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Autore: Hiram

Fiori di Bach, Fiori dell’anima di M. Marietti

Fiori di Bach, fiori dell’anima

Terapia della sensibilità e delle emozioni: un parere medico
di Massimo Marietti

“E subito, meccanicamente, stanco dopo un giorno insulso e con la prospettiva di avere davanti una mattinata deprimente, portai alle labbra un cucchiaino di tè nel quale avevo immerso un pezzetto di torta. Non appena il liquido caldo e le briciole di torta ebbero raggiunto il palato sentii un brivido che mi percorreva le membra e mi fermai attonito, sorpreso dalle cose straordinarie che mi stavano accadendo… Ero conscio che dipendeva tutto dal gusto del tè e della torta, ma sapevo anche che quelle strane sensazioni erano infinitamente lontane da quei sapori e non potevano in alcun modo condividerne la natura.

…Quando del lontano passato non resta più nulla, quando morta è la gente e le cose sono consunte o finite chissà dove, rimane ancora lui solo, tenue ma ricco di vitalità, etereo ma persistente e fedele, l’odore e il gusto delle cose che aleggiano a lungo come i sentimenti, pronti a ricordarci che…”

Marcel Proust, da À la recherche du temps perdu

La terapia del dottor Bach si basa sull’assunzione di preparati floreali in soluzione, scelti e prescritti, o autoprescritti, per curare stati di nervosismo (in inglese nerves) acuto o cronico. Si propone quindi come medicina dotata di rimedi propri e di indicazioni specifiche. La sua scelta, tra gli innumerevoli principi presenti nel mondo vegetale, di forme, di colori e di essenze floreali, e il modo stesso della loro individuazione, nel loro ambiente, in un universo di umori, profumi, colori e suoni naturali, ne fanno una medicina delicata dal sapore impressionistico, adatta all’anima sensibile di chi soffre degli sfumati malesseri che essa cura. Forse è per questo, e non solo per l’accusa di scarsa scientificità comune alle medicine alternative, che non ha attratto fino ad ora l’attenzione di chi è abituato a curare con psicofarmaci disturbi psichici più gravi, che intaccano l’attività anche delle persone meno sensibili. Medicina semplice e apparentemente arcaica quindi, ma modernamente attenta agli aspetti psicosomatici e preventivi della salute, intesa non solo come assenza di malattia, ma come pieno benessere psicofisico.

Come medico so che i pazienti che accusano disturbi somatici correlati a stati di irritabilità o di stanchezza, di ansia o di depressione, di nervosismo insomma, affollano le sale d’aspetto e attivano un consumo psicofarmacologico di massa. Come psicosomatista e analista psicocorporeo sono addestrato a indagare nel singolo individuo la qualità emotiva specifica del disturbo, a coglierne le radici esistenziali e relazionali e a influire su di esso con l’aiuto di tecniche corporee e verbali. Questo duplice punto di vista mi permette di apprezzare, non senza stupore, la delicatezza e l’innocuità dei preparati floreali di Bach assieme alla ricchezza e all’accuratezza dell’indagine sintomatologica che ne accompagna la somministrazione. Ma ancor di più apprezzo il fatto che questa terapia non comporta solo una diagnosi e una prescrizione, ma, contestualmente, lo sviluppo nel paziente di attenzione e sensibilità agli stati emozionali, alle sottili vibrazioni del sistema mente-corpo, come avviene nelle terapie psicosomatiche.

Non posso entrare nel merito dei contenuti e dell’efficacia della terapia in se stessa, ben sapendo che ogni medicina si legittima per la sua capacità di curare e di non nuocere, prima che per gli ipotetici meccanismi d’azione, che, spesso, sono in parte o del tutto sconosciuti. Voglio però provare a indagare dal punto di vista teorico i possibili meccanismi d’azione di questa terapia floreale dell’anima. La duplicità della medicina di Bach, pur nella sua apparente semplicità, potrebbe implicare interazioni complesse, oltre i modelli classici di cura, farmacologico e psicologico, in una dimensione integrativa che potremmo chiamare modello ecopsicosomatico. La focalizzazione di questi modelli potrà chiarire il concetto.

Il modello farmacologico ricerca la presenza di un principio attivo terapeutico proveniente dal fiore e trasmesso all’acqua nel procedimento di preparazione. Esclusa la presenza di sostanze o energie sconosciute, fisiche o biologiche o di altra natura, per le quali dovremmo attendere future scoperte, potremmo ipotizzare una sofisticata forma di aromaterapia, che coinvolgerebbe la stimolazione indiretta, senza percezione odorosa cosciente, del sistema olfattivo-gustativo. In questo caso sarebbero in gioco i chemocettori olfattivi e gustativi e le loro microstrutture subcellulari fondamentali, i chemorecettori. I chemorecettori sono strutture proteiche della membrana capaci di trasformare stimoli chimici in correnti elettrochimiche e sono presenti in tutto il mondo biologico, a partire dagli organismi monocellulari, di cui condizionano la sensibilità e il movimento.

Grazie a queste strutture, i sistemi neurali che codificano l’olfatto e il gusto riescono a riconoscere e distinguere stimoli presenti a concentrazioni estremamente basse, tanto che gli animali, e anche gli uomini, sono in grado di discriminare migliaia di odori e possono scoprire la presenza di una sostanza odorifera a concentrazioni dell’ordine di una parte per trilione. Essi veicolano sensibilità di tipo primitivo e poiché la vita è nata nell’acqua, potremmo considerarle strutture primordiali costitutive di ogni organismo, anche il più semplice, purché dotato della capacità di percepire stimoli e di aprirsi o chiudersi ad essi o dirigersi verso o allontanarsi da essi.

Negli organismi superiori, dove il rapporto stimolo-risposta è operato da un’intera rete di cellule e mediato da un apparato specializzato in “comunicazioni”, le informazioni olfattive sono massicciamente convogliate verso le aree più antiche della corteccia cerebrale, il “cervello rettiliano”, così detto perché presente anche nei vertebrati inferiori. Esso elabora informazioni sul mondo esterno, ma, mettendole in relazione con informazioni che riguardano l’ambiente interno, le sue necessità e il suo stato di soddisfazione: la sete, la fame, la sfera sessuale, lo stato di sazietà e, perfino, di piacere o di pericolo.

Inoltre, il gusto e l’olfatto sono in stretto rapporto con i circuiti nervosi che controllano i sentimenti e certi tipi di memoria affettiva e, nei mammiferi, i comportamenti di attaccamento, da cui la definizione di cervello mammaliano. Oggi, per esempio, sappiamo con certezza che il bambino di poche settimane è in grado di distinguere l’odore della propria madre da quello delle altre persone e di reagire agli stimoli olfattivi e gustativi con emozioni primarie, gioia, paura, disgusto. Forse è proprio per questi meccanismi che i degustatori di vini possono a ragione asserire di riuscire a distinguere più di 100 elementi gustativi, che nascono da diverse combinazioni di sapore e aroma, ricavandone, per ogni vino di qualità, sensazioni ed emozioni uniche e irripetibili, stupore, delizia, gioia, appagamento, distensione.

Come nel brano di Proust, ricordi particolari possono tornare alla mente in rapporto con un sapore o un profumo particolare e ridestare profonde emozioni. Potremmo chiederci noi stessi quante volte odori o sapori, improvvisamente percepiti, hanno altrettanto improvvisamente modificato il nostro umore e quante volte, in particolari situazioni emotive, abbiamo cercato odori e sapori a noi noti o cari per consolarci o ravvivarci o vivere la nostalgia e lo struggimento o li abbiamo ricreati ad arte con profumi, cibi e bevande per creare atmosfere o evocare stati d’animo. In un caso come questo, il temperamento di ciascuno, la sua storia personale e culturale e il contesto attuale condizionano il significato dello stimolo.

Ma potremmo ipotizzare, data l’ancestralità del sistema, che esistano configurazioni di stimoli olfattivo-gustativi di significato univoco e immediato, capaci di indurre reazioni stabili e ripetibili. Nelle ricerche etologiche sugli animali sono ben note situazioni stimolo ben definite che liberano comportamenti stereotipati e prevedibili, mentre in etologia umana è noto che stimoli visivi, per esempio mimici e gestuali, di significato universale, evocano risposte comportamentali e viscerali facilmente prevedibili. Avremmo in questo caso uno schema di azione semplice e tradizionale, lineare, di interazione tra il medicamento, il medico, che ne valuta le indicazioni e ne individua le formulazioni, e il paziente, che li assume e ne risente i benefici:

Farmaco → Medico → Paziente

Il modello psicologico invoca fondamentalmente meccanismi e dinamiche che, nella tradizione medica, sono stati globalmente e semplicisticamente etichettati sotto la voce effetto placebo. Recentemente però, l’effetto placebo è stato sottoposto a studi rigorosi, svelandosi fenomeno complesso e variegato, cui sono sottesi diversi e importanti sistemi psicofisiologici e psicologici: liberazione di sostanze calmanti o antidolorifiche endogene, condizionamento, autoipnosi, comunicazione di immagini mentali o di contenuti simbolici. Il medicamento funziona come veicolo del rapporto con il medico e di suggestioni benefiche e come elemento di rinforzo e di consolidamento della risposta.

Vista la duplice natura dell’intervento bachiano, dobbiamo però prendere in considerazione anche la pratica di riconoscimento, guidato primitivamente dal medico, dei propri stati d’animo e delle loro connessioni, e l’attitudine a prendersene cura. Intervengono allora dinamiche più complesse, di apprendimento e autocondizionamento, sovrapponibili a quelle che, in ambito comportamentista, vengono studiate nel biofeedback. In questa tecnica si permette al soggetto di visualizzare variabili fisiologiche involontarie, che si modificano in diverse condizioni, quali attenzione, tensione, ansia, attesa, preoccupazione, e che sono spesso fonti di malesseri improvvisi, vaghi e inquietanti o di disturbi psicosomatici persistenti. La loro visualizzazione, attraverso l’informazione retroattiva (feedback) che viene dallo strumento, induce automaticamente i miglioramenti attesi dal soggetto.

Questo oggettivare il sintomo, da sempre presente nel rapporto medico-paziente (il medico è il primo farmaco), nella medicina moderna esiste, ma è nascosto all’interno del processo diagnostico. Gli “esami”, non sempre indispensabili, finiscono spesso per servire da tranquillanti o da sostituti di una cura che non c’è, con rassicurazione del paziente, ma anche importanti risvolti negativi per l’economia sanitaria. Per questo, le medicine olistiche e alternative, che danno attenzione anche ai più piccoli disturbi e sintomi, con visite accurate e attenzione alla relazione, danno spesso risultati migliori della medicina ufficiale.

È un meccanismo fondamentale nelle psicoterapie, in cui, in un processo dall’inconscio al conscio, il terapeuta funge da specchio, cioè da feedback informativo, dei processi affettivi e cognitivi in atto nel paziente. In ogni caso il paziente viene visto come parte di un sistema informativo in cui la modificazione del flusso di informazioni in un punto del sistema ne modifica l’equilibrio complessivo. È evidente, a questo punto, la semplicità e la fruibilità dei fiori di Bach, che, nel campo dei disturbi emozionali, si situerebbero in una posizione intermedia tra la “materialità” della psicofarmacologia e l’”immaterialità” della psicoterapia, offrendo un veicolo innocuo, ma suggestivo, alle dinamiche psicologiche e relazionali. In questo caso avremmo un meccanismo di interazione più complesso, secondo uno schema non più lineare, ma retroattivo (feedback).

Il modello che vorrei definire ecopsicosomatico, più complesso e affascinante, anche se al momento solo ipotetico, implicherebbe un superamento dei modelli tradizionali e delle loro dicotomie, a partire da una visione biologica, sistemica ed ecologica radicale. Dobbiamo riconoscere la sostanziale originaria unità chimico-fisica delle strutture biologiche e della loro comunicazione e, quindi, l’identità funzionale di odori, sapori, segnali nervosi ed emozioni. Infatti gli studi sulle microstrutture di membrana hanno dimostrato che le strutture subcellulari della comunicazione chimica tra organismi (olfatto e gusto) e della comunicazione tra cellule (neurotrasmissione) sono sostanzialmente identiche. La differenza è che la sostanza chimica non proviene dall’esterno, cibo, fiore o altro organismo, ma è prodotta da un’altra cellula.

All’interno dell’organismo abbiamo famiglie diverse di messaggeri chimici: i neurotrasmettitori, che trasportano messaggi tra singole cellule; i neuromodulatori, che ne condizionano la sensibilità ai neurotrasmettitori; i neurormoni, che facilitano o inibiscono la sensibilità e la reattività di intere aree funzionali del cervello agli stimoli e che possono essere secreti e agire a distanza, come odori che si spandono per il corpo. Potremmo dire che le cellule nervose sono come fiori che emettono profumi e che comunicano odorandosi l’un l’altra, come fanno gli animali, e ricavandone segnali significativi per il loro comportamento.

Questo complesso sistema di comunicazione interna, chiamato neuropsicoendocrino, è particolarmente rilevante per la vita emozionale, che è collegata a funzioni vitali basilari, attività-riposo, difesa-attacco, attaccamento, sessualità. Che cosa sono infatti le emozioni se non stati di recettività e di disponibilità all’azione che accompagnano e facilitano o inibiscono la conoscenza o il comportamento adeguato nella situazione. Diciamo: “Sento qualcosa nell’aria” oppure “C’è puzza di bruciato”, per definire stati di attenzione o di paura che anticipano valutazioni più precise della realtà. Sulla base di questo modello possiamo veramente immaginare il nostro organismo, e in particolare il sistema nervoso, come un grande campo, circondato da un grande prato, delimitato ma non separato da esso, dove piante, fiori, insetti e animali interagiscono, scambiandosi in primo luogo una infinita serie di messaggi complessi. Questi provengono da organismi aperti, si confondono nell’aria e vengono riconosciuti da altri organismi in base al loro stato di apertura che, a sua volta, dipende dalla miscela complessiva presente nell’aria.

Se consideriamo sentimenti ed emozioni come stati di ricettività e di reattività globale, soggettivamente percepiti in modo più o meno nitido a livello di coscienza, connessi a stati di ricettività e reattività dei recettori nervosi, possiamo chiederci a quale livello il farmaco bachiano, configurazione unica e irripetibile, colta da un organismo estremamente aperto e sensibile, e porto dal medico in un’altra configurazione di stimoli inter e intra personali, possa modificare la risonanza del sistema, come un nuovo strumento inserito in un’orchestra.

Abbiamo un nuovo modello di cura, che potrebbe aiutare a comprendere fondamenti comuni alle terapie che uniscono stimolazione, comunicazione e relazione, a mediazione sensoriale (musicoterapia, art therapy, cromoterapia), corporea (shiatsu, feldenkrais, dancetherapy, ecc.), psicocorporea (analisi bioenergetica, terapie neoreichiane). Esse modificano in diversi punti contemporaneamente quei sottili equilibri che definiamo psicosomatici e che condizionano la qualità del nostro star bene, e, forse, le condizioni del nostro restare o tornare in salute. Si tratta di un modello circolare, interattivo e sistemico, modernamente integrato agli attuali sforzi teorici di comprensione della complessità.

Non ci sono studi esaurienti sui fattori in gioco nella medicina di Bach, ma possiamo collocarla nella crescente consapevolezza della complessità delle problematiche che coinvolgono il processo di cura e le sue dinamiche. Abbiamo dati della ricerca e modelli teorici fino a poco tempo fa impensabili che suscitano interrogativi che meriterebbero indagini più sistematiche e concrete. Nella rivoluzione in atto nei paradigmi del rapporto mente-corpo, ogni tipo di esperienza e di riflessione che aggiunga nuovi dati, anche incompatibili con certezze fino a poco tempo fa incrollabili, va accolta come stimolo e come occasione di studio e di riflessione, ancor più nel complesso campo della salute emozionale, così precaria eppure così importante e delicata per la vita umana

Alexithymia

Updates sul costrutto di Alexithymia di Piero Porcelli

Il termine alexithymia indica un disturbo affettivo-cognitivo relativo ad una particolare difficoltà di vivere, identificare e comunicare le emozioni. Il costrutto venne elaborato a partire dall’osservazione di pazienti con le “classiche” malattie psicosomatiche… Fra le caratteristiche cliniche dei pazienti psicosomatici, Sifneos annoverava:

  • la marcata difficoltà a descrivere le emozioni e ad esserne consapevoli;
  • la riduzione delle attività mentali connesse con la fantasia;
  • la marcata preoccupazione con aspetti concreti e dettagliati dell’ambiente esterno e del proprio corpo;
  • uno stile di pensiero congelato sugli stimoli ed incapace di andare oltre nell’elaborazione…

In questa relazione, tratteremo alcuni sviluppi della ricerca sul costrutto di alexithymia. Per approfondimenti sulle ultime ricerche, si rimanda alle recenti review apparse negli ultimi anni (Todarello-Porcelli, 2002; Taylor, 2000; Taylor, 2004; Taylor-Bagby, 2004), oltre alla monografia del gruppo di Toronto sui disturbi della regolazione affettiva (Taylor et al, 1997).

Cosa significa alexithymia
Il termine alexithymia è stato coniato da Peter Sifneos (1973) nella prima metà degli anni ’70 per indicare un disturbo affettivo-cognitivo relativo ad una particolare difficoltà di vivere, identificare e comunicare le emozioni (dal greco alpha = assenza, lexis = linguaggio, thymos = emozioni, ossia “assenza di parole per le emozioni”). Il costrutto venne elaborato a partire dall’osservazione di pazienti con le “classiche” malattie psicosomatiche e per molti anni è stato ritenuto quasi un loro sinonimo poiché si pensava fosse specificamente connesso alle patologie c.d. psicosomatiche. Fra le caratteristiche cliniche dei pazienti psicosomatici, Sifneos annoverava:

  • la marcata difficoltà a descrivere le emozioni e ad esserne consapevoli;
  • la riduzione delle attività mentali connesse con la fantasia;
  • la marcata preoccupazione con aspetti concreti e dettagliati dell’ambiente esterno e del proprio corpo;
  • uno stile di pensiero congelato sugli stimoli ed incapace di andare oltre nell’elaborazione, come sottolineato negli stessi anni da case reports di psicoterapia con pazienti alessitimici contrassegnati fondamentalmente dalla noia contro-transferale (Taylor, 1977; 1984).

Caratteristiche cliniche
Vi sono 5 caratteristiche cliniche centrali del costrutto di alexithymia:

Difficoltà di identificare e descrivere le emozioni
I soggetti alessitimici manifestano una marcata difficoltà a verbalizzare i propri stati emotivi e, ad un’indagine più approfondita, sembrano non averne affatto consapevolezza. Possono anche mostrare scoppi improvvisi di emozioni intense (come rabbia, paura o pianto) ma non riescono collegare la manifestazione emozionale con ricordi, fantasie o specifiche situazioni. È così possibile che un paziente alessitimico descriva tutto ciò che è successo in una lite con il coniuge, dalle situazioni che l’hanno scatenata alle parole dette, e poi si meravigli se l’osservatore gli dice che probabilmente ha provato rabbia.

Difficoltà di distinguere fra stati emotivi soggettivi e le componenti somatiche dell’attivazione emotiva
I soggetti alessitimici esprimono le proprie emozioni preminentemente attraverso la componente fisiologica poiché incapaci di elaborarne l’aspetto soggettivo vissuto. Per cui, il paziente dell’esempio precedente riferisce le modificazioni somatiche avvertite (irrequietezza motoria, tensione muscolare, pirosi gastrica, tremori, ecc.) ma non comprende che l’esperienza della rabbia ingloba in sé tutte le sensazioni riferite. Dalla psicoanalisi, tale caratteristica viene considerata una difesa massiva contro un’angoscia di natura psicotica, per cui la distanza posta fra affetto e rappresentazione denota la distruzione del legame di significato fornito dalle parole e da ciò che esse simbolizzano. Dal punto di vista cognitivistico, è stata concettualizzata come attenzione selettiva ed amplificazione delle componenti somatiche delle emozioni e come predisposizione all’agire motorio per scaricare una spiacevole tensione interna, il che spiegherebbe il motivo per cui i soggetti alessitimici sviluppino ipocondria, disturbi di somatizzazione e comportamenti compulsivi come abbuffate alimentari, abuso di sostanze psicoattive, anoressia nervosa.

Povertà dei processi immaginativi
La povertà di immaginazione e di tutte le funzioni ad essa connesse sono facilmente osservabili nell’attività onirica dei soggetti alessitimici. Essi non sognano quasi mai e i loro sogni sono comunque caratterizzati dal fatto di riprodurre pezzi di vita reale, avvenimenti diurni, eventi della vita lavorativa. Allo stesso modo, i sogni ad occhi aperti sono quantitativamente molto scarsi e qualitativamente molto poveri poiché anch’essi si soffermano su eventi accaduti o su preoccupazioni per il futuro. Il colloquio con i soggetti alessitimici è pertanto duro, noioso, frammentario, rigidamente circoscritto a sintomi, esami medici o eventi accaduti. Fisicamente appaiono rigidi nella postura corporea e nella mimica facciale.

Stile cognitivo orientato verso la realtà esterna
I soggetti alessitimici sono elettivamente concentrati su tutto ciò che è esterno alla vita psichica. Sul piano cognitivo, ciò si manifesta attraverso un pensiero razionale che tende a illustrare azioni ed esperienze senza investimenti affettivi, come se l’individuo fosse spettatore più che attore delle propria vita. L’attenzione è concentrata sui dettagli della realtà fattuale, di cui riescono a descrivere i dettagli anche minuziosamente ma senza mai dare la sensazione all’osservatore che vi stiano partecipando emotivamente.

Conformismo sociale
I soggetti alessitimici mostrano una stretta aderenza alle regole sociali di adattamento, per cui sembrano definiti dall’esterno in termini di identità di ruolo. Al contrario, mancano delle qualità soggettive di interpretazione della propria identità ed evidenziano scarsa capacità di sintonizzazione con le emozioni altrui, mostrando marcate difficoltà a formare e conservare nel tempo relazioni interpersonali intime.
In conclusione, i soggetti alessitimici hanno caratteristiche al confine fra più sindromi psicopatologiche (disturbi depressivi, ossessivo-compulsivi, personalità dipendente), differenziandosene per la peculiarità di un disturbo cognitivo di elaborazione delle emozioni, o meglio della componente psicologica degli affetti a fronte di un eccesso di espressività della componente fisiologica.

Storia del costrutto
Il costrutto di alexithymia è nato 30 anni fa e si è modificato nel corso della sua evoluzione concettuale. Le tappe più importanti di questa storia sono le seguenti:

Sul finire degli anni ’40, Jorgen Ruesch (1948) aveva osservato che molti pazienti con patologie mediche croniche o con le “classiche” malattie psicosomatiche manifestavano marcate difficoltà di espressione verbale e simbolica degli affetti, con caratteristiche del tutto diverse da quelle presentate dai pazienti nevrotici. Egli attribuì tali caratteristiche ad un arresto nello sviluppo della personalità, considerando tale deficit evolutivo come il problema centrale della personalità psicosomatica (personalità infantile).

Agli inizi degli anni ’60, gli psicoanalisti francesi Pierre Marty e Michel de M’Uzan (1963) (che fonderanno in seguito l’Ecole Psychosomatique de Paris) pubblicano osservazioni cliniche su pazienti somatici che manifestano una struttura cognitivo-affettiva molto simile al costrutto di alexihtymia (che definirono pensiero operatorio), con uno stile di pensiero letterale ed utilitaristico accompagnato da un marcato impoverimento affettivo.

Nel 1976 la XI European Conference on Psychosomatic Research (ECPR) (Brautigam-von Rad, 1977) viene dedicata per intero al costrutto di alexithymia, consentendo per la prima volta ai ricercatori dell’allora recente costrutto di incontrarsi e discutere, sancendone l’ufficialità nella comunità scientifica e promuovendone lo sviluppo futuro.

A metà degli anni ’80, il gruppo di Toronto fa compiere una svolta cruciale al costrutto quando pubblica la prima scala empiricamente validata per l’assessment del costrutto. Il gruppo di Toronto è costituito da Graeme Taylor (psicoanalista e teorico del gruppo, docente all’Università di Toronto), Mike Bagby (psicologo clinico che si occupa prevalentemente di psicometria, del Clarke Institute di Toronto) e Jim Parker (psicologo clinico che si occupa fondamentalmente di studi sperimentali di laboratorio, della Trent University di Peterborough). Nel 1985 il gruppo pubblica la Toronto Alexithymia Scale (TAS) nella versione a 26 items (Taylor et al, 1985) e 10 anni dopo la sua revisione a 20 items (TAS-20) (Bagby et al, 1994; Parker et al, 2003; Taylor et al, 2003). Prima della TAS, nel decennio 1975-1985 i risultati delle ricerche erano stati ottenuti con strumenti poco robusti dal punto di vista psicometrico, come il Beth Israel Questionnaire (BIQ), la Schalling-Sifneos Personality Scale (SSPS) o la scala sull’alexithymia ricavata dal MMPI (MMPI-A). La scarsa considerazione verso il costrutto di alexithymia da parte della comunità scientifica del tempo fu dovuta in parte alla scarsa validità e affidabilità di queste prime scale di valutazione, anche se dotate di buona face validity in quanto i contenuti degli item erano incentrati sulle caratteristiche teoriche e cliniche centrali del costrutto. Lo sviluppo della TAS e della TAS-20 ha impresso uno sviluppo impressionante alle ricerche che sono passate da una trentina di lavori pubblicati nel periodo 1970-79 agli oltre 500 nel periodo 1995-2004 (fonte: Medline). La TAS-20 è uno sviluppo della TAS a 26 items di cui sono stati corretti alcuni problemi riscontrati negli studi di validazione. Fondamentalmente sono stati eliminati dalla TAS-26 quegli items (riferiti al conformismo sociale ed alla funzione di daydreaming) che non risultavano correlati con gli altri fattori.

Nel 1997 il gruppo di Toronto pubblica la monografia Disorder of Affect Regulation (Taylor et al, 1997) (tradotta in italiano da Mario Speranza per Giovanni Fioriti Editore nel 2000 con il titolo I disturbi della regolazione affettiva). Questo libro costituisce una svolta epocale nel costrutto di alexithymia poiché segna definitivamente il passaggio dall’ambito della medicina psicosomatica in senso stretto all’universo più ampio dei disturbi multi-determinati sia fisici che psicopatologici caratterizzati dalla disregolazione affettiva, di cui diremo dopo.

Alla XXV ECPR di Berlino del giugno 2004, il gruppo di Toronto illustra i primi risultati relativi alla Toronto Structured Interview for Alexithymia. Si tratta di un’intervista strutturata a 24 items, parzialmente finanziata dal Ministero della Salute canadese e tuttora in via di costruzione. La scala intende rispondere a due critiche fondamentali rivolte alla TAS-20. Primo, la TAS-20 è uno strumento self-report e appare in aperta contraddizione con il costrutto misurato poiché per definizione gli alessitimici hanno scarso accesso introspettivo all’autovalutazione (cfr. Lumley, 2000), per cui è necessaria una valutazione clinica delle caratteristiche del paziente da parte di un osservatore. Secondo, come dicevamo, la TAS-20 non “copre” aspetti clinici importanti del costrutto, come i tratti di conformismo sociale e la ridotta capacità di fantasticare. Tali aspetti clinici restano centrali nel costrutto ma non vengono valutati dalla TAS-20 poiché gli items relativi ad essi sono risultati psicometricamente deboli.

Le scale di Toronto
Le scale di Toronto di assessment dell’alexithymia (TAS e TAS-20) sono le più usate al mondo. Dal 1986, sono state usate nel 90% degli studi pubblicati e dal 1994 la TAS-20 è stata citata più di 340 volte nelle pubblicazioni scientifiche su riviste con peer-review. Sono state tradotte in 20 lingue diverse, fra cui le principali europee (danese, tedesco, finlandese, italiano, francese, greco, norvegese, portoghese, spagnolo, polacco, ungherese, svedese e olandese) ed alcune extra-europee (hindi, tamil, giapponese, coreano, lituano, cinese ed ebraico). Il gruppo di Toronto, nello spirito della collaborazione scientifica internazionale, dà generalmente il proprio consenso ad usare la traduzione nelle lingue nazionali se la struttura fattoriale della scala è identica a quella originale, articolata in tre fattori (IDE, identiyfing feelings; COM, communicating feelings; EOT, externally-oriented thinking), mediante la confirmatory factor analysis.
È immediatamente comprensibile che l’uso di una misura omogenea dell’alexithymia da parte della comunità scientifica consente:

  • di accumulare dati empirici ottenuti con uno stesso strumento;
  • di confrontare le ricerche condotte in paesi diversi;
  • di esplorare le varie spiegazioni dei risultati ottenuti con la stessa scala.

Nel 1996 è stato pubblicato il lavoro sulla validazione della traduzione italiana della TAS-20 (Bressi et al, 1996) e nel febbraio 2005 è prevista la pubblicazione di un libro della Masson a cura di D.La Barbera e V.Caretti sulla TAS-20. Nel 2003 è invece stato pubblicato un interessante lavoro di confronto delle varie traduzioni della TAS-20 da cui emerge la sua capacità di misurazione omogenea del costrutto di alexithymia (Taylor et al, 2003).

L’assessment dell’alexithymia
Uno dei problemi dell’assessment di un costrutto psicologico è però, paradossalmente, proprio l’uniformità della misurazione. Un unico strumento di misura introduce nella ricerca un bias sistematico (ossia l’inclusione, inevitabile anche se indesiderata, di fattori che non si volevano misurare con una certa scala) che non può essere eliminato finché non si trova un altro strumento, psicometricamente valido ma di tipo diverso, che confermi la validità dei risultati ottenuti con il primo. Si tratta della cosiddetta matrice multitratto-multimetodo di Campbell e Fiske (1955) secondo cui la validità di uno strumento di assessment psicologico non deve essere correlato a costrutti teorici indipendenti (validità divergente) e, nello stesso tempo, deve correlare con scale che misurano lo stesso costrutto ma ottenute con metodo di misurazione indipendente (validità convergente). Per le scale di Toronto, il problema resta la natura del test: è un test self-report che necessariamente comporta il bias sistematico dell’auto-valutazione: non si può sapere se il modo in cui il soggetto sta rispondendo alla scala self-report è diverso dal modo in cui risponderebbe ad un’altra scala – ad esempio etero-somministrata – che misuri lo stesso costrutto. In sostanza, è possibile che un soggetto valuti se stesso come alessitimico ad una scala self-report come la TAS-20 ma risulti alessitimico se osservato da un esaminatore esterno e, viceversa, che non valuti se stesso come alessitimico al test self-report ma che lo risulti quando viene valutato con uno strumento eterogeneo come una scala observer-rated.
Per questo motivo, sono state recentemente sviluppate alcune misure alternative alla TAS-20, il cui uso per la ricerca (in congiunzione o in alternativa alle scale di Toronto) è ancora in fase di validazione. Fra le più importanti si possono menzionare:

  • la scala olandese di Bermond e Vorst (Bermond-Vorst Alexithymia Questionnaire, BVAQ) (Vorst-Bermond, 2001);
  • la scala californiana di Haviland (Observer Alexithymia Scale, OAS) (Haviland et al, 2000);
  • la Toronto Structured Interview for Alexithymia (TSIA) dello stesso gruppo di Toronto;

alcuni indici del Rorschach Comprehensive System (Porcelli-Meyer, 2002; Porcelli, 2004).
La proposta di un nuovo strumento di misurazione deve però rispettare alcuni canoni per ottimizzare il rapporto bilanciato fra esigenze teoriche di sviluppo e affidabilità psicometrica. È infatti necessario testare continuamente i limiti di uno strumento già esistente ma l’introduzione di una nuova scala in un settore della ricerca deve anche aggiungere validità incrementale rispetto a quella precedente (ossia deve fornire informazioni quantitativamente maggiori e qualitativamente migliori rispetto alla scala precedente, informazioni che non si possono ottenere con la prima scala per suoi limiti strutturali ineliminabili). Se così non fosse, si correrebbe il rischio di gettar via il lavoro già svolto (valido) e di accumulare letteratura non strettamente necessaria.

L’evoluzione del costrutto
In sintesi, nei suoi 30 anni di storia, il costrutto di alexithymia ha subito notevoli e sostanziali cambiamenti in almeno 3 aree:

Dalla comunicazione all’elaborazione delle emozioni.
Agli inizi si pensava che la struttura concettuale del costrutto fosse in una difficoltà di comunicazione delle emozioni mentre oggi si ritiene che l’aspetto teorico fondamentale consista in un deficit di elaborazione cognitiva delle emozioni dovuto ad un arresto nello sviluppo delle funzioni di mentalizzazione. La cornice teorica attuale di riferimento è quindi rintracciabile nelle moderne teorie delle emozioni.

Dalla specificità psicosomatica alla vulnerabilità aspecifica.
Agli inizi si riteneva che l’alexithymia fosse maggiormente prevalente nelle patologie psicosomatiche, tanto che si è a torto ritenuto che ne costituisse un aspetto di specificità. Oggi si ritiene al contrario che l’alexithymia sia una predisposizione aspecifica verso vari disturbi sia fisici che psichiatrici, caratterizzati dalla comune matrice della disregolazione degli affetti.

Da strumenti deboli a strumenti validi di misurazione.
Agli inizi la misurazione del costrutto è stata effettuata con strumenti che avevano solo elevata face validity ma sviluppati con scarsa attenzione di validità ed affidabilità. L’introduzione delle scale di Toronto ha consentito un progresso sostanziale nella misurazione del costrutto poiché è stato seguito un processo empirico, e non solo concettuale, di sviluppo della scala.
Il cambiamento di questi tre aspetti del costrutto non ha comportato però il cambiamento dei suoi aspetti fondamentali, per cui l’alexithymia ha conservato inalterato il nocciolo delle sue caratteristiche messe in luce da Sifneos 30 anni fa.

La differenza tra emotions e feelings
Per comprendere il nucleo basilare del costrutto di alexithymia, è fondamentale operare una distinzione concettuale fra due termini di lingua inglese, difficilmente traducibili in italiano senza perdere la complessità dei rispettivi significati: emotions (lett. emozioni) e feelings (lett. sentimenti).
Le emozioni (emotions) sono fenomeni biologici innati, geneticamente programmati, mediati dai sistemi subcorticali e limbici, funzionali alla sopravvivenza della specie e basati su segnali non-verbali come mimica facciale, gestualità, postura corporea e tono vocale. Sono in sostanza la componente biologica dell’affetto.
I sentimenti (feelings) sono invece fenomeni psicologici individuali molto più complessi poiché implicano l’elaborazione cognitiva ed il vissuto soggettivo mediato dalle funzioni neocorticali. Tale componente psicologica dell’affetto consente di valutare la risposta emotiva a stimoli esterni ed interpersonali e di comunicare intenzionalmente le emozioni mediante la funzione linguistica verbale ed extraverbale di simbolizzazione. Essi, pertanto, dipendono dalla cultura di appartenenza, dalle esperienze infantili, dalle rappresentazioni di sé e degli altri, da ricordi, fantasie e sogni.
L’alexithymia non indica pertanto individui senza emozioni – che sarebbe impossibile – ma soggetti con un deficit della componente psicologica dell’affetto (feeling), ossia persone che hanno emozioni (emotions) espresse dalle componenti biologiche degli affetti ma con scarsa o nessuna possibilità di ricorrere agli strumenti psicologici (immagini, pensieri, fantasie) per rappresentarle.
La domanda di base del costrutto di alexithymia è pertanto la seguente: come vengono rappresentate simbolicamente le emozioni (emotions) per cui possono essere percepite consciamente come affetti (feelings) e quindi essere individuate, denominate, regolate ed espresse mediante le funzioni di mentalizzazione e le fantasie?

Alexithymia e teoria del codice multiplo della Bucci
Una ipotesi di risposta alla domanda precedente è rappresentata dal Modello del Codice Multiplo (Multiple Code Theory) di Wilma Bucci (1997), una teoria dell’elaborazione mentale degli input che ha molti punti in comune con il costrutto di alexithymia.
Nel modello della Bucci, la elaborazione subsimbolica riguarda tutti quegli stimoli non-verbali (sentimenti, input motori, stimoli sensoriali) che vengono processati “in parallelo”: ad esempio, riconoscere le emozioni nell’espressione facciale altrui o una voce familiare nella confusione di una festa oppure arrivare di testa su un cross al momento giusto e all’altezza giusta giocando a calcio o, per restare su un terreno più professionale, intuire il timing dell’interpretazione al paziente. La elaborazione simbolica non-verbale riguarda invece quelle immagini mentali (un volto, una musica, un’espressione) che, pur presenti alla coscienza, non possono essere tradotte in parole. La modalità simbolica verbale riguarda quel potentissimo strumento mentale mediante il quale l’individuo comunica il proprio mondo interno agli altri e conoscenza e cultura vengono trasmesse da un individuo ad un altro. I tre sistemi, secondo la Bucci, pur essendo governati da principi differenti, sono anche connessi. La Bucci definisce processo o attività referenziale tale complessa connessione bidirezionale dalle emozioni alle parole e viceversa, ed ha anche elaborato strumenti di assessment dell’Attività Referenziale. L’attività referenziale non è una semplice trasformazione lineare dell’emozione da una modalità all’altra ma la connessione di componenti separate di uno schema emotivo che consentono di trasformarne il significato. L’alexithymia è, nel modello della MCT, un deficit delle connessioni referenziali fra le tre modalità di elaborazione degli input.
Nell’alexithymia. le emozioni (modalità sub-simbolica non-verbale) risultano connesse ad immagini (modalità simbolica non-verbale) e parole (modalità simbolica verbale) solo debolmente o per nulla. Esse sono quindi vissute come sensazioni somatiche scarsamente differenziate (con prevalenti manifestazioni fisiche della sintomatologia associata) o impulsi all’azione (con prevalenti manifestazioni psicopatologiche nella sintomatologia associata). In particolare, secondo l’ipotesi di Bermond (1997), quando le connessioni non sono formate per deficit si ha l’alexithymia di tipo I (scarsa consapevolezza ed espressione degli affetti) mentre quando vengono interrotte o disturbate per un processo traumatico, come ad esempio nel PTSD o nelle sindromi dissociative, si ha l’alexithymia di tipo II (normale consapevolezza ma scarsa espressione degli affetti).

Alexithymia e modello cognitivo-evolutivo di Lane e Schwartz
Un’altra ipotesi teorica di risposta alla domanda di base dell’alexithymia è costituita dal modello cognitivo-evolutivo di Lane e Schwartz (1987). Si tratta di un modello di sviluppo dell’elaborazione cognitiva e della consapevolezza delle informazioni provenienti sia dal mondo esterno che dal mondo interno e che prevede 5 livelli di evolutivi di organizzazione:

  • riflessivo sensomotorio: le emozioni vengono inizialmente percepite solo come sensazioni corporee ma sono visibili dall’esterno grazie alle espressioni facciali,
  • recitativo sensomotorio: le emozioni vengono successivamente vissute sia come sensazione corporea che come tendenza all’azione,
  • preoperazionale: in seguito le emozioni vengono vissute non solo somaticamente ma anche psicologicamente, ma sono unidimensionali ed i descrittori verbali usati per esse sono stereotipati,
  • operazionale concreto: viene abbozzata una consapevolezza rudimentale di un insieme misto di emozioni ed il soggetto è parzialmente in grado di descrivere stati emotivi complessi e differenziati come parti delle proprie esperienze soggettive,
  • operazionale formale: piena consapevolezza dell’insieme complesso di emozioni, capacità di operare distinzioni più raffinate fra varie sfumature emotive e di comprendere l’esperienza emozionale complessa negli altri. L’alexithymia potrebbe costituire un arresto evolutivo nella fase di passaggio di tipo pre-operazionale, ossia in quella fase dello sviluppo psicologico in cui la consapevolezza degli affetti non è sfumata ed articolata ma assume le emozioni in modo unidimensionale con caratteristiche esperienziali rigide e dicotomizzate.

Alexithymia e disregolazione affettiva
Elaborata all’interno di una cornice teorica unitaria come quella fornita dal modello evolutivo di Lane e Schwartz o dal modello cognitivo-affettivo di Wilma Bucci, l’alexithymia viene oggi concepita come una dimensione di personalità di predisposizione ai disturbi della regolazione affettiva.
Il concetto di regolazione affettiva non indica semplicemente il controllo delle emozioni ma la capacità di tollerare affetti negativi (noia, vuoto, perdita, angoscia, depressione, irritabilità, rabbia) intensi e/o prolungati bilanciandoli con affetti di tono positivo in modo autonomo, ossia senza ricorrere ad oggetti esterni o acting comportamentali (desideri suicidi, automutilazioni, uso di sostanze, somatizzazione, disturbi dell’alimentazione, disorganizzazione comportamentale, ecc). Implica quindi l’attivazione di vari sistemi reciprocamente interconnessi di elaborazione della risposta affettiva, nelle sue componenti biologiche (neuro-fisiologiche e motorie) e psicologiche (vissuti ed elaborazioni cognitive). Riguarda, inoltre, una dimensione intersoggettiva poiché le relazioni con gli altri forniscono una regolazione interpersonale degli affetti in senso positivo (ad es. induzione di calma e rilassamento) o negativo (perdita, aggressività, tensione).
I disturbi della regolazione affettiva si riferiscono quindi a tutte quelle condizioni cliniche in cui l’individuo non è in grado di utilizzare gli affetti come sistemi motivazionali e di informazione in relazione ai propri stati emotivi ed al rapporto con gli altri.

Prevalenza dell’alexithymia nella clinica
Dalla letteratura emergono due tipi di verifica per l’ipotesi che lega il costrutto di alexithymia a quello di disregolazione affettiva. Il primo proviene dagli studi di prevalenza. Dai dati pubblicati fino ad oggi con le scale di Toronto, è evidente che ci sono due gruppi di patologie in cui l’alexithymia è maggiormente prevalente. Tagliando il grafico dei tassi di prevalenza al 40% di frequenza di alessitimici positivi, emergono nettamente due gruppi. Al di sotto del 40% ci sono disturbi nevrotici (fobici, ossessivo-compulsivi e sessuali) e psicosomatici classici (disturbi cardiovascolari, binge eating, artrite reumatoide, colite ulcerosa e neurodermatiti). Al di sopra troviamo invece disturbi psichiatrici (depressione maggiore, tentativo di suicidio, abuso sessuale, PTSD, disturbi del comportamento alimentare, disturbi dissociativi e di panico) e somatici (cancro della cervice uterina, dolore cronico, ipertensione, utilizzatori frequenti di servizi medici e disturbi funzionali gastrointestinali), ossia disturbi nosologicamente multipli ma accomunati dalla difficoltà individuale di regolare gli affetti mediante strutture cognitive o funzioni di mentalizzazione.

Alexithymia e studi di brain imaging
Il secondo tipo di verifica è dato da studi di neuroimaging. Ad oggi sono state avanzate 3 ipotesi neurobiologiche esplicative dell’alexithymia, tutte coerenti con il modello della disregolazione degli affetti poiché coinvolgono le medesime aree e funzioni cerebrali implicate nella regolazione delle emozioni. Le prime due ipotesi riguardano la specializzazione emisferica, la seconda le relazioni tra aree corticali.
Secondo la prima ipotesi, l’alexithymia è dovuta ad un deficit di integrazione della comunicazione inter-emisferica. Nella seconda ipotesi, strettamente connessa alla prima, l’alexithymia è dovuta ad una disfunzione dell’emisfero destro. Gli studi che hanno esaminato questi aspetti hanno utilizzato stimoli come la localizzazione tattile delle dita, i movimenti oculari laterali coniugati e il riconoscimento di stimoli emotivi. Gli studi hanno dimostrato che, rispetto ai controlli, i soggetti alessitimici:

  • hanno ottenuto punteggi più bassi di localizzazione delle dita mediante l’altra mano (Zeitlin et al, 1989; Parker et al, 1999),
  • maggiore movimenti oculari coniugati verso destra (Parker et al, 1992),
  • punteggio più basso di riconoscimento delle emozioni facciali (Parker et al, 1993; Lane et al, 1996).

Secondo la terza ipotesi, il problema non riguarda la specializzazione emisferica ma la disregolazione della corteccia prefrontale e delle regioni delle aree anteriori (in primo luogo, la corteccia anteriore del cingolo) nel corso della valutazione degli stimoli emozionali. Alcuni studi hanno evidenziato che, rispetto ai controlli, i soggetti alessitimici hanno:

  • una ridotta attività della corteccia cingolata anteriore valutata con la PET quando esposti a film con sequenze connotate emotivamente (Lane et al, 1998),
  • una ridotta attività delle regioni cerebrali anteriori e medio-frontali valutati con la fMRI quando esposti ad immagini connotate emotivamente (Berthoz et al, 2002),
  • una ridotta attività della corteccia medio-frontale dell’emisfero destro mediante l’analisi del flusso ematico cerebrale (rCBF) (Kano et al, 2003),
  • una disregolazione delle regioni corticali anteriori nelle primissime fasi dell’elaborazione degli stimoli emotivi (studio della sincronizzazione delle onde theta con EEG) (Aftanas et al, 2003).

A seguito di queste ricerche, Lane e collaboratori (1997) hanno definito l’alexithymia come l’equivalente emozionale della cecità cerebrale (blindfeel model).
Bisogna naturalmente esprimere molta cautela nell’interpretare i risultati di brain imaging poiché a) sono studi di laboratorio e non in vivo, b) riguardano per la maggior parte soggetti volontari sani, c) sono studi di associazione che non dicono nulla né sulla natura delle associazioni né sulla direzione causale dell’associazione.

Lo stato dell’arte sull’alexithymia
In conclusione, lo stato dell’arte sull’alexithymia può essere riassunto nei seguenti termini:

Vulnerabilità aspecifica.
Contrariamente a quanto si pensava inizialmente (ed a quanto molti continuano a pensare ancora oggi), l’alexithymia non è una categoria psicopatologica associata specificamente alle malattie psicosomatiche ma una dimensione di personalità che predispone aspecificamente a disturbi somatici e psichici della regolazione affettiva.

Dimensione di personalità della disregolazione affettiva.
L’alexithymia è quindi ritenuta un costrutto che abbraccia più sindromi classificate in modo discreto dal DSM-IV nell’Asse I e nell’Asse II. Tali sindromi hanno sintomatologie diverse (e pertanto vengono rubricate sotto etichette diagnostiche diverse dal sistema classificatorio categoriale e basato sui sintomi del DSM-IV) ma la base comune nel deficit individuale di abilità nell’auto-regolazione degli affetti (dai disturbi somatoformi a quelli ansioso-depressivi a quelli del comportamento alimentare all’abuso di sostanze alle patologie funzionali con medically unexplained symptoms). Tale ipotesi consente di spiegare la frequente sovrapposizione diagnostica fra disturbi differenti (che viene invece concepita tradizionalmente come comorbilità).

Deficit dello sviluppo del sé.
Coerentemente con le moderne teorie delle emozioni, l’alexithymia viene concepita come un arresto dello sviluppo che compromette l’uso delle funzioni di mentalizzazione per auto-regolare le dinamiche affettive. Tale aspetto evolutivo consente di spiegare la similitudine con altri costrutti psicologici come la funzione riflessiva, l’intelligenza emotiva e i disturbi dell’attaccamento.

Correlati neurobiologici.
Studi recenti che si avvalgono delle moderne tecnologie di brain imaging hanno consentito di avanzare interessanti ipotesi sull’alexithymia. Soggetti alessitimici hanno evidenziato sia un problema di connessione inter-emisferica (e probabilmente iper-attività dell’emisfero destro) che la disregolazione delle aree prefrontali ed anteriori, soprattutto a carico della corteccia anteriore del cingolo. Si tratta di studi pionieristici, difficili da implementare e interpretare, e sono soprattutto studi di associazione. La strada lungo questa direzione di ricerca è ancora tutta aperta ed estremamente interessante, considerate le connessioni fra funzionamento cerebrale e sistema immunitario e disturbi dell’umore.

Necessità di una valutazione multi-metodo dell’alexithymia.
I risultati maggiori sull’alexithymia sono stati ottenuti in tutto il mondo con le scale di Toronto, considerate gold standard del settore. Tuttavia ci sono numerosi problemi concettuali e metodologici nell’uso delle scale self-report di Toronto e vari gruppi di ricerca (compreso quello di Taylor e Bagby) sono al lavoro per elaborare nuovi strumenti di misura, principalmente scale di etero-valutazione. Sicuramente ci saranno molte novità su questo versante nel prossimo futuro. 6. Trattamento dell’alexithymia.
È la grande incognita. Non si sa se e come si possono trattare i pazienti alessitimici. Fino ad oggi vi sono esperienze e casi clinici sparsi da cui emerge che trattare un paziente alessitimico, indipendentemente dalla sintomatologia, è un compito molto arduo sia per la scarsa capacità di elaborazione mentale che per i sentimenti contro-transferali di noia indotti nel terapeuta. Non vi sono studi controllati però sul trattamento. L’unico studio pubblicato è di un’autrice lituana ed ha mostrato gli effetti positivi della psicoterapia di gruppo in alcuni pazienti post-infartuati (Beresnevaite, 2000).

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Relazione presentata al 1º Convegno Internazionale sull’Addiction L’era dell’eccesso: Clinica e psicodinamica dell’addiction
tenutosi a Palermo il 28-29 ottobre 2004,
organizzato dalla Cattedra di Psicologia Clinica (Prof. Daniele La Barbera) e dalla Cattedra di Psicopatologia dello Sviluppo (Prof. Vincenzo Caretti) dell’Università di Palermo.

Come intendeva l’inconscio Erickson di Dominique Megglè

L’inconscio è inteso da Erickson come un grande serbatoio di risorse: “Associa immagini, sensazioni, idee e simboli secondo rapporti di analogia e somiglianza che hanno fra loro, operando in un presente permanente. Queste catene di associazioni si spezzano e si intersecano, si allacciano e si sciolgono in una complessità che sfida qualsiasi analisi razionale. È questo il motivo per cui Erickson considerò l’analisi freudiana dell’inconscio un’impresa prometeica, irrealistica e inefficace. La complessità dell’inconscio e la povertà dei mezzi del conscio sono tali che è meglio lasciare che sia l’inconscio a disfare ciò che ha fatto. La terapia deve solo fornirgli il contesto in cui farlo. Tanto peggio se non comprendiamo il motivo per cui il paziente sta meglio!” (Dominique Megglé, Psicoterapie brevi, Red Edizioni, 1998 Como, p. 122)

Erickson quindi non insegna alcuna teoria al paziente ma entra nel mondo del malato e mira a comunicare direttamente alla sua mente inconscia secondo il suo linguaggio.
Erickson riprende antiche procedure di guarigione come l’uso delle metafore “Esse aiutano a indurre uno stato ipnotico e a curare il malato. Se, sentendo una storia, il paziente manifesta improvvisamente i segni di una trance, significa che il terapeuta ha raggiunto il cuore del problema. La storia, per essere ipnotica, deve avere rapporti metaforici con il problema in questione, ma soprattutto non deve avere con quello un rapporto razionale evidente, altrimenti la mente conscia se ne approprierebbe per dissertare. Le metafore consentono di aggirare le resistenze che il paziente oppone al cambiamento: sono un modo indiretto di suggerire delle piste di soluzione all’inconscio” (Dominique Megglé, Psicoterapie brevi, Red Edizioni, 1998 Como, pp.125-126).

Anche l’uso di prescrizioni paradossali, di compiti a casa, di rituali, di corvée… ricorda l’agire di un maestro Zen, di uno sciamano oppure di un guaritore. Questi compiti impartiti al cliente da una parte impegnano la mente conscia dall’altra evocano un cambiamento e sono carichi si significati simbolici.

Secondo Erickson il terapeuta deve promuovere il cambiamento tramite questi “inganni” per liberare il paziente dalle limitazioni apprese: “… la coscienza dell’uomo moderno razionalistico gli permette di sfruttare solo in minima parte le sue risorse mentali. Ecco perché l’approccio ericksoniano, a differenza della maggior parte delle psicoterapie tradizionali volte a rendere coscienti i contenuti inconsci, consiste nell’attivare le associazioni inconscie eludendo l’intenzionalità cosciente del soggetto. “Se il suo Io fosse capace di risolvere il problema – fa rilevare Erickson – il paziente non avrebbe bisogno di un terapeuta.” (Walter Oberhuber Ipnosi, FrancoAngeli, 2000 Milano, p. 35)

 

Tratto da Dominique Megglé, Psicoterapie brevi, Red Edizioni

Autoipnosi di M. H. Erickson

Una paziente mi disse: “Io ho una grave nevrosi, ma non posso parlarne con lei, né con nessun altro. La conosco attraverso alcuni amici che sono suoi pazienti. Ma non ho il coraggio di dirle qual è il mio problema. Allora, vuole essere il mio terapeuta?” “Si, in qualunque modo mi sia possibile”, risposi. “Bene, voglio fare così”, disse la donna. “La sera, verso le undici, prenderò la macchina e verrò a parcheggiare nella sua stradina, e immaginerò che lei sia in macchina con me. E allora penserò per bene al mio problema”. Mi pagò due sedute. Non so quante volte passò metà della notte, fino quasi alle quattro del mattino, nella mia stradetta a lavorare al suo problema. Lavorava al suo problema e mi pagò solo due sedute.

Poi mi disse: “Ho risolto il mio problema. Ora, se lei è disposto, collaborerò con lei a del lavoro sperimentale”. Così Linn Cooper [co-autrice insieme a Erickson di Time Distortion in Hypnosis – trad.it. “distorsione temporale nell’ipnosi” in M.H. Erickson, Opere, Vol II, casa editrice Astrolabio] e io la utilizzammo in esperimenti di distorsione temporale in ipnosi. Così in realtà mi pagò, col tempo che mi dedicava.

E io le suggerii di servirsi della trance, quando Linn Cooper e io lavorammo sulla distorsione temporale, a suo proprio vantaggio. Linn Cooper e io eravamo soddisfatti: stavamo ottenendo quello che volevamo. E anche lei penso che ottenne quello che voleva. In questo caso abbiamo un esempio preso alla lettera del motto di Erickson ” E’ il paziente che fa la terapia”. E tuttavia questa paziente aveva bisogno di sapere che Erickson era il suo terapeuta.

Ovviamente la donna non poteva trattare il proprio caso senza un terapeuta. Forse questo bisogno di un’altra persona, un terapeuta (non fosse altro che nella fantasia), conferma l’insegnamento di Martin Buber, quando dice che solo dal rapporto con gli altri possiamo essere appagati e resi capaci di crescere.

Tratto da M. H. Erickson, LA MIA VOCE TI ACCOMPAGNERA’ . I racconti didattici di Milton H. Erickson, a cura di Sydney Rosen – casa editrice Astrolabio

Il linguaggio e l’arte della suggestione di Milton H. Erickson e Ernest L. Rossi

L’arte della suggestione risiede nell’impiego delle parole e degli svariati significati delle parole. Io ho passato molto tempo a leggere dizionari. Quando leggete le varie definizioni che può avere una stessa parola, questo cambia completamente il concetto che avevate di quella parola, e di come può essere impiegato il linguaggio.

Si può correre svelti o vestirsi svelti. Ci sono donne che sono svelte. Prendete la parola cambio. Se cambio parere è cosa molto diversa che se vado in banca e cambio dei soldi, oppure se in diligenza mi fermo alla stazione di cambio. E quando cambio abito, è tutt’altra cosa ancora. Non sto cambiando abito, sto cambiando quello che indosso. E così via. Ci sono tante di quelle parole con molteplici impieghi! Quando cominciate a riconoscerle, potete sapere la differenza tra davvero e davvero (detto in tono più profondo e accentuato).

Davvero detto per davvero significa qualcosa di ben preciso, per un bambino piccolo.

R. Tanta parte dell’arte e della scienza della suggestione risiede nel sapere e nell’utilizzare correttamente questi significati multipli delle parole, nonchè l’accentuazione di voce e la sequenza in cui sono pronunciate.

Tratto da Milton H. Erickson e Ernest L. Rossi, L’ESPERIENZA DELL’IPNOSI. Casa Editrice Astrolabio

Approccio ipnotico con i bambini: Il graffio traumatico di M.H. Erickson

Mi viene in mente di quella bambina mia vicina che un giorno corse a trovarmi perchè sono un medico. Aveva quella che lei pensava essere una brutta grossa ferita sulla gamba, proprio al di sopra del ginocchio. Piangeva, era spaventata, voleva che facessi qualcosa.

Implorava: “Tu sei un medico, devi fare qualcosa per la mia ferita – fa male – è terribile!”

Io le dissi: “Fa un male terribile in quel punto preciso”, e lei disse di si. Faceva un male terribile in quel punto preciso, e io indicai quel minuscolo graffio che vedevo. Poi continuai:

“Fa un male terribile in quel punto preciso. Non fa male qui, a un centimetro a sinistra. Non fa male qui, a un centimetro a destra. Solo proprio in quel punto. E fa male da qui a qui”, e indicai tutta la lunghezza di quel graffio di due centimetri.

La bambina seppe che io capivo davvero la situazione, così poi dissi: ” Adesso possiamo passare al lavoro e far smettere il dolore”.

Mi ero guadagnato la fiducia totale della bambina, perchè mi ero reso conto che la sua ferita le faceva un male terribile. Però non faceva male qui, non faceva male lì. Faceva male solo in quel punto preciso, e da qui a lì. Avevo ristretto l’orientamento della realtà della bambina a quel graffio di due centimetri; cossiché ora noi due potevamo metterci al lavoro e far passare il dolore. Visto che era una bambina, per togliere il dolore bastavano poche parole di suggestione. Non volle nemmeno un cerotto, anche se le offrii la scelta tra vari colori. Il graffio non era poi tanto brutto, era la paura che era bruttissima, ma la paura sarebbe passata.

Orbene, che tipo di trance indussi in lei? Una trance leggerissima, direi, ma per quanto riguardava la sua ferita era una trance davvero molto profonda.

Nella pratica dell’odontoiatria si vuole che il paziente sia in trance molto profonda per quanto riguarda la bocca, ma in trance molto leggera per quanto riguarda altre cose. Per quanto riguarda questo fatto della paura e dell’ansia dovete cercare di focalizzare l’attenzione del paziente attraverso un riconoscimento di questa sintomatologia – delle sue paure e ansie.

Non dovete mai cercare di screditare quella che il paziente sa essere per lui una realtà.

 

Tratto da Milton H. Erickson, GUARIRE CON L’IPNOSI. a cura di E.L. Rossi – M.O. Ryan – F.A. Sharp. Casa Editrice Astrolabio

La medicina psicosomatica: precorritrice delle moderne applicazioni mediche dell’ipnosi di Erickson

L’ipnosi è riconosciuta da molto tempo dalla gente comune, ma la sua storia, in termini di riconoscimento scientifico, è stata piuttosto breve. Questo perché l’ipnosi è stata considerata a lungo una questione di magia, occultismo e superstizione. In realtà, l’ipnosi riguarda meccanismi mentali, e perché la scienza non dovrebbe essere interessata al funzionamento di questi meccanismi? Le cellule cerebrali controllano il corpo in molti modi: neurologici, fisiologici e psicologici.

L’ipnosi entrò realmente a far parte della medicina moderna nel secondo decennio del secolo scorso, quando si iniziò a parlare di “medicina psicosomatica”. Frances Dunbar, la prima a studiarla, fu oggetto di critiche e ostracismo: chi mai avrebbe creduto che le preoccupazioni lavorative o coniugali potessero causare ulcere allo stomaco?

Eppure, il grande pubblico comprese che le preoccupazioni, reali o immaginarie, potevano produrre disturbi fisici e alterazioni fisiologiche. Quando il pubblico accettò il concetto di medicina psicosomatica, anche i medici più scettici furono costretti a prenderlo in considerazione.

Con il riconoscimento dell’influenza del cervello e della mente sul corpo, e con lo sviluppo della medicina psicosomatica, si aprì infine la strada all’ipnosi come tecnica della pratica medica.

(Tratto da Milton H. Erickson, “Guarire con l’ipnosi”, a cura di E.L. Rossi, M.O. Ryan, F.A. Sharp – Astrolabio Editore)

Ricordando Erickson di Jeffrey K. Zeig ed altri

Nel corso degli anni, per comprendere Erickson, ho sviluppato una serie di modelli. Inizialmente ho tentato di capire tutti gli aspetti tecnici della sua terapia: volevo rispondere a domande tipo:”Come si ottiene la trance ipnotica? Quali sono i passaggi che consentono di costruire una tecnica della confusione che si dimostri efficace? Come si prepara la tecnica della disseminazione?”.

Così ho potuto sviluppare una certa abilità nell’applicazione e nell’insegnamento degli aspetti tecnici del lavoro di Erickson.

Quando si acquisisce un grado accettabile di maturità come psicoterapeuta e come didatta si tende a perdere interesse nei confronti di domande concernenti la tecnica e la teoria. In questa fase si inizia, piuttosto, a rivolgere la propria attenzione al “modo di essere” del terapeuta, a quello che si potrebbe definire il suo “stile evolutivo”, o il suo “atteggiamento esistenziale”.

Un simile cambiamento di interesse potrebbe essere efficacemente illustrato dalla differenza che esiste tra due quesiti che i terapeuti si pongono, in fasi diverse della loro maturazione terapeutica. Infatti, mentre agli inizi della sua carriera il terapeuta si chiede come si fa a fare terapia, nelle fasi più avanzate della sua maturazione professionale, il terapeuta inizia a chiedersi come si fa a fare il terapeuta.

Se si prende in considerazione il comportamento di un terapeuta principiante, ci si potrebbe chiedere qual è il suo stile evolutivo, o qual è il suo sviluppo esistenziale. Ci si può anche chiedere quali sono i modi di essere terapeuta che sono indipendenti dai principi e dalle pratiche che si sono scelte e dalle quali derivano le decisioni che si prendono in terapia?

Consideriamo la gamma di interventi che vengono adottati di volta in volta in psicoterapia, questi interventi possono nascere da origini molto diverse: la consuetudine, l’applicazione della teoria, l’esperienza personale, i risultati desunti dalle ricerche. Ma se si prende in considerazione lo “stile evolutivo” del terapeuta ci si accorge che i suoi interventi derivano di più da ciò che è come persona che dalle sue teorie, dalla sua esperienza e dalle sue ricerche. Il nostro atteggiamento può diventare la componente determinante della nostra prassi terapeutica.

[..] lo stile abituale di Erickson era quello di orientare verso un concetto piuttosto che presentare semplicemente un’idea in modo diretto.

Orientare è lo stile con il quale viene confezionato un messaggio come se fosse un dono: il terapeuta decide quali informazioni vuole trasmettere e, invece di presentare il messaggio direttamente, lo confeziona avvolgendolo per esempio, in una metafora, una storia, una forma allusiva di linguaggio, un parabola o un gioco. Grazie a questo stile la psicoterapia può assomigliare al Natale. Come ha sottolineato Michele Ritterman (1983), il dono del paziente è il problema, che spesso è confezionato in forma di sintomo: è compito del terapeuta scartare l’involucro costituito dal sintomo e scoprire il problema in esso contenuto.

 

Tratto da Jeffrey K. Zeig (et al.) STRATAGIE E STRATAGEMMI DELLA PSICOTERAPIA. TECNICHE IPNOTICHE E NON IPNOTICHE PER LA SOLUZIONE, IN TEMPI BREVI, DI PROBLEMI COMPLESSI. Franco Angeli, 2002

Un sintomo più efficace di J. Haley

Venne da me una donna affetta da un’ulcera gastrica; i suoi disturbi l’avevano resa incapace di lavorare, di svolgere attività in casa e di mantenere i suoi contatti sociali. La sua più grande preoccupazione era il fatto di non poter sopportare i suoceri che venivano a farle visita tre o quattro volte durante la settimana; si presentavano improvvisamente e si fermavano per tutto il tempo che piaceva a loro. Feci notare alla donna che poteva non sopportare i suoceri, pur continuando ad andare in chiesa, a giocare a carte con i vicini e a lavorare. Poi parlando dei suoceri dissi: “A lei indubbiamente non piacciono i suoi suoceri, sono un peso sullo stomaco tutte le volte che vengono a trovarla, ma bisognerebbe trovare qualcosa di più utile. Non possono certo pretendere che lei pulisca il pavimento se vomita tutte le volte che vengono a trovarla”.

La donna adottò questo metodo e vomitò regolarmente tutte le volte che i suoceri andavano a trovarla; poi si scusava in tutta umiltà, mentre loro pulivano il pavimento. Appena li sentiva arrivare in macchina nel cortile si precipitava sul frigorifero e beveva un bicchiere di latte. Quando i suoceri entravano, lei li salutava e iniziava a parlare, ma improvvisamente cominciava a sentire mal di stomaco e vomitava.

I suoceri cominciarono a telefonare, prima di andarle a far visita per sapere se stava abbastanza bene per poterli ricevere. Ella disse per un po’ di tempo: “Oggi ancora no” e ancora “Non oggi”. Poi finalmente disse: “Oggi penso di star bene”, ma sfortunatamente commise un errore ed essi furono costretti ancora una volta a pulire il pavimento.

Quella donna aveva bisogno di sentirsi libera; in questa maniera riuscì a togliersi dalla stomaco il peso delle visite dei suoceri e ne fu soddisfatta (si liberò dell’ulcera e fu orgogliosa del suo stomaco: doveva essere uno stomaco veramente forte se aveva potuto cacciar via i suoceri). I suoceri smisero di andarla a trovare per un paio di mesi, poi lei li invitò per trascorrere un pomeriggio insieme. Andarono a trovarla con molta cautela e ogni tanto dicevano: “Forse sarebbe meglio andare”. Quando lei li voleva mandare via bastava che assumesse un’espressione sofferente e si massaggiasse un po’ lo stomaco; i suoceri se ne andavano immediatamente. Così si trasformò da una persona involontariamente passiva in una che poteva prendere un bicchiere di latte dal frigorifero per poter deliberatamente raggiungere il proprio scopo, senza che ci fosse più bisogno di litigare apertamente.

Tutto questo mi fa ricordare quell’ospite che faceva sempre visita all’ora di pranzo, la domenica, nel momento in cui veniva servito il dolce. Fu molto divertente domandargli più volte cortesemente: “Vuoi un po’ di dolce?” fino a quando finalmente capì.

 

Tratto da J. Haley, TERAPIE NON COMUNI. TECNICHE IPNOTICHE E TERAPIA DELLA FAMIGLIA. Casa Editrice Astrolabio

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