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Autore: Hiram

Rebirthing - Esperimenti di Volo

ESPERIMENTI DI VOLO – Svelare sé stessi un respiro alla volta

Ogni volta che ci accorgiamo che qualcosa non va, che vorremmo cambiare e trasformare la nostra vita, ci troviamo di fronte ad un Esperimento di volo: ci piace immaginare che questa condizione sia simile al senso di vuoto che prova un uccellino, il quale, giunto il tempo, sente l’istinto di abbandonare il proprio conosciuto per sperimentare il volo e trovare così le traiettorie della sua esistenza, l’autenticità della propria vita. Il rebirthing transpersonale è una straordinaria tecnica di respirazione che, inserita all’interno di un percorso integrato composto da psicoterapia, meditazione e yoga, permette di risvegliare il nostro potenziale latente. Un respiro alla volta, sentiremo disciogliersi le ansie, i giudizi, le paure e i condizionamenti che ci impedivano di volare.

Enrico Maria Bellucci: Sono amante di tutto ciò che riguarda l’uomo e le relazioni che caratterizzano l’esistenza. Interpreto il ruolo di psicologo e psicoterapeuta sistemico relazionale con la stessa passione di chi ogni giorno intraprende il più bel viaggio che l’uomo possa compiere: quello alla scoperta di sé stessi. Ho integrato gli studi scientifici (Phd in psicologia del lavoro, terapia EMDR) con un approccio transpersonale. Praticante zen e Istruttore Mindfulness, sono da sempre convinto che l’uomo contenga al suo interno tutte le risposte di cui necessita, ma è necessario rieducarlo ad accedere alle sue innate potenzialità latenti. Per compiere questo percorso, la psicoterapia, lo yoga, così come le tecniche di rilassamento, di respiro e meditazione sono gli strumenti fondamentali di ogni viaggiatore. Svolgo la mia professione a Roma e conduco seminari residenziali in tutta Italia.

Francesca Ferrari: Nutro una profonda passione per tutto ciò che riguarda il corpo e il movimento: il corpo come tempio, come specchio della coscienza, come espressione di sé e come ponte tra il visibile e l’invisibile. Ho conseguito la laurea presso l’Accademia Nazionale di Danza di Roma come educatrice coreutica, lavoro come performer, istruttrice yoga e Mindfulness. Ho integrato la mia formazione artistica con un approccio transpersonale che mi ha portato a creare MINDFULDANCE, un nuovo modo di guardare all’educazione coreutica e, più in generale, alla forrmazione artistica. Svolgo la mia professione a Roma e accompagno le persone in percorsi individuali personalizzati e di gruppo. Conduco seminari residenziali in tutta Italia.

EPIGENETICA: conversazione con Bruce Lipton

È giunto il momento di abbandonare le vecchie credenze che la comunità scientifica e accademica e i mass media ci hanno inculcato, per muoverci verso la nuova ed eccitante prospettiva di salute, benessere e abbondanza offerta da questa scienza d’avanguardia: l’epigenetica.

Bruce Lipton dimostra, in modo semplice e appassionante, che ciò in cui crediamo determina ciò che siamo, e non è il nostro DNA a determinare la nostra vita e la nostra salute. Si tratta di una grande rivoluzione della scienza e del pensiero umano, che ci libera dalla prigionia del destino. L’Autore dimostra in maniera inoppugnabile che l’ambiente, i nostri pensieri e le nostre esperienze determinano ciò che siamo, il nostro corpo e ogni aspetto della nostra vita.

L’INTERVISTA
Barbara Stahura: La premessa di base della tua ricerca e del tuo libro, The Biology of Belief, è che il DNA non controlla la nostra biologia. Bruce Lipton:
Sì. Ho cominciato a studiare questo verso la fine degli anni ’60. Da allora la scienza di frontiera ha iniziato a rivelare tutte le cose che avevo osservato. I biologi che fanno ricerca d’avanguardia sono a conoscenza di ciò che dico nel libro. Il pubblico, però, non ne ha comprensione alcuna perché, o gli arriva in forma abbreviata, o quello che gli viene venduto è la credenza che siamo controllati dai nostri geni, sebbene ciò non sia sostenuto dalla scienza d’avanguardia. Tutto il mio sforzo si è concentrato nel far giungere al mondo l’informazione d’avanguardia. L’orientamento mentale del pubblico è stato programmato secondo la credenza che siamo degli automi genetici, che i geni controllano la nostra vita, che ne siamo vittime, e via di seguito. Il punto, però, è che la scienza di frontiera – quella di cui parlo – si è stabilizzata da almeno 15 anni. È ora che sia portata nel mondo perché è lì che viene usata.

BS: Questa scienza relativamente nuova sulla quale tu scrivi viene chiamata epigenetica. Ci spiegheresti di che cosa si tratta?
BL: L’epigenetica è quella scienza che mostra che i geni non si auto-controllano, ma sono controllati dall’ambiente. Si sa da circa 15 anni, e ora fa finalmente fa capolino da dietro l’angolo. Ti faccio un esempio. La Società Americana per il Cancro ha recentemente pubblicato una statistica che afferma che il 60 per cento dei tumori sono evitabili, cambiando stile di vita e dieta. Quest’informazione proviene da un’organizzazione che ha cercato per circa 50 anni i geni del cancro. E ora se ne viene fuori dicendo: è lo stile di vita, non sono i geni. Ci siamo focalizzati sul cancro come se fosse una questione genetica, ma solo il cinque per cento dei cancri ha una connessione genetica. Il novantacinque per cento dei cancri in effetti non ha nessuna connessione coi geni. La ragione (che ci fa dire che c’è una connessione genetica) è che tale spiegazione è fisica, tangibile, perciò preferiamo lavorare su di essa. E il 95 per cento che ha un cancro e non c’è una connessione genetica? Non è facile fare esperimenti su qualcosa sulla quale non puoi focalizzarti fisicamente.

BS: Così il determinismo genetico – l’idea che siamo controllati dai nostri geni – è inevitabilmente incrinata, come dici nel libro.
BL: Sì.

BS: Hai scritto anche di Jean-Baptiste de Lamarck e della sua teoria dell’evoluzione – che sopravviviamo attraverso la cooperazione, piuttosto che la più recente idea darwiniana di competizione e sopravvivenza dei più forti. Che tutti i nostri trilioni di cellule devono cooperare per mantenere il nostro corpo in perfetto funzionamento, in quanto noi esseri umani non possiamo sopravvivere senza grandissime quantità di cooperazione gli uni con gli altri e con il nostro ambiente.
BL: Immediatamente, appena hai detto cooperazione, stavi violando la teoria darwiniana, che è competizione e lotta. Di fatto, si tratta di un’interpretazione erronea. La nuova scienza ci dice che quella credenza è sbagliata. La credenza di cui hai appena parlato, invece – la natura della cooperazione e della comunità – è in effetti il principio basilare dell’evoluzione.Nel 1809 Lamarck ha scritto che i problemi che tormenteranno l’umanità verranno dal suo separarsi dalla natura, e ciò condurrà alla distruzione della società. Aveva ragione, perché la sua enfasi sull’evoluzione era che un organismo e l’ambiente creano un’interazione cooperante. Se volete capire il destino di un organismo, dovete capire la sua relazione con il suo ambiente. Poi ha affermato che separarci dal nostro ambiente significa assumere la nostra biologia e tagliarci fuori dalla nostra sorgente. Aveva ragione. E quando arrivi a capire la natura dell’epigenetica, la sua teoria ora ha trovato sostanza. Senza alcun meccanismo che, all’inizio, le desse un senso – e specialmente da quando abbiamo comprato il concetto dei biologi neo-darwiniani che affermano che tutto è controllato geneticamente – Lamarck sembrava stupido. Ma sai cosa? Aveva proprio ragione.

BS: La tua dimostrazione che il “cervello” della cellula non è il DNA ma, bensì, la sua membrana è affascinante. Che significato ha questa scoperta riguardo a ciò che pensiamo di noi stessi e della nostra vita, dal momento che siamo proprio una comunità di cellule?
BL: Se due cellule si uniscono e stanno comunicando, useranno i loro “cervelli” per farlo, giusto? E se dieci cellule si uniscono, useranno i loro cervelli affinché la loro comunicazione reciproca abbia un senso. Quando prendi un insieme di un trilione di cellule, come in un cervello umano, queste opereranno ancora secondo il principio del cervello cellulare. Beh, quando abbiamo comprato l’idea che i geni ed il nucleo formano il cervello della cellula – che ci porta fuoristrada – e la applichi come fosse un principio di neurologia o di neuro-scienza, ti sei già incamminato nella direzione sbagliata. Non puoi arrivare da nessuna parte perché quello non è il cervello della cellula.
I nostri principi su come funziona l’intelligenza sono stati totalmente sviati. Ecco perché, dopo tanta neuro-scienza, se chiedi a qualcuno: “come funziona, veramente, il cervello?” La risposta sarà: “veramente, non lo sappiamo”.Il Progetto Genoma Umano dice che quel modello è sbagliato. Pensavamo che ci volessero più di 100.000 geni per far funzionare un essere umano. Il fatto che ce ne siano meno di 25.000 ha messo un bastone tra le ruote dell’intero processo.
Come può esserci un tale esiguo numero di geni a formare una cosa così complessa come un essere umano? La risposta è che ci vuole molto di più dei soli geni a farlo funzionare – che è l’apporto dall’ambiente che può alterare la lettura dei geni.
Ci sono 140.000 proteine in un corpo umano, e si credeva che ciascuna richiedesse un gene separato per prodursi. Di colpo, trovi che ci sono 25.000 geni e 140.000 proteine, e non ci siamo con i numeri. L’epigenetica rivela qualcosa di così sorprendente che la scienza stessa ha dei problemi a comprendere la forza di questo nuovo significato, e suona così: con il controllo epigenetico, che significa il controllo mediato dall’ambiente, un singolo gene può essere usato per creare 2000 o più proteine diverse dalla stessa matrice. Il controllo epigenetico è come un lettore che può leggere l’impronta originaria e ristrutturarla per produrne qualcosa di diverso. Ed ecco come un singolo gene può essere usato per creare molti prodotti proteici differenti. Non è stato il gene che ha prodotto ciascuna proteina, è stato il controllo epigenetico che l’ha fatto, e questo è il feedback diretto dall’ambiente. Ci allontana da quel meccanismo che dice che siamo solo macchine.

BS: E ci dice invece che non siamo vittime. Siamo co-creatori.
BL: Assolutamente.

BS: Per tanti l’idea che siano i nostri pensieri a creare la realtà, che è quello su cui si basa la Scienza Religiosa e altre tradizioni metafisiche e spirituali, è un’idea puramente spirituale. Ma la fisica quantistica ha aggiunto all’idea, il fatto scientifico. E ora, il tuo lavoro e quello di altri porta quel concetto a livello delle cellule. Che lo rende in qualche modo più reale, più tangibile.
BL: Se si definisce lo spirito più o meno su questi parametri si potrebbe ottenere una definizione del tipo “una forza motrice invisibile.” Se definisco la natura della meccanica quantistica, è una forza motrice invisibile. Di fatto afferma: “Sì, ci sono forze invisibili che modellano la nostra esistenza”. Poiché la nostra biologia è tradizionalmente basata su un concetto newtoniano e materialistico, la natura di quel sistema è di considerare le forze invisibili come non rilevanti. Però, quello che la meccanica quantistica ha stabilito è che le forze motrici invisibili sono tutto. Perciò, se la nostra scienza non si adatta alla nuova fisica, sta di fatto ostacolando il progresso in evoluzione. Quando si introducono nuove forze, si deve dar loro nuovo credito, e quando lo si fa, i ricercatori spirituali saltano su e dicono: lo sapevo! E i fisici quantistici saltano su e dicono, lo sapevo! Stiamo sempre parlando della stessa cosa. Se lo ammettessimo, l’opportunità di unione diventa così tangibile che è quasi fisica. Sì, possiamo sentirla! Ora possiamo essere tutti d’accordo. Tu la chiami come vuoi, io la chiamo come voglio. Ma siamo tutti governati da queste forze invisibili.

BS: Ho letto una tua intervista nella quale hai affermato, “piuttosto che esser vittime dei nostri geni, lo siamo stati delle nostre percezioni.” Puoi aggiungere qualcosa su ciò che significa essere una vittima delle nostre percezioni?
BL: In un certo senso, sappiamo attraverso lo studio della membrana cellulare, attraverso lo studio dell’epigenetica, che questo è fondamentale. L’epigenetica dice che i segnali ambientali influenzano l’espressione genetica, e questi segnali ambientali talvolta sono diretti, e tal’altra sono interpretazioni, quando per es.le percezioni diventano credenze. Così, ho una credenza su qualcosa, che è una percezione, e aggiusto la mio biologia a quella particolare credenza. Come col cancro terminale, se credo a quello che i medici mi dicono, lo loro diventa una vera e propria predizione. Se dicono che ho il cancro terminale e sono d’accordo, allora essenzialmente morirò quando, a detta loro, accadrà. Quali sono le persone che non lo fanno? I casi di “remissione spontanea.” Almeno una persona, scommetto, non ha “comprato” quella diagnosi. E la sola ragione per la quale ne sono usciti è che avevano un altro sistema di credenze completamente diverso, e quindi sono stati capaci di cambiarlo.

BS: Come possiamo cambiare le nostre percezioni o credenze fino a quel punto?
BL: La prima cosa è acquisire le nuove percezioni di come funziona la vita. Lasciare andare o riconsiderare le percezioni con le quali ci siamo formati, che, inevitabilmente, sono vittimizzanti: sono fragile, l’ambiente mi può attaccare, lo zucchero fa male. Queste sono credenze acquisite. Ma la questione è, sono veramente vere? Sono vere se questo è ciò che credi, dal momento che la percezione governa la biologia. Se sono programmato dalla percezione che lo zucchero è dannoso alla mia biologia e lo mangio, allora essendone a conoscenza intossico il mio sistema con la credenza, non con lo zucchero. La maggior parte di queste percezioni si manifestano come credenze limitanti o auto-sabotanti su quello che possiamo o non possiamo fare. Come l’auto-guarigione.
La tendenza è, no, non ti puoi guarire da solo, devi andare da qualcun altro che ti guarirà. Santo cielo! Dopo parecchi miliardi di anni di evoluzione, il sistema fu progettato per auto-guarirsi. Per quanti milioni di anni gli esseri umani hanno fatto senza medici? Perché abbiamo bisogno di così tanti medici ora? Perché la percezione è che siamo deboli e fragili, ed abbiamo bisogno del loro aiuto. Bene, questa è una percezione.
Quando eliminiamo questa percezione ed iniziamo ad immettere nuove percezioni, allora cambiamo la risposta della nostra biologia al mondo che ci circonda. Man mano che cambiamo le nostre percezioni, cambiamo le nostre risposte. Le percezioni con le quali operi – ti danno sostegno o te lo tolgono? Ti rendono più forte o più debole?Queste percezioni sono nel subconscio, che controlla il 95 per cento della nostra vita. E, quando lo fa, lo fa senza che noi ce ne accorgiamo. Non vediamo di fatto i programmi che sono automatici. Funzionano perché il conscio è occupato, ed i programmi automatici ne prendono il posto.
Quando il conscio è occupato a fare qualcosa, non sta osservando se stesso. Ci sono due fattori che ci aiutano a capire questo. Uno, la mente cosciente opera con un processore da 40 bit, che significa che può interpretare ed elaborare 40 bit di stimoli nervosi – un bit è uno stimolo nervoso – al secondo. Il che significa che entrano 40 stimoli al secondo e la mente cosciente li discerne e li capisce. La mente subconscia in quello stesso secondo sta elaborando 40 milioni di bit. Da rilevare: se confronto l’elaborazione della mente conscia con quella subconscia, la subconscia è un milione di volte più potente nell’elaborare informazioni. Elemento numero due: i neuroscienziati cognitivi dicono che il 5 per cento del nostro comportamento giornaliero è controllato dalla nostra mente cosciente ed il 95 per cento dal programma subconscio. Perciò nella nostra esistenza quotidiana, la mente subconscia è la fonte più potente della nostra biologia. La mente subconscia è un nastro registratore. Non c’è nessuno lì. È praticamente un congegno di stimolo-risposta. Non c’è bisogno di esserne coscienti. Voi ve ne andate in giro per il mondo, e farà quello che deve fare senza che dobbiate pensarci.Quando la mente cosciente è occupata, non sta osservando il subconscio.
Ed il subconscio è composto dai programmi fondamentali che abbiamo ricevuto dagli altri nei primi sei anni. Mentre si vive la vita con le nostre intenzioni e i desideri della mente cosciente, il 95 per cento del comportamento viene dalla mente subconscia, che è stata programmata da altri.E la maggior parte di tale programmazione è veramente limitante. Non ti puoi guarire da solo, non sei abbastanza intelligente, non ti meriti le cose buone, non sei bravo in disegno o quello che è. Queste affermazioni diventano programmi subconsci, che si attivano quando non faccio attenzione. La mente cosciente nella maggioranza è occupata a pensare al futuro o al passato. E se il conscio è occupato in questo, nel momento presente, si è veramente guidati dal subconscio. Il vostro cosciente è occupato a cercare di pensare: “Mi merito un aumento e di certo dovrei salire di grado in questa ditta.” Mentre lo fate di certo, state operando dal subconscio, e quello ha un programma che afferma che non vi meritate le cose. Qual è allora l’espressione del vostro comportamento? Il comportamento che è coerente con “Non mi merito.” Ciò significa che farete degli errori o altro che renderanno legittimo che non vi meritiate le cose. Non ve ne rendete conto perché non l’avete visto all’opera, e diventate frustrati riguardo la vostra vita perché ci provate così tanto ad avere successo e non andate mai da nessuna parte. E poi, ovviamente, la tendenza è, non sei tu, è il mondo ad ostacolarti. La grande e bizzarra sorpresa è che il mondo vi darà qualsiasi cosa. E’ il vostro stesso sé che è d’intralcio.

BS: Come facciamo a vincere l’opposizione della nostra programmazione subconscia?
BL: Diventane cosciente. Ci sono un paio di modi di farlo. Il modo più antico è quello dell’attenzione Buddhista. Se sei cosciente di essere qui in questo momento, mentre fai questo stupido errore, osservi l’errore, e potresti rimediarlo. La consapevolezza, però, è una cosa molto difficile da addestrare, ed è anche un processore da 40 bit che cerca di far funzionare completamente il processore da 40 milioni di bit. Perciò, per la maggior parte della gente è una procedura molto difficile perché le loro vite sono così indaffarate e sono talmente occupati che non riescono a prendere atto di ciò. L’altro modo è, puoi ritornarci dentro e riscrivere il programma, ma ci sono due cose che devi fare: A) Identificare il programma, e B) Eseguire una procedura per riscriverlo. Quello che riflette è qualcosa alla quale la maggior parte della gente non ha fatto attenzione e è da dove vengono la maggior parte dei problemi. Pensano che possono semplicemente parlare alla mente subconscia e che questo la migliorerà. Ma la mente subconscia è un nastro registratore. Mettete un nastro nel vostro mangiacassette, accendetelo, e poi ditegli di riprodurre qualcosa di diverso. Il fatto è, che lì, non c’è nessuno. Non farà niente. Ed il potere del pensiero positivo – la maggior parte della gente dice, il potere del pensiero positivo! Provalo! E quando non funziona si sentono peggio perché non possono neanche fare quello. Perché non funziona? Perché se il programma subconscio non è allineato con la direzione conscia, allora si ha un programma che funziona su un processore di 40 milioni di bit 95 per cento del tempo, che vi tira giù mentre voi impiegate il 5 per cento del vostro tempo nella vostra immaginazione pensando pensieri positivi, mentre il vostro subconscio sta conducendo lo spettacolo e sabotandovi proprio nel bel mezzo dei vostri pensieri positivi.Il pensiero positivo funziona solo se le credenze nel subconscio sono in linea con esso, o se siete completamente attenti. Se siete totalmente attenti ed usate quel desiderio di essere positivi e far funzionare le cose, allora vi accorgerete quando il vostro subconscio sta facendo andare un nastro e voi potete cancellarlo. Ma se non siete attenti e pensate solo pensieri positivi, allora non state conducendo lo spettacolo. Da qui vengono i conflitti. E, ovviamente, se voi foste così positivi nella vostra mente e pensaste che state conducendo lo spettacolo e pensando che non funzioni, ovviamente il mondo vi è contro. No, il mondo non vi è contro, sono i programmi limitanti ed auto-sabotanti che acquisiamo in gioventù. Qui è dove dobbiamo azzerarci.

Rabbia e cervello di Dalai Lama & Daniel Goleman

Il Dalai Lama aveva specificamente chiesto che uno degli argomenti dell’incontro fosse la base neurologica dei tre stati distruttivi conosciuti nel buddismo come i “tre veleni”: la rabbia, il desiderio e l’illusione. Dopo aver discusso il background neurologico, Richie passò adesso al primo “veleno”, la rabbia.

“I testi di psicologia descrivono tutta una serie di tipi diversi di rabbia. Un primo tipo è la rabbia diretta dentro di sè, che di solito indica una rabbia non espressa apertamente. Un altro tipo di rabbia, diretto all’esterno, può sfociare nell’ira. Vi è poi una rabbia associata a certi tipi di tristezza. Un certo tipo di rabbia, infine, può essere trasformato in un impulso costruttivo per rimuovere un ostacolo”.
L’elenco incuriosiva il Dalai Lama. Chiedendosi quale fosse la logica delle categorie proposte da Richie, chiese: “Come sono fatte le distinzioni tra questi tipi di rabbia? Sono soltanto differenze di comportamento o di espressione? O si tratta invece di distinzioni tracciate su altre basi?”.
“Sono fatte sulla base di prove di vario tipo” rispose Richie. “La prima consiste nell’analisi di risposte a questionari appositamente studiati. La seconda dipende da dati sul comportamento, e la terza della fisiologia. Dopo descriverò alcune delle scoperte in campo fisiologico.
“La ricerca ha scoperto che, quando una persona dichiara di non sapere esprimere la rabbia di cui è preda, mostra il modello di attivazione destra del lobo frontale, che è inoltre associato ad altri tipi di emozioni negative. Lo stesso individuo mostra inoltre l’attivazione dell’amigdala. Nei bambini che piangono per un senso di frustrazione, la rabbia è spesso associata alla tristezza – anche tale rabbia è stata associata al modello di attivazione destra dei lobi frontali.
“C’è poi un tipo di rabbia associato a quello che chiamiamo “comportamento di approccio”, laddove qualcuno fa dei tentativi costruttivi di eliminare un ostacolo. Questo tipo di rabbia è stato studiato in vari modi. Se si mostra a un bambino piccolo un giocattolo particolarmente interessante e lo si trattiene nel contempo per le braccia, impedendogli così di giocarci, sulla sua faccia compariranno segni di rabbia in reazione alla situazione. Quando i bambini vengono sottoposti a questa forma di costrizione, mostrano un modello di attivazione frontale sinistra. Ciò è stato interpretato come un tentativo di rimuovere il blocco che li separa dall’obiettivo in modo da raggiungerlo – giocare con quel giocattolo interessante.
“Negli adulti, è stato studiato lo stesso tipo di rabbia in soggetti che stanno tentando di risolvere un problema di matematica particolarmente difficile. Nonostante la componente di frustrazione che comporta la difficoltà del problema, vi è un energico tentativo di raggiungere l’obiettivo risolvendolo. Quando ciò accade, ci troviamo ancora una volta di fronte all’attivazione frontale sinistra. E’ un tipo di rabbia che, in Occidente, potremmo chiamare costruttiva: rabbia associata al tentativo di eliminare un ostacolo.”

Il concetto di rabbia costruttiva ci riportò alle discussioni delle prima giornata sulle differenze tra la psicologia occidentale e quella buddista nello specificare che cosa, in un’emozione, è distruttivo – la rabbia, in questo caso.
Alan spiegò il punto di vista buddista: “Mentre uno è impegnato a tentare di superare l’ostacolo, ad esempio il difficile problema di matematica, sta accadendo qualcosa di costruttivo – stiamo risolvendo il problema. Ma è la rabbia che ci aiuta a risolverlo? Anche se vi è un collegamento, esistono prove certe che la frustrazione, la rabbia, l’irritazione e l’esasperazione siano in realtà d’aiuto a raggiungere l’obiettivo?”.
“Si tratta di una domanda assolutamente cruciale” riconobbe Richie. “La rabbia, al pari di qualsiasi altra emozione, può essere smontata in elementi costitutivi più elementari. Nella rabbia può spesso essere presente una certa qualità che può anche essere presente in stati non di rabbia, e questo è l’elemento costruttivo.”
A quel punto Paul Ekman suggerì: E’ la perseveranza. La rabbia può fornire la motivazione costruttiva della perseveranza al fine di risolvere il problema di matematica anzichè abbandonarlo.”
“Perchè è dunque chiamata rabbia?” chiese il Dalai Lama, vagamente perplesso che una perseveranza costruttiva, anche se nata in reazione alla frustrazione, fosse vista come rabbia. Si trattava di un pensiero estraneo alla categoria buddista della rabbia che, per definizione, implica una distorsione della realtà, uno sfalsamento della percezione che esagera le qualità negative delle cose.
“Si chiama rabbia” rispose Richie “perchè la gente dichiara di essere frustrata, e la frustrazione fa tradizionalmente parte della famiglia della rabbia.”
Quella risposta, apparentemente circolare, non sembrava in grado di risolvere la perplessità del Dalai Lama; (…)
Alan affrontò il problema da un’angolazione diversa. “Nella meditazione buddista c’è una sfida molto difficile, chiamata shinay o quiescenza meditativa. Il problema è come sviluppare la tenacia per arrivarci. Si tratta di sviluppare gioia, fede ed entusiasmo. Un individuo che cerchi di arrivare alla quiescenza meditativa attraverso l’ira, la rabbia, l’irritazione o l’esasperazione, non farà molta strada.”
Ma il Dalai Lama disse: “Non sono del tutto d’accordo con quanto ha detto Alan. Anche nel contesto del buddismo, il senso di disincanto e l’aspirazione alla libertà – lo spirito dell’emergenza – dipendono da quanto è forte la sensazione di intolleranza o di disgusto per il fatto di essere in preda alle afflizioni. Un individuo non sopporta più le sofferenze del samsara, ha perso ogni illusione, è addirittura disgustato – tutto ciò è sano e costruttivo”. (…)

“Vostra Santità, adesso vorrei passare a quella forma patologica di rabbia che può condurre alla furia e alla violenza, spiegando che cosa ne sappiamo rispetto al cervello. Un individuo che presenta una propensione a una rabbia patologica potrebbe essere incapace di anticipare le conseguenze negative dell’espressione estrema della rabbia. Questa incapacità di anticipare quelle conseguenze negative sembra coinvolgere non soltanto il lobo frontale ma anche l’amigdala. Uno studio molto recente mostra atrofia o una drastica riduzione dell’amigdala in persone con una storia di aggressioni gravi.
“L’idea, qui, è che l’amigdala sia necessaria per anticipare le conseguenze negative, mentre le persone che hanno una propensione a forme estreme e patologiche di rabbia non sono in grado di prevedere le conseguenze della loro rabbia. Negli Stati Uniti un uomo di nome Charles Whitman ha ucciso varie persone prima di suicidarsi lui stesso. Sparava da una torre sul campus della University of Texas a Austin. Ha lasciato un messaggio nel quale chiedeva alla società di esaminare il suo cervello alla ricerca di possibili indizi sulla patologia di cui era afflitto. Quando venne fatta l’autopsia, scoprirono un tumore al cervello che premeva sull’amigdala. Sebbene si tratti semplicemente di un rapporto su un caso criminale, anche qui troviamo il suggerimento che ci sia un collegamento forse rilevante tra l’amigdala e l’espressione patologica alla violenza.”

LIBERA DAL MAL DI TESTA DOPO QUARANT’ANNI di Nancy Albertson

La signora S. mi era stata mandata da un agopunturista. Era passata da un medico all’altro per anni con un continuo mal di testa. L’unico momento nel quale non sentiva il mal di testa era quando era sotto anestesia generale o addormentata anche se non poteva dormire molto proprio per il dolore.

Suo marito la accompagnò alla seduta. Durante il colloquio mi spiegò che aveva avuto il mal di testa per quarant’anni. Si ricordava che era cominciato quando si stavano nascondendo dalle SS nella Germania nazista. Suo marito ed i figli erano con lei mentre stava cucinando per la famiglia su di una cucina economica in una stanza senza aerazione e all’inizio aveva pensato che fosse stato il fumo a farle venire il mal di testa.
La sua storia rivelava che la sua famiglia proveniva dalla classe aristocratica. Era abituata a vivere in palazzi, con servitù, meravigliosi abiti ed altri oggetti costosi. Mentre cucinava segretamente dava la colpa a suo marito per aver perso tutto e quando il mal di testa cominciò lei stava imprecando contro di lui.
All’inizio della seduta, era riluttante a chiudere gli occhi. Cominciò allora a respirare e rilassarsi e quando il respiro si fece connesso, allora chiuse gli occhi. La tensione crebbe nel suo viso trasformandole i lineamenti. Quando le chiesi chi sentiva il bisogno di perdonare, rispose: “Me stessa” e cominciò a piangere. Lei in quel momento si attribuiva la colpa di essere stata così dura con suo marito per tutti quegli anni. Quando le dissi che poteva perdonarsi per tutto ciò, si rilassò e respirò con facilità. Il ciclo si ripetè diverse volte con l’emergere della tensione nella faccia e nella testa, verbalizzando il perdono e poi rilassandosi con un’espressione calma.
Al termine della sessione di sedute lei aprì gli occhi e non aveva il mal di testa. Aveva paura di muoversi perchè non voleva che ricominciasse. Lentamente si mosse, si sedette e cominciò a camminare. Andò in bagno e quando ritornò cantava in tedesco. Si mise a ballare per la stanza: il mal di testa se ne era andato per sempre.
Articolo pubblicato su: Healing with Sondra Ray rivisto e adattato dall’autrice.
Nancy Albertson insegna il modo per trovare la nostra missione nella vita cominciando con il richiamare il paradigma scritto nei momenti cardinali della nostra esistenza: concepimento, gravidanza, nascita e prima infanzia. Formatrice di rebirther dal 1989, ha istruito migliaia di rebirther in tutto il mondo. E’ stata infermiera dal 1974 e la sua esperienza professionale è evoluta dalla guarigione esterna a quella interiore attraverso l’esplorazione dello scopo che la nostra anima ha per reincarnarsi. Nancy vive in Virginia (USA) con figlia e marito.

Perchè meditare

La meditazione buddhista di consapevolezza, il cui insegnamento risale allo stesso Buddha e che classicamente va sotto il nome di satipatthana o vipassana, potrebbe definirsi anzi tutto come la contemplazione del corpo e della mente.

II fondamento necessario per questa contemplazione è sia una certa stabilità fisica, vale a dire la corretta posizione del corpo, sia una certa stabilità o calma mentale, la quale richiede naturalmente più tempo per maturare. Tale calma mentale è facilitata dal prestare attenzione a un oggetto semplice come ad esempio il respiro. C’è da osservare che non di rado, nell’ambito dell’odierna diffusione del buddhismo in Occidente, la necessità di questa preliminare stabilità interna finisce con l’essere sottovalutata. Cosa intendiamo con la parola consapevolezza? Intendiamo la pura attenzione silenziosa e non giudicante presente nel momento presente. E contemplare il corpo e la mente vuol dire osservare con questa attenzione le sensazioni fisiche, l’avvicendarsi di attrazione e repulsione nella nostra mente, il succedersi di emozioni e stati d’animo; vuol dire osservare i pensieri e le immagini che accompagnano gli stati d’animo.

Lo scopo più accessibile di questa contemplazione si può racchiudere in tre parole: più pace, più saggezza, più compassione. Lo scopo più alto è la liberazione dalla sofferenza ovvero l’incontro con ciò che “non nasce e che non muore”, con l’Incondizionato che è luce senza misura.

Infatti, contemplando pazientemente, noi ci accorgiamo con sempre maggiore chiarezza e acutezza che la paura, la confusione, l’avversione e l’attaccamento che ci abitano producono una messe abbondante di sofferenza. E ci svegliamo gradualmente al fatto che le radici profonde della sofferenza non stanno fuori di noi, nelle cose, nelle persone, nelle circostanze ma stanno, piuttosto, dentro di noi, stanno cioè nel nostro modo di rapportarci con le cose, le persone (che includono noi stessi), le circostanze e gli eventi.

Vediamo che fino a quando la nostra relazione con tutto ciò è caratterizzata da attaccamento e avversione, ossia dall’identificazione con l’io e col mio, allora, inevitabilmente, gran parte di quello che ci capita non farà altro che alimenta re disagio, insoddisfazione, insicurezza, separazione. Vedendo e rivedendo, alla luce della consapevolezza, questa verità fondamentale – e, insieme, tanto elusiva – comincerà a succedere che attaccamento e avversione prendono a disseccarsi, lasciando più spazio dentro.

Questa maggiore spaziosità e libertà interiore significa più pace. La comprensione della verità fondamentale che la sofferenza è prodotta dal nostro modo di rapportarci alle cose comporta un evidente aumento di saggezza ossia della comprensione di ciò che veramente conta. Infine una maggiore disponibilità agli altri è la conseguenza naturale di questo sostanziale rasserenamento. Vale a dire: più si attenua la preoccupazione circa noi stessi, più emerge la sollecitudine per gli altri.

Un’osservazione importante da aggiungere a tutto questo: la meditazione che abbiamo brevemente descritto non può fiorire granché se è intesa – secondo una certa tendenza occidentale contemporanea – come una sorta di tecnica psicologica autosufficiente. In realtà la meditazione, nel buddhismo così come in altri approcci contemplativi, è parte di un quadro più grande. A tale quadro appartengono, oltre alla meditazione, sia un costante raffinamento etico, nel segno della non violenza e della giustizia, sia la coltivazione di una profonda fiducia spirituale. Quest’ultima si esprime, tipica mente, attraverso la ‘presa di rifugio’ nel Buddha, nel Dharma e nel sangha, presa di rifugio che incornicia e fonda la meditazione. Si prende rifugio nella potenzialità di illuminazione in noi, il Buddha; e quindi nel Dharma, ossia nel cammino interiore temporale e nella sua meta atemporale; e infine nel sangha, ossia nella comunità di coloro che percorrono questo cammino. Prendere rifugio significa dunque affermare la fiducia radicale e, insieme, prendere le distanze dalla miriade di aspettative mondane. Perciò una vera presa di rifugio, cresciuta e maturata, non potrà avere molto a che fare con l’optare per l’ideologia buddhista (intendimento abbastanza corrente del ‘rifugio’): tale opzione sarebbe infatti il semplice abbracciare una credenza e non già il fondare la fiducia nell’assoluto, al di là delle opinioni e dei concetti e della loro carica di separatività.

Infine la meditazione, così organicamente inserita in tale quadro più ampio, e sorretta dunque da etica e da fiducia, potrà pervenire alla sua massima estensione: ossia all’accendersi sempre più frequente della consapevolezza e dei suoi frutti nella quotidianità, ben al di là dei confini della meditazione formale. Questa è una vera e propria arte, che richiede passione e gusto, perché significa imparare a usare le circostanze della vita come luoghi di applicazione della consapevolezza e dunque come stimoli e sfide all’intelligenza della vita, del dolore e dell’amore.
Un risultato poi di speciale rilevanza in termini di religiosità è questo, che più la consapevolezza ci sorregge nel quotidiano più ne avvertiamo il fondamentale mistero, non dissimile dal mistero della preghiera interiore. Il mistero di una dimensione benefica che è più grande di noi e che, al tempo stesso, appare essere la cosa più intimamente nostra.
(DA CONFRONTI, GIUGNO 1995)

CORRADO PENSA
uno dei più apprezzati maestri di meditazione attualmente in attività. E’ insegnante guida dell’Associazione per la Meditazione di Consapevolezza (A.Me.Co.) di Roma e conduce ritiri in Europa e negli Stati Uniti, dove è insegnante senior dell’Insight Meditation Society (Barre, Usa), uno dei più importanti centri al mondo per la pratica meditativa di scuola buddhista. Già docente ordinario di Religioni e Filosofie dell’India all’università La Sapienza di Roma, è stato anche psicoterapeuta junghiano.

Rebirthing transpersonale. Usare le potenzialità del respiro per liberare l’energia, vivere meglio e rinnovarsi

Mentre da millenni nei paesi orientali la funzione della respirazione è considerata d’importanza primaria, nei paesi industrialmente avanzati i metodi di regolazione e controllo ad essa associati sono divenuti oggetto di interesse e di serie ricerche e applicazioni solo di recente.
Dopo essersi soffermato sulla centralità della respirazione e sulle origini e caratteristiche del Rebirthing (rinascita) transpersonale terapeutico, l’autore illustra il suo metodo personale, esemplifica gli ambiti d’intervento dando conto di “casi clinici”, indica i possibili traguardi: non solo la riscoperta delle potenzialità di autoregolazione del proprio respiro, ma anche un ottimale sviluppo bio-psico-spirituale con apertura a una visione cosmica della vita.

Zen e Sessualità di Vajra Karuna

Sin dall’inizio, il buddismo ha sottolineato, nei suoi insegnamenti sul desiderio, che se desideriamo e non otteniamo l’oggetto del nostro desiderio, sperimentiamo l’infelicità. Se desideriamo e otteniamo ciò che vogliamo, all’inizio sperimentiamo la gioia, ma poi diventiamo ansiosi quando ci aggrappiamo all’oggetto del desiderio. E quando lo perdiamo (come è inevitabile, data l’impermanenza), sperimentiamo un’infelicità ancora maggiore.

Qual è il rapporto tra la sessualità di una persona e la sua pratica? Lo zen insegna che ogni cosa è parte di un essere universale, interconnesso e interdipendente. Questo essere è perfetto e completo in quanto tale. Inoltre, secondo lo zen tutti condividiamo questa perfezione, qui e ora. Se accetto ciò, devo ritenere che il mio valore è completo e incondizionato. “Incondizionato” vuol dire senza alcun “se” (condizione).

Il mio valore non dipende dal fatto che mia mamma lo riconosce, gli altri mi approvano, non mi arrabbio, non ho desideri sessuali né, tanto più, inclinazioni sessuali atipiche ecc. Il mio valore non dipende da ciò che dico e nemmeno da ciò che faccio. A prescindere da tutto il resto, il mio essere fondamentale è già il Buddha (l’illuminato). La mia pratica serve a risvegliarmi a questo.

In altre parole, “praticare” vuol dire realizzare la mia integrità presente e la natura non-duale del Buddha, quindi liberarmi dall’autoalienazione o da quel doloroso dualismo chiamato samsara. Per praticare in modo costruttivo, occorre coinvolgere tutto il proprio essere. Se ho un rapporto negativo o mi sento alienato dalla mia sessualità, non sto dando tutto me stesso alla pratica, tanto meno sto accettando il mio valore incondizionato di Buddha.

Nella ricerca della verità, l’importante non è con chi sto facendo o meno l’amore, ma se riconosco sempre il valore incondizionato mio e del mio partner. L’accettazione incondizionata rappresenta l’amore e la morale perfetti.

La tradizione zen affronta la sessualità all’interno della più vasta categoria dell’indulgenza sensuale. La regola generale è evitare l’abuso della sensualità; ciò include sia l’indulgenza eccessiva sia la mortificazione estrema dei sensi. La maggior parte della gente vive negli estremi. Diventiamo obesi perché mangiamo troppo, ci ammaliamo per il cibo troppo nutriente, abbreviamo la vita con l’alcol, la droga e il tabacco, ci assordiamo con la musica a tutto volume, intorpidiamo la mente con divertimenti stupidi e spesso ci stressiamo con lavori che odiamo per poterci vestire secondo l’ultima moda, guidare una nuova automobile e avere la casa più bella dell’isolato.

Facciamo tutto questo, insegna lo zen, perché pensiamo che così il nostro valore o la nostra autenticità aumenteranno; crediamo che queste cose cancelleranno il fatto (di cui ci rendiamo appena conto) che nulla, soprattutto noi stessi, è eterno; riteniamo che se riusciremo a tenere il corpo e la mente abbastanza occupati, non dovremo affrontare la sofferenza della vecchiaia, della malattia e della morte.

D’altra parte, anche privare il corpo e la mente di cose necessarie per conservare la salute o la consapevolezza è un abuso dei sensi. Sia l’edonismo che il masochismo possono essere violazioni della Via di Mezzo.

Comprendere davvero che possediamo già il valore incondizionato della buddità vuol dire riconoscere che il nostro bisogno e desiderio (o passione) più essenziale è già completamente appagato. In tal modo, tutti gli altri desideri vengono riconosciuti come meramente ausiliari e quindi dovremmo riuscire a parteciparvi senza attaccamenti.

Tuttavia, troppo spesso questo insegnamento secondo cui è possibile godere delle passioni restando illuminati è stato frainteso o volutamente distorto nella dottrina secondo cui le passioni e i desideri sono in se stessi l’illuminazione. Tale distorsione è chiamata “zen del gatto selvatico” o del “gatto folle”, ed è garantito che alla fine condurrà all’aumento delle nostre sofferenze.

Il grande errore dell’edonismo è che spesso è molto selettivo. Generalmente, l’edonismo conferisce al sesso uno status sacro, negando che tutte le altre funzioni del corpo siano ugualmente venerabili. Lo zen sostiene che esse sono tutte ugualmente sacre, e quindi nessuna andrebbe considerata in maniera diversa dal normale. La vita può essere adorata come un tutto, ma assegnare al sesso un valore più alto del dovuto è tipico di una falsa spiritualità. Inoltre, la maggior parte dell’edonismo culturale nasce come reazione al puritanesimo sociale o individuale, che provoca sensi di colpa o di vergogna collegati al sesso.

Una spiritualità fondata su una simile reazione è poco sana. Una delle ragioni per cui lo zen si è mantenuto fedele alla tradizione monastica è stata la necessità di contrastare le tendenze del “gatto selvatico”, che portano all’ulteriore illusione secondo cui io sono le mie passioni condizionate, anziché l’incondizionata natura del Buddha al di là di esse. Un’esperienza di illuminazione è un lungo e profondo sollievo dalle nostre sofferenze; l’edonismo, al massimo, non è che un’anestesia superficiale e molto temporanea del dolore.

A proposito della sessualità, la regola buddista tradizionale impone che un laico eviti i rapporti sessuali con i minori, con chi è sposato o fidanzato con un’altra persona e con chi è stato condannato al carcere o ricoverato in una clinica mentale. A parte ciò, la sessualità dei laici è affare loro. Ciò che lo zen chiede è esaminare attentamente le nostre relazioni alla luce degli insegnamenti sulla sofferenza e l’impermanenza. Il sesso può essere facilmente utilizzato per aumentare la sofferenza.

Sin dall’inizio, il buddismo ha sottolineato, nei suoi insegnamenti sul desiderio, che se desideriamo e non otteniamo l’oggetto del nostro desiderio, sperimentiamo l’infelicità. Se desideriamo e otteniamo ciò che vogliamo, all’inizio sperimentiamo la gioia, ma poi diventiamo ansiosi quando ci aggrappiamo all’oggetto del desiderio. E quando lo perdiamo (come è inevitabile, data l’impermanenza), sperimentiamo un’infelicità ancora maggiore. Non è il sesso a provocare il dolore, ma il nostro attaccamento. Solo se sappiamo perdere e ottenere in modo equanime, siamo in pace con la nostra sessualità. Lo zen ci chiede di tenere sempre a mente questo.

La promiscuità è un’altra attività che lo zen ci chiede di considerare attentamente. Stiamo cercando di instaurare una relazione, anche solo per una notte, o vogliamo evitare di impegnarci in un’altra? La nostra attività è una ricerca genuina del giusto partner o è un tentativo camuffato di usare l’altro per sentirci più completi, senza però preoccuparci minimamente dei suoi bisogni?

La prostituzione, in sé, non è condannata nello zen. Quello che una persona fa con il suo corpo è affare suo. Ma ciò che è condannato è lo sfruttamento o il danno inflitto a un’altra persona, anche se quest’ultima è apparentemente consenziente. La compassione verso gli altri non va abbandonata per amore dei desideri sessuali.

Lo zen non dà giudizi morali nemmeno sul sesso finalizzato al piacere, anziché alla riproduzione. Né fa distinzioni tra l’omosessualità e l’eterosessualità, o tra la sessualità cosiddetta naturale e quella innaturale. Perché dovrebbe, quando il suo scopo è provocare una consapevolezza non-duale, quindi priva di giudizio, del Sé, all’interno del quale tutte le distinzioni succitate sono prive di senso?

Lo zen riconosce che la vita laica, in generale, e la sessualità in particolare, possono spesso interferire con il raggiungimento di questo obiettivo: ecco perché incoraggia una stile di vita monastico per coloro che desiderano fare del raggiungimento di tale obiettivo un’attività a tempo pieno. Ma lo zen riconosce anche che la decisione di abbandonare la vita laicale non è pratica e nemmeno necessaria per la maggior parte delle persone. Quindi, lo zen afferma che la nostra relazione sessuale, qualunque essa sia, deve basarsi totalmente sull’amore e il sostegno reciproco.

Rev. Vajra è un insegnante di Zen Dharma all’International Buddhist Meditation Center, www.ibmc.info, per gentile concessione.
Traduzione di Gagan Daniele Pietrini.
Copyright per l’edizione italiana Innernet.

PRESENZA NEL QUI ED ORA di Ajahn Sumedho

Portate la vostra attenzione a questo momento, al qui ed ora. Qualsiasi cosa stiate sentendo fisicamente o emotivamente, di qualsiasi natura essa sia, questo è il modo in cui essa è. Questa conoscenza del modo in cui la cosa è si chiama consapevolezza; è il modo in cui noi facciamo esperienza dell’ora. Prestate attenzione a questo. Quando siamo pienamente coscienti, attenti al qui e ora senza attaccamento, allora non stiamo cercando di risolvere i nostri problemi, non stiamo ricordando il passato o pianificando il futuro. E se stiamo facendo queste cose allora fermiamoci e riconosciamo quello che stiamo facendo. Il non attaccamento significa che non stiamo creando niente di più nella nostra mente; siamo solo presenti. Questo significa riflettere sul modo in cui la cosa è.

Quando pensiamo, facciamo progetti, proviamo paura, facciamo previsioni, abbiamo speranze, ci aspettiamo qualcosa dal futuro, tutto questo avviene qui e ora, non è vero? Sono stati mentali che noi creiamo nel presente. Che cosa è il futuro? Che cosa è il passato? C’è soltanto l’ora, questo momento presente. Allora ci possiamo chiedere: “Che cosa è che conosce?” Noi vogliamo sempre determinare il soggetto. E’ questo il mio io reale? E’ questo il mio vero sé? Questa soggettività, questo porsi delle domande e volere trovare una identità, è anche una creazione nell’ora. Se ci affidiamo al silenzio, non c’è nessuno. Non troviamo nessuno nel suono del silenzio. Tutto il problema finisce.

Quanta concretezza ha un qualsiasi ricordo nel presente? Ha qualche essenza permanente? Il ricordo di una persona è realmente quella persona? Pensate a vostra madre, adesso. Anche se vostra madre è scomparsa tanti anni fa potete comunque pensare “madre” e le percezioni e i ricordi sorgono. Dov’è vostra madre ora, in questo momento mentre voi siete seduti qui e pensate a lei? E’ una percezione nella vostra mente. Sapere che i ricordi e le percezioni vengono create nel presente non è una critica o una negazione, si tratta semplicemente di porre i pensieri nel contesto in cui realmente sono.

Quanta sostanza
un ricordo ha
nel presente?

Spesso noi viviamo nel regno del tempo e dell’io e ci crediamo ciecamente, persi nelle nostre creazioni. Ma vedendo il Dhamma troviamo una via d’uscita da questa trappola mentale. La nostra società crede ciecamente in queste illusioni, quindi non ci possiamo aspettare molto aiuto da questa. Per esempio, a noi piace molto la storia, non è vero? “Voi sapete che il Buddha è realmente esistito. E’ un fatto storico”. E questo ce lo fa apparire reale, perché abbiamo fiducia nella storia. Ma la storia che cosa è? E’ ricordo. Se leggiamo differenti storie sullo stesso periodo di tempo, esse ci sembrano molto diverse. Io ho studiato storia coloniale britannica in India. Un resoconto scritto da uno storico britannico è molto diverso da quello scritto da uno storico indiano. Uno di loro mente? No. Probabilmente entrambi sono onorabili studiosi, ma ognuno di loro vede e ricorda le cose in modo diverso. Il ricordo è così.

E allora quando esaminiamo il nostro ricordo, osserviamo soltanto il fatto che i ricordi vanno e vengono; e quando se ne sono andati, ciò che rimane è la coscienza. La coscienza è ora. Questo è il sentiero, qui e ora, nel modo in cui è. Usate quello che sta avvenendo ora come sentiero, piuttosto che continuare con l’idea che voi siete qualcuno che viene dal passato e che ha bisogno di praticare per liberarsi da tutte le contaminazioni per raggiungere l’illuminazione in futuro. Questo è solo un io creato da voi e nel quale voi credete.

Noi soffriamo molto quando, ricordando il passato, ci sentiamo colpevoli. Ricordiamo cose che abbiamo detto o fatto, o che non avremmo dovuto fare, e stiamo molto male. O speriamo che tutto vada bene nel futuro e poi ci preoccupiamo del fatto che qualcosa possa andare storto. Ebbene le cose possono andare bene come possono andare male. O possono andare in parte bene e in parte male. Qualsiasi cosa può accadere nel futuro. Ecco perché ci preoccupiamo, non è vero? Ci piace andare dai chiromanti perché pensiamo che il futuro può essere tremendo per noi, se non lo conosciamo. Quale sarà il risultato della nostra decisione? Ho fatto la scelta giusta?

Dire “E’ così”
è solo un modo per ricordare
a se stessi
di vedere questo momento
così come è.

La sola cosa sicura del futuro – la morte del corpo – è qualcosa che cerchiamo di ignorare. Il solo pensare alla parola morte blocca la mente, non è vero? Per me è così. Non è particolarmente educato o politicamente corretto, parlare di morte in una conversazione casuale. Che cosa è la morte? Che cosa succederà quando muoio? Il non saperlo ci turba. Ma non lo sappiamo, non è vero? Noi non sappiamo cosa accadrà quando il corpo morirà. Abbiamo diverse teorie – come la reincarnazione o il premio in una rinascita migliore o la punizione in una nascita peggiore. Alcuni sostengono che una volta che si è ottenuta la nascita umana, si possa ancora rinascere come creatura inferiore. E poi c’è la scuola che dice no, una volta che si è rinati sotto forma umana non si può più rinascere come creatura inferiore. O la credenza nell’oblio – una volta che siamo morti, siamo morti. Punto e basta. Nient’altro. Finito. La verità è che nessuno lo sa veramente. Così spesso la ignoriamo o la reprimiamo.

Ma tutto questo succede nell’ora. Pensiamo al concetto della morte nel presente. Il modo in cui la parola morte influenza le nostre coscienze “è così”. Questo è sapere di non sapere nell’ora. E’ non cercare di provare alcuna teoria. E’ sapere: il respiro è così, il corpo così; lo stato d’animo, il nostro stato mentale è così. Questo significa sviluppare il sentiero. Dire “è così” è solo un modo di ricordare a se stessi di vedere questo momento così com’è, piuttosto che essere intrappolati nell’idea che dobbiamo fare qualcosa o trovare qualcosa o controllare qualcosa o liberarci di qualcosa.

Sviluppare il sentiero, coltivare bhavana, non è soltanto meditazione formale che possiamo fare solo in un determinato posto, in certe condizioni, con certi maestri. Questa è soltanto un’altra idea che ci stiamo creando nel presente. Osservate come praticate nella vostra vita quotidiana – a casa, in famiglia, al lavoro. La parola bhavana significa essere consapevoli della mente dovunque voi siate nel momento presente. Io posso darvi consigli per sviluppare la meditazione seduta – tanti minuti ogni mattina e tanti ogni sera – il che è certamente una cosa da tenere in considerazione. E’ utile acquisire una disciplina, prendersi un po’ di tempo nella vita di tutti i giorni per smettere con qualsiasi attività, qualsiasi impulso di obbligo morale, responsabilità e abitudine. Ma quello che ho trovato ad aiutarmi maggiormente è stato riflettere e fare attenzione sul qui ed ora.

Anche se andiamo
in luoghi meravigliosi
non sono poi così diversi.
E’ solo
una nostra montatura.

E’ così facile pianificare il futuro o ricordare il passato specialmente quando niente di veramente importante sta succedendo in questo momento: “In futuro ho intenzione di insegnare in un ritiro di meditazione” oppure “Il mio viaggio in Bhutan è stato una visita veramente particolare in un luogo veramente esotico dell’Himalaya.” Ma molto nella vita non è niente di speciale; è così come è. E anche andare in meravigliosi luoghi dell’Himalaya è così come è – alberi, cielo, consapevolezza; non c’è tutta questa differenza. E’ solo che noi ci costruiamo sopra. Sento anche che la gente soffre molto per le cose che ha fatto o che non avrebbe dovuto fare – errori, crimini, cose terribili dette nel passato. Le persone possono diventare ossessionate perché una volta che cominciano a ricordare i loro errori si crea tutto uno stato d’animo. Tutti i momenti colpevoli del passato possono tornare a galla e distruggere la nostra vita presente. Molte persone finiscono per rimanere bloccate in un vero insopportabile regno infernale che si sono create da sole.

Ma tutto questo succede nel presente, ed è per questo che il momento presente è la porta verso la liberazione. E’ l’ingresso al “Senza Morte”. Risvegliarsi a questo non vuol dire sopprimere, negare, rimuovere, difendere, giustificare, condannare; è quello che è, prestare attenzione al ricordo. “Questo è un ricordo.” è una affermazione corretta. Non è una rimozione del pensiero, ma non lo si sta più considerando con attaccamento personale. I ricordi, se visti chiaramente, non hanno essenza. Si dissolvono nell’aria sottile.

Provate a ricordare una vostra colpa e mantenete il ricordo deliberatamente. Pensate a qualche cosa di terribile che avete fatto in passato, e poi stabilite di tenerlo nella vostra coscienza per cinque minuti. Cercando di continuare a pensarci, scoprirete quanto è difficile da trattenere. Ma quando quello stesso ricordo sorge e voi gli opponete resistenza, ci sguazzate dentro o ci credete, allora può accompagnarvi per tutta la giornata. Tutta una vita può essere riempita di colpe e rimorsi.

Ogni volta che sei
consapevole di ciò
che stai pensando
stai diventando
un esperto.

Così soltanto nel risveglio, vedendo la cosa così com’è, c’è un rifugio. Ogni volta che siete consapevoli di quello che state pensando – non critici, anche se state pensando a qualcosa di veramente brutto o spiacevole – state diventando degli esperti. Questo è ciò in cui potete avere fiducia. Mentre sviluppate questo, acquisite più fiducia. La vostra consapevolezza diventerà una forza più grande delle vostre emozioni, delle vostre contaminazioni, delle paure e dei desideri. All’inizio ci può sembrare che emozioni e desideri siano più forti, che la semplice consapevolezza sia impossibile. Si possono avere soltanto pochi brevi momenti di consapevolezza e poi si torna di nuovo nella tempesta che imperversa. Può sembrare senza speranza, ma non lo è. Più la si mette alla prova, la si investiga, si dà fiducia a questa consapevolezza, più diventa stabile. Gli apparenti poteri invincibili delle qualità emotive, delle ossessioni e delle abitudini, perderanno quel senso di essere la forza più grande. Troverete che la vostra vera forza è nella consapevolezza, non nel controllo dell’oceano, delle onde, dei cicloni e degli tsunami e di tutto il resto che comunque è impossibile per voi controllare. E’ solo nell’avere fede in questo punto – qui ed ora – che si realizza la liberazione.

Dire “è così” significa solo ricordare a se stessi di vedere questo momento così com’è. Anche andare in posti meravigliosi non è poi così differente. E’ solo la costruzione che ci facciamo sopra, rimuovendo, difendendo, giustificando o condannando; è quello che è: un ricordo. “Questo è un ricordo.” è una affermazione onesta. Non è una rimozione del pensiero. E’ che non lo sta considerando con attaccamento. I ricordi, se visti chiaramente, non hanno essenza. Si dissolvono nell’aria sottile.

del venerabile Ajahn Sumedho

© Ass. Santacittarama, 2006. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Traduzione di Gabriella De Franchis.
Fonte web: http://santacittarama.altervista.org/qui_e_ora.htm
Luang Por Sumedho è nato a Seattle, Washington. Nel 1966 si è recato in Thailandia per praticare la meditazione e non molto tempo dopo ha preso l’ordinazione come monaco. Si è messo al seguito di Luang Por Chah e vi è rimasto per dieci anni. Nel 1977 ha accompagnato Luang Por Chah in Inghilterra ed ha aiutato alla creazione del Monastero di Chithurst e poi di Amaravati, dove è attualmente residente.

PRATICARE PER INGENTILIRSI di Corrado Pensa

Il duro e il tenero
Qualche tempo fa mi è capitato di incontrare un gruppo di persone che non vedevo da circa trent’anni. Ciò che mi ha colpito di più è stato l’indurimento che si notava in loro rispetto a quando erano più giovani. Questo irrigidimento si manifestava in modi diversi per ciascun individuo. In un caso era soprattutto amarezza, in un altro prevaleva l’auto-compatimento, mentre una terza persona mostrava segni evidenti di quella che la psicologia definisce rabbia cronica. L’episodio mi ha portato a riflettere sul fatto che la pratica della meditazione va in direzione opposta, nella direzione di una progressiva apertura, elasticità e ingentilimento.

Non voglio dire che se uno non pratica, inevitabilmente finirà per indurirsi col passare degli anni. Posso pensare a individui che, senza alcuna pratica, col tempo si sono ammorbiditi. Tuttavia, mi pare che la tendenza a indurirsi sia piuttosto frequente. Forse è parte del samsara, ma se non ci prendiamo cura di noi stessi percorrendo una via spirituale, facendo qualche tipo di lavoro interiore, è molto probabile che nel corso degli anni dovremo fare i conti con questo indurimento.

Se pensiamo a tutti gli elementi che costituiscono la pratica, vediamo che essi sono fatti per renderci più morbidi, più gentili, più duttili. La metta, la gentilezza amorevole è una pratica di intenerimento; l’equanimità, la consapevolezza, la compassione e la saggezza possono aprirci e scioglierci fino all’impensabile. E tutto ciò è il contrario del processo di indurimento.

La relazione con lo spiacevole
Un’area cruciale ove convogliare la nostra energia di praticanti è la relazione con lo spiacevole. Tale relazione, attraverso la pratica, deve cambiare in modo radicale. La base più importante perché ciò accada è, ovviamente, sviluppare interesse a lavorare con i fatti spiacevoli delle nostre vite. Senza un simile interesse, senza un simile combustibile, non potremo lavorare con lo spiacevole. Al contrario, continueremo a evitarlo con cura e quindi ad aumentare la sofferenza.

Un maestro di Vedanta lo ha detto splendidamente:
Apprezzate tutto, sole e pioggia, salute e malattia. Questo è un approccio rivoluzionario al lato doloroso della vita. Non dite più: “È terribile”. Dite piuttosto: “È molto interessante”. Cancellate proprio dal vostro vocabolario l’espressione “è terribile”, e dite piuttosto: “È interessante e molto prezioso, perché mi farà progredire e mi aiuterà a portare la mia esistenza alla pienezza della vita umana”. E questo svilupperà naturalmente saggezza 1.

Egli continua spiegando che un momento fondamentale nella sua vita fu quando disse a se stesso:
Ho passato quarant’anni della mia vita nel buio, perché non capivo questo punto. E ora, presto, che una situazione difficile possa presentarsi, per farmi mettere immediatamente in pratica quel che ho capito, prima che me lo dimentichi 2.
Naturalmente l’interesse non riguarda la sofferenza o la spiacevolezza, ma piuttosto il lavorare con la sofferenza e con lo spiacevole. Interesse, gentilezza, rispetto, tenerezza: appartengono tutti alla stessa famiglia.

I nostri itinerari educativi per lo più non contemplano alcun addestramento per fare questo tipo di lavoro, il che è una delle ragioni per cui il sangha, la comunità dei praticanti, è tanto importante. Altrimenti ci ritroviamo del tutto isolati in un’impresa così essenziale.

Supponiamo di essere preoccupati. Possiamo osservare gentilmente la preoccupazione? Possiamo essere rispettosamente attenti a una preoccupazione? Stiamo parlando di uno di quei sentimenti dei quali vogliamo solo sbarazzarci e nei confronti dei quali proviamo soprattutto avversione. Inoltre abbiamo la tendenza a identificarci con essi. Ed è impossibile contemplare qualcosa in cui siamo totalmente identificati. Si tratta del classico rapporto sbagliato con lo spiacevole. Attraverso la pratica, tuttavia, possiamo vederlo meglio. E più lo vediamo, più sviluppiamo interesse a lavorarci, fino al punto in cui ci accorgiamo che, in realtà, non c’è alternativa. Quale sarebbe infatti l’alternativa? Soffrire! Anzi, soffrire di più. Allora, rendendoci conto di tutto ciò, la motivazione e l’interesse aumentano e questa è la nostra fortuna, il nostro buon karma. Senza un simile interesse, infatti, non è possibile affrontare le afflizioni mentali (o kilesa), data la loro potenza. Abbiamo perciò bisogno della forza dell’interesse che, come si è detto, appartiene alla stessa famiglia della tenerezza e del rispetto.

Risvegliare la consapevolezza e mantenerla
Nella tradizione meditativa della vipassana si considerano due momenti nell’applicazione dell’attenzione: vitakka e vicara. Vitakka significa connettere, collegare la consapevolezza con l’oggetto, per esempio con il respiro. E vicara significa mantenere la consapevolezza sul respiro. Nel primo momento c’è il connettere, e poi c’è il mantenere: connettere, mantenere, connettere, mantenere. Ora la stessa cosa avviene quando lavoriamo con le situazioni spiacevoli. Primo, dobbiamo risvegliarci a osservare tali situazioni con interesse e gentilezza.
Secondo, dobbiamo imparare a rimanere svegli, rimanere rispettosi, rimanere interessati. A volte diciamo: “Oh sì, ero consapevole. Quando è successo questo fatto, sì, avevo la presenza mentale”. Ma ciò che vogliamo dire veramente è che abbiamo avuto un lampo di consapevolezza. Benissimo. Molto meglio di niente; enormemente meglio di niente. Ma era solo un lampo, solo la connessione, non era il mantenere. Era solo vitakka, ma non vicara.

Perciò, risvegliandoci e imparando pazientemente, un anno dopo l’altro, a rimanere svegli, a rimanere interessati, a rimanere gentili, a rimanere morbidi, a rimanere teneri, cominceremo a riuscire, tra alti e bassi. In fondo questo è il modo in cui impariamo le cose, compresa la meditazione. Se ci pensiamo, vediamo che quello che succede è: consapevolezza, accettazione, più consapevolezza. Ossia diventiamo più consapevoli della sofferenza che è implicita nell’avere una relazione sbagliata con lo spiacevole, sofferenza prodotta dall’identificazione. Avendo maggiore consapevolezza, diventiamo più propensi all’accettazione dello spiacevole, perché abbiamo visto quanto è doloroso indurirsi e resistere.

Spontaneamente, quindi, dalla comprensione nasce l’accettazione o il lasciar andare. E dall’accettazione a sua volta nasce la capacità di maggiore consapevolezza in una situazione difficile. È come un circolo virtuoso. L’essere stati in una posizione di accettazione ci rende più motivati a risvegliare la nostra consapevolezza, perché accettazione e consapevolezza sono due dimensioni molto vicine.

Nel processo di irrigidimento succede l’opposto. Dalla mancanza di consapevolezza di tutta la sofferenza che creiamo derivano paura e non accettazione, il che riduce ulteriormente la consapevolezza. Si tratta di effetti ‘a palla di neve’ in due direzioni opposte. Una porta a più condizionamento, l’altra porta al decondizionamento.

La libertà dell’accettazione
Per esempio, supponiamo di avere contemplato gentilmente e rispettosamente la nostra impazienza il più possibile. E abbiamo visto tutta la sofferenza che creiamo, mentre siamo intenti a dare la colpa a qualcos’altro. Un giorno, finito il lavoro, aspettiamo un autobus che ci porti a casa. Immaginiamo che l’autobus sia in ritardo, forse molto in ritardo, e forse non è la prima volta. Quello che potrebbe accadere, con nostra sorpresa e sollievo e diletto, è di ritrovarci a dire un sì pieno al fatto che l’autobus è in ritardo. Non che la cosa ci faccia piacere, ma ci troviamo ad accettare pienamente il fatto che l’autobus sia in ritardo. E in tal modo gustiamo un senso di libertà. Naturalmente non ci piace la cosa, ma siamo in grado di dire sì alla realtà, e la realtà è che l’autobus è in ritardo. Non dovrebbe esserlo, ma lo è.

L’autobus che arriva puntuale esiste ora solo nella nostra immaginazione. La realtà è che l’autobus è in ritardo, quindi noi semplicemente siamo tutt’uno con la realtà. Non ci spacchiamo in due con un rammarico pieno di tensione e risentimento. Semplicemente abbracciamo la realtà così com’è. E questo può essere come un grido interiore di libertà, questa capacità di dire sì alla realtà così com’è.

Possiamo ampliare lo scenario, questa sequenza di eventi quotidiani. Infatti può capitare che quando l’autobus finalmente arriva sia incredibilmente pieno. E a stento riusciamo a entrare. Ancora, possiamo dire un sì totale a questo fatto? Sapete, un autobus semivuoto è, di nuovo, solo nella nostra immaginazione. L’autobus è incredibilmente pieno, e questo è la realtà. Il senso di spaziosità e libertà che possiamo sperimentare è proporzionale alla nostra capacità di dire di sì alla situazione, a una situazione relativamente difficile. Simultanea-mente stiamo dicendo no alla prigione della nostra reattività: ecco il gusto della libertà. Una volta tanto non ci stiamo condannando alla sofferenza, alla sofferenza non necessaria, come facciamo abitualmente. E forse, quando finalmente arriviamo a casa, abbiamo appena messo un piede sulla porta che qualcuno ci dice qualcosa di spiacevole; è possibile!

Ma se siamo riusciti a tenere la finestra aperta finora, non ci siamo contratti e abbiamo detto sì al primo evento e sì al secondo, allora non saremo amaramente induriti. E forse possiamo dire un terzo sì, con nostra completa gioia. Il che non significa, naturalmente, che non diremo niente se pensiamo che invece sia necessario farlo, ossia che non diremo ciò che riteniamo giusto, ma la grande differenza è che la nostra risposta verrà dalla pace, invece che dalla reattività. Saremo perciò anche più convincenti, oltre che più in pace.

È ben possibile educarci in un simile modo. Ed è la ragione per cui pratichiamo. Tre piccoli incidenti come questi possono essere utili per educarci a una maggiore duttilità. Ma gli stessi incidenti, non accompagnati dalla pratica, facilmente sono destinati ad avere l’effetto opposto.

Ora c’è una trappola insidiosa quando ci accostiamo a questo tema. E la trappola è questa: le piccole cose – l’autobus e così via – possono sembrarci situazioni troppo comuni, troppo poco importanti. Noi, invece, vogliamo imparare ad affrontare situazioni veramente difficili. Supponete però che abbiamo appena iniziato a studiare l’inglese. Dopo poco tempo diciamo: “Ma io voglio leggere Shakespeare. Non voglio fare gli esercizi di grammatica. Non voglio perdere tempo a tradurre queste frasette brevi e piuttosto stupide”. Sappiamo tutti che questa è un’assurdità, che abbiamo bisogno di questo lavoro di base se vogliamo leggere Shakespeare. In termini di pratica, l’esercizio fondamentale è, in primo luogo, la meditazione seduta. In termini Zen, la pratica di base sviluppa quello che in giapponese si chiama jiriki, termine che designa quella energia che deriva da anni di pratica seduta. Essa si traduce in fiducia, in motivazione, nella capacità di praticare e di vivere.

In secondo luogo è necessario esercitarsi con tutta la varietà di piccoli incidenti che avvengono durante il giorno. È una pratica enormemente importante. Pensiamo a ciò che avviene spesso in un tempo molto breve. Ci svegliamo al mattino, per esempio, e in breve abbiamo già accumulato un certo numero di no, un certo numero di irrigidimenti. La prima cosa che pensiamo è che non abbiamo terminato un lavoro la sera prima. Non ci piace la cosa e non ci piace nemmeno il fatto che sia brutto tempo. Inoltre non ci piace l’idea che dovremmo andare alla banca che è molto lontana dal nostro posto di lavoro, e così via. Ognuna di queste reazioni potrebbe essere un luogo per esercitarci, potrebbe essere un invito a rilassarci invece di contrarci. E nel caso in cui ci contraiamo, ci è offerta allora un’occasione per contemplare la contrazione e per infondere un po’ di tenerezza dentro la contrazione.

Ma questo lavoro ha bisogno di spazio interno, e parecchio spazio può venire dalla pratica seduta. Abbiamo un sentimento così angusto riguardo al tempo nella nostra società che spesso perdiamo molte occasioni di praticare per il semplice fatto che è sempre tardi. In un ritiro forse ci rilassiamo, finalmente, ma poi torniamo a casa ed è di nuovo sempre tardi. Anche il modo in cui parliamo è indice di questa mentalità. “Farò un salto per un secondo…” perdiamo perfino il senso dell’umorismo. È come se fossimo costantemente inseguiti da qualcosa o qualcuno.

L’attaccamento all’avversione è attaccamento alla sofferenza
Forse siamo molto diligenti nel meditare ogni mattina, ma appena la seduta è finita, entriamo in questo folle ritmo mentale, in questa forma di sofferenza. Fondamentalmente, chiudiamo la porta alla consapevolezza per il resto della giornata. È come se le dicessimo: “Arrivederci alla prossima seduta”. E questo è un grosso ostacolo per il lavoro di cui parliamo, il lavoro di diventare più duttili.

Poiché la tua mente è abituata a indugiare nella negatività anche se accade qualcosa di piccolo, per esempio una piccola agitazione, tu immediatamente l’afferri, e a causa del tuo attaccamento, la trasformi in qualcosa di molto più grande. In tal modo permetti a un fatto irrilevante di portare molta infelicità nella tua vita. Tendi a dare la colpa della tua infelicità a qualcosa di esterno, ma in effetti tu stesso hai creato questa sofferenza perché sei attratto dalla sofferenza 3.
Sentendo questo forse potremmo protestare, dire: “No, non è vero! Io non sono attratto dalla sofferenza”. Ma che dire dell’attrazione per l’avversione? Anche questa è attrazione per la sofferenza e non dovremmo avere difficoltà a metterci in contatto con essa dentro di noi! A volte siamo molto bravi nel praticare e ricordare il Dharma in situazioni positive o neutrali, il che è un bel passo avanti. Perciò ora c’è un nuovo importante elemento nelle nostre vite, dato che ci ricordiamo del Dharma quando la situazione è buona o neutrale. Senonché quando la situazione diventa difficile, non c’è verso! È come se continuassimo a fare qualcosa che ci fa sentire sicuri, ma evitassimo ciò che ci sembra rischioso. In un certo senso, è come se continuassimo ad andare al liceo e non entrassimo mai all’università perché ci sentiamo sicuri al liceo. Una delle ragioni di ciò è che siamo attratti dalle ruminazioni negative. C’è una sorta di eccitazione nel sentirci indignati, nel sentirci furiosi, nell’alimentare quel fuoco dentro di noi. E non vogliamo lasciarla andare. Sentiamo che la consapevolezza mette in pericolo questo piacere piuttosto discutibile, e perciò evitiamo con cura la consapevolezza. Il fatto è che non vogliamo deporre la nostra dipendenza mentale dalla collera, dall’irritazione, dall’avversione e da tutto ciò che la nostra mente è solita dire quando divampano queste emozioni. Ci pare di ricavare una qualche energia da tutto ciò, e non vogliamo lasciarla andare.

Penso che il punto cruciale sia l’auto-importanza, l’importanza data a se stessi. Quando parliamo di io-mio, parliamo di auto-importanza. Se ci critichiamo, se abbiamo un’autostima molto scarsa, anche questa è auto-importanza. Affoghiamo letteralmente nell’auto-importanza. Se diciamo auto-importanza, magari pensiamo solo al fatto di vantarsi o simili. Ma l’auto-importanza è una dimensione molto più vasta, e comprende tante forme di autoriferimento. Perciò eccitarci nella nostra avversione è auto-importanza. Letteralmente, è come se ci sentissimo più importanti se siamo arrabbiati. A volte è come se non volessimo perderci nemmeno un’occasione per arrabbiarci.

Tuttavia più vediamo che l’attaccamento all’avversione è una grande fonte di sofferenza, più è probabile che la nostra auto-importanza comincerà a ridursi. E allora entreremo in contatto con qualcosa di completamente diverso che potremmo chiamare dignità fondamentale, la dignità di un essere umano, di un essere vivente. E questo non ha niente a che fare con l’io-mio; è qualcosa di molto più basilare, più calmo, più semplice. Non abbiamo bisogno di ubriacarci di avversione una volta che siamo entrati in contatto con questa dignità fondamentale; a questo punto non abbiamo più bisogno di droghe.

Quando cominciamo a sperimentare un po’ di questa dignità fondamentale, allora il lavoro interiore diventa più facile: la possibilità di accettare, la possibilità di ingentilirci, diventa più accessibile, perché non siamo più ubriachi di auto-importanza. Non abbiamo bisogno di tutti questi espedienti, siano essi rabbia o attaccamento. A misura che riusciamo a cambiare la nostra relazione con lo spiacevole, la tenerezza che è in noi — tenerezza che è sia amore sia intelligenza — aumenta. E questa è decisamente una buona cosa.

1. A. Desjardins, Toward the fullnes of life, Putney and Brattleboro, 1990, p. 29.
2. Ivi.
3. Gyatrul Rinpoche, Ancient Wisdom, New York 1933, p. 33; trad. ital. Un’antica sapienza, Ubaldini, Roma.

Tratto da “Buddhism Now”, vol. IX, Maggio 1997. Traduzione dall’Inglese a cura di Franca Zucalli.

CORRADO PENSA
uno dei più apprezzati maestri di meditazione attualmente in attività. E’ insegnante guida dell’Associazione per la Meditazione di Consapevolezza (A.Me.Co.) di Roma e conduce ritiri in Europa e negli Stati Uniti, dove è insegnante senior dell’Insight Meditation Society (Barre, Usa), uno dei più importanti centri al mondo per la pratica meditativa di scuola buddhista. Già docente ordinario di Religioni e Filosofie dell’India all’università La Sapienza di Roma, è stato anche psicoterapeuta junghiano.

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