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Autore: Hiram

Krishnamurti: la conoscenza di sé, la consapevolezza e la comprensione di “ciò che è”.

Per conoscere se stessi, per apprendere il funzionamento del proprio pensiero, bisogna essere straordinariamente vigili e iniziare così a sviluppare una sensibilità sempre maggiore al complesso intrico dei propri pensieri, reazioni e sentimenti, una maggiore consapevolezza non solo di se stessi, ma anche degli altri, di coloro con cui si è in rapporto. Conoscere se stessi vuol dire studiare se stessi nell’azione che è rapporto. (…)

Quanto più conoscete voi stessi, tanto più c’è chiarezza in voi. La conoscenza di sé non ha mai termine. Man mano che lo studio di sé procede e va sempre più in profondità, si trova la pace. (…)

La comprensione di sé è il vedersi attimo per attimo nello specchio dei rapporti. I rapporti con la proprietà, le cose, le persone, le idee (l’idea è il risultato del processo del pensiero, e il processo del pensiero è la risposta della memoria, e la memoria è sempre condizionata).(…)

Per comprendere ciò che è bisogna osservare i propri pensieri, i sentimenti e le azioni, attimo per attimo. Questo è il “reale”. Qualunque altra azione, ideale, o ideologia non è il “reale”, ma semplicemente un desiderio, un’aspirazione illusoria a essere qualcosa di diverso da ciò che è. (…)

Comprendere ciò che è richiede uno stato mentale in cui non siano presenti né identificazione, né condanna, il che implica che la mente sia vigilie e tuttavia passiva. (…)

Solo quando si riesce ad andare oltre il groviglio delle idee (che costituiscono l’io, la mente), allorché il pensiero è completamente muto, solo allora si saprà cos’è la verità. (…)

Dopo tutto è questa la verità: avere la capacità di accostarsi ad ogni cosa come se fosse la prima volta, attimo per attimo, senza i condizionamenti del passato, di modo che non ci sia l’effetto cumulativo che agisce come barriera fra se stessi e ciò che è. (…) Se non c’è più alcuna credenza con cui la mente si identifichi allora la mente, priva di identificazione, è capace di guardare a se stessa così com’è: e a quel punto, sicuramente, si ha un primo barlume di comprensione si sé. (…)

Quando accettiamo ciò che è senza evitarlo, senza condannarlo o giustificarlo, ogni contrasto è pienamente acquietato. (…) Ci vuole consapevolezza di sé in azione. Osservatevi mentre agite, non solo esternamente: seguite il movimento dei vostri pensieri e sentimenti. Vi accorgerete che il processo di tale movimento del pensiero, che comprende anche sentimento e azione, si basa su un’idea in divenire. Questa sorge quando c’è un senso di insicurezza, che a sua volta emerge quando si è consapevoli del vuoto interiore. (…)

Se siete consapevoli dei processi del pensiero e del sentimento vi accorgerete che c’è una costante battaglia in corso , uno sforzo per cambiare, per alterare, per trasformare ciò che è. E’ questo sforzo per diventare qualcosa, per evitare ciò che è che genera sofferenza, dolore, ignoranza. (…) Esiste una consapevolezza che non è del pensiero: è sufficiente essere consapevoli delle attività del sé, senza condannare o giustificare, semplicemente essere consapevoli. (…)

Deve esserci una determinazione a scoprire, a esplorare il processo dell’essere, il che significa essere pronti a recepire ogni implicazione ogni cenno, essere consapevoli delle proprie paure e delle proprie speranze, esplorale ed essere liberi, sempre più liberi. (…)

Quando riconoscete che ogni movimento della mente non è altro che una forma di rafforzamento del sé, quando lo osservate, lo comprendete, quando siete del tutto consapevoli che il sé è in azione, quando arrivate a quel punto (non ideologicamente o a parole), allora vedrete che la mente essendo ormai completamente immobile, non ha potere di creare. Quando la mente è non-creatrice, allora si ha la creazione.

Estratto da:
J. Krishnamurti – La ricerca della felicità – Ed. Rizzoli R.C.S. Libri
© 1992 Krishnamurti Foundation of America
© 1997 R.C.S. Libri S.p.A., Milano

Krishnamurti: l’amore

(…) Cos’è l’amore? La parola è talmente falsata e contaminata che non mi va granché di usarla. Tutti parlano di amore – ogni rivista e ogni giornale, ogni missionario parla incessantemente di amore. Amo il mio paese, il mio re, qualche libro, quella montagna, il piacere, mia moglie, Dio. L’amore è una idea? Se lo è può essere coltivata, nutrita, accarezzata, comandata a bacchetta, alterata come volete. Quando dite di amare Dio cosa significa? Significa che amate una proiezione della vostra immagine, una proiezione di voi stessi sotto certe spoglie di rispettabilità secondo quello che credete sia nobile e santo. (…)
L’amore può essere l’ultima soluzione a tutte le difficoltà, i problemi e le pene dell’uomo, dunque come faremo a scoprire cos’è l’amore? Limitandoci a definirlo? La chiesa lo ha definito in un modo, la società in un altro, e c’è una gran quantità di deviazioni e di interpretazioni sbagliate. Adorare qualcuno, dormirci insieme, lo scambio emotivo, l’amicizia – è questo quello che intendiamo per amore? (…)
L’amore può essere diviso in sacro e profano, umano e divino, o c’è solamente amore? L’amore appartiene a uno e non a molti? Se dico, “Ti amo”, esclude forse ciò l’amore dell’altro? L’amore è personale o impersonale? Morale o immorale? E’ qualcosa di intimo o no? Se amate l’umanità potete amare il particolare? L’amore e un sentimento? E’ una emozione? E’ piacere e desiderio? Tutte queste domande indicano – non è vero? – che abbiamo delle idee sull’amore, idee su ciò che dovrebbe e non dovrebbe essere; un modello o un codice maturato nella cultura in cui viviamo. Così per approfondire la questione di cosa sia l’amore dobbiamo come prima cosa liberarci dalle incrostazioni dei secoli, mettere da parte tutti gli ideali e le ideologie su ciò che dovrebbe o non dovrebbe essere. Dividere qualsiasi cosa in quello che dovrebbe essere e in ciò che è, è il modo più ingannevole di vivere. Dunque, come farò a scoprire cos’è questa fiamma che chiamiamo amore – non per esprimerlo a qualcun altro ma per sapere cosa esso sia in se stesso? Come prima cosa devo respingere quello che la chiesa, la società, i miei genitori e amici, quello che ogni persona e ogni libro ha detto su di esso, perché voglio scoprire da solo cosa è. (…)
Il governo dice: “Va’ e uccidi per amore del tuo paese”. È amore questo? La religione dice: “Dimentica il sesso per amore di Dio”. E’ amore questo? L’amore è desiderio? Non dite di no. Per la maggior parte di noi lo è – desiderio e piacere, il piacere che è derivato dai sensi, dalla attrazione sessuale e dalla soddisfazione. Non sono contrario al sesso, ma cercate di vedere cosa in esso sia implicato. Quello che il sesso vi dà momentaneamente è il totale abbandono di voi stessi, poi finite per ritornate alla vostra confusione e così volete ripetere e ripetere quello stato in cui non c’è preoccupazione, problema, io. (…)
L’appartenere a un altro, l’essere psicologicamente nutrito da un altro, dipendere da un altro – in tutto ciò deve esserci sempre ansietà, paura, gelosia, colpa, e finché c’è paura non c’è amore; una mente oppressa dal dolore non saprà mai cos’è l’amore; il sentimentalismo e l’emotività non hanno assolutamente niente a che fare con l’amore. E così l’amore non ha niente a che fare con il piacere e il desiderio. L’amore non è un prodotto del pensiero che è il passato. Il pensiero non può assolutamente coltivare l’amore.
L’amore non è limitato o intrappolato dalla gelosia poiché la gelosia appartiene al passato. L’amore è sempre attivo presente. Non è “Amerò” oppure “Ho amato”. Se conoscete l’amore non seguirete nessuno, l’amore non obbedisce. Quando amate non c’è rispetto né irriverenza. Non sapete cosa realmente vuol dire amare qualcuno – amare senza odio, senza gelosia, senza rabbia, senza volere interferire con quello che l’altro fa o pensa, senza condannare, senza far paragoni – non sapete cosa vuol dire? Dove c’è amore c’è paragone? Quando amate qualcuno con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutto il corpo con tutto il vostro essere c’è paragone? Quando vi abbandonate completamente a quell’amore allora non c’è l’altro. Forse che l’amore ha delle responsabilità e dei doveri e ne fa uso? Quando fate qualcosa al di fuori del dovere, c’è amore? Nel dovere non c’è amore. La struttura del dovere in cui l’essere umano è intrappolato lo va distruggendo. Finché sarete costretti a fare qualcosa perché è vostro dovere non amerete quello che fate. Quando c’è amore non c’è dovere o responsabilità. (…)
Se ci fate caso potete vedere che tutto ciò accade dentro di voi, Potete vederlo con pienezza, completamente, in uno sguardo, senza sprecare tempo a farci su delle analisi. Potete vedere in un momento l’intera struttura e natura di questa piccola cosa senza valore chiamata “io”, le mie lacrime, la mia famiglia, la mia nazione, la mia fede, la mia religione – tutte queste brutture sono dentro di voi. Quando ve ne renderete conto con il cuore non con la mente, quando ve ne renderete conto dal più profondo del cuore, allora avrete la chiave che potrà mettere fine al dolore. (…)
Quando chiedete cos’è l’amore, potreste essere troppo spaventati per vedere la risposta. Essa potrebbe significare un cambiamento radicale; potrebbe frantumare la famiglia; potreste scoprire di non amare vostra moglie o vostro marito o i vostri bambini – no? – potreste dover distruggere la casa che avete costruito, potreste non tornare più al tempio. Ma se volete ancora scoprirlo, vedrete che la paura non è amore, che dipendere non è amore, la gelosia non è amore, la possessività e il desiderio di dominare non sono amore, la responsabilità e il dovere non sono amore, l’autocommiserazione non è amore, l’angoscia di non essere amato non è amore, amore non è l’opposto di odio più di quanto umiltà non sia l’opposto di vanità. (…)
E così siamo arrivati al punto: può la mente incontrare l’amore senza bisogno di disciplina, pensiero, sforzo, senza alcun libro o maestro o guida – incontrarlo come si incontra un bel tramonto? (…)
Una mente che ricerca non è una mente appassionata e incontrare l’amore senza cercare è l’unico modo per trovarlo – incontrarlo ignari, e non come risultato di uno sforzo o di una esperienza. Questo amore, scoprirete non appartiene al tempo; questo amore è sia personale che impersonale, appartiene sia ad uno che a molti. Come per un fiore profumato che voi potete odorare o trascurare. Quel fiore è lì per chiunque, anche per colui che si prende la pena di odorarlo profondamente e di guardarlo con piacere. Sia egli molto vicino nel giardino o molto lontano, per il fiore è la stessa cosa, essendo ricco di quel profumo lo distribuisce a tutti. L’amore è qualcosa di nuovo, fresco, vivo. Non ha ieri né domani. E’ al di là della confusione del pensiero. Solo la mente innocente sa cosa sia l’amore, e la mente innocente può vivere nel mondo che innocente non è. E’ possibile scoprire questa cosa straordinaria che l’uomo ha cercato eternamente, nel sacrificio, nell’adorazione, nel rapporto, nel sesso, in ogni forma di piacere e di dolore, solamente quando il pensiero arriva a comprendere se stesso e giunge naturalmente a fine. (…)
Potete leggere queste parole ipnotizzati e incantati, ma andare al di là del pensiero e del tempo realmente – cioè andare al di là del dolore – vuol dire essere consapevoli che c’è un’altra dimensione chiamata amore. Ma non sapete come raggiungere questa straordinaria sorgente – cosa fate dunque? Se non sapete che fare, non fate niente, non è vero? Assolutamente niente. Allora intimamente voi siete nel più completo silenzio. Capite cosa vuoi dire? Vuol dire che non cercate non volete, non andate a caccia di qualcosa; non c’è assolutamente un centro. Allora c’è amore.
Estratto dal libro:
J. Krishnamurti – Libertà dal conosciuto – Ed. Ubaldini Editore – Roma
© 1969 Krishnamurti Foundation London
© 1973 Casa Editrice Astrolabio – Ubaldini Editore, Roma

Meditazione sulla gratitudine

Quando la mente e il cuore, dopo un lavoro di vari giorni, godono di più chiarezza e più apertura, allora una parola come gratitudine può risuonare in maniera diversa, più luminosa del solito. Proprio perché la gratitudine è intrinseca all’apertura, un cuore più aperto significa un cuore più facilmente grato. Si può dunque parlare di gratitudine per un ritiro, di gratitudine nei confronti del sangha, ma soprattutto di gratitudine fondamentale, di gratitudine radice, di quella forma di sentire che per eccellenza unisce: la facilità all’essere grati, la facilità a sentire gratitudine.

L’estate scorsa ho praticato con un maestro cinese. Qualcuno in una sessione di domande e risposte chiese come si può insegnare ai bambini il non attaccamento e il maestro Shen Yen rispose: “Insegnando la gratitudine”.

La facilità alla gratitudine come polo opposto al dare tutto per scontato, che è una forma di indurimento, una forma di chiusura, a volte penosamente cronica. La facilità alla gratitudine è il contrario del sentirsi dolorosamente in credito, di sentire spesso – o sempre e comunque – di non essere abbastanza, di non avere abbastanza, di non ricevere abbastanza: grandi sofferenze, che la pratica ci aiuta progressivamente a comprendere e a sciogliere. E naturalmente questi scioglimenti piccoli o grandi ci suscitano gratitudine.

La consapevolezza è una grande compagna della gratitudine, la consapevolezza, soprattutto quando è come un passo felpato, ci fa notare con grande tranquillità tutto quello che riceviamo, ce lo fa scoprire naturalmente, non ci tiene una lezione, ce lo fa scoprire con naturalezza, a cominciare dal cielo e dal sole che riceviamo. L’elenco è senza fine e la consapevolezza grata ce lo fa percorrere con gioia.

Al termine del ritiro con il maestro Shen Yen, ci fu una cerimonia che mi coinvolse e mi colpì molto: veniva enunciato qualche cosa di cui si era grati, una selezione da questo elenco infinito. Veniva suonata una campana e quindi tutti ci prosternavamo completamente al suolo, esprimendo così con tutto il corpo la gratitudine. Ed era come se questa gratitudine raggiungesse una completezza particolare.

Prescindendo naturalmente dalla gratitudine convenzionale, pensando solo alla gratitudine vera, la frase: “Ti sono grato”, detta o ascoltata, è una frase di grande felicità, di evidente amore. E vive dentro di noi. Sotto gli strati e le croste dell’attaccamento, dell’avversione, c’è questa tenerezza dentro di noi. A volte occorrono anni perché ci venga il sospetto che al fondo di tutto ci sia questa tenerezza illimitata, ma basta quel sospetto per renderci molto più felici. Potremmo doverci giostrare mille attaccamenti, mille avversioni, mille confusioni, ma sapere che c’è quella tenerezza dalla quale sgorga la gratitudine ci ripaga ampiamente. Va crescendo la naturale prontezza alla gratitudine per piccole, piccolissime cose. Ma la gratitudine non è piccola: l’occasione è piccola per i criteri convenzionali, un saluto, una telefonata, un incontro, l’improvviso presentarsi di un bosco dopo una curva. La prontezza alla gratitudine. La capacità di meravigliarsi e dire grazie. Grazie, grazia, gratitudine.

Ci sono limiti agli oggetti della gratitudine? Si può essere grati per le difficoltà che incontriamo, per gli attacchi, gli insulti, le calunnie che riceviamo, gli incidenti che ci succedono, le malattie piccole o grandi che ci capitano, si può essere grati? O la gratitudine, l’elenco della gratitudine non include queste occasioni? Le include, soprattutto se siamo praticanti: è una gratitudine più difficile, più lenta a emergere e spesso è una gratitudine non immediata, bensì a posteriori. Ma è sempre gratitudine. E perché gratitudine? Perché è difficile – io penso impossibile – imparare la generosità senza imbattersi tante volte in mancanze di generosità, nostre o altrui. Non si può imparare la pazienza senza attraversare con qualche consapevolezza tanti episodi di impazienza nei quali cadiamo. Se non ci fossero questi episodi di ingenerosità, questi episodi di impazienza, i fatti o le persone che sono cause occasionali di questa nostra reazione, noi non avremmo la possibilità di alcun tirocinio in profondità, per scavare in questa essenziale purificazione.

Quando cominciamo a capire, a capire di più, a capire meglio, a capire ancora, a capire ancora di più, allora questa gratitudine, che è così paradossale, così controcorrente, così incomprensibile per l’io, questa gratitudine comincia a farsi sentire ed è un fortissimo vettore di apertura. Allora ci coglie la gioia davanti all’imprevedibile: essere grati a qualcosa che ci ha turbato, che ci ha fatto male, ci ha mortificato, frustrato, depresso. Perché noi, mischiando la nostra consapevolezza con quella sofferenza, ci siamo potuti entrare più a fondo, averne meno paura, cominciare a trascenderla, avere un lampo di compassione. Mentre in una ipotetica condizione di pace continua, di pace fortunata (non raggiunta col lavoro interiore) non avremmo avuto questi fondamentali approfondimenti.

Possiamo utilmente ricordarcelo quando incappiamo in qualcosa che non ci piace, che ci fa soffrire: è inutile sforzarci di essere grati, ma ricordiamoci che questa occasione, se la affrontiamo secondo la pratica, diventa un seme fecondo di gratitudine, anche se non lo sentiamo la prima volta, anche se non lo avvertiamo subito. E allora la lista, la lunga lista, comprende anche queste occasioni, da un certo momento in poi ed è una svolta delle più cruciali nel cammino interiore.

Noi possiamo veramente dire di avere incontrato un cammino, di essere pienamente in cammino, quando cominciamo a toccare queste dimensioni nuove, che non appartengono al nostro bagaglio precedente. E questa vasta, vastissima potenzialità di gratitudine diventa poi un fermento, un sostegno, per sviluppare la compassione davanti a tutto quello che è male, è orrore, è ingiustizia, è violenza rivolta a tanti che non hanno nessuno strumento di lavoro interiore. Non si può ovviamente essere grati davanti alla violenza, ma qui non è la gratitudine che è chiamata in causa, quanto piuttosto la compassione, e la compassione non appartiene a un’altra famiglia, la compassione è sostenuta dalla capacità di essere grati, diciamo che se c’è l’una c’è l’altra e viceversa, sono entrambe forme di apertura del cuore.

Alla fine di un ritiro è tradizione dedicare il merito, l’energia sviluppata attraverso la meditazione, a qualcuno, a qualche causa nobile. Ognuno di noi può farlo: “Dedico il merito, l’energia, o la virtù…” e lasciamo che l’apertura del cuore ci dica a chi o a cosa.

Che tutti gli esseri possano essere felici, liberi da sofferenza, liberati.

La chiusura e l’apertura del cuore

Quando diciamo: “Mi ha aperto la mente”, ci riferiamo a qualcosa di vantaggioso ma di limitato – limitato alla comprensione intellettuale. Quando invece parliamo di apertura del cuore parliamo di una cosa più radicale, più coinvolgente, più totale. E forse non è un caso che nel linguaggio spirituale di tante tradizioni il cuore sia il centro. Dice Ajahn Mahaboowa: “Il Dharma è una meraviglia che sboccia nel cuore”. E in altre tradizioni Dio si incontra nel cuore.
Noi usiamo a tanti livelli questo linguaggio. Per esempio, diciamo: “All’improvviso, ho visto Tizio e mi si è aperto il cuore”. Oppure: “A causa di quell’avvenimento mi si è aperto il cuore”. Fa riflettere, perché l’implicazione sembra essere che il cuore tende più a essere chiuso che aperto. C’è dunque un grato trasalire quando usiamo questa espressione, un sollievo. Sollievo da che cosa? Da uno stato di chiusura, appunto.

Chiusura, costrizione, angustia, blocco, qualcosa ristagna, qualcosa non fluisce, qualcosa ci fa soffrire.

Nell’apertura, anche se siamo nella sofferenza, c’è invece qualcosa che ci ravviva, qualcosa che ci nutre. Al contrario, nella chiusura, anche se siamo in una situazione di non particolare sofferenza, c’è qualcosa che ci spegne, c’è qualcosa che ci toglie vita. Non c’è qualcosa che dà più vita, che dà vita alla vita, come nell’apertura del cuore.

La chiusura più forte naturalmente è la chiusura che non sappiamo di avere. Possiamo essere chiusi, possiamo essere in uno stato di chiusura del cuore, di blocco, di spegnimento, di paralisi e non sapere che siamo in questa situazione, o scambiarla per unsituazione e risponderci o rispondere sinceramente a qualcuno che ci chiede come stiamo: “Bene” e pensare che siamo in uno stato non particolarmente scintillante, ma tutto sommato sereno, tutto sommato equilibrato, con forse una punta di equanimità: a tal punto possiamo fraintendere questo nostro blocco.

La chiusura che non sa di essere tale è difficile da lavorare. E infatti uno dei primi e più importanti doni della pratica è proprio quello di renderci più consapevoli di questi stati di chiusura e, naturalmente, anche degli stati di apertura. Perché il sapere di essere chiusi è il primo passo per poter lavorare sulla chiusura. Per esempio, per incontrare la riluttanza, la riluttanza a praticare. La riluttanza a fare cose che ci fanno bene e l’attaccamento, invece, a questa camera chiusa, l’attaccamento a rimanere in questa camera chiusa. Forse è un attaccamento antico, un attaccamento che fa sì che ci sentiamo più noi stessi se rimaniamo chiusi nella stanza. Se è tale, esso richiederà un lavoro particolare, un lavoro sempre più appassionato.

La paura di perdere, se ci apriamo. La paura di perdere l’intelligenza, se smettiamo di condannare. Un forte giudizio o un grappolo di giudizi è spesso a fondamento di uno stato di chiusura. Una forte condanna per inadeguatezza nei nostri propri confronti è spesso il fondamento di uno stato di chiusura. Come pure sensi di colpa, paura, rabbia: portano a chiuderci, portano a stati di sofferenza.

La chiusura della depressione, la chiusura della tristezza, la chiusura del risentimento, la chiusura dell’invidia. Si può parlare di essere afferrati dall’invidia, dall’inadeguatezza, dalla colpa e, al tempo stesso, essere aperti? È una contraddizione di termini.

Ma vogliamo questa chiusura? Di nuovo – la grande contraddizione – una parte di noi è attaccatissima agli specifici stati di chiusura tipici della nostra personalità condizionata, e un’altra parte, quella che ci fa praticare e aspirare alla liberazione, quella parte non vuole essere chiusa.

Ma occorre un lavoro paziente, un lavoro lungo per conoscere la chiusura, per entrare dentro la chiusura, per sentirne il dolore, per entrare in comunicazione con l’aspirazione ad andare oltre la chiusura. I risultati piccoli, graduali, spesso danno più garanzie di risultati improvvisi e clamorosi. Può darsi che un’apertura straordinaria che ci ha rimescolato in senso positivo, che ci ha riempiti di sereno, di un sollievo come mai l’avevamo sentito, sia poi seguita, nei giorni successivi o nei mesi successivi, da chiusura, da qualcosa che non ci aspettavamo. Il valore più grande di una apertura forte è che essa ci darà comunque motivazione, soprattutto se non ci inganniamo prendendola come definitiva. Motivazione per continuare poi il lavoretto di pazienza, il lungo, sempre più affezionato, sempre più appassionato lavoro di apertura.

Pensiamo a piccole aperture del cuore: possiamo immaginare una scala via via più alta, fino a un’apertura del cuore così totale, così radicale e così irreversibile che non è altro che la liberazione. E cos’è che chiude il cuore? Inevitabilmente l’attaccamento, l’avversione, la confusione, con tutte le loro varianti. E dunque la liberazione si configura come totale e irreversibile apertura del cuore, perché la liberazione è il superamento definitivo di attaccamento, avversione e confusione.

Ricordiamo l’insegnamento cardine delle quattro verità sulla sofferenza: la chiusura è sofferenza, questa sofferenza è causata dalle nostre rabbie e dalle nostre paure ed esiste la possibilità di superare questa sofferenza e le sue cause, applicandosi a un percorso interiore. E certamente in tale percorso un posto particolare ha la meditazione, la consapevolezza e dunque la capacità di cominciare ad avere una relazione diversa con la chiusura.

Essere in relazione con la chiusura è molto diverso da una cieca e totale identificazione con la chiusura. Diciamo che se siamo completamente sprovveduti dal punto di vista del lavoro interiore, noi cadiamo nella chiusura ogni volta che la chiusura decide di farsi avanti, cioè l’identificazione è completa, noi cadiamo nella botola senza colpo ferire. Ma se siamo praticanti cominciamo a vedere la chiusura, a risvegliarci alla chiusura, a sentire la separatività e la sofferenza che porta la chiusura.

Continuando a praticare, continuando ad ascoltare gli insegnamenti, cosa succede a un certo punto? Che vediamo che c’è un’altra possibilità, quella di guardare in maniera compassionevole alla nostra chiusura. Il risveglio della compassione per le nostre chiusure: questo è un grande passo avanti. Se sapere di essere chiusi, di avere delle chiusure, è il primo passo fondamentale per poterci lavorare; se sentire, percepire con chiarezza la sofferenza della cecità che si accompagna alla chiusura è il secondo passo, un terzo passo vitalissimo è quello di cominciare a rapportarci alle nostre chiusure con un atteggiamento compassionevole.

Può darsi che sia un attimo, che questo attimo di compassione, di amicizia, sia subito ricoperto dalla sostanza stessa di quella chiusura che non tollera la compassione. Ma quell’attimo di compassione è il seme di un’intenzione salutare.

Un atteggiamento compassionevole che tende a diventare più frequente è il contrario di chiusura. Se continuiamo ad alimentarlo, la chiusura comincerà a sciogliersi.

Ma dobbiamo essere non solo pazienti, non solo perseveranti, non solo tranquillamente fedeli alla pratica, dobbiamo non aver paura. C’è una famosa mudra, posizione delle mani del Buddha, che è la posizione della non paura, non paura di fare questo lavoro, perché può suscitare paura. Perché si sente che si incrinano i fondamenti della identità egoica, di quella che noi riteniamo fondamentale e che mettiamo al centro della nostra vita. Avere il coraggio, il coraggio di prendersi in mano, il coraggio di custodirsi, il coraggio di prendersi cura. C’è spesso autocompatimento nella chiusura, sotto l’autocompatimento magari c’è una rabbia sorda verso di noi, verso gli altri e tanta paura.

È un volere che tutto resti così, pur essendo così pesante, così amaro.

A volte le persone lasciano perdere un cammino interiore, proprio perché sentono che c’è qualche cosa che vuole entrare in queste chiusure, in questa inclinazione a chiudersi. Ma senza le nostre tipiche chiusure temiamo di diventare qualcosa di indistinto.

Non si tratta di rifiutare e condannare la chiusura, né si tratta di avallare e giustificare la chiusura: questi modi, piuttosto frequenti, di trattare con la chiusura non ci fanno uscire fuori dal circuito della sofferenza, non ci fanno cambiare la relazione con la sofferenza della chiusura. Quello che ci fa cambiare la relazione con la chiusura è la consapevolezza. La consapevolezza che non ha paura della durata della chiusura, che non ha paura del peso della chiusura, perché la consapevolezza è attenzione non giudicante e quindi la portiamo nella maniera più innocente possibile a questa stretta che sentiamo, a questo rifiuto verso noi stessi, verso quella persona, verso quella cosa. Non andiamo con un carico di opinioni a guardare questa chiusura, con un carico di etichette e di giudizi, perché anche questa è un’espressione di chiusura. Vegliamo il più possibile senza sapere niente: la consapevolezza.

E da questo non rifiutare, non avallare può nascere qualche cosa di bello: la compassione, appunto. Non c’è compassione senza comprensione, non c’è comprensione senza consapevolezza. Consapevolezza comprensione compassione è un tutt’uno. Consapevolezza comprensione compassione uguale apertura. Dal lavoro sulla chiusura, dal lavoro paziente, progressivamente più coraggioso sulla chiusura, nasce l’apertura più affidabile, perché siamo passati pazientemente, coraggiosamente, consapevolmente, compassionevolmente attraverso la strettoia, attraverso la chiusura.

La pratica è pratica di apertura del cuore. La pratica è studio il più possibile accurato della chiusura del cuore. Per accedere al cuore nuovo di cui si parla nella tradizione giudaico-cristiana, occorre diventare esperti del cuore duro, del cuore di pietra di cui si parla nella medesima tradizione.

A volte il termine essere chiusi, chiudersi è assolutamente appropriato, ma può diventare scontato, ci può tenere sulla superficie della cosa, farci pensare “come si chiude così si apre”. Ma il termine nodo, nodo del cuore, forse è più preciso, perché il nodo, il nodo stretto richiede un certo lavoro per essere sciolto. La liberazione significa sciogliersi, sciogliersi da questa tendenza alla chiusura, sciogliersi dall’attaccamento alla chiusura. Certo ci sono cose che fanno male, ma – ci insegna il Dharma – esiste la possibilità di sentire il colpo, di sentire il male e di non annodarsi, di non chiudersi.

Dunque, cominciamo ad aspirare a essere aperti e a rimanere aperti. Quest’apertura suscita in noi apprezzamento, cioè ulteriore apertura, soprattutto se è una cosa relativamente nuova delle nostre vite. Rimaniamo aperti, non diciamo no, diciamo sì. Il sì aiuta, il no blocca. Anche se siamo chiusi per qualche sbaglio obiettivo che abbiamo fatto, questa chiusura, questo no, ci rende tutto più difficile. E il fatto di stare in spirito di apertura, invece di accettare, facilita anche in ultima analisi l’azione giusta.

Stare con le cose, continuare a stare, è una lezione cruciale della pratica ed è una disposizione che induce l’apertura del cuore, proprio perché sviluppa il balsamo della pazienza. Non voler stare con le cose, starci a fatica, starci per forza, starci e volersene andare o andarsene in continuazione sono tutti segni di chiusura. E parlo anche e soprattutto di stare in situazioni difficili. Stare significa essere presenti, essere consapevoli. All’inizio ci sembra una via impervia, una via senza speranza, ci sembra che stiamo facendo in realtà un lavoro di rassegnazione, incomprensibile, ma ci deve essere la voce piccola o piccolissima dell’intuizione fiduciosa che ci dice di continuare e continuare: a stare nella pratica, a stare nel Dharma, a stare in quella situazione con la pratica, con il Dharma, con la consapevolezza che si accende e si spegne, con la nostra capacità di accettazione e di lasciar andare che a volte ci soccorrono, altre volte ci lasciano, ma noi continuiamo.

La piccola voce dell’intuizione, la piccola luce della fiducia ci guidano, anche se non sono sempre così chiare. E c’è qualcosa che a un certo punto è come se cominciasse a screpolarsi, a squagliarsi, a dischiudersi. È diverso dall’improvviso sfolgorare di una gioia che ci apre il cuore perché abbiamo incontrato questo, perché è successo quest’altro.

È qualche cosa di molto più lento e graduale, ma che quando comincia a succedere è meno effimero, è un’impronta più profonda. Perché noi di fatto in questo stare comunque, in questo stare stare stare comunque, non abbiamo fatto altro che nutrire fedelmente, devotamente, un’intenzione. L’intenzione di non lasciare la pratica, l’intenzione di non lasciare noi stessi, come così spesso facciamo, l’intenzione di non rimanere freddi nei nostri confronti, ma, al contrario, di stare, cioè di starci vicini. E questa intenzione coltivata, nutrita, a un certo punto comincia a dare i suoi frutti. Forse in un momento imprevisto, forse appunto quando noi non ce l’aspettiamo, forse quando proprio non ce l’aspettiamo più, ma abbiamo continuato a stare, siamo rimasti seduti davanti alla porta chiusa, tranquillamente, consapevolmente e la porta si è aperta. Quella porta che, come dice Simone Weil, sembra aprirsi solo dall’interno.

L’apertura del cuore è dentro di noi, la chiusura del cuore è dentro di noi, il lavoro è dentro, gli effetti sono dentro, le intenzioni si coltivano dentro.

Sicché col tempo nasce un senso di sereno disincanto nei confronti dell’attaccamento al cuore chiuso, di fronte alla coltivazione dell’intenzione di rimanere chiusi, fatta in mille modi, con mille giustificazioni, consce o inconsce, ma così nutrita nel tempo. In virtù della pratica, vedendo più e più volte questa casa fredda, questa casa abituale fredda che ci vogliamo tenere a tutti i costi, ci nasce dentro una salutare stanchezza riguardo al coltivare cose che vanno contro di noi e contro i nostri simili.

Anche perché forse abbiamo cominciato a percepire che gli altri sono veramente nostri simili e questo non va molto d’accordo con la chiusura del cuore, chiusura che vede soprattutto sofferenza, separazione, contrasto, minaccia. Quando questa musica comincia a cambiare, quando cominciamo a sentire l’interconnessione, allora la strana mania, la strana fissazione di chiuderci comincia a non piacerci più, non la capiamo più, non ci crediamo più e non ci sembra vero di trovare occasioni, anche piccole, per aprirci. E non abbiamo paura di cercarle, non abbiamo paura di soffermarci su di esse.

Se siamo chiusi, le piccole cose non le vediamo, le consideriamo dall’alto, ma non sarà così se abbiamo capito qualcosa di fondamentale. Piccolo, grande, tutto è vita, tutto può richiamarci alla possibilità di aprirci: sia una cosa piacevole, sia una cosa spiacevole possono essere vettori di apertura del cuore. La cosa piacevole suscitandoci un lieto, quasi fanciullesco apprezzamento. E la cosa spiacevole accendendo in noi sollecitudine e compassione. Entrambe possono essere vettori dell’apertura del cuore. Ci sono situazioni che sembrerebbero non essere né piacevoli né spiacevoli: stati di noia, stati di aridità. Ma abbiamo la pratica per aprirci dentro l’aridità. Stare nell’aridità senza impazienza che se ne vada, senza contare i minuti, riposarci nell’aridità, riposarci nella noia, distenderci ben svegli nel letto della noia, questo è un grande dono che la pratica ci può fare. Allora tutto è combustibile per l’apertura del cuore. Questa è la grande lezione della pratica, la grande lezione del Dharma: l’enorme speranza e fiducia che nasce dall’accorgercene, cosicché non ci sentiamo più sempre in bilico, alla mercé della fortuna, alla mercé del caso, alla mercé di quello che ci capita. Ci può capitare tutto, secondo la legge dell’impermanenza, ma noi possiamo rispondere a tutto in modo giusto e tale risposta non è la reattività, bensì, appunto, la capacità di apertura.

CORRADO PENSA
uno dei più apprezzati maestri di meditazione attualmente in attività. È insegnante guida dell’Associazione per la Meditazione di Consapevolezza (A.Me.Co.) di Roma e conduce ritiri in Europa e negli Stati Uniti, dove è insegnante senior dell’Insight Meditation Society (Barre, Usa), uno dei più importanti centri al mondo per la pratica meditativa di scuola buddhista. Già docente ordinario di Religioni e Filosofie dell’India all’università La Sapienza di Roma, è stato anche psicoterapeuta junghiano.

Attaccamento ed equanimità

DOMANDE E RISPOSTE CON CORRADO PENSA
Abbiamo deciso di pubblicare quasi integralmente la sessione di domande e risposte che si è svolta durante il ritiro della scorsa estate a Pomaia, perché a volte questa modalità consente un approccio più immediato ad alcune questioni che vengono considerate cruciali dai praticanti nel corso del cammino interiore.
È ovvio che proprio perché si tratta di temi importanti e complessi non è possibile che vengano esauriti in un tempo così circoscritto.

L’attaccamento porta sofferenza ed è comunque una cosa sbagliata. Ma come si fa a non essere attaccati a un figlio o alla vita? Come riconoscere dove confina un giusto amore con l’attaccamento?
È facile sviluppare attaccamento nei confronti delle persone che ci sono vicine, come nel caso dei figli, ma non è certo l’unica possibilità di rapporto con essi. Se c’è totale attaccemento per una persona, ad esempio un figlio, saremo completamente identificati, avremo molta possessività, vorremo che faccia determinate cose, che sia in un certo modo e non in un altro, avremo un’enorme paura che soffra, anche riguardo a quelle sofferenze utili e necessarie alla crescita. Questa è, appunto, una forma di attaccamento totale.

Possiamo poi immaginare una forma intermedia, in cui c’è amore di attaccamento ma c’è anche una forma molto diversa di amore, ovvero l’amore di sollecitudine: che ci induce anzitutto a dare tempo ed energia per la crescita dell’altro. Qualcosa di molto attivo, non basato sulla paura e sull’identificazione, come è invece l’attaccamento. Oppure possiamo pensare a un’ulteriore situazione, certamente più rara, in cui l’amore di sollecitudine è quello che prevale.

Quindi non credo che nei riguardi di un figlio, o di esseri umani comunque a noi vicini, le due uniche possibilità siano essere attaccati o essere irresponsabilmente indifferenti. In realtà c’è tutta una serie di possibilità di rapporto che vanno da quelli basati su attaccamento, possessività, identificazione totali – molto legati quindi al prevalere in noi di spinte egoiche – a un rapporto di sollecitudine che, oltre a essere curativo, ha l’importante caratteristica di manifestare il nostro grado di libertà, comunicandolo anche alla persona in questione.

Dato che questa problematica viene posta di frequente, mi è venuto da riflettere sul fatto che a volte sembra che chi fa questo tipo di domande, pensi: “È estremamente chiaro quello che è l’attaccamento, mi rimane da risolvere questo dubbio: e con un figlio come la mettiamo? Per il resto è tutto chiaro”. Perciò vorrei prendere lo spunto – avrete notato come noi insegnanti insistiamo molto sui temi dell’attaccamento, dell’avversione, eccetera – per dire che l’attaccamento in realtà è un po’ come un pianeta sommerso che attraverso la pratica è tutto da scoprire. Noi immaginiamo di conoscere più o meno, all’ottanta per cento, le storie, l’entità dei nostri attaccamenti. Ma tra le sorprese della pratica (a volte gradite, a volte meno, ma sempre importanti), c’è quella di farci vedere quanto poco in realtà sappiamo sul nostro attaccamento, su come funziona, su come ci condiziona. Vorrei fare soltanto due esempi: tutto ciò che riguarda la nostra reattività è qualcosa di profondamente radicato nel nostro attaccamento. Inoltre, svariate abitudini di vita e numerose abitudini mentali facilmente sono un’altra espressione forte, complicata e vischiosa del nostro attaccamento. Può darsi che noi conosciamo la dolorosità insita in alcune delle nostre abitudini, ma altre, più sottili, non le conosciamo e le scopriamo proprio in virtù della pratica: piano piano il pianeta sommerso dell’attaccamento ci si rivela, con i frutti di conoscenza e di liberazione che questo comporta.

È quindi certamente importante comprendere la differenza tra attaccamento e amore di sollecitudine, ma, messo in chiaro questo, deve cominciare il lungo viaggio della pratica per incontrare, capire e trascendere tanti nostri attaccamenti.

Un’ultima precisazione: la parola attaccamento può creare a volte una specie di blocco, perché evoca un senso di indegnità. Allora usiamo magari un’altra parola, però andiamo alla sostanza: che cosa indica l’attaccamento? come funziona? come ci imprigiona? cerchiamo cioè di percepire in prima persona le sabbie mobili dell’attaccamento. Se ci facciamo spaventare dalla parola, se la viviamo moralisticamente, rischiamo di non procedere.

Oltre alla pratica formale c’è qualche tecnica o suggerimento per sostenere la consapevolezza nella vita di ogni giorno? Qualche libro?
Questo tema è molto importante. Nella vita quotidiana le Quattro Dimore Sublimi, i quattro brahmavihara – metta, karuna, mudita, upekkha – sono ottimi agganci. Anche praticate in maniera informale, secondo modalità sintetiche e ridotte, sono ottimi modi di ricordarci della pratica del Dharma, dell’essere presenti qui e ora, di quello che conta. Quindi raccomando sempre la pratica di metta o di karuna o di mudita o di upekkha, non solo nelle sedute, ma anche in azione. E sono contento ogni volta che mi viene data l’occasione di raccomandarlo di nuovo, perché è una pratica di una importanza estrema, oltre a essere di grande bellezza.

Un altro modo è quello di praticare con il ‘respiro in azione’, cioè ricordandoci della possibilità di essere attenti al respiro anche quando siamo in azione. Ovviamente non si può pretendere grande continuità in questo, ma, come molti di voi sanno, bastano a volte uno o due respiri consapevoli, per rinvenire alla consapevolezza da uno stato di confusione o di reattività.

Un terzo punto che vorrei sottolineare è la possibilità di rifarsi al corpo: se stiamo camminando, attraverso la consapevolezza del camminare, se stiamo seduti, attraverso la consapevolezza dei punti di contatto sulla sedia. Richiamarsi al corpo, a parti del corpo, ci rende più vivi, è un varco abbastanza immediato per la consapevolezza.

Un ulteriore punto tra i vari possibili è la consapevolezza delle nostre emozioni negative, della nostra tendenza giudicante (ossia compulsivamente critica e censoria), della nostra reattività, cioè di tutti i momenti in cui proviamo emozioni negative, come frustrazione, rabbia, paura, anche se molto piccole. Anzi, meglio se molto piccole, perché sono più facili da investire con la consapevolezza rispetto a quelle molto potenti. Le piccole frustrazioni, i piccoli disappunti sono di grande utilità per addestrare la consapevolezza, perché il grande disappunto è come una grande onda che ci travolge e magari quando ci ricordiamo della pratica siamo già scoraggiati, per cui la pratica ci cade di mano, l’andiamo a raccogliere esitanti e ci ricade di mano un’altra volta. Se invece stiamo davanti a qualcosa di più piccolo e modesto l’addestramento è più possibile.

Quindi non lasciamoci sfuggire le reazioni, i giudizi mentali, le emozioni, soprattutto se non sono dirompenti, perché, se ci addestriamo con quelle piccole e medie, a un certo punto potremo far fronte anche a quelle dirompenti.

Con la pratica da una parte sento sempre di più che le chiavi per la felicità sono dentro di me, dall’altra sono sempre più cosciente di un qualcosa di insostituibile che avviene nel rapporto tra insegnante e studente, al di là dell’insegnamento di tecniche o nozioni. Potresti dire qualcosa riguardo al rapporto, all’importanza dell’insegnante nella pratica?
Questo tema ha una rilevanza diversa a seconda delle tradizioni: per esempio nel buddhismodella tradizione tibetana l’importanza del lama, che significa maestro, è molto forte. E così avviene in altre scuole, induiste, nei sistemi basati sulla centralità del guru o maestro. Nel buddhismo classico, che poi continua nel buddhismo Theravada odierno, c’è una minore sottolineatura, si parla piuttosto di kalyanamitta che vuol dire amico spirituale, buon amico. Quindi si tende più a un rapporto di amicizia-guida spirituale, piuttosto che a un rapporto più ‘regale’, che è invece tipico dei sistemi in cui il maestro è centrale.

Penso che, come in tutte le discipline, figure di insegnanti, di guide, che hanno fatto perlomeno un buon tratto di strada e siano in grado di illustrarcelo, siano fondamentali, ma non escludo la possibilità di persone che nascono con un tale carisma spirituale che sono praticamente maestre o maestri nati. Diciamo però che costituiscono l’eccezione e quindi la grandissima maggioranza degli aspiranti spirituali ha un serio bisogno di guida per camminare nel sentiero.

Nei casi in cui la figura del maestro, del lama, del guru, ha un ruolo centrale si presuppone che un legame forte crei un sostegno molto importante per il discepolo. E in effetti in molti casi questo rapporto costituisce un aiuto straordinario. Però le cose sono sempre a doppio taglio, perché un rapporto così forte può anche creare grande dipendenza dalla quale il discepolo potrà avere molta difficoltà a liberarsi. Quindi ci sono vantaggi e svantaggi.

L’approccio con una figura meno enfatizzata del maestro – io preferisco usare il termine ‘insegnante’ – da un lato rende meno presente questo pericolo di fortissima dipendenza, ma dall’altro può fare smarrire persone che invece, con un rapporto molto forte, sarebbero fiorite. Quindi entrambe le vie hanno un senso, e la scelta giusta dipende dalle inclinazioni e dalle affinità di ciascun individuo, tenendo presenti i vantaggi e gli svantaggi.

Del resto la stessa pratica, se perseguita con interesse e fedeltà, rende più intuitivi e aumenta il nostro discernimento sulle qualità di un insegnante, di qualcuno che si propone come guida in campo spirituale. All’inizio di un cammino infatti possiamo essere facilmente più ingenui e ci possono impressionare cose che col tempo si rivelano più esteriori. Può darsi che siamo molto attratti da un insegnante, soltanto perché alcuni nostri amici ce ne hanno parlato molto bene, e quindi siamo sotto questo fascino condiviso, ma poi, progredendo, ci accorgiamo che questo insegnante non va per noi. Allora occorre il coraggio, l’elasticità di mettere in discussione questo rapporto ed eventualmente di lasciarlo perdere.

Altre volte sentiamo che un insegnante ci può dare cose importanti nell’ambito del cammino, ma abbiamo molta paura che se ci affidiamo a questa persona, poi non siamo più liberi. In realtà si sono verificati casi in cui un cieco abbandono a personaggi che poi si sono rivelati tutt’altro che spirituali ha creato molto dolore. Quindi la cautela è sempre ragionevole. Però se la cautela è, piuttosto, un timore costante, se davanti a qualsiasi figura di guida sentiamo questa paura di darci, perché pensiamo che se ci diamo poi siamo finiti, allora c’è un nodo psicologico da investigare.

Si possono dire tante cose in questo campo, per esempio la nascita della gratitudine per chi ci ha insegnato qualcosa di importante. Questa gratitudine da un lato è personale, ma se il nostro è un vero rapporto di Dharma, se la persona è un vero insegnante di Dharma e noi siamo dei veri studenti di Dharma, questa gratitudine diventa più ampia, cioè passa dalla gratitudine alla persona, a una gratitudine al Dharma, al fatto che esiste la possibilità della liberazione. Questo passaggio dal personalistico al più ampio, mi pare molto specifico di un percorso spirituale e anche questo è un segno della ‘dharmicità’ sia dell’insegnante sia dello studente e della sua maturazione.

Per riassumere, la questione è di tale complessità e delicatezza che non può in nessun modo essere semplificata: bisogna travagliarsi un po’ nella ricerca di chi da un lato sia qualificato a insegnare e dall’altro ci sia in qualche modo affine, perché possiamo stare davanti a ottimi insegnanti ma non sentirli affini. E possiamo magari stare davanti a insegnanti meno famosi e sentirli più affini a noi e allora proprio da questi possiamo prendere di più.

Aiutami a capire le differenze tra accettazione e passività. E per favore qualche sassolino che indichi la via per imparare a perdonarsi.
Questo tema è talmente centrale nel cammino spirituale che rispondere a questa domanda è come illustrare la pratica dall’inizio alla fine.

Tante volte in questi giorni si è parlato del giudicarsi, del dubbio su se stessi, cioè del contrario di perdonarsi, di come sia frequente questo atteggiamento di svalutazione di sé, di sfiducia in se stessi. È un tema cruciale. Da un lato lo è sempre stato, ma forse oggi c’è qualche cosa in più. Sono finite o stanno finendo le società tradizionali, nelle quali c’è una gran quantità di supporti per ogni individuo, dai ruoli ai riti, eccetera. Oggi l’individuo è più libero di scegliersi la propria vita, ma è molto più privo di supporti, di punti di riferimento e questo aumenta l’ansia, la sfiducia, la facilità a sentire di non valere, con tutto il disorientamento che questo comporta.

Tutto il cammino della pratica, poiché ci porta gradualmente a cogliere qualche cosa di grande valore che è dentro di noi, e che, al tempo stesso, non è personale, va nella direzione di ingenerare fiducia, sia nel senso di fiducia in se stessi, sia in un senso più grande, di fiducia incondizionata, radicale. E questo senso di fiducia si manifesterà anche come capacità di perdonarci, e dunque di essere meno giudicanti, innanzitutto verso di noi e di conseguenza, organicamente, verso gli altri.

Poi naturalmente, oltre a coltivare la nostra pratica abituale, possiamo prendere iniziative specifiche: rivolgere la metta verso noi stessi e rivolgere parole di perdono esplicite verso noi stessi. Anche questa è una vera e propria pratica: rivolgere parole di perdono verso noi stessi. È un aiuto. Però senza il fondamento di una pratica che va avanti un mese dopo l’altro, un anno dopo l’altro, è difficile che queste cose possano andare in profondità; infatti il condizionamento della nostra mente è molto forte e di esso fa parte, non di rado, la facilità ad autodisprezzarci: non è una tendenza di cui ci liberiamo tanto facilmente.

Occorre dunque da un lato il lavoro lungo e paziente della pratica nel suo complesso, dall’altro occorre una pratica specifica: la metta verso di sé, il perdono verso di sé. C’è bisogno di tutto questo per aiutarci a sviluppare una comprensione sempre più profonda di quanto inutilmente doloroso sia il nutrire l’avversione per noi e per altri. Tale comprensione ci porta in primo luogo a riconoscere l’odio per se stessi. Poi a comprendere quale carico di dolore ciò porti con sé e poi – per usare la terminologia del buddhismo classico – a concepire un sereno disincanto nei confronti di questa tendenza negativa che ci abita. Allora questa tendenza si comincia a indebolire, mentre i nostri intenti positivi guadagnano spazio, perché c’è stata questa comprensione e questo primo naturale moto di non attaccamento nei confronti di quello che ci fa male, proprio perché l’abbiamo verificato attraverso l’esperienza.

Accettazione è un nome che la spiritualità contemporanea, non soltanto buddhista, usa per indicare dimensioni che, nel linguaggio spirituale classico, sono indicate con equanimità e pazienza, in campo buddhista, e con abbandono, umiltà e pazienza, in campo cristiano. Oggi si usa molto la parola accettazione, che da un lato ha il pregio di essere una parola meno logora, dall’altro ha il difetto di potersi confondere con quello che non ha niente a che fare con l’accettazione, ossia la passività. Ma quale virtù particolare potrebbe esserci nella passività? La passività fa capo alla paura, la quale è un ‘oggetto’ da investigare seriamente con la pratica della consapevolezza. L’accettazione è un atto di coraggio, la passività è un atto di paura. L’accettazione non significa né subire a tutti i costi, né inghiottire, ma, davanti a una ingiustizia, significa la consapevolezza del turbine interno che questa ci suscita e quindi la capacità di rispondere a essa, non da una dimensione di reattività (che crea solo un’altra ingiustizia), ma di equanimità e di accettazione. Ora, avere come punto di partenza l’accettazione invece della reattività rende molto più alte le probabilità di rispondere con un’azione giusta, non violenta e giusta. Da tutto ciò si può comprendere come l’accettazione sia esattamente il contrario della passività.

L’accettazione, il calore, la tenerezza, sono parti integranti della consapevolezza che si sviluppa. Tanto che noi possiamo definire la consapevolezza come una dimensione discernente e accettante, che ha insieme luce e calore, soprattutto quando si sviluppa e matura.

Che rapporto ha upekkha con le altre tre meditazioni?
Upekkha, l’equanimità, è fondamentale per gli altri tre brahmavihara, è alla base della benevolenza (metta), della compassione (karuna), della gioia compartecipe (mudita). Cioè senza l’equanimità non possiamo avere una benevolenza autentica, una compassione autentica, una gioia compartecipe autentica perché senza l’upekkha saremo inevitabilmente parziali e reattivi. Quando si parla di metta si intende una capacità di benevolenza sempre più incondizionata, ma se non abbiamo uno sfondo di equanimità non potrà essere incondizionata e sarà basata invece su preferenze. La metta, invece, deve essere sempre più qualcosa che abbraccia tutti allo stesso modo. Anche la compassione, se non ha una forte base di equanimità, non è la compassione vera, serena, dotata di una specifica forza di sostegno: è, piuttosto, cordoglio, angoscia e smarrimento per il dolore altrui.

È realmente ciascuno “possessore del proprio karma?” Può realmente la felicità di ciascuno dipendere solo dalle proprie azioni? È un’idea che istintivamente rifiuto. Il bambino che vive vicino alla centrale elettrica e per questo ha contratto una malattia ai polmoni, quale responsabilità può avere? Non si preclude la sua felicità a causa della malattia, ma certo essa è più difficile. Sono portato a credere che la responsabilità e la felicità di tutti sia condivisa, ciò mi fa sentire anche meno impotente di fronte alla infelicità e alla malattia altrui.
Non mi trovo bene con le frasi tradizionali sull’equanimità, per il semplice fatto che non le posso sperimentare in prima persona, come suggerisce il Buddha. L’infelicità di alcune persone mi sembra anche causata dalle azioni di altri, vedi violenze subite in tenera età. Devo per forza credere a vite precedenti, o ci sono forme meno tradizionali di coltivare l’equanimità senza ricorrere alla parola karma?
La meditazione di equanimità è basata su affermazioni e non su un augurio. Tali affermazioni mi lasciano però confuso. Che vuol dire “io possiedo il mio karma”? Se tutto è interconnesso e non esiste nulla a sé stante, nulla di io-mio, in che senso il karma è posseduto?
Cercherò di dire qualcosa di essenziale su questa tema. Anzitutto esistono frasi meno tradizionali di upekkha e sono state menzionate anche queste; ad esempio: “Che tu possa accettare te stesso così come sei”, “Che tutti gli esseri possano accettare le cose così come sono”. Anche queste sono perfette frasi di equanimità, che tuttavia non coinvolgono il karma.

Penso che nella pratica di upekkha ci sia un richiamo molto forte e preciso alla responsabilità delle proprie azioni, fisiche, vocali e mentali e lo sviluppo di questa responsabilità presuppone un lungo cammino interiore. In piccola misura si può benissimo diventare più responsabili delle proprie azioni dopo aver ascoltato un’esortazione di questo genere, ma ciò intaccherà solo la superficie. Occorre un lungo lavoro interiore per imparare anzitutto a discernere le azioni e il loro carico: perché esse sono anzitutto mentali, come ad esempio il nostro coltivare la mente giudicante o il risentimento. Queste azioni creano infelicità e richiedono molto tempo per essere viste e comprese, e perché scatti il disincanto nei loro confronti, perché si diventi meno ipnotizzati e meno assuefatti a esse. Allora la pratica, la dottrina dell’upekkha, dell’equanimità, comincia anzitutto a richiamarci a una responsabilità nei confronti delle nostre azioni, intese in questo senso globale. Ma per questo bisogna conoscere e comprendere come queste azioni funzionano ed essere capaci di accedere a una progressiva liberazione da quelle negative.

Vorrei fare un esempio: a causa di una persona che guida una macchina in stato di ubriachezza, vengo investito e rimango menomato. Da questo momento ci sarà molta più infelicità nella mia vita. Dobbiamo ricordarci che il discorso relativo all’upekkha è un discorso che si fa in ambito di pratica. Allora il mio punto di partenza è quello di una persona menomata a causa di un brutto incidente stradale, in cui io non ho alcuna responsabilità. Bene, in ambito di pratica da questo punto di partenza si possono sviluppare due tragitti completamente diversi. Uno è quello di una maledizione continua di quel momento e di quello che è successo, quindi la costruzione di un abbrivio energetico negativo e di grandissima infelicità. L’altra possibilità, volendo guardare i due estremi, è quella invece di coltivare la pratica. E sappiamo bene che da condizioni di grande difficoltà, di menomazione, di malattia, eccetera, sono nate storie spirituali di grande autenticità.

È pure vero che nella teoria completa del karma si dice anche che se io sono oggetto di un incidente, questo ha a che fare con qualcosa che io ho fatto in vite precedenti. Ma mentre questa è una credenza, la comprensione del karma qui e ora, in questa vita, è un’esperienza di portata notevole quanto a capacità trasformante. Dunque vedere e comprendere che se coltiviamo certe azioni fisiche, vocali e mentali, coltiviamo felicità; se coltiviamo azioni fisiche, vocali e mentali di segno opposto, coltiviamo infelicità. Questo è il nucleo portante della dottrina del karma. Poi il buddhismo ci dice che il karma si estende oltre una vita – e a me questa sembra un’ipotesi importante – ma quello che è fondamentale dal punto di vista della pratica è lavorare col karma ora qui.

L’espressione ‘possessore del karma’, ‘erede del karma’, io penso (e non sono l’unico a pensarlo) che sia un modo di dire, un modo di esprimersi, anche perché presupporrebbe un ‘io’ che possiede il karma, se lo porta appresso e via dicendo.

La dottrina antica relativa al karma sostanzialmente dice che noi compiamo in questa vita azioni – karma significa azione – ancora una volta, fisiche, vocali e mentali, che producono un’energia. Quando moriamo questa energia prodotta non muore, ma continua e foggia in qualche maniera un altro individuo. Allora questo individuo è lo stesso o è un altro? La scuola antica dice: è lo stesso ed è un altro. Allora a rigori non mi sembra che si possa parlare letteralmente di una persona che possiede il karma, poiché questa persona si dice è la stessa, ma anche che non è la stessa, per cui la frase tradizionale verosimilmente è solo una modalità di esprimere qualcosa di complesso: “Siamo possessori del nostro karma, siamo eredi del nostro karma”, quindi è soprattutto un richiamo alla responsabilità, cioè alla comprensione saggia e compassionevole delle azioni mentali, vocali e fisiche che compiamo.

Che cosa dobbiamo comprendere, l’impermanenza o la sua cessazione?
La comprensione sempre più vissuta, intuitiva, cioè non intellettuale o razionale, dell’impermanenza, del carattere cangiante e fluttuante delle cose, è molto importante. Questa comprensione deve avere come suo effetto evidente non un minor rapporto con la vita, ma un maggior rapporto con la vita. Perché comprendendo l’impermanenza, il fluttuare continuo delle cose, tendiamo meno ad attaccarci, a solidificare, a identificarci, quindi c’è meno sofferenza, più contatto con la vita e più apprezzamento. Se invece, poiché tutto è impermanente, per noi la vita perde di significato, non abbiamo capito l’impermanenza, siamo semplicemente depressi.

“Cos’è che dobbiamo comprendere, l’impermanenza o la sua cessazione?”. Dobbiamo comprendere entrambe. Infatti è vero che un canto dice “la comprensione di questa cosa porta la felicità” e un altro canto parla di “cessazione dell’impermanenza”, in riferimento al nirvana, che è al di là di permanenza o impermanenza. Diciamo quindi che la comprensione sempre più profonda dell’impermanenza, attraverso la pratica, ci porta a stati progressivi di liberazione, per accedere infine a una dimensione definita akaliko, ‘al di là del tempo’, e al di là del tempo non c’è più né permanenza né impermanenza. Quindi entrambe le cose sono importanti, ma quella più accessibile è una comprensione sempre più vissuta dell’impermanenza.

Pomaia, 2 Settembre 1999.
A cura di Titti Marcello.

CORRADO PENSA
uno dei più apprezzati maestri di meditazione attualmente in attività. E’ insegnante guida dell’Associazione per la Meditazione di Consapevolezza (A.Me.Co.) di Roma e conduce ritiri in Europa e negli Stati Uniti, dove è insegnante senior dell’Insight Meditation Society (Barre, Usa), uno dei più importanti centri al mondo per la pratica meditativa di scuola buddhista. Già docente ordinario di Religioni e Filosofie dell’India all’università La Sapienza di Roma, è stato anche psicoterapeuta junghiano.

Equanimità e fiducia

L’equanimità è l’opposto dell’attaccamento, è non-attaccamento. È una dimensione determinante del sentiero interiore. Ovviamente, esistono diversi gradi di equanimità, ma anche un’aspirazione, una sincera aspirazione verso di essa è già un inizio di vera equanimità. Dunque, l’equanimità è l’anima del lavoro interiore, il cuore del sentiero, il cuore della realizzazione e dell’adempimento. L’equanimità è l’anima della presenza mentale che chiamiamo consapevolezza non-giudicante, cioè una consapevolezza che tende all’equanimità. L’equanimità è il cuore della saggezza, non si può guardare in profondità senza l’intimo equilibrio dell’equanimità. E l’equanimità è anche il nucleo più profondo dell’amore, della compassione, della gioia empatica.

Nell’insegnamento delle quattro dimore sublimi: metta, gentilezza amorevole; karuna, compassione; mudita, gioia empatica; upekkha, equanimità, l’equanimità viene per ultima, è l’ultima ad essere insegnata, come per evidenziare che gli stati che la precedono, la gentilezza amorevole, la compassione, la gioia empatica, non sono autentici se sono privi di equanimità.

Se è assente l’equanimità, può un sentimento di amorevole gentilezza essere davvero incondizionato e privo di riserve? È impossibile. Non sarebbe equilibrato. Si tratterebbe di una preferenza e non dell’apertura cui si allude parlando di gentilezza amorevole incondizionata. Non possiamo nemmeno essere sinceramente compassionevoli, se al cuore della nostra compassione non c’è una reale presenza di equanimità. Saremmo identificati con la sofferenza, proveremmo dispiacere, amarezza, cordoglio, commiserazione, ma tutto ciò non è compassione. La compassione è una grande forza, perché è una combinazione di tenerezza e di stabilità, la stabilità che proviene dall’equanimità.

Ci si può accostare all’equanimità attraverso tre stadi, ma ogni stadio può anche essere praticato separatamente.

Il primo stadio riguarda la fiducia e la sfiducia. Se verifichiamo che c’è molto scoraggiamento, molta sfiducia in noi stessi, o una tendenza generalizzata alla sfiducia, è importante prima di tutto prenderci cura di questi sentimenti, perché, per praticare l’equanimità, per generare equanimità, per svilupparla, abbiamo bisogno di una base di fiducia, altrimenti risulta impossibile. Dunque, ci proponiamo di osservare con gentilezza le onde di sfiducia, le onde di scoraggiamento, che generano squilibrio e disorientamento, e minano la nostra motivazione. Dobbiamo prenderci cura di queste onde di sfiducia, di autosvalutazione, di scoraggiamento e per prima cosa praticare la vipassana. Percepiamo con gentilezza e, se possibile, con tenerezza, la qualità di quest’onda di sfiducia, cerchiamo veramente di incontrarla e di osservarla gentilmente. È una cosa che facciamo raramente e alla quale non siamo affatto allenati. O ci lasciamo sommergere dallo scoraggiamento e dalla sfiducia o cerchiamo di respingerla e non di osservarla; mentre invece, nella nostra pratica, è essenziale entrare in contatto, in intimità, con questi sentimenti, lavorando seriamente a cambiare il nostro atteggiamento. Anziché rammaricarci di essere scoraggiati, anziché biasimarci per il nostro scoraggiamento, ci dedichiamo a osservare con gentilezza queste onde. E non dobbiamo esitare a infondere quanta più gentilezza possiamo, a insinuare un tocco delicato, lieve, tenero.

È un atteggiamento completamente diverso di fronte alla sfiducia e allo scoraggiamento, un atteggiamento che scardina alle radici l’identificazione, ossia la nostra radicata tendenza a credere ciecamente ai pensieri e alle conclusioni della sfiducia e dello scoraggiamento.

Dunque, io trovo che questo sia un lavoro essenziale, se vogliamo costruire fondamenta che ci permettano di lavorare fruttuosamente allo sviluppo dell’equanimità. Infatti, quando attivamente abbracciamo lo scoraggiamento e la fiducia, succede che, almeno in parte, essi perdano il potere che hanno su di noi. Ci sentiamo più liberi, anche se forse le onde di scoraggiamento ci fanno ancora male. Tuttavia avvertiamo che ora possiamo intraprendere il cammino per sviluppare l’equanimità.

Passiamo ora a quello che potremmo chiamare il secondo stadio, ma che può anche essere il primo, se non dobbiamo lavorare preliminarmente allo scoraggiamento e alla sfiducia. Il secondo stadio consiste nel portare la nostra capacità di un’osservazione sempre più salda, sempre più gentile, su qualsiasi reattività, su qualsiasi atteggiamento opposto all’equanimità, su qualsiasi momento di avversione o di attaccamento. Talvolta, viene usato il termine ‘egoità’, per sottolineare che il lavoro consiste nell’imparare ad osservare, sempre di più, in modo sempre più accurato, e sempre più disteso, il sorgere dell’io-mio, che è pura pratica di vipassana, e la pratica di vipassana è pratica di equanimità.

Se lavoriamo in questo modo, rivolgiamo la nostra attenzione non-violenta in particolare all’area della reattività, che è chiamata ‘il nemico lontano’, il nemico antitetico dell’equanimità. Ma rivolgiamo l’osservazione anche a ogni forma di indifferenza, che è tradizionalmente chiamata ‘il nemico prossimo’ dell’equanimità, ricordandoci che l’indifferenza è un indurimento, un’avversione congelata e ricordandoci che, non di rado, per lavorare con l’indifferenza è necessaria una buona capacità di investigazione.

Un’accresciuta energia investe la nostra motivazione, il nostro impegno, allorché cominciamo ad assaporare momenti di vera equanimità, allorché cominciamo a gustare la qualità speciale di libertà che si accompagna all’equanimità. Si tratta di un primo assaggio della nostra libertà interiore, che non dipende dalle condizioni esterne. È un profondissimo sollievo quando cominciamo ad assaporarla e la nostra motivazione per la pratica del Dharma cresce straordinariamente.

Più lavoriamo allo sviluppo dell’equanimità, e più la parola ‘rilassamento’ acquista un significato più vasto. Comprendiamo cosa possa essere un totale rilassamento, anche se solo per pochi istanti, perché in generale pensiamo al rilassamento come a un fenomeno fisico, ma il rilassamento può essere sia fisico sia mentale. E può essere talora un’intuizione improvvisa e dirompente, perché forse siamo stati contratti senza saperlo, per un’intera vita. E quando cominciamo di nuovo a gustare qualche momento di vera distensione mentale, che significa l’aprirsi del cuore, la forza di questa sensazione di sollievo ci fa letteralmente trasalire.

Ci accorgiamo, allora, di quanta sofferenza crei la reattività, e più ce ne accorgiamo e più diventiamo non-reattivi. Continuiamo, ogni volta di più, a verificare la qualità separativa della reattività e generiamo quello che in questa tradizione è chiamato ‘sereno disincanto’. Siamo sempre meno sedotti dalla nostra reattività. Diventiamo più sereni. Sereno disincanto: meno ipnotizzati dall’io-mio.

Quello che chiamo il terzo stadio è la pratica specifica del brahmavihara, basata sul pronunciare alcune frasi, come negli altri brahmavihara. Secondo la tradizione buddhista, quando si pratica upekkha, l’equanimità, si porta alla mente qualcuno o se stessi e si pronuncia la frase: “La tua felicità o infelicità non dipendono dai miei auspici, ma dalle tue intenzioni e dalle tue azioni”.

Dunque, noi auguriamo di cuore qualcosa a qualcuno, ma dobbiamo anche avere la saggezza per comprendere che il nostro controllo sulle cose è molto limitato. E in questo consiste l’equilibrio di upekkha, l’equilibrio dell’equanimità.

Possiamo anche usare un genere di frasi diverso, purché abbia la stessa forza evocativa di equanimità. Possiamo pronunciare le frasi: “Che tu possa accettare le cose così come sono, che tu possa accettare te stesso così come sei. Che io possa accettarti così come sei. Che io possa accettare me stesso così come sono”.

Il Buddha ha spesso sottolineato la forza di un’intenzione chiara. Queste frasi sono la formulazione di intenzioni chiare. La pratica dei brahmavihara, in questo caso la pratica di upekkha, dell’equanimità, è basata sull’attenta ripetizione di una, due o tre di queste frasi. Si tratta di concentrarsi sulla ripetizione, la lenta e attenta ripetizione di queste frasi colme di significato e di sostituire, sempre e di nuovo, alle proprie proliferazioni queste chiare e positive intenzioni.

Si può praticare upekkha durante una seduta di meditazione, seguendo una sequenza: si inizia da una persona neutra. “Che tu possa accettare le cose così come sono. Che tu possa accettare te stesso così come sei. Che io possa accettarti così come sei”.

Si prosegue quindi con un benefattore, una persona cara, sé stessi, una persona con cui si è in difficoltà, tutti gli esseri.

Si può praticare in modo formale, durante una seduta, o si può praticare in azione e io personalmente raccomando vivamente la pratica in azione, in aggiunta alla pratica formale. Nell’ambito dei corsi di meditazione abbiamo sperimentato la pratica dell’equanimità nell’azione, ed è risultato estremamente utile, nel corso delle nostre giornate più o meno affaccendate, tornare a quelle frasi: “Che io possa accettarti così come sei. Che io possa accettarmi così come sono”.

Accettare quello che c’è così com’è è una saggia rinuncia a ciò che non c’è. Dunque, l’accettazione, il lasciar andare, la saggezza, la compassione, non sono che diverse facce della stessa cosa. C’è una qualità particolarmente lenitiva, non solo in uno stato mentale di equanimità pienamente sbocciata, ma, come già si diceva, anche in una tranquilla aspirazione all’equanimità. È curativa, è lenitiva, perché è un bisogno che costantemente reprimiamo, che costantemente soffochiamo. E quando cominciamo a prenderci cura di questo bisogno, cominciamo a respirare, veramente.

Il potenziale è all’interno, il potenziale è dentro di noi, e vuole essere sviluppato, ci prega di essere sviluppato. È la nostra natura. La nostra vera natura. E uno dei miracoli della pratica è che ci risvegliamo sempre di più a questo potenziale che già possediamo e che ci chiede di essere sviluppato.

Dunque, che noi tutti si possa accettare noi stessi così come siamo, che possiamo accettare gli altri così come sono. Che tutti gli esseri possano accettare sé stessi e gli altri esseri così come sono.

 

CORRADO PENSA
uno dei più apprezzati maestri di meditazione attualmente in attività. E’ insegnante guida dell’Associazione per la Meditazione di Consapevolezza (A.Me.Co.) di Roma e conduce ritiri in Europa e negli Stati Uniti, dove è insegnante senior dell’Insight Meditation Society (Barre, Usa), uno dei più importanti centri al mondo per la pratica meditativa di scuola buddhista. Già docente ordinario di Religioni e Filosofie dell’India all’università La Sapienza di Roma, è stato anche psicoterapeuta junghiano.

Il coraggio della consapevolezza

La psicologia insegna che la madre saggia è colei che cura, sostiene e protegge il suo bambino da una parte, mentre è pronta, d’altro canto, a dargli fiducia. In questo modo, sentendosi rassicurato, il bambino impara a stare volentieri anche da solo e sviluppa interesse per esplorare ciò che non conosce.

A me sembra utile chiedersi quale può essere nel cammino spirituale un equivalente della madre saggia, ossia un qualcosa che, sostenendoci intelligentemente, ci permette di avanzare con fiducia e coraggio.

Io credo che tale equivalente è ciò che potremmo chiamare la base della pratica ed è rappresentato da un insieme di cose, o meglio di condizioni, per usare il linguaggio dharmico, condizioni che, appunto, sostengono e sospingono. Vediamo di passarle brevemente in rassegna.

a) In primo luogo ricordiamo tutto ciò che è sangha e dunque gruppi di pratica, insegnanti, monasteri e monaci, centri urbani di Dharma, centri di ritiro. L’elemento chiave è arrivare a sentire tutte o alcune di queste ‘condizioni’ come familiari e affidabili. Il meditante che per un attimo si commuove rimettendo piede in un luogo di ritiro, che in passato fu propizio a un’apertura del cuore, percepisce una sorta di calore e di affidabilità. Consideriamo inoltre la contentezza che possiamo avvertire allorché ci affacciamo in un posto dove siamo soliti praticare in gruppo: quella contentezza è una forma implicita e per niente superficiale di presa di rifugio nel sangha. E sempre nel sangha io includerei la tradizione grazie alla quale ci sono pervenuti attraverso i secoli gli insegnamenti che seguiamo. La gratitudine verso la tradizione è un’altra forma di presa di rifugio nel sangha.

b) Naturalmente farà parte della base della pratica una buona comprensione delle dottrine essenziali del Dharma, a cominciare dall’insegnamento circa le quattro verità fondamentali. Qui non si parla di una realizzazione profonda di tali dottrine, né, d’altra parte, di una conoscenza erudita. Intendiamo piuttosto lo sviluppo di un certo interesse e di un certo gusto a riflettervi, aiutandosi con l’ascolto e lo studio del Dharma. Anche qui la chiave importante è quel certo senso di familiarità e di fiducia che può nascere da questo tipo di riflessione.

c) Una sincera attrazione per la sfera dell’etica e della sua coltivazione, con tutte le difficoltà che ciò comporta, dato che ‘il mondo’, oggi come ieri, è sempre andato in direzione opposta a una vita virtuosa. E ciò in modi grossolani o molto sottili. Ora un’etica che tende sempre più a farsi sensibilità, a farsi impegno via via meno fragile e più tranquillo alimenta anch’essa un agio e una fiducia ‘materne’.

d) La pratica formale di calma concentrata nel suo aspetto più diffuso in questa tradizione, ovvero l’attenzione al respiro o ad altra sensazione fisica rilevante, alimenta col tempo una forza, un’energia che è importante per diverse ragioni. Tra esse spiccano, ancora una volta, la serenità e la fiducia che vengono al seguito di una mente più unificata. Notiamo che la pratica di calma concentrata per riuscire soddisfacente e fruttuosa dovrà essere intrinsecamente ‘condizionata’ da a), b) e c).

e) Personalmente apprezzo molto, accanto alla pratica formale di raccoglimento sul respiro, una modalità di raccoglimento di tipo più informale che per molti si rivela strumento eccellente di lavoro interiore: la pratica della metta (benevolenza) in azione, ossia evocata il più possibile nel fitto della vita quotidiana. Essa pure, col tempo, produce una sensazione di fondo, assai netta, di sostegno. Chi ha dimestichezza con questa pratica sa che anch’essa procede per fasi: fasi difficili, fasi agevoli. Un giorno può sembrarci che la metta ormai abbia preso fissa dimora in noi, il giorno dopo abbiamo quasi l’impressione di non averla mai praticata, tanto si è fatta ardua.

Questi cinque punti configurano una versione di ciò che abbiamo chiamato la base della pratica. Superfluo dire che possono esserci versioni differenti da questa, a seconda del lignaggio di pratica che uno segue e dalle inclinazioni spirituali dell’individuo. L’importante è che l’insieme degli ingredienti riescano a compaginarsi in una base, in un fondamento nutriente capace di sostenerci ‘maternamente’.

Ora questo fondamento sembra imprescindibile per i più a causa di una ragione molto precisa, che è questa: praticare davvero la consapevolezza e dunque esercitarla a tutto campo significa avventurarsi in un territorio in larga parte ignoto, anche se ci appare familiare.

Per esempio, sappiamo bene che talora ci coglie quel tale astio sordo. Dunque, roba risaputa. Tuttavia, in realtà non ci siamo mai ‘seduti’ dentro l’astio in silenzio ad ascoltarne la pulsazione e, probabilmente, non abbiamo alcuna intenzione di farlo, malgrado i nostri interessi spirituali. Ecco la terra incognita e la paura di attraversarla.

La vasta capacità intrinseca al nostro cuore – annota Ajahn Munindo – ha già in se stessa tutto quello che cerchiamo. Il problema è che noi preferiamo non affrontare la paura di entrare in una realtà più ampia 1.
In breve il punto sembra esser questo: per potere aprirsi di più (molto di più) alla realtà, per imparare a entrare in intimità col movimento della mente e della vita, abbiamo bisogno di lasciare andare una contrazione fondamentale, quella contrazione chiamata anche io-mio. L’incessante pensare per pensare, il nostro profondo attaccamento al discorrere mentale è, in effetto, un continuo fasciarci, coprirci, chiuderci. Infatti, così facendo, noi dipingiamo e definiamo la realtà in termini noti e abituali, poco conta se negativamente o positivamente.

L’enormità, il fatto sconcertante che la pratica pian piano ci rivela è che noi, per lo più, siamo ben poco in contatto con le cose così come sono. E ciò perché la contrazione fondamentale dell’io-mio ci preclude la realtà. Questa sorta di paralisi ci porta a una radicale incapacità di ascolto ovvero di consapevolezza.Sicché piuttosto che alimentarci dell’ascolto diretto (di cose, situazioni, persone) noi ci nutriamo, piuttosto, di giudizi, concetti, reazioni espresse prima e durante l’ascolto, ascolto che finisce così per aver luogo ben di rado. E il nostro ‘spazio del cuore’, potenzialmente assai vasto, non può che restringersi e contrarsi.

Il pensare incessante e ripetitivo interferisce con la capacità di connetterci con il nostro mondo. Isolati dentro le nostre teste, aspiriamo acutamente a quella connessione dalla quale il nostro pensare ci tiene lontani… Può essere una scoperta non da poco quella di accorgersi che tanta parte del nostro pensare è noiosa, ripetitiva e irrilevante e che, oltre a ciò, ci isola e ci taglia fuori proprio da quel sentimento di connessione che tanto apprezziamo 2.
Del nostro continuo raccontarci e giudicare la realtà senza ascoltarla fa parte organicamente la compulsione a controllarla il più possibile di modo che essa ci appaia così come ce la raccontiamo, come vogliamo che sia e come siamo saldamente abituati a raccontarcela e a volerla. E dunque, per esempio, l’indugiare frequente in pensieri circa il futuro è spesso un tentativo di esorcizzare l’imprevisto, di cercare ‘sicurezze’ di vario genere, di disporre e ridisporre le cose per far fronte all’indistinto, all’ignoto.

E così pure -altro esempio abbastanza evidente di controllo- quando rimuginiamo ciò che vorremmo dire a quel tale o ciò che gli avremmo voluto dire, di nuovo siamo preda della coazione a controllare, di nuovo rifiutiamo l’ascolto di ciò che è: in questo caso rabbia, paura e simili. Da notare che queste strategie di controllo e diversione sono diventate talmente abituali da apparirci come la più innocua ‘normalità’. Per questa ragione, se vogliamo lavorare su tutto ciò, abbiamo bisogno di una pratica che diventi per lo meno altrettanto normale.

Ma perché la pratica possa cominciare a intaccare questo groviglio è cruciale capire ciò che efficacemente sottolineava poc’anzi Epstein, vale a dire che l’incessante controllare e proliferare mentalmente ha come risultato più cospicuo quello di isolarci, alienarci, separarci e dunque di addolorarci. Attaccati a come vorremmo che la realtà sia, non entriamo in contatto con la realtà e soffriamo.

Solo se cominciamo a comprendere questa contraddizione potrà sorriderci la prospettiva di apprendere l’arte del lasciare andare la compulsione al controllo e alla proliferazione mentale.

Ciò comporterà di mettere in discussione tutto il peso e la densità che siamo abituati a dare alle nostre conclusioni, opinioni, giudizi; tutto il potere che conferiamo alle nostre percezioni, pur sapendo che sono spesso sbagliate; tutta l’autorità che impartiamo alle nostre emozioni.

Tuttavia tale messa in questione può aver luogo soltanto se cambia musica e solo se ci ritroviamo sempre più a dare il potere alla consapevolezza, invece di identificarci meccanicamente con l’avversione, l’attaccamento, la paura, con l’abitudine a controllare e a evocare il noto. Ma perché la consapevolezza possa ‘decollare’ sarà necessaria – almeno per la grande maggioranza dei cercatori interiori – la ‘madre saggia’, ossia quella base spirituale affidabile e calda che dicevamo.

Così sorretta, la consapevolezza potrà osare esplorare, a cominciare dai ‘nodi del cuore’. Infatti, come già si diceva, noi non vogliamo contemplare in silenzio la nostra rabbia, anche se il progetto ci affascina e lo raccomandiamo in giro. Piuttosto, noi vogliamo parlare nella rabbia, vogliamo pensare e immaginare nella rabbia, anche se tutto ciò che diciamo è prevedibile. Anzi, è importante proprio perché è prevedibile, ripetitivo, noto, abituale. In questa maniera noi non incontriamo mai davvero la rabbia. Al contrario, ne rimaniamo separati da quella barriera proliferante alla quale siamo così attaccati.

Riepilogando: se, grazie a quella ‘madre saggia’ che è la base della pratica, nasce in noi il coraggio della consapevolezza, ci accorgiamo anzitutto della costante contrazione di vita nella quale ci muoviamo e, inoltre, tocchiamo con mano che le numerose strategie di controllo e di diversione alle quali si ricorre sono fallimentari e hanno come unico effetto quello di aumentare la contrazione.

Già questa prima intuizione (in genere gradualissima) comincia a indebolire la contrazione fondamentale. È un po’ come trasalire al rendersi conto di un grosso errore che siamo venuti facendo per molto tempo. Quindi la consapevolezza, vedendo la fecondità del lasciare andare, è mossa da ulteriore fiducia e coraggio e prende a muoversi oltre quella resistenza che ci separa e ci divide. Questa è la vera capacità di consapevolezza intima, ossia la capacità di riposare in silenzio attento e, in qualche modo, affettuoso, dentro la paura o qualsiasi altro moto mentale. Ecco allora che la separazione-alienazione cronica da ciò che accade, la barriera giudicante-proliferante-controllante prende a dare segni di scioglimento. E questo evento – che non soltanto è lento e graduale ma anche travagliato e punteggiato da ricadute – è evidentemente carico di conseguenze.

Alcune che mi sembrano di grande rilievo sono le seguenti. Anzitutto intimità e comunione sia con lo spiacevole sia con il piacevole significa cominciare veramente a capire e gustare la vita nel presente in spirito di connessione. Ancora molto incisivo Epstein:

Allorché siamo afflitti da sensi di indegnità è facile sentirsi manchevoli e vedere nell’amore di un’altra persona l’unica possibilità di soluzione per il nostro disagio. La meditazione tende a operare in direzione contraria rispetto a questa conclusione di manchevolezza, lavorando a restaurare la capacità di connessione dall’interno… Nel far ciò la meditazione mette in questione ciò che nella nostra cultura si dà per scontato e cioè che la connessione può avvenire solo in virtù di un altro. Nella visione buddhista la connessione è già presente. Noi non siamo separati e distinti come pensiamo di essere. La connessione è il nostro stato naturale: dobbiamo solo imparare a permettercelo 3.
Intimità significa, inoltre, lasciare andare, abbandonare la resistenza cronica (di cui fa parte la mente cronicamente giudicante) e approdare a un maggior agio.

Infine intimità significa comprensione più profonda.

E dunque se comprendiamo più profondamente ciò che non è salutare, ciò che causa sofferenza – per esempio abitudini, atteggiamenti, attività – tutto ciò è destinato ad attenuarsi e talora, suscitando grande felicità, a finire.

D’altra parte, se comprendiamo sempre più nettamente ciò che è salutare, ovvero tutto quanto contribuisce al bene, questa comprensione ci indurrà a una memorabile conversione del cuore.

Un’ultima annotazione. Questo scritto ha suggerito in vario modo come la consapevolezza vada suonata sempre in accordo armonico con il silenzio interiore, l’intimità, l’accettazione, l’abbandono, il lasciare andare. Vorremmo sottolineare questa cosa ancora una volta, data la sua grande rilevanza per un corretto intendimento della pratica.

In proposito, ricordiamo il lapidario “L’osservatore è l’osservato” di Krishnamurti 4. Che vuol dire? Se per esempio osserviamo la paura, se dunque l’osservato è la paura e se noi la osserviamo col desiderio che se ne vada, con fastidio e giudizio nei nostri confronti, allora quella mente che osserva la paura si rivela della medesima stoffa della paura, ha lo stesso sentire, la stessa logica, è la paura. Dunque l’osservatore è l’osservato, l’osservatore della paura è il censore impaurito e irritato. Siamo evidentemente agli antipodi della consapevolezza non giudicante.

Ma quando invece la consapevolezza è permeata di silenzio e di abbandono, è come se entrasse in scena un livello del tutto differente, nel quale c’è una liberante percezione che il dolore è sia nell’osservatore-giudice, sia nella paura osservata-censurata. E allorché questa percezione non è più un fatto episodico, bensì una naturale occorrenza, questo è segno che la consapevolezza, ben sostenuta dalla ‘madre saggia’, sta fiorendo dentro di noi.

NOTE
1. Ajahn Munindo, The Gift of Well-being, River Publications, Harnham, Gran Bretagna, 1998, p. 68. Trad. nostra.
2. M. Epstein, Going to pieces without falling apart. A Buddhist perspective on wholeness, New York 1998, pp. 58-9. Trad. nostra.
3. Ivi, p. 75.
4. È un tema che attraversa tutta l‘opera di Krishnamurti. Abbondanti riferimenti nei voll. 15 e 16 dei Collected Works. In italiano si può vedere la recente antologia: Krishnamurti, Libertà totale, Ubaldini Editore, Roma 1998, pp. 247-8.

 

CORRADO PENSA
Uno dei più apprezzati maestri di meditazione attualmente in attività. E’ insegnante guida dell’Associazione per la Meditazione di Consapevolezza (A.Me.Co.) di Roma e conduce ritiri in Europa e negli Stati Uniti, dove è insegnante senior dell’Insight Meditation Society (Barre, Usa), uno dei più importanti centri al mondo per la pratica meditativa di scuola buddhista. Già docente ordinario di Religioni e Filosofie dell’India all’università La Sapienza di Roma, è stato anche psicoterapeuta junghiano.

Krishnamurti: consapevolezza, amore e libertà

A più di dieci anni dalla morte di Krishnamurti, Ubaldini inaugura la collana Krishnamurti su, un’interessante iniziativa che presenta il pensiero di Krishnamurti attraverso specifici argomenti da lui affrontati. I primi due libri sono Sulla libertà (1996, 158 pp., L. 24.000) e Sull’amore e sulla solitudine (1996, 148 pp., L. 24.000). La massiccia pubblicazione degli insegnamenti di Krishnamurti risponde a un vivo interesse, diffuso ancor oggi in tutto il mondo, per l’immediatezza e la forza del suo messaggio.

Krishnamurti nacque nel 1895 a Madanapalle (presso Madras, nell’India del sud), da una famiglia di modeste condizioni economiche. Ancora tredicenne, fu ‘riconosciuto’ dalla società teosofica, allora presieduta da Annie Besant, come il maestro del mondo di cui era stata preannunciata la venuta e fu quindi portato in Europa dove, insieme all’inseparabile fratello Nitya, ebbe un’istruzione di tipo occidentale. Su iniziativa della stessa Besant e di Charles Leadbeater (il teosofo che, grazie a presunte doti di chiaroveggenza, aveva indicato in Krishnamurti l’atteso ‘messia’), fu istituito l’Ordine della Stella, con a capo lo stesso Krishnamurti. Nel 1925 Nitya morì di tubercolosi. Fu un’esperienza di grande dolore per Krishnamurti e fu, al contempo, causa di una profonda trasformazione: come egli stesso ricordò in seguito, dovette confrontarsi con l’immensa angoscia della perdita e lo fece senza ‘fuggire’, senza ricorrere a credenze consolatorie. Nell’agosto del 1929, davanti a un’assemblea di seguaci dell’Ordine della Stella riunitasi a Ommen Camp, in Olanda, per ascoltarlo, Krishnamurti lasciò sbalorditi tutti i presenti decretando lo scioglimento dell’Ordine. Affermò, in quell’occasione, che la ricerca spirituale deve essere una questione personale e che egli non sarebbe stato più la stampella di nessuno. In quello stesso discorso, espresse il suo intento di continuare a parlare a chiunque lo avesse ascoltato, “per rendere libero l’Uomo”. Da allora Krishnamurti ha girato il mondo incoraggiando a cercare la Verità dentro se stessi, senza accettare alcuna autorità, esterna o interna 2.

L’oggetto centrale dei suoi discorsi è la liberazione e ciò che impedisce la liberazione. L’immersione appassionata in questo che può essere considerato il cuore della ricerca spirituale ha toccato temi essenziali quali la morte, la paura, l’amore, il rapporto con gli altri, la meditazione, la religione, la natura della mente. Quale che fosse l’argomento su cui si soffermava, Krishnamurti ha sempre sottolineato il ruolo fondamentale della consapevolezza, del semplice vedere le cose così come sono, senza manipolazioni da parte dell’io. Soltanto la consapevolezza può condurre alla fine del condizionamento e dunque alla radicale trasformazione dell’individuo.

La trasformazione ha luogo in virtù del vedere il condizionamento in tutti i suoi aspetti, senza evitarlo, senza rifugiarsi in sensazioni gratificanti che, comunque, appartengono al condizionamento. Uno degli aspetti del condizionamento su cui Krishnamurti si è maggiormente soffermato è il ‘tempo’. Va detto innanzitutto che Krishnamurti, quando parla del tempo, distingue tra tempo effettivo e tempo psicologico. Quest’ultimo è una manifestazione dell’attaccamento, cioè dell’incapacità di stare nel ‘qui e ora’, della tendenza a proiettare un’immagine nel futuro utilizzando il ‘conosciuto’ accumulato nel passato. Secondo Krishnamurti non ci può essere consapevolezza qualora ci si limiti a proiettare nel tempo i propri contenuti mentali, il ‘pensiero’. Soprattutto perché il pensiero, al contrario della consapevolezza, è limitato, condizionato. Identificandosi con qualcosa di limitato, l’individuo diviene frammentato, aggrappato a quell’immagine, quel frammento che è l’io.

Ciò che chiamiamo pensiero è la risposta della memoria, e dove scatta questa reazione condizionata non ci può essere passione né intensità. C’è intensità solo dove c’è totale assenza di io 3.

Proprio per i rischi che si insinuano nella visione del tempo psicologico, Krishnamurti è sempre stato estremamente restio a parlare di pratica, ritenendo ogni concetto di gradualità un impedimento alla visione immediata delle cose. Considerare il lavoro interiore in termini di tempo significa consegnarlo a quello che, nella tradizione buddhista, viene chiamato tanha, il desiderio, la separazione della mente da ciò che è. Proprio il Buddha definisce il Dharma, cioè la verità ultima, akaliko, senza tempo.
La consapevolezza è la qualità della mente che osserva senza giustificazione o condanna, approvazione o disapprovazione, attrazione o repulsione, che si limita a osservare 4.

Una nota frase di Krishnamurti riguardo alla consapevolezza è ‘l’osservatore è la cosa osservata’. Con ciò si intende la necessità di non porre una distanza psicologica tra noi e l’oggetto dell’osservazione. L’osservatore, nel caso di un processo dualistico, è il conosciuto, la conoscenza che ha accumulato nozioni, ferite, reattività e che non può assolutamente vedere, ma soltanto proiettare un’immagine precostituita. L’osservazione senza un osservatore significa dunque svuotare la coscienza di quei contenuti che velano la realtà del momento presente:

Nell’ambito del conosciuto c’è attaccamento, con le sue paure, le sue disperazioni, e la mente che è trattenuta in quest’ambito, per quanto esteso e vasto sia, non è mai libera 5.

La separazione psicologica, spaziale (osservatore-osservato) o temporale (tempo psicologico, gradualità) è l’io. La fine dell’io è la fine del conosciuto. Allora rimane soltanto una consapevolezza nuda, autentica, innocente. Questa consapevolezza è amore (l’amore, secondo Krishnamurti, è ‘morire all’io’ 6) ed è la vera libertà.
Dobbiamo morire giorno per giorno a tutte le cose che abbiamo accumulato psicologicamente 7.

Amore e libertà sono due termini che Krishnamurti usa per indicare l’Incondizionato e per ispirare la visione profonda della realtà. Si tratta, dunque, di due approcci alla ricerca interiore diversi ma sostanzialmente convergenti, due vie attraverso le quali l’Incondizionato si tende verso di noi manifestando il suo profumo. In questo modo i libri di Krishnamurti appaiono al lettore come sentieri di indagine nella mente, con una freschezza intrinseca che li rende vere e proprie ‘meditazioni in atto’.
Perché questo modo di parlare della libertà e dell’amore non perda la sua capacità di evocare la consapevolezza, bisogna ‘spolverare’ questi termini da ogni eventuale distorsione. Ciò significa, innanzitutto, riconoscere e rifiutare tutto ciò che non è amore, smontando così, per mezzo di un’acuta e costante osservazione, l’intero edificio dell’io. Soltanto questo processo di sincera e appassionata negazione può condurre alla scoperta dell’amore autentico.

Solo scoprendo che cosa l’amore non è, sapremo che cos’è l’amore 8.

La meravigliosa ricerca dell’amore passa perciò attraverso l’osservazione diretta, non giudicante, del desiderio, del piacere, della ricerca di sicurezza e di tutto ciò che limita le nostre relazioni e le tramuta in conflitto. Ovvero, l’indagine di Krishnamurti si focalizza essenzialmente sull’io, poiché, se non si comprende veramente il movimento anche sottile dell’io, tutto ciò che viene chiamato amore non è altro che un’immagine illusoria, rafforzata con l’attaccamento alle tradizioni o agli ideali.

Lo stesso discorso vale per la libertà. Il primo possibile fraintendimento da cui Krishnamurti mette in guardia è quello di vedere la libertà come forma di reazione, cioè come qualcosa che si contrappone a ciò che lega, che condiziona. Ma ciò che è l’opposto di una cosa, afferma Krishnamurti, appartiene allo stesso ambito di quella cosa, cioè al limitato, al condizionato. Una libertà come forma di reazione è un’azione che si muove sempre e comunque orizzontalmente, che non osa quel balzo definitivo verso la libertà assoluta.

L’insegnamento di Krishnamurti, come si è visto, mira a eliminare quella distanza che siamo soliti creare tra noi e l’Incondizionato, tra noi e la vera natura delle cose. La libertà stessa viene reificata dall’io, ridotta a un concetto, a un’astrazione del pensiero e perciò dello stesso condizionato, del ‘conosciuto’. Inoltre, viene vista come un obiettivo da raggiungere, un oggetto da ottenere, un qualcosa da cui ci separa, di nuovo, l’illusione del ‘tempo psicologico’. Ajahn Sumedho chiama questa trappola dell’io gaining idea, il concetto, cioè, che dobbiamo conquistare qualcosa da cui siamo divisi, lontani. Rimandiamo, così, l’atto di vedere, ostacoliamo la visione immediata delle cose, ponendo tra noi e la libertà ultima la barriera del tempo, del pensiero, dell’attaccamento, della paura. Come insegna la tradizione buddhista (specialmente le scuole del Mahayana), la libertà, o natura di Buddha, è già presente, ma non la vediamo. Il sottile insegnamento di Krishnamurti ruota intorno a questo asse cruciale: non c’è una ‘liberazione nel futuro’ (definizione che evoca la nozione di tempo psicologico e allontana dalla presenza mentale), ma esiste soltanto il momento presente, che è senza tempo, che è già libertà. Questa relazione tra momento presente e libertà la ritroviamo nelle parole del maestro Zen Suzuki Roshi:

Se andate alla ricerca della libertà, non potete trovarla. La libertà assoluta stessa dev’essere presente già prima che voi possiate ottenere la libertà assoluta 9.

Nello stesso modo Krishnamurti è solito ripetere: “Il primo gradino è l’ultimo gradino”. Egli si rende conto che parlare di libertà può diventare un’oziosa speculazione su teorie o ideali, una stagnante proliferazione del pensiero. I suoi libri non espongono concetti (ne siamo già pieni) ma comunicano l’urgenza di vedere, di trasformare se stessi, di assaporare quel ‘frutto prezioso’, quell’‘incommensurabile qualcosa’.
Votarsi alla libertà e a scoprire cos’è l’amore, sono queste le uniche due cose che contino: la libertà e quella cosa chiamata amore 10.

NOTE
1. Krishnamurti, A se stesso, Ubaldini Editore, Roma 1990, p. 18.
2. Per la biografia di Krishnamurti si veda Mary Lutyens, La vita e la morte di Krishnamurti, Ubaldini Editore, Roma 1990.
3. Krishnamurti, Sull’amore e la solitudine, Ubaldini Editore, Roma 1996, p. 111.
4. Krishnamurti, Sulla libertà, Ubaldini Editore, Roma 1996, p. 117.
5. Sulla libertà, p. 75.
6. Krishnamurti-Andersson, Un modo diverso di vivere, Ubaldini Editore, Roma 1996, p. 154.
7. Sull’amore e la solitudine, p. 65.
8. Sull’amore e la solitudine, p. 68.
9. Shunryu Suzuki, Mente Zen, mente di principiante, Ubaldini Editore, Roma 1976, p. 92.
10. Sulla libertà, p. 112.

Il silenzio e lo spazio di Ajahn Sumedho

Secondo uno stile di vita mondano, il silenzio è qualcosa di cui non vale la pena occuparsi. È più importante pensare, creare, fare cose: riempire il silenzio con il suono. Di solito pensiamo ad ascoltare il suono, la musica, qualcuno che parla; riguardo al silenzio, crediamo che non ci sia nulla da ascoltare. E quelle volte in cui siamo con qualcuno e nessuno dei due sa cosa dire all’altro, ci sentiamo imbarazzati, a disagio; il silenzio tra noi e l’altro diviene fastidioso.

Tuttavia, concetti come silenzio e vacuità cominciano a indicare una direzione da sviluppare, qualcosa cui prestare attenzione, dal momento che nella vita moderna siamo riusciti a distruggere il silenzio e a demolire lo spazio. Abbiamo creato una società nella quale siamo ininterrottamente indaffarati; non sappiamo come riposare o rilassarci o come semplicemente essere. A causa delle pressioni cui la nostra vita soggiace, menti intelligenti sprecano tanto di quel tempo a sviluppare una tecnologia che faciliti la vita, eppure ci ritroviamo stressati. Li hanno chiamati “congegni per risparmiare il tempo”, dovrebbero permetterci di ottenere tutto ciò che vogliamo semplicemente premendo un bottone. Mansioni noiose sarebbero così svolte da robot e macchinari. Ma come trascorriamo il tempo che abbiamo risparmiato?

In un modo o nell’altro dobbiamo avere qualcosa da fare, rimanere indaffarati, dover riempire sempre il silenzio con il suono e lo spazio con le forme. In effetti, l’enfasi è sull’essere una personalità, qualcuno che possa dimostrare il proprio valore. È questa la lotta estenuante, il ciclo interminabile da cui ci sentiamo stressati. Quando siamo giovani e pieni d’energia possiamo goderci i piaceri della gioventù, la salute, le storie d’amore, le avventure e tutto il resto. A un tratto, però, queste esperienze possono interrompersi, magari per una menomazione o perché abbiamo perso qualcuno cui eravamo molto attaccati. Ciò che ci accade può scuoterci al punto che i piaceri sensoriali, la salute, il vigore, il bell’aspetto, la personalità, le lodi del mondo non ci danno più felicità. Oppure possiamo sentirci amareggiati perché non siamo riusciti a ottenere il livello di piacere e successo che immaginiamo ci spetti di diritto. Così dobbiamo sempre metterci alla prova, essere qualcuno, intimiditi dalle richieste della nostra personalità.

La personalità è condizionata nella mente. Non nasciamo con una personalità. Per diventare una personalità dobbiamo pensare, concepirci come qualcuno. La personalità può essere buona o cattiva, o un insieme di cose, e dipende dal riuscire a ricordare, dall’avere una storia, avere opinioni, assunti su noi stessi, attraenti o non attraenti, amabili o no, intelligenti o stupidi, opinioni variabili a seconda delle situazioni. Ma quando sviluppiamo la mente contemplativa vediamo attraverso ciò. Cominciamo a sperimentare la mente originaria: la coscienza prima che sia condizionata dalla percezione.

Ora, se cerchiamo di pensare a questa mente originaria, ci ritroviamo intrappolati nelle nostre facoltà analitiche. Perciò, dobbiamo osservare e ascoltare anziché sforzarci di immaginare come diventare qualcuno che è illuminato. Meditare al fine di diventare qualcuno che è illuminato non funziona, perché in tal modo creiamo il nostro io come una persona che adesso è non-illuminata. Tendiamo a riferirci a noi stessi come non-illuminati, persone con un mucchio di problemi, o addirittura come casi disperati. A volte ci immaginiamo che la cosa peggiore che possiamo pensare di noi stessi è la verità. C’è una sorta di perversione che ritiene che l’autentica sincerità risieda nell’ammettere le peggiori cose possibili su noi stessi!

Non sto formulando giudizi contro la personalità, ma vi sto consigliando di conoscerla, in modo che non siate più spinti dall’illusione che create e dagli assunti che avete su voi stessi in quanto persone. Ed è per questo che si impara a sedere calmi in meditazione e ad ascoltare il silenzio. Non è che questo vi renderà illuminati, ma si oppone alla forza dell’abitudine, alle energie inquiete del corpo e delle emozioni. È per questo che ascoltate il silenzio. Potete udire la mia voce, potete udire i suoni delle cose che accadono, ma dietro tutto ciò c’è una specie di sibilo, un ronzio quasi elettronico. Questo è quello che chiamo ‘il suono del silenzio’. Lo trovo un modo molto utile per concentrare la mente, giacché, quando si inizia a notarlo (senza considerarlo una sorta di conseguimento), esso diviene un efficace metodo per la contemplazione, per udire sé stessi pensare. Il pensare è di per sé una specie di suono, no? Quando pensate, potete udirvi pensare. Così, quando ascolto me stesso pensare è come ascoltare qualcun altro che parla. Per cui ascolto il pensiero della mente e il suono del silenzio: quando sto con il suono del silenzio, mi accorgo che non sto pensando. C’è calma, per cui osservo, osservo coscientemente la calma e questo aiuta a riconoscere la vacuità. La vacuità non è il rifiuto, la negazione di qualcosa, ma un lasciar andare le tendenze abituali dell’attività irrequieta o del pensiero ossessivo.

Ascoltando, potete effettivamente arrestare la forza delle abitudini e dei desideri. E in questo ascolto, in questo stare con il suono del silenzio, c’è attenzione. Non occorre chiudere gli occhi, tapparsi le orecchie o chiedere a qualcuno di uscire dalla stanza, non occorre trovarsi in un posto particolare, a quanto pare funziona ovunque. Può essere molto prezioso in una situazione di vita in comune, in famiglia, in qualsiasi contesto di vita abituale. In situazioni del genere ci abituiamo agli altri e tendiamo ad agire secondo assunti e abitudini senza neanche accorgercene. E il silenzio della mente consente a tutte queste condizioni di essere ciò che sono. Ma l’abilità di rifletterci in termini di sorgere e cessare ci permette di vedere che tutte le percezioni e tutti i concetti che abbiamo su noi stessi sono condizioni della mente, non sono ciò che siamo veramente. Ciò che pensate di essere non è ciò che siete.

A questo punto potreste ribattere: “E allora cosa sono?”. Ma avete bisogno di sapere cosa siete? Avete bisogno di sapere cosa non siete, è abbastanza. Il problema è che crediamo di essere tutte quelle cose che non siamo e per questo motivo soffriamo. Non soffriamo a causa del non-sé (anatta), del non essere nessuno: soffriamo perché siamo qualcuno tutto il tempo. Ecco dov’è la sofferenza. Quando non siamo ‘qualcuno’, perciò, non c’è sofferenza, c’è sollievo, come deporre un pesante fardello pieno di ‘auto-coscienza’, di paure per ciò che le altre persone pensano. Tutto quell’insieme che è correlato al senso del nostro ‘io’, possiamo lasciarlo cadere. Possiamo semplicemente lasciarlo andare. Che sollievo non essere qualcuno! Non sentire di essere qualcuno che ha tanti problemi, che “dovrebbe praticare di più la meditazione”, che “dovrebbe andare ad Amaravati più spesso”, che “dovrebbe sbarazzarsi di tutte queste cose e non ci riesce!”. Tutto questo è pensiero, vero? È fabbricare ogni genere di concetti su se stessi. È la mente giudicante. La mente discriminante che vi dice in continuazione che non siete buoni abbastanza, che dovete essere migliori.

Quindi possiamo ascoltare; questo ascolto è a nostra disposizione tutto il tempo. All’inizio magari è utile fare ritiri di meditazione, trovare situazioni in cui siete incoraggiati e sostenuti in questo compito, dove c’è un insegnante che vi stimola, che vi aiuta a ricordare, perché è facile ricadere nelle vecchie abitudini, soprattutto nelle abitudini mentali, che sono sottili. E il suono del silenzio non sembra degno di essere ascoltato. Anche se ascoltate la musica, potete ascoltare il silenzio dietro la musica. Non distrugge la musica, ma la pone in una prospettiva in cui non siete trascinati via dalla musica o assuefatti al suono. Potete apprezzare il suono e anche il silenzio.

La Via di Mezzo di cui parla il Buddha non è un estremo di annichilimento. Non è come dire: “Tutto ciò di cui dobbiamo occuparci è il silenzio, la vacuità, il non-sé. Dobbiamo sbarazzarci dei nostri desideri, della nostra personalità, tutto il regno dei sensi è una minaccia al silenzio. Dobbiamo distruggere tutte le condizioni, tutta la musica, tutte le forme, non dobbiamo avere forme in questa stanza, solo muri bianchi”. Non si tratta di vedere il mondo ‘formato’ come una minaccia alla vacuità, di parteggiare per il condizionato o per l’incondizionato, ma piuttosto di riconoscere la loro relazione: questa è una pratica continua.

La consapevolezza è la via, dal momento che siamo fortemente condizionati dallo stare qui, sul pianeta Terra, con questo corpo umano. Dobbiamo vivere tutta la vita all’interno dei limiti, dei problemi e delle difficoltà del corpo umano. E abbiamo emozioni. Sentiamo tutto e ricordiamo tutto. Siamo in questo stato di piacere e dolore per tutta la vita. Ma possiamo vederlo nel modo giusto, ed è questo che intende il Buddha: comprendere le cose così come sono, riuscire a lasciar essere le cose così come sono, anziché creare illusioni.

A causa dell’ignoranza creiamo infinite illusioni sulla vita, sul nostro corpo, sui nostri ricordi, sul nostro linguaggio, sulle nostre percezioni, opinioni, punti di vista, la cultura, le convenzioni religiose, e così diventa complicato, difficile e separativo. L’alienazione che oggi la gente prova è il risultato dell’ossessione riguardo a se stessi, l’ossessione per cui il nostro senso dell’io è di assoluta importanza. Siamo stati educati a pensare che la nostra vita è tutta qui, per cui possiamo riempirci della nostra auto-importanza. Anche il fatto che possiamo ritenere di essere un caso disperato: anche qui continuiamo a dare quella enorme importanza. L’importanza che conferiamo a noi stessi ci fa trascorrere anni dagli psichiatri a discutere i motivi per cui saremmo senza speranza. È piuttosto naturale, visto che dobbiamo passare tutto il tempo con noi stessi. Possiamo fuggire dagli altri, ma non da noi stessi.

L’anatta, il non-sé, è molto frainteso, si tende a vederlo come una negazione dell’io, qualcosa da mettere via, che non dovremmo avere. Non è così che funziona l’anatta. L’anatta, il non-sé, è un suggerimento per la mente, è uno strumento per cominciare a riflettere su cosa siamo veramente. A lungo andare, non occorre considerarci in alcun modo in termini di ‘essere qualcosa’. Se portiamo avanti questa riflessione, allora il corpo, le emozioni, i ricordi, tutto ciò che sembra identificarsi in maniera così assoluta, insistente, con noi stessi, può essere visto in termini di ‘sorgere e cessare’. E quando siamo consapevoli della cessazione delle cose, ci sembra più autentico delle condizioni effimere che tendiamo ad afferrare o dalle quali ci sentiamo ossessionati. Le tendenze abituali sono molto forti, ci vuole un po’ per riuscire a superare questo scoglio dell’ossessione per l’io, ma ci si può riuscire.

In merito a ciò, alcuni psicologi e psichiatri hanno commentato che abbiamo bisogno di un io. È una cosa importante da considerare, l’io non è qualcosa che non dovremmo avere, ma è qualcosa cui dare la giusta collocazione, è bene che l’io poggi sulla bontà della nostra vita invece che venga a crearsi dai difetti, dagli errori e dalle tendenze negative della mente.

È così facile vedersi in modi molto critici, specialmente quando ci si paragona ad altre persone o si immaginano grandi figure della storia. Ma se ci paragoniamo continuamente a ideali, non possiamo fare altro che criticarci per come siamo, perché la vita è così, è un flusso, un cambiamento, è sentirsi stanchi, avere a che fare con problemi emotivi, con la rabbia, con la gelosia, con le paure, con ogni sorta di desiderio, con tutto ciò che non vogliamo ammettere neanche a noi stessi. Ma questa è una parte del processo, dobbiamo riconoscere le condizioni e osservare la loro natura, che siano buone o cattive, perfette o imperfette: sono impermanenti, sorgono, cessano. In questo modo impariamo in continuazione e troviamo forza nel lavorare attraverso le nostre condizioni karmiche. Forse nella vita non abbiamo ottenuto un granché, forse abbiamo avuto ogni sorta di problemi fisici ed emotivi. Ma, in termini di Dhamma, questi non sono ostacoli, anzi, molte volte sono questi problemi, queste difficoltà che ci spingono a risvegliarci alla vita. E una parte di noi si rende conto che cercare di raddrizzare ogni cosa, di abbellire ogni cosa, di mettere tutto in ordine e rendere la vita piacevole, non è la risposta. Riconosciamo che nella vita c’è qualcosa di più che limitarsi a controllarla e cercare di ottenere il massimo dalle condizioni.

Il riconoscimento del silenzio è una via per lasciare andare la nostra posizione, il nostro senso dell’io, la nostra convenzione. Nel silenzio c’è unità. È come lo spazio in questa stanza: è lo stesso per tutti noi. Non posso affermare che lo spazio è mio. Lo spazio è semplicemente spazio, è dove le forme vanno e vengono. Ma è anche qualcosa che possiamo osservare, contemplare. E cosa accade? Sviluppando la consapevolezza dello spazio, cominciamo ad avere un senso dell’infinito: lo spazio non ha né inizio né fine. Possiamo costruire stanze, considerare lo spazio come qualcosa che esiste in una stanza come questa, ma sappiamo che in realtà è l’edificio che è nello spazio. Lo spazio è come l’infinito, non ha confini. Ma nelle limitazioni della nostra coscienza visiva, i confini ci aiutano a vedere lo spazio in una stanza, perché lo spazio in quanto infinito è troppo. Lo spazio in una stanza è sufficiente per contemplare la relazione tra le forme e lo spazio. Ascoltare il suono del silenzio e i pensieri ha lo stesso effetto.

Per un certo periodo ho praticato formulando deliberatamente i pensieri, pensieri neutri che non suscitano sensazioni emotive, come “io sono un essere umano”. E ascoltavo me stesso formulare quel pensiero con l’intenzione di ascoltare il pensiero in quanto pensiero e il silenzio che vi è dentro. In questo modo contemplo e riconosco il rapporto tra la facoltà del pensiero e il silenzio, il silenzio naturale della mente. Ed è qui che stabilisco la consapevolezza, la capacità che ho come individuo di essere un testimone, di essere colui che ascolta, ciò che è vigile. Nei confronti delle emozioni, ciò può essere molto difficile. Possiamo avere molte emozioni negative verso noi stessi, perché non abbiamo risolto molti dei nostri desideri di possedere le cose, di sentire le cose, di ottenere molte cose o di sbarazzarci delle cose. È qui che ascoltiamo le nostre reazioni emotive. Cominciate a osservare cosa accade da un punto di vista emotivo quando c’è questo silenzio. Può esserci negatività, possono sorgere dubbi su questa pratica, del tipo “non so cosa sto facendo”, o “è una perdita di tempo”. Ma ascoltate anche queste emozioni: sono soltanto abitudini della mente. Se le ammettiamo e le accettiamo, esse cessano. Le reazioni emotive se ne andranno progressivamente e avrete fiducia nell’essere semplicemente ciò che è consapevole.

Quindi potete fondare la vostra vita nell’intenzione di fare del bene e di astenervi dal fare del male. Paradossalmente, abbiamo bisogno di questo rispetto di noi stessi. La meditazione non si poggia sul concetto secondo cui se siamo consapevoli possiamo fare quello che ci pare, ma comporta un rispetto per le condizioni: rispettare il corpo che abbiamo, la nostra umanità, la nostra intelligenza e la nostra abilità nel fare le cose. Non significa essere attaccati o identificati, significa che la meditazione ci permette di riconoscere ciò che siamo: è così com’è, le condizioni sono così. E significa rispettare anche i nostri limiti. Il rispetto verso se stessi, il rispetto verso le condizioni, equivale al rispetto per qualsiasi stato in cui ci troviamo. Non vuol dire che ci piaccia quello stato, ma significa accettarlo e imparare a lavorare con le sue limitazioni.

Dunque, per la mente illuminata non si tratta di ottenere il massimo. Non si tratta di dover avere la migliore salute possibile e le migliori condizioni possibili, non si tratta di alimentare un senso dell’io, di qualcuno che agisce solo se ha il meglio. Quando cominciamo a renderci conto che i nostri limiti, i nostri difetti e i nostri aspetti più strani non sono impedimenti, allora li vediamo nel modo giusto. Possiamo rispettarli, possiamo essere disposti ad accettarli e ad adoperarli per superare il nostro attaccamento verso di essi. Se pratichiamo in questo modo, possiamo essere liberi dall’attaccamento e dall’identificazione con le percezioni di noi stessi, di come siamo. È quanto di meraviglioso possiamo fare come esseri umani, è ciò che ci permette di attingere alla pienezza della nostra vita. Ed è un processo continuo.

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