione. Questa onda sarà comunque – dato che si tratta di un evento minimo – effimera e di breve durata. Ma se viene fermamente illuminata dalla consapevolezza è ben possibile che l’onda si dissolva all’istante. Quasi un subitaneo rinvenire a una nostra pace di fondo che si indovina, promettente, al di là del piccolo turbamento.
Lavorando sulla sequenza (sempre davanti a minime cause di fastidio) può anche succedere questo, se l’attenzione è specialmente stabile, viva e accurata: percepiamo suoni, forme, colori, sensazioni fisiche, pensieri che si avvicendano in un movimento continuo. Niente altro. Non c’è spiacevolezza né avversione. E ciò con nostra sorpresa, dato che ci saremmo aspettati – sulla base dell’esperienza passata – una nostra piccola reazione avversiva, come al solito. Evidentemente quella spiacevolezza che abitualmente emergeva in noi vedendo la tal cosa è diversa dalla spiacevolezza, che potremmo chiamare oggettiva, di un ginocchio sbucciato. Si trattava, piuttosto, di una spiacevolezza mentale ‘confezionata’ in base a condizionamenti passati. Ma se, in virtù dell’attenzione, siamo radicati nel presente vivo, allora quei frammenti semiconsci di ricordi, mescolati a ‘cariche’ reattive ancora in circolo, non hanno potere e non si manifestano.
Ci ritroviamo, invece, con una intuizione, piccola ma molto istruttiva, del continuo avvicendarsi di suoni, colori, forme eccetera (anicca) che caratterizza la realtà ma che la nostra reattività e la nostra distrazione ci impediscono di vedere. Attenzione: quello che sto cercando di dire è che, nell’attimo di chiara visione, questo avvicendarsi, questo continuo processo, ci colpisce come più immediato, più evidente, più rilevante, più vero che non le nostre reazioni o interpretazioni. Dunque, se la sequenza di cui parliamo non è ‘lavorata’ con lo strumento della pratica, essa porta al costante rafforzarsi dell’attaccamento (upadana) che va a potenziare, altrettanto costantemente, la nostra sofferenza.
Al contrario, se la sequenza è resa oggetto di una giusta osservazione (ossia precisa e, insieme, duttile e tenera) ciò favorirà una progressiva attenuazione dell’attaccamento e dunque della stessa predisposizione alla sofferenza mentale: infatti tale predisposizione è fatta di quell’ansia di sicurezza, di possesso, di identificazione che è la trama medesima dell’attaccamento. E questo perché sati, tipicamente, illumina quello che non vediamo, e cioè tanto il carattere in vario grado nocivo e doloroso (dukkha) dell’attaccamento, quanto le altre caratteristiche dell’esistenza (cambiamento e non-solidità, anicca e anatta) che l’attaccamento, per sua natura, ci occulta.
A scanso di fraintendimenti da parte di meditanti principianti: sati, la consapevolezza saggia, non è un analgesico. In effetto il suo potere è complesso e si mostra, inoltre, gradualmente. Se in quei casi di reattività minima tale potere agisce facendo dissolvere il minuscolo disagio, allorché invece abbiamo a che fare con disagi più grandi, allora il potere di sati – ovvero l’esplicazione della sua saggezza intrinseca – si manifesta secondo modalità più indirette, nelle quali predomina un insieme di accettazione-discernimento. Il che, senza dissolvere la sofferenza, modifica tuttavia in profondità il nostro rapporto con essa. E poiché all’origine della parte più tossica della sofferenza, che è quella mentale, c’è, appunto, il nostro rapporto sbagliato con le cose, vediamo che – pur non scomparendo la sofferenza – sati, di fatto, opera per la guarigione dalla sofferenza. E questo non già sospendendola, come fa un analgesico, bensì, piuttosto, curandola nelle cause, come fa un farmaco specifico.
Dunque i piccoli disagi quotidiani, che conviene proficuamente usare per la nostra pratica, ci servono per uno scopo tanto semplice quanto importante: toccare con mano, spesso e immediatamente, il potere benefico (kusala) di sati nell’intervenire sul potere non benefico (akusala) dell’attaccamento.

LA PRATICA FORMALE
La figura dell’aspirante meditante curvo sotto il peso della colpa e della frustrazione perché non riesce ad avviare una regolare disciplina quotidiana di pratica seduta non è un incontro raro in ambiti di Dharma. Ora dietro questa insoddisfazione c’è spesso una equiparazione arbitraria, l’equiparazione della pratica del Dharma – che nella scuola antica è pratica dell’ottuplice sentiero (retta comprensione, retta motivazione, retta parola, retta azione, retto modo di vita, retto sforzo, retta consapevolezza, retta calma concentrata), con la pratica dei tre ultimi fattori soltanto e, per giunta, intesi solo come aspetti della meditazione formale. Laddove retto sforzo, retta consapevolezza e retta calma concentrata sono concepiti per essere praticati sia nella pratica formale sia nella pratica in azione.
Tale equiparazione tra una parte e il tutto, oltre a essere indebita, è prevedibilmente fallimentare, dato che il sentiero è un insieme unitario e bilanciato, una unità organica. Perciò, se ne ritagliamo una parte, questa parte è destinata ad appassire o a vivere di una vita fittizia, dato che non riceve la linfa proveniente dal resto della pianta, ossia dagli altri cinque fattori.
Ci sono tanti interrogativi fondamentali che fanno capo all’ottuplice cammino nella sua interezza, interrogativi che però noi mettiamo a tacere se siamo ossessionati da quell’unico interrogativo (“Perché non riesco a sedermi” oppure “Mi voglio sedere oppure no”), che è spesso la nuova edizione di una nostra vecchia ambivalenza e indecisione. Interrogativi come: quanta contentezza e serenità c’è nelle nostre vite e cosa facciamo perché ci sia? In che rapporto siamo con gli altri: distratto o rispettoso? Etica è una parola morta o viva per noi? Quanta sofferenza non necessaria siamo consapevoli di fabbricare dentro e fuori di noi? Quanta capacità abbiamo di abbandonare ciò che nuoce e di scegliere ciò che giova e quanto ci anima un progetto siffatto? Concepiamo la possibilità di una visione della vita e della morte che trascenda la visione angusta e confusa che ci portiamo dentro? Intendiamo esplorare questa possibilità?
Lavorare a questi interrogativi significa lavorare a tutto l’ottuplice sentiero, a cominciare dal fattore chiave della retta comprensione. E se ci interroghiamo sul modo giusto di essere nel mondo, sulla possibilità di una comprensione delle cose più ampia e profonda, prima o poi capiremo che abbiamo bisogno di emigrare dall’abitudinario e dal meccanico, che abbiamo necessità di una energia di pace e di una intelligenza amorosa nutrita da questa energia. Insomma se coltiviamo davvero un cammino la necessità di una pratica formale emerge con una certa naturalezza. Tutte le grandi tradizioni interiori sottolineano con vigore la necessità di regolari tempi protetti, di recinti di quiete. Questi tempi, questi recinti servono ad alimentare quell’energia di pace che è indispensabile per sostenere l’impegno radicale del lavoro interiore.
Allora praticando il cammino nella sua interezza, vedremo che, se la pratica formale stenta e si inaridisce qualora sia disgiunta dal resto del cammino, allo stesso modo succede che l’etica (ossia i tre fattori morali) e la comprensione (i primi due fattori) crescono e fioriscono se hanno le radici immerse nell’humus della contemplazione.
Uno dei contributi più lucidi dell’insegnamento del Buddha riguarda l’universale interdipendere e intercondizionarsi delle cose. L’ottuplice sentiero non fa eccezione: i suoi vari fattori sono in rapporto di mutua dipendenza e di mutuo sostegno. Cogliere al vivo questa realtà significa cominciare a capire in profondità il sentiero e quindi, in ultima analisi, la pratica formale.

Mente sociale e libertà di L. Krishnamurti

Sapete, ci vien sempre detto cosa dobbiamo o non dobbiamo pensare. Libri, insegnanti, genitori, la società che ci circonda, tutti ci dicono cosa dobbiamo pensare ma non ci aiutano mai a scoprire come pensare. Sapere
cosa pensare è relativamente facile perché dalla prima infanzia la nostra mente è stata condizionata da parole, frasi, atteggiamenti e pregiudizi ben saldi.

Non so se avete notato come la mente delle persone anziane nella maggior parte dei casi sia stazionaria; sono fermi come creta in uno stampo ed è difficilissimo penetrare attraverso questo stampo. Lo stampo della mente è il suo condizionamento. Qui in India secoli di tradizione vi condizionano a pensare in una certa maniera; il vostro condizionamento ha cause economiche sociali e religiose.
In Europa la mente viene condizionata in maniera alquanto diversa; ed in Russia dalla rivoluzione in poi, i leader politici si sono accinti a condizionare la mente ancora in un’altra maniera. Perciò dappertutto la mente viene condizionata, non solo superficialmente, nella parte conscia, ma nel suo profondo. La mente nascosta o inconscia è condizionata dalla razza, dal clima, da un’imitazione non tradotta in parole, non espressa.

Ora la mente non può essere libera finché rimane chiusa in uno stampo o condizionata. E la maggior parte delle persone pensa che non si possa mai liberare la mente dal suo condizionamento, che dev’essere sempre condizionata. Dicono che non si può fare a meno di pensare in una determinata maniera, di avere certi pregiudizi e che non può esservi nessuna emancipazione, nessuna libertà per la mente. Inoltre quanto più antica è una civiltà tanto più graverà sulla mente il peso della tradizione, dell’autorità, della disciplina. Le persone che appartengono ad una razza antica, come gli Indiani, sono più condizionate di quelle che vivono in America per esempio, dove esiste una libertà sociale ed economica maggiore e dove in tempi abbastanza recenti gli abitanti sono stati dei pionieri.

Una mente condizionata non è libera perché non può mai andare al di là dei propri confini, al di là delle barriere che ha costruito intorno a sé, questo è evidente. Ed è molto difficile per una mente così, liberarsi dal proprio condizionamento e superarlo, perché quel condizionamento le è imposto non soltanto dalla società ma da se stessa. A voi piace il vostro condizionamento perché non osate superarlo. Siete spaventati di quel che direbbero vostro padre e vostra madre, di quel che direbbero la società e il prete: quindi contribuite a creare le barriere che vi tengono in loro possesso.
Questa è la prigione nella quale per lo più siamo tutti chiusi, e questo è il motivo per cui i vostri genitori vi dicono in continuazione – come voi lo direte ai vostri figli – di far questo e di non far quello.
Che cosa avviene generalmente in una scuola, specialmente se il vostro insegnante vi piace? Se il vostro insegnante vi piace volete seguirlo, volete imitarlo perciò il condizionamento della vostra mente si fa sempre più rigido, permanente.

Poniamo per esempio che siate in un ostello e abbiate un insegnante che esegua il suo quotidiano rituale religioso, a voi piace lo spettacolo, vi piace la sua bellezza e cominciate a farlo anche voi. In altre parole venite ulteriormente condizionati; e questo condizionamento è molto efficace, perché quando si è giovani si è bramosi, impressionabili, disposti all’imitazione. (…)

Mentre siete giovani venite facilmente condizionati, modellati, costretti a seguire un esempio fisso. Si dice che se un bambino – un bambino buono, intelligente, sveglio – viene allevato da un prete soltanto per sette anni, il bambino ne sarà condizionato a tal punto che per tutto il resto della sua vita continuerà ad essere essenzialmente lo stesso. Questo può succedere in una scuola di questo tipo, dove gli insegnanti non sono liberi da condizionamento.

Sono proprio come tutti gli altri. Compiono i loro riti religiosi, hanno le loro paure, desiderano avere un loro guru; e poiché sono essi ad insegnarvi – ed anche perché magari un particolare insegnante vi piace o perché vedete qualche bel rito religioso e volete eseguirlo anche voi– inconsciamente venite presi nell’imitazione.
Perché gli adulti eseguono dei riti religiosi? Perché i loro padri l’hanno fatto prima di loro ed anche perché questo gli fa provare dei determinati sentimenti e sensazioni, li fa sentire interiormente tranquilli.

Salmodiano qualche preghiera pensando che se non lo facessero potrebbero essere perduti. Ed i giovani copiano e così incominciano ad imitare: se lo stesso insegnante si ponesse degli interrogativi a proposito di tutto questo ritualismo, se soltanto ci pensasse davvero – cosa che pochissimi fanno mai, se egli adoperasse la propria intelligenza per esaminarlo senza pregiudizi, scoprirebbe presto che esso non ha significato alcuno. Ma investigare e scoprire la verità su questa faccenda richiede moltissima libertà.

Se siete già prevenuti a favore di qualcosa e poi procedete ad esaminarla, è ovvio che non vi sarà una vera indagine. Non farete che rafforzare il vostro pregiudizio, la vostra prevenzione.
È quindi molto importante che gli insegnanti si accingano a decondizionare se stessi ed anche ad aiutare i bambini a crescere liberi da condizionamenti. Sapendo quanto sia forte l’influsso condizionante dei genitori, della tradizione, della società, l’insegnante deve incoraggiare i bambini a non accettare senza riflettere, ma ad indagare, a porre in dubbio.(…)

Iniziate la vita come giovani pieni di vitalità ed entusiasmo ma tutto ciò viene gradatamente distrutto dall’influenza condizionatrice dei genitori e degli insegnanti coi loro pregiudizi, paure e superstizioni. Lascerete la scuola e andrete nel mondo ben indottrinati, ma avrete perso la vitalità necessaria per indagare, per ribellarvi contro le stupidità tradizionali della società.(…)
A meno che non vi ribelliate sarete esattamente come tutti gli altri al mondo perché non oserete essere diversi. Sarete condizionati e plasmati in tal maniera che avrete paura di agire in modo originale. Vi controllerà vostro marito o vostra moglie e la società vi dirà cosa dovete fare. Così, una generazione dopo l’altra, l’imitazione si protrae. Non c’é vera iniziativa, non c’è libertà, non c’è felicità; non c’è altro che un lento morire.

Il cuore dell’insegnamento di Krishnamurti

Ecco come Krishnamurti, su richiesta della sua biografa Mary Lutyens, riassunse il proprio insegnamento:

Il cuore dell’insegnamento di Krishnamurti è contenuto nell’affermazione fatta nel 1929: “La verità è una terra senza sentieri”. L’uomo non può raggiungerla attraverso nessuna organizzazione, credo, dogma, clero, o rituali, né attraverso lo studio filosofico, o le tecniche psicologiche. Deve trovarla attraverso lo specchio dei rapporti, attraverso il riconoscimento dei contenuti della propria mente e l’osservazione, e non mediante l’analisi intellettuale o la dissezione introspettiva. Gli uomini hanno costruito in se stessi le immagini della propria sicurezza, religiose, politiche e personali, che si esprimono come simboli idee e credenze. Il loro peso domina il pensiero, i rapporti, la vita quotidiana dell’uomo. Sono la causa dei nostri problemi, perché in qualunque rapporto dividono le persone.

La nostra percezione è modellata dai concetti già formati nella mente. Il contenuto della nostra coscienza è la coscienza stessa, ed è comune a tutta l’umanità. La personalità consiste soltanto nel nome, nella forma e nella cultura ricavata dall’ambiente. La specificità dell’individuo non sta nei fattori superficiali, ma nella totale libertà dal contenuto della coscienza. La libertà non è una reazione, la libertà non è una scelta. E’ una pretesa umana pensare che la possibilità di scelta sia libertà. La libertà è pura osservazione senza movente; la libertà non si situa alla fine dell’evoluzione umana, ma nel primo momento della sua esistenza.

L’osservazione porta a scoprire la mancanza di libertà. La libertà risiede nella consapevolezza priva di scelta della vita quotidiana. Il pensiero è tempo. Il pensiero nasce dalle esperienze e dalle conoscenze, che sono inseparabili dal tempo. Il tempo è il nemico psicologico dell’uomo. Il nostro agire si basa sul conosciuto e quindi sul tempo, e così l’uomo è continuamente schiavo del passato.

Diventando consapevoli del movimento della coscienza, possiamo osservare la divisione tra il pensatore e il pensiero, tra osservatore e osservato, tra il soggetto dell’esperienza e l’esperienza. Scopriremo che questa divisione è illusoria. Allora rimane la pura osservazione, che è intuizione senza residuo del passato. L’intuizione priva di tempo induce un profondo e radicale cambiamento nella mente. La negazione totale è l’essenza della positività.

Dove c’è negazione di tutto ciò che non è amore (cioè desiderio e piacere), allora c’è amore, con la sua compassione e intelligenza.

Jiddu Krishnamurti (Londra, 21 ottobre 1980)

TOCCARE LA TERRA di Thich Nhat Hanh

La pratica del Toccare la Terra, detta anche pratica delle Prosternazioni, consiste nel ritornare alla Terra, alle nostre radici, ai nostri antenati, e riconoscere che non siamo soli ma che siamo invece connessi ad un’intera corrente di antenati spirituali e di sangue. Siamo la loro continuazione, e con loro continueremo nelle generazioni future. Tocchiamo la terra per lasciar andare l’idea di essere sconnessi da tutto il resto, e per ricordarci che siamo la Terra e parte della Vita.

Quando tocchiamo la Terra diventiamo piccoli, con l’umiltà e la semplicità di un bambino. Quando tocchiamo la Terra diventiamo grandi, come un vecchio albero che affonda le sue radici giù nella terra, dissetandosi alla sorgente di tutte le acque. Quando tocchiamo la Terra inspiriamo tutta la forza e la stabilità della Terra, ed espiriamo tutta la nostra sofferenza – le sensazioni di rabbia, odio, paura, inadeguatezza e dolore.

Le nostre mani si congiungono a formare un bocciolo di loto e dolcemente ci sdraiamo, in modo che gambe, braccia e fronte siano poggiate comodamente a terra. Toccando la Terra giriamo i palmi delle mani verso l’alto, mostrando la nostra apertura verso i tre gioielli, il Buddha, il Dharma e il Sangha. Dopo aver praticato il Toccare la Terra (i Tre o i Cinque Toccare la Terra) per una o due volte, riusciamo già a lasciar andare molta della nostra sofferenza e del nostro senso di alienazione, e a riconciliarci con i nostri antenati, genitori, figli o amici.

Le Tre Prosternazioni

La prima prosternazione:
Toccando la terra entro in contatto con gli antenati e i discendenti della mia famiglia spirituale e di quella di sangue.

(CAMPANA)

(testo da contemplare mentre si tocca la terra:)

I miei antenati spirituali comprendono il Buddha, i bodhisattva, il nobile Sangha dei discepoli del Buddha (aggiungete qui i nomi di coloro che desiderate includere in questo elenco) e i miei maestri spirituali ancora in vita o già morti. Essi sono presenti in me perché mi hanno trasmesso semi di pace, saggezza, amore e felicità. Hanno risvegliato in me comprensione e compassione. Guardando i miei antenati spirituali, vedo coloro che praticano perfettamente gli addestramenti alla consapevolezza, la comprensione e la compassione, e coloro che sono ancora imperfetti. Li accetto tutti, perché vedo che anche in me ci sono mancanze e debolezze.
Consapevole che non sempre pratico gli addestramenti alla consapevolezza in maniera irreprensibile e che non sempre sono comprensivo e compassionevole come vorrei, apro il mio cuore e accetto i miei discendenti spirituali. Alcuni di essi praticano gli addestramenti alla consapevolezza, la comprensione e la compassione in modo da suscitare fiducia e rispetto, altri invece incontrano molte difficoltà e non sono stabili nella pratica.
Allo stesso modo accetto i miei antenati paterni e materni. Accetto le loro buone qualità e le loro azioni virtuose, e accetto anche le loro debolezze. Apro il mio cuore e accetto tutti i miei discendenti di sangue con le loro qualità e le loro debolezze.
I miei antenati spirituali e di sangue, come i miei discendenti spirituali e di sangue, fanno tutti parte di me. Io sono loro e loro sono me. Io non ho un sé separato. Tutto esiste come parte della meravigliosa corrente della vita in continuo movimento.

(TRE RESPIRI, CAMPANA, TUTTI SI ALZANO IN PIEDI E, A MANI GIUNTE, PRATICANO IL RESPIRO CONSAPEVOLE)

La seconda prosternazione:
Toccando la terra entro in contatto con tutte le persone e con tutte le specie viventi in questo momento, in questo mondo, assieme a me.

(CAMPANA)

(testo da contemplare mentre si tocca la terra:)

Sono uno con la meravigliosa trama della vita che si irradia in tutte le direzioni. Vedo la stretta connessione tra me stesso e gli altri e vedo come tutti condividiamo felicità e sofferenza. Sono uno con chi è nato disabile o lo è diventato a causa di guerre, incidenti o malattie. Sono uno con chi è costretto a vivere in situazioni di guerra o di oppressione. Sono uno con chi non trova gioia in famiglia, con chi non ha radici e non ha la pace della mente, con chi è affamato di comprensione e amore e sta cercando qualcosa di bello, di vero e di sano in cui credere. Sono uno con chi sta per morire e ha molta paura perché non sa cosa sta per accadere. Sono uno col bambino che vive dove c’è miseria, povertà e malattia, con braccia e gambe simili a rami rinsecchiti, che non ha futuro. Sono anche il fabbricante delle bombe vendute ai Paesi poveri. Sono la rana che nuota nello stagno e sono anche il serpente che ha bisogno del corpo della rana per nutrire il proprio corpo. Sono il bruco e la formica che l’uccello cerca per cibarsi e sono anche l’uccello. Sono la foresta che viene abbattuta, sono il fiume e l’aria inquinati e sono anche la persona che abbatte la foresta e inquina i fiumi e l’aria. Vedo me stesso in tutte le specie e vedo tutte le specie in me.
Sono uno con i grandi esseri che hanno realizzato la verità della non nascita e della non morte e che sono capaci di guardare le forme di nascita e morte, felicità e sofferenza, con sguardo sereno. Sono uno con coloro che in ogni luogo e circostanza mostrano serenità, pace, comprensione e amore; che sanno toccare ciò che è meraviglioso, nutre e guarisce; che riescono ad abbracciare il mondo con cuore pieno di amore e con braccia capaci di azioni benefiche. Comprendo di non essere solo e separato dagli altri. L’amore e la felicità dei grandi esseri di questo pianeta mi aiuta a non lasciarmi sommergere dalla disperazione, mi aiuta a vivere una vita significativa, in pace e felice. Vedo tutti loro in me e me in tutti loro.

(TRE RESPIRI, CAMPANA, TUTTI SI ALZANO IN PIEDI E, A MANI GIUNTE, PRATICANO IL RESPIRO CONSAPEVOLE)

La terza prosternazione:
Toccando la terra lascio andare l’idea che io sono questo corpo e che la durata della mia vita abbia un limite.

(CAMPANA)

(testo da contemplare mentre si tocca la terra:)

Comprendo che questo corpo fatto dei quattro elementi non è veramente me, che non sono limitato da questo corpo. Faccio parte della corrente della vita formata dai miei antenati spirituali e di sangue, che da migliaia di anni fluisce nel presente e che scorrerà per migliaia di anni nel futuro. Sono uno con i miei antenati, sono uno con i miei discendenti. Sono la vita stessa che si manifesta in infinite forme. Sono uno sia con tutte le persone e le specie in pace e al sicuro, sia con quelle che soffrono e vivono nella paura. Proprio in questo momento sono presente in ogni luogo del pianeta. Sono anche presente nel passato e nel futuro. Il disfacimento di questo corpo non mi tocca, proprio come la caduta di un fiore non significa la morte dell’albero. Mi vedo come un’onda sulla superficie dell’oceano, ma la mia natura è l’acqua dell’oceano. Mi vedo in tutte le altre onde e vedo tutte le altre onde in me. L’apparire e lo scomparire della forma delle onde non modifica la natura dell’oceano. Il mio corpo di Dharma e la mia saggezza di vita non sono soggette alla nascita e alla morte. Vedo la mia presenza prima della manifestazione del mio corpo e dopo il suo disfacimento. Anche in questo momento vedo che esisto oltre questo corpo. Settanta, ottant’anni non sono la durata della mia vita. La durata della vita, come quella di una foglia o di un Buddha, è senza limite. Sono andato oltre l’idea che io sono questo corpo, separato nello spazio e nel tempo dalle altre forme di vita.

(TRE RESPIRI, CAMPANA, TUTTI SI ALZANO IN PIEDI E, A MANI GIUNTE, PRATICANO PER QUALCHE SECONDO IL RESPIRO CONSAPEVOLE, POI DUE SUONI DI CAMPANA CONCLUSIVI)

Le Cinque Prosternazioni
La Prima Prosternazione
Con gratitudine tocco la terra per entrare in contatto con tutte le generazioni di antenati della mia famiglia di sangue.

(CAMPANA)

(testo da contemplare mentre si tocca la terra:)

Vedo mio padre e mia madre, sangue, carne e vitalità dei quali scorrono nelle mie vene e nutrono ogni mia cellula. Attraverso loro vedo i miei nonni, le cui aspettative, esperienze e saggezza sono state trasmesse da numerose generazioni. Porto in me la vita, il sangue, l’esperienza, la saggezza, la felicità e la tristezza di tutte le passate generazioni. Sto praticando per trasformare la sofferenza e tutti gli elementi che hanno bisogno di trasformazione.
Apro il mio cuore e tutto me stesso a ricevere l’energia delle intuizioni
profonde, dell’amore e dell’esperienza trasmessi da tutti i miei antenati. So di essere soltanto la continuazione di questo lignaggio. Per favore, aiutatemi, proteggetemi e trasmettetemi la vostra energia. So che ovunque ci siano bambini e nipoti, ci sono anche predecessori. So che i genitori amano e aiutano i loro figli e nipoti, anche se non sempre sono capaci di esprimerlo nel modo giusto, a causa delle difficoltà incontrate nella loro vita.
Comprendo che i miei antenati cercarono di costruire un modo di vivere basato su gratitudine, gioia, fiducia, rispetto e amore. Sentendomi come una continuazione dei miei antenati, mi inchino e lascio che la loro energia fluisca in me. Chiedo ai miei antenati aiuto, protezione e forza.

(TRE RESPIRI, CAMPANA, TUTTI SI ALZANO IN PIEDI E, A MANI GIUNTE, PRATICANO IL RESPIRO CONSAPEVOLE)

La Seconda Prosternazione
Con gratitudine tocco la terra per entrare in contatto con tutte le generazioni di antenati della mia famiglia spirituale.

(CAMPANA)

(testo da contemplare mentre si tocca la terra:)

Vedo in me i miei maestri, coloro che mi mostrano la via dell’amore e della comprensione, il modo di respirare, sorridere, perdonare e vivere profondamente il momento presente. Attraverso i miei maestri, vedo tutti i maestri delle diverse generazioni e tradizioni, fino a quelli che hanno dato inizio alla mia famiglia spirituale, migliaia di anni fa. Vedo come miei maestri e antenati spirituali il Buddha, Gesù Cristo e i patriarchi. L’energia di tutte le generazioni dei maestri ancestrali è entrata in me e sta creando gioia, pace, comprensione e amore.
So che l’energia dei nostri maestri spirituali ha trasformato profondamente il mondo; senza questi maestri spirituali non conoscerei il modo di praticare che porta pace e felicità nella mia vita e nella vita della mia famiglia e della società. Apro il mio cuore e il mio corpo per ricevere l’energia della comprensione, della gentilezza amorevole e della protezione, dai Risvegliati, dai loro insegnamenti e dalla comunità di pratica attraverso molte generazioni.
Io sono la continuazione dei maestri risvegliati. Chiedo ai miei antenati spirituali di trasmettermi la loro inesauribile fonte di energia, pace, stabilità, comprensione e amore. Faccio voto di praticare per trasformare la sofferenza mia e del mondo e per trasmettere la loro energia alle future generazioni di praticanti. Comprendo che i miei antenati spirituali possono avere avuto delle difficoltà nell’offrire gli insegnamenti, ma li accetto così come sono.

(TRE RESPIRI, CAMPANA, TUTTI SI ALZANO IN PIEDI E, A MANI GIUNTE, PRATICANO IL RESPIRO CONSAPEVOLE)

La Terza Prosternazione
Con gratitudine mi inchino a questa terra per entrare in contatto con tutti gli antenati che l’hanno resa bella e abitabile.

(CAMPANA)

(testo da contemplare mentre si tocca la terra:)

Comprendo di essere interamente nutrito e protetto da questa terra, da tutti gli esseri che sono vissuti qui e da coloro che, attraverso i loro sforzi, hanno facilitato e reso possibile la mia vita. Vedo tutti coloro che, lavorando alacremente, con capacità, perseveranza e amore, hanno innalzato cattedrali, composto opere letterarie, costruito ponti e strade, ospedali e scuole, hanno protetto i diritti umani, hanno sviluppato la cultura, l’arte e la scienza, hanno combattuto per la libertà e la giustizia sociale. Sento l’energia di questa terra fluire nel mio corpo e nella mia anima, accettandomi ed aiutandomi.
Faccio voto di alimentare e mantenere questa energia e di trasmetterla alle future generazioni.
Faccio voto di offrire un contributo per trasformare la violenza, l’odio e la delusione che ancora giacciono profondi nella coscienza collettiva di questa società, in modo tale che le future generazioni abbiano maggiore sicurezza, gioia e pace. Chiedo a questa terra la sua protezione e il suo aiuto.

(TRE RESPIRI, CAMPANA, TUTTI SI ALZANO IN PIEDI E, A MANI GIUNTE, PRATICANO IL RESPIRO CONSAPEVOLE)

La Quarta Prosternazione
Con gratitudine e compassione tocco la terra per trasmettere la mia energia a coloro che amo.

(CAMPANA)

(testo da contemplare mentre si tocca la terra:)

Tutta l’energia che ho ricevuto voglio ora trasmetterla a mio padre, a mia madre e a tutti coloro che amo, a tutti coloro che hanno sofferto e si sono preoccupati per il mio bene.
So di non essere stato sufficientemente attento e consapevole nella mia vita quotidiana. So anche che coloro che mi amano hanno avuto le loro personali difficoltà; hanno sofferto perché non sono stati così fortunati da avere attorno a sé un contesto favorevole al loro pieno sviluppo.
Trasmetto la mia energia a mia madre, a mio padre, ai miei fratelli, alle mie sorelle, a coloro che amo, a mio marito o a mia moglie, a mia figlia, a mio figlio, per alleviare il loro dolore, così che possano sorridere e sentire la gioia di essere vivi. Voglio che siano tutti in salute e pieni di gioia. So che quando loro sono felici anch’io lo sono. Non provo alcun risentimento e prego che tutti gli antenati e le loro famiglie spirituali concentrino le energie su coloro che amo per proteggerli e aiutarli. So di non essere separato e di essere uno con coloro che amo.

(TRE RESPIRI, CAMPANA, TUTTI SI ALZANO IN PIEDI E, A MANI GIUNTE, PRATICANO IL RESPIRO CONSAPEVOLE)

La Quinta Prosternazione
Con comprensione e compassione tocco la terra per riconciliarmi con tutti coloro che mi hanno fatto soffrire.

(CAMPANA)

(testo da contemplare mentre si tocca la terra:)

Apro il mio cuore e mando la mia energia d’amore e di comprensione a tutti coloro che mi hanno fatto soffrire, a coloro che hanno distrutto gran parte della mia vita e della vita di coloro che amo. Adesso so che queste persone hanno loro stesse patito molto e che i loro cuori sono pieni di dolore, rabbia e odio. So che chiunque abbia sofferto così tanto, farà soffrire gli altri. So che possono essere stati così sfortunati da non avere avuto nessuno che si occupasse di loro e che li amasse. La vita e la società hanno riservato loro prove molto dure. Sono stati male indirizzati, violentemente offesi e non rispettati; non sono stati guidati verso una vita consapevole. Hanno accumulato nei confronti della vita percezioni sbagliate. Hanno commesso degli errori con me e con le persone che amo.
Prego i miei antenati, spirituali e di sangue, di indirizzare energia di amore e protezione alle persone che mi hanno fatto soffrire, così che i loro cuori possano accogliere la dolcezza dell’amore e possano sbocciare come un fiore. Prego che siano trasformati per sperimentare la gioia di vivere in modo che non continuino a soffrire e non facciano più soffrire gli altri. Vedo la loro sofferenza e non voglio che continui. Non desidero portare in me alcun rancore o altra rabbia verso di loro. Mando loro la mia energia di amore e di comprensione e chiedo a tutti i miei antenati di aiutarli.

(TRE RESPIRI, CAMPANA, TUTTI SI ALZANO IN PIEDI E, A MANI GIUNTE, PRATICANO PER QUALCHE SECONDO IL RESPIRO CONSAPEVOLE, POI DUE SUONI DI CAMPANA CONCLUSIVI)

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