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Autore: Hiram

UNA VIA CONTRO LO STRESS di Monique Mizrahil

Una tesi fondamentale della bioenergetica è che il corpo e la mente sono funzionalmente identici: quel che accade nella mente, cioè, riflette quel che accade nel corpo, e viceversa. Così, ognuno di noi, nel corso della, sua vita, iscrive nel proprio corpo, oltre che nella propria mente, le emozioni, i sentimenti e i pensieri che via via lo attraversano in risposta agli stimoli che provengono dal mondo esterno…

UNA VIA CONTRO LO STRESS Monique Mizrahil

Una tesi fondamentale della bioenergetica è che il corpo e la mente sono funzionalmente identici: quel che accade nella mente, cioè, riflette quel che accade nel corpo, e viceversa. Così, ognuno di noi, nel corso della, sua vita, iscrive nel proprio corpo, oltre che nella propria mente, le emozioni, i sentimenti e i pensieri che via via lo attraversano in risposta agli stimoli che provengono dal mondo esterno.
Gli stimoli lievi lasciano segni passeggeri, ma gli eventi traumatici lasciano segni che non si cancellano facilmente: la mente può allontanarne il ricordo, il corpo, invece, non dimentica. Infatti, per difendersi da questi eventi traumatici, il corpo adotta delle “strutture” che gli consentono di non percepire sentimenti come il dolore, la paura o la rabbia, con i quali non riesce a convivere. Queste strutture, che rappresentano la memoria del corpo, e che in bioenergetica si chiamano significativamente armature caratteriali, non sono altro che contrazioni muscolari: dove c’è contrazione, infatti, non scorre energia, e dove non scorre energia noi non percepiamo il nostro corpo, e i sentimenti che lo animano.
II problema è che queste armature (ognuno di noi ne ha adottata una nel corso della propria infanzia) rimangono iscritte nel nostro corpo anche quando non sarebbero più necessarie, quando cioè gli eventi che le hanno rese indispensabili per la nostra sopravvivenza sono ormai lontani. L’armatura è infatti un sistema difensivo che si autosostiene, diventando cronico.
Un esempio?
Un bambino, per non sentire il dolore causatogli dal rifiuto della madre di accudirlo con amore quando lui si protende verso di lei, contrae di solito i muscoli delle braccia e del petto. Così facendo, infatti, “elimina” sia l’istinto di protendersi sia la percezione del dolore. Crescendo e diventando adulto, però, poiché non sente le sue braccia, continua a non potersi protendere per ottenere ciò di cui ha bisogno. Non protendendosi, non lo ottiene. E questa frustrazione giustifica il mantenimento dell’armatura caratteriale.

Le classi di esercizi bioenergetici
Ogni tensione muscolare, sia essa cronica (parte cioè della nostra. armatura), oppure generata da uno stress temporaneo di qualsiasi genere e gravità (un lutto, una lite, un viaggio, un trasloco) è un “buco” nella nostra capacità di sentire il nostro corpo, quindi di percepire noi stessi. Nella contrazione, infatti, rimane trattenuta l’energia dell’emozione “pericolosa” che ci siamo negati: di conseguenza, non solo non siamo più in grado di agirla (piangendo, urlando, ridendo, pestando i piedi) ma non siamo neppure più capaci di sentirla: non sappiamo se siamo tristi o arrabbiati, bisognosi di affetto o umiliati.
Non sappiamo chi siamo.
Ma l’energia intrappolata nei nostro corpo genera stress, anzi è stress (il termine inglese “stress” significa infatti tensione).
Le classi di esercizi di bioenergetica sono nate proprio con l’obiettivo di aiutare le persone a entrare in contatto con le tensioni presenti nel loro corpo e, diventando consapevoli delle emozioni in esse trattenute, liberarle.
Alle spalle delle classi di esercizi ci sono la teoria e la pratica dell’Analisi Bioenergetica messa a punto da Alexander Lowen.
Tuttavia le classi di esercizi non sono gruppi terapeutici perché, anche se gli esercizi hanno una grande risonanza a livello emotivo e psicologico, nelle classi non è previsto un momento di integrazione analitica con il conduttore. Ciò non significa che i partecipanti siano abbandonati a loro stessi e alle loro emozioni: se per esempio una persona piange, il conduttore di solito le si avvicina e la invita a respirare profondamente, ma non entra nel merito delle ragioni del pianto. Il conduttore, che propone gli esercizi e vigila sui processi in atto, è insomma una presenza che garantisce contenimento al gruppo e sostegno alle singole persone che si trovino a vivere emozioni che da sole non riescono ad arginare.

Carica, scarica, rilassamento
Ogni classe di esercizi (che dura un’ora e mezza circa e ha cadenza settimanale) si articola in una sequenza di esercizi.
Ogni esercizio si sviluppa secondo un ciclo di contrazione ed espansione, che è il ciclo naturale dell’energia.
Nella fase di contrazione il muscolo (o il gruppo di muscoli) su cui si sta lavorando viene sottoposto a tensione. Quest’aumento di tensione, provocato volontariamente, è, in qualche modo, una cura di tipo omeopatico: sovrapponendo tensione (volontaria) a tensione (involontaria e preesistente) il corpo viene stimolato a reagire, rilasciando e liberando lo stress contenuto in quell’area. La liberazione della carica avviene tramite movimenti vibratori, che in genere si sviluppano involontariamente quando i muscoli raggiungono la tensione limite, ma può essere resa più immediata da un movimento espressivo.
Per esempio prendiamo i polpacci: se costretti con opportuni esercizi a tendersi e caricarsi, a un certo punto inizieranno spontaneamente a vibrare, e questo processo naturale può essere rafforzato invitando le persone a scalciare, o a battere i piedi per terra. Dopo la scarica, l’organismo può finalmente rilassarsi: scarica e rilassamento coincidono con il momento dell’espansione.
La tensione muscolare accumulata può essere paragonata a un’automobile che, bloccata in mezzo alla strada, impedisce il normale fluire del traffico: a poco a poco la circolazione ne risente, non solo in quella strada, ma in tutta la zona, e alla fine nell’intera città. Se si riesce a far partire l’auto, la circolazione riprende invece a fluire regolarmente.
Così dentro di noi: un blocco muscolare impedisce il normale fluire di energia, sangue e respiro, non solo nell’area interessata al blocco, ma in varia misura in tutto 1’organismo. Quando si consente alla tensione muscolare di scaricarsi, e quindi ai muscoli di rilassarsi, tutti i fluidi vitali riprendono a circolare liberamente, col risultato di rimetterci in contatto con il nostro corpo e le nostre emozioni (come abbiamo visto più sopra, infatti, dove non scorre energia noi non percepiamo il nostro corpo).
Mano a mano che in una classe di esercizi si lavora secondo questo ciclo energetico di carica, scarica e rilassamento, l’energia delle persone tende a salire: nonostante gli esercizi siano spesso faticosi, alla fine le persone si sentono meglio, perché sono ai tempo stesso più distese e più energiche: più vive.
Diventare persone con i piedi sulla terra
La posizione base dell’analisi Bioenergetica si chiama “grounding”. Avere grounding vuol dire avere i piedi sulla terra.
Il contatto con il terreno può essere sentito in modo più o meno profondo, a seconda delle persone e, nella stessa persona, da un momento all’altro della sua vita.
Ma avere grounding, in un senso più ampio, vuol dire anche essere in contatto con il proprio corpo, e con la verità della propria esistenza, anziché vivere “tra le nuvole”, soltanto nella propria testa e nei propri pensieri.
Ogni classe di esercizi prende il via da un esercizio di grounding, ma il grounding, nel suo senso più esteso, è l’obiettivo stesso della bioenergetica: un corso di esercizi potrebbe infatti essere definito come un processo di progressivo radicamento nella realtà della propria natura.
Il corpo, insomma, diventa uno strumento di consapevolezza per arrivare al centro di sé.
Negli esercizi di grounding, le persone si lasciando scendere, abbassano il proprio centro di gravità.
Nel nostro corpo, la metà inferiore è molto più simile, nelle sue funzioni, a quella di un animale (locomozione, escrezione, sessualità) che la metà superiore (pensiero, linguaggio e manipolazione dell’ambiente). Mentre quasi tutte le filosofie orientali riconoscono 1’importanza di avere il proprio centro (“hara”) nel basso ventre, gli occidentali sono di solito centrati nella parte superiore del corpo, soprattutto nella testa.
Ma la mancanza di contatto con la Madre Terra e con il ventre, che è letteralmente la sede della vita, produce insicurezza e angoscia.
Nella posizione base del grounding, le persone sono in piedi, con le gambe distanti tra loro quanto le ossa del bacino, i piedi paralleli e le ginocchia leggermente flesse.
Le ginocchia sono infatti degli ammortizzatori: se fossero rigide non lascerebbero scorrere 1′ energia e non assorbirebbero il peso del nostro corpo, che verrebbe intrappolato nel fondo schiena, con conseguenti disturbi nella zona lombosacrale.
A partire da questa posizione, si piegano e si raddrizzano leggermente le ginocchia, senza mai distenderle completamente, sintonizzando questo movimento con il respiro. Il ventre è in fuori: infatti la pancia risucchiata in dentro rende impossibile una corretta respirazione.
Non interferire con la propria respirazione
Una buona e profonda respirazione è uno degli strumenti indispensabili dell’analisi Bioenergetica: è attraverso la respirazione, infatti, che riceviamo l’ossigeno indispensabile per alimentare i nostri processi metabolici, che a loro volta ci forniscono l’energia di cui abbiamo bisogno. Non si tratta di imparare a respirare come un mantice: al contrario, si tratta di re-imparare a lasciarsi respirare naturalmente, come fanno i neonati e come da adulti non sappiamo più fare.
Una respirazione sana è un’azione di tutto il corpo. L’inspirazione è come un’onda che ha inizio nella parte profonda del bacino e scorre verso l’alto fino alla bocca, mentre le grandi cavità si espandono per lasciar entrare l’aria.
Spesso però, poiché abbiamo la pancia, il torace o la gola contratti, non possiamo respirare bene.
Nel corso delle classi di esercizi, accade di frequente che queste tensioni, acuite dall’aumento dell’energia in circolazione nel corpo, si liberino attraverso il pianto: come ci insegnano i neonati, infatti, il pianto e i singhiozzi sono sistemi molto efficaci per sciogliere la gola e il bacino quando la tensione diventa insopportabile.
Riappropriarsi dei propri suoni
Molti di noi, da bambini, sono stati inibiti nell’uso della propria voce.
“Non piangere! Non urlare! Parla piano! Non ridere. sono frasi che tutti ci siamo sentiti ripetere più volte. Alla fine quest’inibizione è diventata cronica, e noi non siamo più capaci di lasciar uscire i nostri suoni perché, per reprimerli, e ubbidire così ai messaggi culturali ricevuti, abbiamo creato una serie di tensioni nella zona della gola, del collo e della mascella. Anche questo è stress.
Ecco perché durante le classi di esercizi bioenergetica le persone sono invitate a lasciar uscire i loro suoni: che siano sospiri, gemiti, pianti o risate, se lasciati fluire liberamente, attraversano il corpo come una corrente vibratoria che ne allenta le tensioni, rendendolo più vivo.
Fare per sentire
Non c’è classe che non comprenda esercizi di grounding, e in cui i partecipanti non siano invitati a lasciarsi respirare e a lasciar uscire i loro suoni.
Ma, sulla base di queste costanti, ogni classe si sviluppa in modo originale, secondo sequenze di esercizi mirate di volta in volta a sciogliere armatura e contrazioni in determinate aree del corpo.
A differenza di quanto avviene nella ginnastica, però, il fine non è mai quello di eseguire “bene” l’esercizio, cioè di dare una perfetta prestazione. Bensì quello di sentire le sensazioni e le emozioni che via via si sviluppano nel nostro corpo, e di imparare a convivere con esse: con la gioia e con 1’amore come con la rabbia e il dolore, quando è necessario.

La psicosomatica della pelle di Pietro Paolo Rossi

La pelle, organo di superficie del corpo umano, rappresenta l’involucro protettivo e insieme di contatto con il mondo esterno. Struttura di confine fra il sé ed il non sé, organo di senso e organo di fondamentale importanza nell’omeostasi, è forse più di ogni altra parte del corpo implicata nelle vicende psico-emotive dell’individuo.
Già osservando con attenzione un bambino nei primi mesi di vita, non possiamo non avvertire l’intensità comunicativa dei reciproci contatti cutanei tra madre e bambino in termini di carezze, abbracci e vari altri tipi di stimolazioni ed esplorazioni. Osservazioni sul bambino piccolo e correlate indagini psicoanalitiche ci hanno fatto capire quanto sia importante la pelle come fattore di organizzazione dell’identità e delle funzioni dell’Io.

Anche nella quotidianità possiamo intravedere i profondi legami fra psiche e pelle. Il nostro linguaggio è ricchissimo di “modi di dire” che sottolineano la mediazione della pelle in molte nostre emozioni e stati d’animo. “Rosso dalla vergogna”, “bianco dalla paura”, “ho la pelle d’oca”, sono espressioni che coloriscono comunemente il nostro modo di parlare, mentre cambiamenti dello stato fisiologico della pelle accompagnano effettivamente stati emotivi come collera, paura, vergogna, ansia, ecc.. Cambiamenti anche di lieve entità, come il calore o la sudorazione delle mani, possono essere un importante segnale di vissuto emozionale, ed essere parte integrante della cosiddetta comunicazione non verbale.
Non dobbiamo quindi stupirci se anche molte malattie dermatologiche, del tutto o in parte, possano essere correlate alla presenza di conflitti psicologici che proprio attraverso la pelle possono esprimersi ed esteriorizzarsi. Si potrebbe affermare che la pelle è, insieme agli occhi, l’altro specchio dell’anima. Esistono numerosi esperimenti ed infinite osservazioni che dimostrano lo stretto legame cute-psiche.

Mi piace ricordare in questo ambito una esperienza alla quale ho partecipato direttamente ai tempi della scuola di specializzazione in dermatologia all’università di Firenze. Le verruche piane rappresentano una affezione virale che interessa frequentemente il viso e che è spesso resistente alle comuni terapie. Ricordo il modo veramente singolare col quale venivano curati i bambini che presentavano questa infezione. Venivano invitati a fare il loro ritratto, con la raccomandazione che fossero disegnate anche le verruche, facendo molta attenzione alloro numero, alla loro localizzazione e alla loro dimensione. I bambini venivano poi portati in una stanza nella quale, dopo aver spento tutte le luci, venivano bruciati i loro ritratti. “In questo modo i virus saranno eliminati e la vostra malattia guarirà…”, veniva detto loro. Più della metà dei bambini guariva in questo modo. Niente di miracoloso. Oggi conosciamo molti dei meccanismi che, come vedremo, sono responsabili a livello biologico del cosiddetto “salto dallo psichico al somatico”. Ripetiamo, intanto, che la pelle è uno dei terreni più adatti per manifestare disagi interiori attraverso alterazioni “psicosomatiche” della sua superficie.

Struttura della pelle
La pelle è costituita da tre strati: l’epidermide, il derma, il sottocutaneo. L’epidermide si suddivide a sua volta in cinque strati che si rinnovano continuamente, ad un ritmo che può essere anche influenzato dalla psiche. il derma si divide a sua volta in “strato papillare” e “strato reticolato”. È molto vascolarizzato e ricco di terminazioni nervose. il sottocutaneo, superficiale e profondo, è ricco di elementi adiposi e di fibre elastiche.

Significato psicologico della pelle
La pelle è stata definita “telegrafo per il mondo esterno e specchio per il mondo interno”. Per la sua posizione a confine tra il sé e tutto ciò che sta fuori e quindi il non sé porta la pelle a essere elemento fondamentale nel processo di identificazione. Secondo recenti studi il percepire i propri confini corporei come solidi e rigidi è correlato ad un tipo di personalità fortemente determinata, scarsamente condizionabile, motivata al successo e a posizioni di prestigio nella società.
Al contrario, percepire i propri confini come fragili e sfumati (esistono test sia proiettivi che psicometrici per questo tipo di valutazione), comporta un atteggiamento verso gli altri più insicuro, dipendente e, in definitiva, perdente. Da ricordare ancora le ovvie implicazioni psicologiche della pelle come organo di senso, della pelle come zona erogena e della pelle come strumento di comunicazione, soprattutto non verbale.

Note di psicodinamica della pelle
Sono molti gli studi sulle psicosomatosi forniti da autori di estrazione psicoanalitica. Secondo alcuni di essi esistono personalità predisposte a specifiche malattie della pelle. Una struttura caratteriale dell’adulto caratterizzata da competitività, meticolosità e ipercontrollo sarebbe la risposta al disinteresse della madre ed al conflitto profondo tra bisogno di amore e timore di restarne feriti e faciliterebbe lo sviluppo di dermatosi. Secondo altri sarebbe invece da prendere in considerazione non la personalità ma il vissuto psicoemotivo dell’individuo, dagli stress infantili fino a tutti gli eventi della vita che coinvolgono negativamente, in una visione psicofisica unitaria del paziente.

DERMATOSI PSICOSOMATICHE
I dermatologi hanno da sempre considerato il fattore psichico come co-fattore patogenetico di moltissime dermatopatie. Al di là delle implicazioni e delle teorizzazioni di psicologia e di psicodinamica, è di comune riscontro clinico una componente eziopatogenetica emozionale in gran parte delle malattie della pelle. In alcune di queste tale componente appare più evidente e più fortemente condizionante, configurando i quadri delle cosiddette “dermatosi psicosomatiche”, come orticaria, dermatite atopica, alopecia areata, psoriasi etc.

Orticaria
L’orticaria è una frequente dermatosi caratterizzata da lesioni pomfoidi, eritemato-edematose, di varie dimensioni e, caratteristicamente, transitorie e fugaci per quanto riguarda la durata. Le cause possono essere le più varie: allergiche, alimentari, fisiche, traumatiche o da contatto con varie sostanze anche semplici, come l’acqua. In un terzo delle orticarie gli stimoli psicogeni sembrano avere un i ruolo scatenante o aggravante. I pazienti con orticaria sono spesso ansiosi, depressi e provano sensazioni di inadeguatezza. Altri autori segnalano tensioni e difficoltà nelle relazioni a livello lavorativo, scolastico o familiare. Le personalità che sembrano predominare sono la iperemotivo-ansiosa, la insicuro-astenica e la aggressivo-irritabile. Nei pazienti orticariani viene descritta anche la ricerca di protezione da parte dello psichiatra e dello psicoterapeuta nel tentativo di un superamento della loro inibizione, passività e condizione regressiva.

Dermatite atopica
La dermatite atopica esordisce nella maggioranza dei casi nella prima infanzia durante i primi mesi di vita con la conosciutissima crosta lattea o “lattime” del cuoio capelluto, e con lesioni essudative pruriginose soprattutto del volto e delle regioni flessorie, che vanno incontro a grattamento e lichenificazione. La malattia può continuare nell’adulto con manifestazioni meno gravi a carico delle pieghe delle braccia e delle regioni posteriori del ginocchio, delle zone perilabiali e del dorso delle mani. Nella maggior parte dei casi le manifestazioni dell’adulto sono circoscrivibili a forfora ed eczemi lievi, con pelle secca ed ipersensibile, e ad intolleranze alimentari di varia entità, come quella nei confronti del latte. Tutti questi sintomi possono recidivare o aggravarsi in occasione di stress e conflitti psicologici, come possiamo riscontrare in numerose ricerche. In molti casi è stato riscontrato, a dimostrazione dell’influenza dell’ambiente familiare, che in famiglie dalle caratteristiche “morali/religiose” i sintomi sono più gravi e più numerosi rispetto a famiglie “indipendenti/organizzate”.
Importante il rapporto con la madre e con le persone significative in genere: insieme ad una variabile che è congenita, ne esiste una seconda fortemente condizionata dal tipo e dall’intensità dei rapporti affettivi. Da altri studi emerge inoltre che la maggior parte di questi pazienti soffre di nevrosi d’ansia ed è caratterizzata da grande passività nel comportamento. Fino ad oggi comunque non è stata individuata una struttura psicologica comune a tutti i pazienti, anche se emergono elementi ricorrenti come labilità emozionale, sentimenti di indipendenza, difficoltà sessuali ed una spiccata tendenza a rivolgere gli impulsi aggressivi verso di sé piuttosto che contro bersagli esterni.

Acne
Sono note a tutti le componenti somato-psichiche della malattia acneica, e più volte è stato ribadito che l’acne può condizionare seriamente lo sviluppo della personalità del giovane. Ansia, tensione, autosvalutazione fino alla riduzione dei contatti con gli altri e con l’altro sesso ed in certi casi fino al ritiro sociale con scarso rendimento scolastico e lavorativo sono i sintomi psicologici indotti dalla malattia somatica. Più controverso, anche se da molti accettato, il ruolo dei fattori psicologici nel determinismo dell’acne. Si è parlato di scarsa forza dell’Io, di insicurezza e sottomissione e di scarsa tolleranza alle frustrazioni dell’ambiente. Altra situazione, se vogliamo paradossale, è quella nella quale le manifestazioni acneiche sono una patologia atta ad alleviare l’ansia del paziente.
L’acne diventa in questi casi un alibi per ridurre le occasioni, per alcuni molto ansiogene, di incontro con gli altri. La scomparsa delle lesioni acneiche, ottenuta con le varie terapie, può creare grosse difficoltà di adattamento alle nuove situazioni.

Alopecia androgenetica
“Gli uomini senza capelli sono protagonisti di una tragedia irreparabile”, scriveva G. D’Annunzio quasi un secolo fa. L’alopecia androgenetica, o calvizie, è una diffusissima affezione ereditaria che interessa secondo alcuni autori nei suoi vari gradi di gravità dal 50 al 70% delle persone. Si manifesta soprattutto nel sesso maschile, con diradamenti dei capelli che interessano le tempie ed il vertice del cuoio capelluto, fino alla caduta totale con esclusione della classica corona parieto-occipitale. Anche le donne possono esserne interessate, particolarmente dopo una gravidanza o dopo la menopausa, ma soprattutto possono anch’esse essere portatrici e trasmettere ai figli il gene dell’ alopecia. In questa patologia, anche se lo stress può essere un fattore aggravante o precipitante della caduta, l’affezione è considerata principalmente somatopsichica, cioè caratterizzata da disagi psicologici questa volta conseguenti a disturbi corporei. Lo stress e l’ansia che accompagna la caduta di ogni capello possono veramente, se non contenuti o elaborati, trasformarsi una “tragedia irreparabile”, come diceva D’Annunzio.

Psoriasi
La psoriasi è una affezione cronica della pelle, che può insorgere a qualsiasi età, con uguale frequenza nei maschi e nelle femmine, caratterizzata da chiazze eritemato-squamose che hanno come sede elettiva il gomito ed il cuoio capelluto, ma che possono interessare anche tutto il corpo. Le cause ipotizzate sono fattore basale ereditario e fattori scatenanti legati allo stress. Nei casi studiati vengono spesso rilevati presenza di ansia e tratti narcisistici del carattere. Si descrive esso come il realizzarsi di una fuga nella malattia da parte di molti psoriasici nel tentativo di sottrarsi alle problematiche della vita e alle difficoltà dei rapporti interpersonali. È come se la protesta e 1’aggressività prenda in questi casi la via linguaggio corporeo e sia la cute a gridare a tutti la protesta dell’Io.

TERAPIA DELLE DERMATOSI PSICOSOMATICHE
Medicina psicosomatica significa soprattutto reintrodurre 1’elemento umano nostro rapporto col malato. Nella raccolta dei dati dovrà essere di fondamentale importanza conoscere la sua condizione sociale, avere notizie del suo ambiente lavorativo e della sua situazione psicoaffettiva. Ogni atto medico ha anche un valore terapeutico e quindi la cura comincerà già al primo colloquio col paziente. Il paziente dovrà essere messo a suo agio, si dovrà con molto tatto metterlo al corrente che la “malattia della pelle” può avere a che fare con “certi suoi problemi psicologici”, bisognerà aiutarlo a parlare e saperlo ascoltare, perché sappiamo che spesso è caratteristico della personalità del portatore di psicosomatosi non saper verbalizzare le proprie emozioni ed i propri vissuti. Si deve soprattutto sapere quando e quale è il caso nel quale si devono coinvolgere lo psichiatra, lo psicoterapeuta o altri operatori a rete già predisposta, si auspica, a farsi carico in modo adeguato e completo caso psicosomatico”.
Al trattamento dermatologico di base si dovrà allora spesso affiancare e, in alcuni casi, dare la precedenza alla psicofarmacologia, con tutti gli efficaci farmaci di ultima generazione, e alla psicoterapia. Di quest’ultima si raccomandano alcune metodiche particolarmente efficaci nelle malattie psicosomatiche come la psicanalisi, la terapia cognitivo-comportamentale, la psicoterapia breve, le psicoterapie corporee e le varie terapie di rilassamento. Da non dimenticare poi e da non sottovalutare una igiene di vita basata sulla famiglia, sulla professione, sullo Sport e sulle vere amicizie. Solo così la cura della pelle, altro specchio dell’anima, sarà completa.

I 38 fiori di Bach

I fiori di Bach o rimedi floreali di Bach sono una cura alternativa basata sulla floriterapia (“terapia con i fiori”), ideata dal medico britannico Edward Bach.

Bach sosteneva, al riguardo, la necessità che tale forma di terapia dovesse essere semplice e accessibile a tutti, in quanto secondo lui chiunque ha le potenzialità e le sensibilità necessarie per effettuare autodiagnosi e autopratica. Sosteneva inoltre che la terapia dovesse avere carattere preventivo e scevra di effetti collaterali.

Alla base della floriterapia di Bach è il principio secondo il quale nella cura di una persona, devono essere prese in considerazione principalmente la prevenzione e la conoscenza dei disturbi psicologici, i quali determinerebbero la sintomologia. Il singolo fiore curerebbe il disturbo psicologico che ha causato o potrebbe causare un certo malessere fisico. Dietro ogni disturbo fisico ci sarebbe quello che viene chiamato “fiume di energia”, originato a livello psicologico (come nel caso della rabbia, che viene scaricata in modi e zone del corpo differenti); pertanto, ad ogni disturbo psicosomatico, provocato dallo sfogo dell’energia, corrisponderebbe, a monte, un ben preciso disturbo dell’anima.

Sulla base di tali principi sono stati distinti 38 “tipi comportamentali” di base, ai quali corrisponderebbero 37 fiori e un’acqua di fonte, la cui energia sarebbe in grado di curare l’organismo per riportarlo in armonia; in tal modo i sintomi tenderebbero a regredire.

I rimedi floreali scoperti da Bach rilascerebbero infatti nell’acqua, se opportunamente trattati, la loro “energia” o “memoria”. Bach consigliava di cogliere i fiori al massimo della fioritura e nelle prime ore del mattino di un giorno assolato; il fiore, che non doveva essere intaccato da alcunché, veniva deposto in una ciotola d’acqua pura e veniva trattato secondo uno dei due metodi riportati nelle opere del medico gallese.

Il concetto “memoria dell’acqua” non è mai stato dimostrato sperimentalmente e non è riconosciuto dalla scienza.

I primissimi fiori scoperti da Bach furono i cosiddetti “12 Guaritori”, che il medico gallese iniziò prontamente a sperimentare prima su se stesso e poi sui suoi pazienti; gli altri 26 vennero scoperti poco tempo dopo. Le spiegazioni qui di seguito sono solamente una rapida sintesi del significato completo del fiore.

La classificazione comprende:

  • I “12 guaritori”:
    • Agrimony (Agrimonia), per chi nasconde ansia e tormento dietro gaiezza e cortesia;
    • Centaury (Centaurea minore), per chi, debole e privo di forza di volontà, viene sfruttato dagli altri;
    • Chicory (Cicoria), per chi è possessivo e ricatta gli altri perché stiano con lui;
    • Rock Rose (Eliantemo), per chi è preso da grande paura e panico;
    • Gentian (Genzianella autunnale), per chi si abbandona al pessimismo, si scoraggia e si deprime per motivi conosciuti.
    • Mimulus (Mimolo giallo), per chi ha paura delle cose del mondo;
    • Impatiens (Balsamina), per chi è impaziente e non sopporta interferenze nel suo ritmo;
    • Cerato (Piombaggine), per chi non ha fiducia in sé e chiede continuamente consiglio;
    • Scleranthus (Fiorsecco, Scleranto o Centigrani), per chi è indeciso tra due vie e si abbandona all’insicurezza;
    • Vervain (Verbena), per chi si lascia trasportare troppo dall’entusiasmo e dal fanatismo;
    • Water Violet (Violetta d’acqua), per chi è orgoglioso e ama stare da solo;
    • Clematis (Vitalba), per chi sogna ad occhi aperti, è indifferente alla vita e fugge dalla realtà.
  • I “7 aiuti”:
    • Rock Water (acqua di fonte), per chi si autoreprime per essere d’esempio;
    • Wild Oat (Forasacco o Avena selvatica), per chi è scontento o insicuro sul ruolo da svolgere nella vita;
    • Heather (Brugo o Erica), per chi odia la solitudine e attacca bottone usando gli altri;
    • Gorse (Ginestrone), per chi prova grande disperazione e si sente senza speranza;
    • Olive (Olivo), per chi è completamente esausto a causa dello stress o della fatica mentale;
    • Oak (Quercia), per chi non riesce a staccare dal lavoro;
    • Vine (Vite), per chi prova desiderio e ambizione di dominare inflessibilmente gli altri.
  • I “19 assistenti”:
    • Holly (Agrifoglio), per chi ha sfiducia nel prossimo, prova invidia e odio;
    • Honeysuckle (Caprifoglio), per chi si rifugia nella nostalgia del passato, ricordando solo le cose belle;
    • Hornbeam (Carpino bianco), per chi si sente stanco, debole, e dubita delle sue capacità di fronte ad un problema;
    • White Chestnut (Ippocastano bianco), per chi ha pensieri e preoccupazioni costanti e indesiderati;
    • Sweet Chestnut (Castagno dolce), per chi prova un’angoscia estrema, una disperazione con coraggio, però, che non tende al suicidio;
    • Red Chestnut (Ippocastano rosso), per chi prova apprensione per gli altri e si aspetta sempre il peggio;
    • Beech (Faggio), per chi è intollerante, polemico e arrogante;
    • Chestnut Bud (Gemma di Ippocastano bianco), per chi ripete sempre gli stessi errori e non vuole crescere;
    • Larch (Larice), per chi ha paura di fallire ed è affetto da complessi di inferiorità;
    • Crab Apple (Melo selvatico), per chi si sente sporco, nel corpo o nella mente;
    • Cherry Plum (Prugno), per chi ha paura di perdere la ragione;
    • Walnut (Noce), per chi deve affrontare grandi cambiamenti (es. pubertà, menopausa, vecchiaia, trasferimenti, lutti, divorzi, etc.) e per chi teme di essere vittima di malefici;
    • Elm (Olmo inglese), per chi si sente momentaneamente sommerso di responsabilità;
    • Pine (Pino silvestre), per chi tende a caricare su di sé anche le colpe altrui;
    • Aspen (Pioppo), per chi ha paura di cose vaghe, indistinte, e senza motivo;
    • Wild Rose (Rosa canina), per chi si abbandona alla rassegnazione e all’apatia;
    • Willow (Salice giallo), per chi prova amarezza e risentimento;
    • Mustard (Senape selvatica), per chi è ammalato di depressione, anche passeggera, ma grave e spesso per motivi sconosciuti;
    • Star of Bethlehem (Ornitogalo o Latte di gallina), per chi ha provato ogni tipo di shock o dolore fisico, mentale ed emotivo.

Suddivisione secondo gli stati d’animo

  • Per la paura: Rock Rose, Mimulus, Cherry Plum, Aspen, Red Chestnut.
  • Per l’incertezza: Cerato, Scleranthus, Genzian, Gorse, Hornbeam, Wild Oat.
  • Per lo scarso interesse verso le circostanze attuali: Clematis, Honeysuckle, Wild Rose, Olive, White Chestnut, Mustard, Chestnut Bud.
  • Per la solitudine: Water Violet, Impatiens, Heater.
  • Per l’ipersensibilità alle influenze e alle idee: Agrimony, Centaury, Walnut, Holly.
  • Per l’avvilimento e la disperazione: Larch, Pine, Elm, Sweet Chestnut, Star of Bethlehem, Willow, Oak, Crab Apple.
  • Per l’eccessiva preoccupazione del benessere altrui: Cicory, Vervain, Vine, Beech, Rock Rose.

Rescue Remedy

Il rimedio di emergenza, chiamato Rescue Remedy, inoltre, è una miscela di cinque fiori, che sarebbe utile in ogni occasione di emergenza: fortissimi stress psico-fisici, esperienze forti, situazioni di consapevolezza o di panico,svenimenti, brutti sogni ecc. Oltre che per bocca, questo rimedio può essere applicato (in caso di svenimenti, ad esempio) anche sulle tempie o sui polsi. Consiste in una miscela di:

  • Star of Betlehem, contro lo shock improvviso;
  • Rock Rose, contro il panico o il terrore;
  • Impatiens, per riportare la calma;
  • Clematis, contro la tendenza a cedere, la sensazione di allontanamento appena prima di svenire;
  • Cherry Plum, contro la paura di perdere il controllo, di andar fuori di testa.

È l’unico rimedio che, d’ordinario, non è preparato esclusivamente in forma liquida, ma anche in compresse di lattosio ed in pomata. In ques’ultima formulazione, è fornito con l’aggiunta di Crab Apple, per l’effetto depurativo dello stesso. Al Rescue Remedy tradizionale si possono aggiungere, all’occasione, alcuni fiori. Per esempio:

  • Elm, quando il fisico non si riprende (svenimenti);
  • Walnut, per adattarsi a situazioni che mettono a disagio ma nelle quali bisogna stare per forza;
  • Sweet Chestnut, in caso di un lutto, di una perdita;
  • Scleranthus (e Walnut), per chi ha problemi con i viaggi in generale (paura di volare, mal d’auto ecc..)

Preparazione

Preparare i fiori di Bach è relativamente semplice, e il metodo con cui oggi si estraggono le essenze dai fiori è ancora quello tramandato da Bach stesso.

Ci sono due metodi che Bach scelse nella preparazione dei suoi rimedi. Quello del sole e quello della bollitura. I dodici guaritori e i sette aiuti si preparano col primo sistema, mentre i diciannove assistenti con il secondo.

Il primo metodo, quello del sole è molto semplice. Intanto è necessario lavorare in una giornata calda e soleggiata, ovviamente nel periodo di fioritura della pianta che vi interessa. I fiori vanno raccolti sul posto, senza essere toccati con le mani, e non devono essere bagnati dalla rugiada. Recidendoli con delle forbici, si fanno cadere i boccioli in un recipiente di vetro fine da 300 ml, riempito di acqua pura, avendo cura di non immergerli completamente, ma solo per metà, e di coprire con essi la superficie della bacinella. Quindi si lasciano macerare al sole per 5/6 ore (in Italia, dove il sole è più caldo rispetto al Galles, ne bastano 4); in questo modo il sole trasferirebbe la vibrazione propria del fiore all’acqua sottostante. Terminato tale periodo, si filtra l’acqua colorata dai fiori con un filtro di carta in una bottiglia da 1 l., e si allunga con una pari dose di cognac (o brandy), che serve per la conservazione. Questo composto è chiamato tintura madre dei Fiori di Bach. Per quanto riguarda Rock Water, il procedimento è un po’ differente. Trattandosi infatti di semplice acqua di una fonte rocciosa, basta raccogliere quest’acqua nel solito contenitore (senza toccarla con le mani), lasciarla per quattro ore al sole e poi allungarla con il cognac, come prima descritto.

Il secondo metodo, invece, è più veloce. Raccolti i fiori con la stessa metodologia, si portano a casa, dove dovranno essere posti in una pentola di metallo porcellanato, all’incirca nella stessa quantità del primo metodo ma con più acqua, 1,5 l. Lasciati bollire sul fornello a gas per circa 30 minuti, si lascerà raffreddare la tintura così ottenuta, aggiungendo poi all’acqua filtrata lo stesso quantitativo di cognac o brandy.

Commercializzazione e uso

In commercio non si trova la tintura madre del fiore, bensì la bottiglia stock ottenenuta attraverso una prima diluizione, ossia 2 gocce di tintura madre in 10 ml di Brandy. A partire da questa, per ottenere il flaconcino di trattamento, basta prendere una boccetta da 30ml (preferibilmente dotata di contagocce) che si riempirà per due terzi di acqua e per un terzo di brandy, cognac o aceto di mele (sostanze che hanno la funzione di conservare e di stabilizzare la diluizione). A questo preparato si andranno ad aggiungere due gocce per ogni fiore che si desidera utilizzare. Bach sconsigliava di andare oltre i sette fiori per boccetta, ma esistono anche terapisti che prescrivono quantità più ingenti, fino ad un massimo di dodici fiori per diluizione.

Si assumeranno quotidianamente quattro gocce in quattro momenti della giornata: quattro gocce al mattino appena svegli, quattro gocce poco prima del pranzo, quattro poco prima della cena, e quattro all’atto di coricarsi. Non è necessario che gli orari siano sempre gli stessi, anche se quest’ultima ipotesi è consigliata (soprattutto per quanto riguarda la prima e l’ultima assunzione). I fiori possono essere tenuti sotto la lingua qualche secondo oppure deglutiti direttamente; non contenendo, infatti, alcun principio attivo chimico, non è necessario che il fiore entri nella circolazione sanguigna per essere efficace.

Alcuni credono che i rimedi floreali vadano tenuti lontani da fonti elettromagnetiche (cellulari, computer, forni a microonde, radiosveglie) onde evitare l’alterazione dell’efficacia, tuttavia al riguardo il Bach Centre e numerosi autori hanno sempre affermato che, per esperienza, le fonti elettriche e magnetiche non influiscono negativamente sui rimedi.

Studi scientifici

Studi scientifici non hanno dimostrato alcun effetto se non quello definito “effetto placebo”. [1][2][3][4]

Note

  1. *Armstron N (1999) A randomized, double blind placebo-controlled trial of Bach Flower Remedy. Perfusion 1999, 11:440-446
  2. *Walach H, (2001) Efficacy of Bach flower remedies in test anxiety: a double-blind, placebo-controlled, randomized trial with partial crossover. J anx disorders, 2001 15 (4)
  3. *Pintov S, Hochman M, Livne A, Heyman E, Lahat E (2005). “Bach flower remedies used for attention deficit hyperactivity disorder in children — a prospective double blind controlled study”. European Journal of Paediatric Neurology 9 (6): 395-398. 16257245.
  4. Ernst E: “Flower remedies”: a systematic review of the clinical evidence, in: Wien Klin Wochenschr. 2002 dicembre 30;114(23-24):963-6

Le pratiche qui descritte non sono accettate dalla scienza medica, non sono state sottoposte alle verifiche sperimentali condotte con metodo scientifico o non le hanno superate. Potrebbero pertanto essere inefficaci o dannose per la salute. Queste informazioni hanno solo un fine illustrativo. Il Grounding Institute (www.bioenergetic.it)  non dà consigli medici.

Le 5 leggi biologiche scoperte dal dott. Hamer: Evoluzione verso il nuovo paradigma

“Secondo il medico tedesco Ryke Geerd Hamer, l’eziologia delle malattie va ricercata nella psiche. Dai suoi studi, egli giunge alla conclusione che l’inizio del processo di malattia è rappresentato da un evento shockante, che colpisce l’individuo in maniera inaspettata, da lui definito Sindrome di Dirk Hamer (DHS).

Il lavoro di Hamer s’inserisce all’interno dello storico filone di ricerca psicosomatico, ma le conclusioni a cui arriva completano così tanto il quadro da andare a ridefinire nella sostanza il concetto stesso di malattia. La reazione del mondo accademico non fu favorevole, ma le recenti acquisizioni della neurobiologia spiegano esattamente cosa succede a livello psichico, cerebrale ed organico durante la DHS e come mai la tutta ricerca sullo stress abbia fallito, mantenendo i ricercatori all’interno dell’antica convinzione della malattia come “errore della natura”.

Dott. Danilo Toneguzzi, psichiatra, psicoterapeuta; presidente Comitato Scientifico di ALBA (Associazione Leggi Biologiche Applicate)

L’origine della malattia.

Nel 1981 il dott. Hamer condensò nella “Legge ferrea del cancro” la prima legge biologica da lui scoperta: ogni programma speciale, biologico e sensato (SBS) inizia con una DHS (Sindrome di Dirk Hamer), cioè con uno shock conflittuale gravissimo, inaspettato, altamente drammatico e vissuto nell’isolamento (Hamer, 1981). La scoperta che le malattie corrispondono ad un processo biologico con una sequenza di fasi ben precise (programma SBS) e che sono causate da un evento psichico con determinate caratteristiche (DHS) ha posto le basi per una nuova comprensione della genesi della malattia e per un definitivo superamento del dualismo tra mente e corpo.

Con la formulazione della legge ferrea del cancro, il dott. Hamer ha posto una pietra miliare verso un cambio di paradigma, una vera e propria rivoluzione copernicana che ha permette finalmente di poter dare risposte molte più esaustive alla domanda che dalla notte dei tempi l’uomo si pone, cioè: “Perché ci si ammala?”, e che ridefinisce la malattia, nella sua sostanza, come evento sensato dell’organismo, e non come un evento “sbagliato” come si era, invece, sempre pensato.

DHS è l’acronimo di Sindrome di Dirk Hamer, nome che il dott. Hamer diede all’evento che lo colpi personalmente nel 1978, quando suo figlio fu ucciso e che, in seguito, gli causò un cancro al testicolo. La DHS è un evento che colpisce l’individuo in maniera inaspettata, uno shock acuto, drammatico che lo coglie in contropiede e che da luogo ad una cascata di eventi biologici; tra l’altro, tali conseguenze, attivate dalla DHS, da sempre indicate con i termini di “sintomi” o “malattia”, non sono casuali ma seguono una sequenza precisa andando a costituire un processo biologico denominato, invece, dal dott. Hamer “Programma SBS”, dove SBS sta per “sensato”, “biologico” e “speciale”.

La DHS, quindi, da avvio ad un programma SBS; in altri termini, uno shock inaspettato determina l’attivazione di un funzionamento normalmente inteso come patologico dell’organismo. Per dirla in termini ancora diversi, un evento psichico sta alla base e determina un evento fisico e quindi la malattia è la precisa espressione sul corpo di un preciso evento emotivo.

Le conclusioni a cui giunge Hamer si inseriscono all’interno di un lungo filone di ricerca e ne completano magistralmente il quadro; ma vediamo, nello specifico, come è avvenuto tutto ciò.

 

Antecedenti nella letteratura del Novecento.

Nella letteratura scientifica e tradizionale, l’idea di una correlazione tra eventi emotivi e malattie, in realtà, viene da molto lontano, soprattutto da quando, nel secolo scorso, si è aperto un filone di ricerca in merito allo “stress” e alle sue conseguenze sulla salute. Pioniere di tale filone fu Hans Selye il quale, scrivendo una lettera alla rivista “Nature” già nel 1936 diede avvio a questo campo d’indagine che, a tutt’oggi, si stima abbia prodotto non meno di 150.000 pubblicazioni (Favretto, 1994). Gli studi sullo stress, infatti, iniziati da Selye ma proseguiti successivamente da altri numerosissimi ricercatori, rappresentano i pilastri delle concezioni da cui si è sviluppata la Medicina Psicosomatica in tutta la seconda metà del Novecento. Ma il successo della Medicina Psicosomatica rimane a tutt’oggi quanto mai controverso: nonostante una serie di acquisizioni più o meno accettate, lascia aperti alcuni interrogativi fondamentali. Ad esempio, come si spiega la scelta dell’organo? Cioè, perché lo stress determinerebbe in alcuni soggetti una dermatite ed in altri un’asma? Oppure, perché determinati soggetti, visibilmente stressati, non si ammalano? E perché qualcuno, pur conducendo una vita, tutto sommato, tranquilla, sviluppa un tumore? Ed infine, perché spesso si può notare che le persone non si ammalano sotto stress, ma quando lo stress finisce, come ad esempio nel caso dell’emicrania da week-end o nel caso in cui gli individui si ammalano quando vanno in vacanza? A questi interrogativi la medicina psicosomatica non è mai riuscita a dare delle risposte precise e univoche.

In ogni caso, gli antecedenti delle acquisizioni che connettono gli eventi psichici agli eventi fisici vanno ricercati già all’inizio del secolo scorso. Un contributo fondamentale avvenne ad opera di Walter Cannon, il quale diede una svolta fondamentale nella comprensione dei meccanismi di funzionamento dell’organismo formulando la teoria dell’omeostasi (Cannon, 1932). Nel continuo rapporto con l’ambiente in cui è immerso, cioè, l’organismo vivente è impegnato incessantemente nel mantenere costanti le condizioni del suo ambiente interno: l’omeostasi, quindi, è, al tempo stesso un mezzo ed un fine per la sopravvivenza degli individui. In questo processo di continuo adattamento, l’organismo interviene sull’ambiente e reagisce ad esso per mantenere l’equilibrio. Cannon identificò tra queste reazioni dell’organismo impegnato nel processo di adattamento una specifica forma che chiamò reazione d’allarme, ovvero una risposta automatica che viene attivata in determinate condizioni particolari. Egli aveva messo in evidenza, ad esempio, come un incremento della secrezione di adrenalina e noradrenalina da parte della porzione midollare delle ghiandole surrenali avesse una funzione indispensabile, anche negli animali, nel predisporre l’organismo a comportamenti di attacco e di fuga. Tale reazione si accompagna, infatti, all’aumento della pressione sanguigna, all’incremento della frequenza cardiaca, alla vasocostrizione periferica, alla dilatazione pupillare, alla riduzione della salivazione, all’incremento della funzionalità respiratoria, all’aumento della sudorazione, ecc (Cannon, 1929).

 

La ricerca sullo stress.

Selye, il ricercatore che, come detto poc’anzi, aprì la strada a tutto il filone di ricerca sullo stress e sul concetto di psicosomatica, scoprì successivamente che le reazioni fisiologiche studiate da Cannon non erano le uniche manifestate da un organismo in difficoltà ma che costituivano una concatenazione di eventi omeostatici e modificazioni fisiologiche nella funzione di adattamento di cui la reazione d’allarme non è che il primo passo. Per questo, prendendo a prestito un termine dalla metallurgia che indicava gli effetti delle grandi pressioni sui metalli, Selye denominò stress quel insieme di modificazioni a carico dell’organismo e, più specificatamente, Sindrome Generale di Adattamento quel processo, articolato in tre fasi e finalizzato all’adattamento, scatenato da stimoli stressanti di natura diversa (Selye, 1936).

Per Selye, lo stress è “una risposta generale, aspecifica dell’organismo a qualsiasi richiesta proveniente dall’ambiente” (Selye, 1974). Il concetto fondamentale consiste nell’evidenziare qualcosa che avviene generalmente, in modo aspecifico, indipendentemente dalla natura dello stimolo. Da questo punto di vista, la teoria della Sindrome Generale di Adattamento di Selye fu estremamente innovativa: con il suo carattere aspecifico venne messa in luce l’esistenza di un meccanismo che elude la tradizionale visione che un effetto, una risposta biologica, sia sempre riconducibile ad una sola causa. Tradizionalmente, infatti, si era portati a ritenere che la risposta dell’organismo fosse specifica al tipo di richiesta: ad esempio la sudorazione come reazione al caldo, il brivido come risposta al freddo e così via. Selye, invece, enfatizza una risposta aspecifica, una sindrome generale che ha la funzione di favorire l’adattamento dell’organismo ad uno stimolo “stressante”, indipendentemente dalla sua natura, dove la reazione d’allarme di Cannon rappresenta solo il primo passo.

Passo dopo passo, le considerazioni di Selye giunsero a considerare lo stress come un fenomeno naturale e fisiologico e, come tale, qualcosa che non può e non deve essere evitato: “La completa libertà dallo stress è la morte. Contrariamente a quello che si pensa solitamente, non dobbiamo e, in realtà, non possiamo evitare lo stress, ma possiamo incontrarlo in modo efficace e trarne vantaggio imparando di più sui suoi meccanismi, ed adattando la nostra filosofia dell’esistenza ad esso” (Selye, 1974)

Mosso dalle sue osservazioni, Selye tentò di interpretare in modo semplice la concatenazione di eventi biologici, di meccanismi e di risposte che, se da un lato si connettevano alle scoperte di Cannon sulla generale reazione d’allarme e sull’idea dell’organismo impegnato costantemente nella funzione omeostatica e di adattamento, dall’altro non apparivano giustificabili nell’ambito di una scienza biomedica che in quei tempi si sosteneva in modo molto strutturato sullo studio delle manifestazioni patologiche come effetti specifici di cause specifiche. Pertanto l’obiettivo che coinvolse Selye fino alla fine fu quello di ricercare quel principio o quella sostanza biochimica in grado di giustificare quel complesso di reazioni che lui aveva considerate generalizzate e sintoniche in grado di presentarsi stereotipate anche di fronte a richieste e a stimoli ambientali (nocivi e non) ampiamente diversi. Questo ipotetico “first mediator”, come lo definì Selye, o “mediatore unico” era quella sostanza, presente in tutti i tipi di stress, in grado di giustificare e di spiegare una così ampia e variegata gamma di cambiamenti: una sostanza in grado di scatenare la medesima Sindrome Generale di Adattamento da stimoli molto diversi. In primis egli identificò questo mediatore unico nell’ormone adrenocorticotropo ACTH, che sembrava essere presente in tutte le risposte di stress negli animali da laboratorio; successivamente, però, dal momento che l’ACTH è presente prevalentemente in una delle tre fasi della sindrome, Selye ipotizzò che probabilmente il mediatore unico andava ricercato nelle sostanze che negli anni Ottanta vennero isolate nel cervello, le encefalite e le endorfine.

Nello specifico, la Sindrome Generale di Adattamento descritta da Selye si articola in tre fasi fondamentali.

La prima fase s’identifica con la reazione di allarme scoperta da Cannon e denominata anche da Selye, per l’appunto, fase d’allarme. Essa è caratterizzata dalle attivazioni del sistema neurovegetativo, di tipo adrenergico, in cui la secrezione delle principali catecolamine, adrenalina e noradrenalina, permette una rapida reazione del sistema nervoso autonomo simpatico. Adrenalina e noradrenalina, infatti, sono due ormoni secreti dalla midollare del surrene che vengono utilizzati quali mediatori intersinaptici nel sistema simpatico e che permettono un’immediata risposta del nostro organismo ad uno stimolo stressante. La fase d’allarme, tra l’altro, viene suddivisa da Selye in due sottofasi: la fase dello shock, che corrisponde ad un’iniziale caduta al di sotto del livello fisiologico di funzionamento dell’organismo, e quella di controshock, che corrisponde, di fatto al secondo momento, reattivo, nel quale si attiva il sistema simpatico grazie l’intervento delle catecolamine. In ogni caso, la fase di allarme è necessariamente rapida ed immediata, ma anche labile, vista la velocità con la quale adrenalina e noradrenalina vengono metabolizzate.

La fase successiva della Sindrome Generale di Adattamento è chiamata da Selye fase di resistenza. Questa fase ha una durata maggiore ed è sostenuta da fenomeni endocrini in cui l’ACTH ed altri ormoni adenoipofisari, cioè della porzione anteriore dell’ipofisi, hanno una funzione fondamentale. Se, quindi, nella risposta ormonale immediata della fase d’allarme viene sollecitata la midollare del surrene, nella fase di resistenza è la parte corticale del surrene ad essere interessata, con il rilascio degli ormoni glucocorticoidi, in particolare del cortisolo. L’effetto di tali ormoni è sempre quella, come nel caso delle catecolamine, di mantenere alta l’attivazione del sistema nervoso simpatico, che predispone l’organismo alle azioni necessarie ai fini dell’adattamento. La fase della resistenza perdura tutto il tempo nel quale permane lo stimolo stressante e, secondo Selye, sarebbero proprio i fenomeni legati allo stress, ed in particolare alla fase di resistenza della Sindrome Generale di Adattamento, a contribuire a quelle manifestazioni di deterioramento che vedono nella vecchiaia l’espressione più visibile. Se la fase di resistenza perdura troppo a lungo, infatti, si manifesta nell’organismo la terza fase, secondo Selye della Sindrome Generale di Adattamento, che egli denominò fase di esaurimento, nella quale si assiste ad un vero e proprio sfiancamento delle risorse dell’organismo, con una perdita graduale della vitalità stessa e l’insorgenza, quindi, di malattie.

In sintesi, quindi, secondo Selye, lo stress viene visto come una reazione fisiologica aspecifica, finalizzata all’adattamento, a qualunque richiesta di modificazione esercitata sull’organismo da una gamma assai ampia di stimoli eterogenei, ed espressa essenzialmente da variazioni di tipo endocrino (attivazione della midollare e della corteccia del surrene) che sbilanciano il sistema neurogetativo a favore del sistema simpatico. I punti salienti sono quindi:

  • il carattere di aspecificità;
  • il carattere fondamentalmente adattivo;
  • il carattere di reazione neurovegetativa a mediazione endocrina.

La teoria di Selye, che in ogni caso aprì la strada ad un ricchissimo filone di ricerca, manifestò ben presto delle lacune. In primo luogo, le ricerche effettuate da Selye partivano dall’analisi degli effetti sull’organismo da parte di agenti stressanti fisici o chimici messi a diretto contatto con l’organismo, come inoculazione di sostanze o contatto con agenti fisici; sappiamo, però, dall’esperienza che non soltanto tali stimoli, fisici o chimici prossimali, sono in grado di produrre risposte di stress: anche agenti distali, quali un evento relazionale o un’informazione, possono rivelarsi fonti di stress che, quindi, inducono una risposta non tanto sulla base di una componente fisica misurabile, quanto piuttosto sulla base della risonanza psicologica soggettiva che sono in grado di determinare. Questa considerazione ha aperto tutto un filone di ricerca sul significato simbolico e sulla risonanza intrapsichica che determinati stimoli detengono, evidenziando significative variabilità che differenziano risposte di individui diversi nei confronti di uno stesso stimolo. In secondo luogo, se stimoli così diversi possono indurre una reazione biologica da stress, come è possibile che esista un unico identico fattore neurormonale, come era stato identificato l’ACTH, quale mediatore comune (first mediator)? Infine, a proposito del carattere di aspecificità, se la risposta di stress è unica, perché gli individui si ammalano di malattie diverse?

 

Il ruolo delle emozioni.

Le ipotesi su quale fosse l’agente di attivazione della Sindrome Generale di Adattamento si spostarono, pertanto, dall’idea originaria di Selye di un unico mediatore biochimico a quel substrato di natura psicofisiologica che coincide, di fatto, con le strutture ed i meccanismi che sostengono le emozioni. Esponente di maggior spicco di tale ipotesi fu J. Mason il quale, partendo dall’osservazione che l’asse ipotalamo-ipofisi-corticosurrene reagisce ad un gran numero di stimoli psicosociali, suscettibili di indurre una reazione emozionale e che la reazione corticosurrenale a stimoli emotivi è sostanzialmente identica a quella descritta da Selye nella fase di resistenza della reazione da stress, effettuò una serie di ricerche basate sulla dissociazione dello stimolo fisico dallo stimolo emotivo nello stress dando un sostegno empirico alla teoria da lui formulata secondo la quale il mediatore nella reazione da stress sarebbe proprio l’emozione (Mason, 1971). In questa prospettiva, sia l’attivazione del sistema ipotalamo-ipofisi-corticosurrene che l’attivazione della midollare del surrene che seguono all’esposizione a stimoli fisici di varia natura sarebbero comunque una diretta conseguenza dell’eccitamento emozionale che accompagna o precede immediatamente la stimolazione fisica. A svolgere un’azione generalizzante sarebbero, quindi, per Mason, i medesimi meccanismi psicofisiologici coinvolti nelle emozioni e sostenuti dagli apparati neuroanatomici che presiedono alla genesi, al mantenimento ed al verificarsi delle manifestazioni centrali e periferiche legate alle emozioni stesse.

La prospettiva di Mason fu particolarmente significativa dal momento che, attribuendo un ruolo fondamentale alle implicazioni emotive, ha permesso di comprendere meglio i dati sperimentali che depongono in favore sia della specificità che della aspecificità dello stress.

 

La ricerca sullo stress parte, quindi, dall’osservazione di determinate reazioni generali dell’organismo in risposta a richieste ambientali generate da stimoli di natura diversa; la compresenza, però, sia di elementi aspecifici, come la Sindrome Generale di Adattamento, che di elementi specifici in base alla natura degli stimoli, ha indirizzato progressivamente tali ricerche sul versante delle reazioni emotive e sulle loro implicazioni, un campo di studio, peraltro, quanto mai controverso e difficile in tutta la storia delle neuroscienze. Anche il ruolo e i meccanismi di funzionamento delle emozioni, infatti, hanno rappresentato da sempre un campo di indagine da parte di filosofi e scienziati, senza giungere, di fatto, ad una definizione e ad una comprensione unanimemente condivisa: come affermano Fehr e Russel, “ognuno sa cos’è un’emozione finché gli si chiede di definirla” (1984)

L’importanza delle emozioni nelle reazioni dell’organismo finalizzate all’adattamento e, nello specifico, nella Sindrome Generale di Adattamento ha portato, in ogni caso, alcuni ricercatori ad elaborare il concetto di stress psicologico, indirizzando, così, inevitabilmente, questo filone di ricerca sempre più nella strada delle correnti psicologiche.

Magda Arnold, dapprima, e Richard Lazarus, successivamente, hanno, ad esempio, centrato le loro ricerce sul concetto di “valutazione soggettiva” dello stimolo stressante: se uno stimolo non è valutato come rilevante per l’individuo, a livello conscio o inconscio, non si verifica alcuna attivazione emozionale e dunque non sarà considerato stressante. Questa prospettiva, che vede, quindi, nella valutazione congitiva la “condizione necessaria e sufficiente dell’emozione” rimane tuttora la pietra angolare della prospettiva cognitivista (Lazarus, 1991).

Una voce particolarmente importante, che si distaccò dalla corrente più accreditata in merito alla ricerca sullo stress e che, come spesso succede, fu boicottato dall’estabilishement accademico, fu Henri Laborit, un biologo francese che negli anni Settanta scoprì che i disordini somatici causati da aggressioni psicosociali sono provocati da uno stato particolare che lui denominò di inibizione dell’azione. In seguito scoprì anche che l’inibizione dell’azione persistente provocava disturbi a carico della memoria.

Nelle sue ricerche, Laborit utilizzava la procedura dell’invio di uno stimolo doloroso (una scossa di corrente) a dei ratti rinchiusi in una gabbia.

Nella prima situazione, il ricercatore mandava la scossa sul pavimento della gabbia, comunicante attraverso una porta con un’altra gabbia non raggiunta dalla corrente: alla scossa, il ratto imparava velocemente a passare nell’altra gabbia e se le condizioni si invertivano (la scossa era inviata nella gabbia in cui il ratto era fuggito) questi ritornava velocemente nella prima. Sottoposto a tali stress per una settimana, il ratto non presentava alcuna lesione patologica: la sua salute restava eccellente.

Nella seconda situazione, la gabbia su cui veniva inviata la scossa elettrica non comunicava con nessun’altra gabbia ma all’interno venivano posti due ratti, anziché uno solo, come nella prima situazione. Alla scarica elettrica, i ratti non potevano fuggire e iniziavano a lottare tra di loro: dopo una settimana di esposizione a tale stress, le loro condizioni di salute si rivelavano eccellenti.

Nella terza situazione, la gabbia era sempre isolata ed il ratto era solo. Alla scarica elettrica, il ratto non poteva fuggire né combattere con qualcun altro: dopo una settimana, presentava segni di dimagrimento importante, ipertensione arteriosa e lesioni multiple alla mucosa gastrica.

Henri Laborit imposta lo studio del cervello e dello stress attraverso il concetto di aggressione: “Quando incontriamo nell’ambiente esseri e cose che ci sono gradevoli, che ci permettono di mantenere questo principio del piacere, nei mammiferi abbiamo un sistema che permette di memorizzare la strategia che abbiamo utilizzato, la nostra esperienza: ricominciamo lo stesso comportamento per ritrovare il piacere. (…) Se invece, al contrario, il vostro contatto con l’ambiente é pericoloso, se non fa piacere, se é doloroso, cominciate a fuggire e, se non potete fuggire, combattete, vale a dire vi orientate verso l’ambiente per distruggere l’oggetto del vostro risentimento.

“La novità, la scoperta é che, quando non potete né farvi piacere, né fuggire, né lottare, vi inibite.
Il significato biologico dell’inibizione é: meglio non agire, per non essere distrutti dall’aggressione.
Ciò va bene se serve a salvare al momento la vostra pelle, la vostra struttura.
Ma se non siete in grado di sottrarvi molto rapidamente, da questo stato di inibizione, di attesa in tensione, allora in quel momento comincia tutta la patologia” (Laborit, 1970).

Secondo Laborit, questa inibizione d’azione si accompagna alla liberazione di ormoni come i glucocorticoidi e neuro-ormoni come la noradrenalina che tendono ad indebolire fino a distruggere il sistema immunitario. Ciò genera vulnerabilità alle infezioni ed ai tumori. Non si fa un cancro per caso, sostiene Laborit e la lista delle malattie dell’adattamento é lunga.

La sindrome d’inibizione dell’azione, che s’instaura allorché l’aggressione psicosociale si protrae nel tempo e non é risolvibile né con la lotta né con la fuga, ha un aspetto chimico, un aspetto neurofisiologico ed un aspetto comportamentale.

Per Laborit, la salute non è soltanto il mantenimento dell’omeostasi ristretta, dell’equilibrio interno, ma significa mantenere il proprio equilibrio in relazione all’ambiente esterno, con il quale dobbiamo negoziare in continuazione le condizioni per il nostro equilibrio. Quando ciò non è possibile, la risposta naturale è la lotta o la fuga per eliminare ciò che ci impedisce di essere in equilibrio. Ma se le condizioni ambientali non ci consentono né di gratificarci, né di lottare, né tanto meno di fuggire, l’ambiente ci modifica al di là delle possibilità di difesa. In questo caso, si dice che “subiamo l’ambiente”, in altre parole ne riceviamo un’aggressione, e allora il rapporto con l’ambiente ci disorganizza. Per Laborit, quindi, è nell’aggressione, intesa in questi termini, che tutte le dis-regolazioni e le patologie hanno inizio.

 

La Medicina Psicosomatica

L’ipotesi, quindi, di una correlazione tra mente e corpo, tra eventi psichici ed eventi fisici ha alimentato nel corso della storia prevalentemente la ricerca intorno allo stress e ai suoi meccanismi; questo concetto ha subito una graduale evoluzione, sulla, base comunque della formulazione originaria di Selye. Paolo Pancheri, nella sua opera “Stress, Emozioni, Malattia”, un classico della Medicina Psicosomatica, definisce lo stress come “la risposta dell’organismo ad ogni richiesta di modificazione effettuata su di essa. Questa risposta si manifesta sia a livello fisiologico che a livello comportamentale, ed è mediata da un’attivazione emozionale indotta da una valutazione cognitiva del significato dello stimolo. Essa è relativamente aspecifica, nel senso che un’ampia gamma di stimoli può innescarla, ma personalizzata in rapporto al significato dello stimolo per il singolo individuo, e alle sue modalità di reazione psicofisiologica. Lo stress è, di per sé, una reazione fisiologica, adattativa, caratteristica della vita, che può tuttavia assumere un significato patogenetico quando è prodotta in modo troppo intenso per lunghi periodi di tempo o quando è ostacolata nel suo regolare svolgimento.” (Pancheri, 1979)

Alla fine degli anni Settanta, quindi, proprio nel periodo in cui il dott. Hamer fu colpito dalla sua tragedia familiare, le acquisizioni inerenti il rapporto tra emozioni e malattia, patrimonio ormai decennale dei ricercatori, erano fondate sul concetto di stress e sulle sue conseguenze nell’organismo. Queste acquisizioni potevano essere così riassunte:

Esistono dei meccanismi di attivazione dell’organismo, la cosiddetta Sindrome Generale di Adattamento, che vengono innescati da stimoli stressanti, cioè in grado di produrre tale mobilitazione organismica.
Gli agenti stressanti possono essere sia di natura fisica o chimica così come di natura psicosociale, agendo, pertanto, direttamente o mediante l’intervento delle funzioni psichiche ed emozionali. Esiste, pertanto, una soggettività della risposta.
Tale attivazione avviene attraverso la mediazione dei sistemi reattivi emozionali che agiscono sul sistema neuroendocrino ed immunitario. Gli agenti stressanti, quindi, vanno ad alterare le funzioni del sistema neurovegetativo, del sistema endocrino e del sistema immunitario.
Esistono risposte specifiche e risposte aspecifiche che si sintonizzano con tre parametri fondamentali: lo stato psicofisiologico precedente l’evento, i fattori endogeni, come il patrimonio genetico e le caratteristiche di personalità, e i fattori esogeni legati all’apprendimento, all’alimentazione, all’uso di farmaci, ecc.
Tutta questa catena di eventi biologici, la cosiddetta “risposta individuale di stress” può essere considerata un “precursore di malattia” Gli agenti stressanti influenzano, quindi, il “terreno biologico” sul quale si può inserire la malattia.

La spiegazione, poi, della scelta dell’organo avveniva sulla base delle seguenti ipotesi:

Predisposizione genetico-costituzionale o “debolezza d’organo”. Questa, in realtà, è la posizione della medicina organicistica, che nega l’influenza dei fattori emozionali nella genesi della malattia.
Teorie psicodinamiche. Secondo questi modelli, che affondano le loro radici nella corrente psicoanalitica, gli stimoli esterni attiverebbero dei conflitti inconsci, secondo un meccanismo di “conversione simbolica” mediata dai meccanismi psichici di difesa.
Teorie comportamentistiche. Secondo questi modelli la risposta dell’organo è appresa, secondo dei meccanismi di stimolo e rinforzo.
Teorie psicosociali. Secondo questo modello la malattia è legata alle pressioni dell’ambiente ad opera degli stimolo stressanti. Stimoli ambientali specifici interagirebbero con i programmi di risposta biologici dell’individuo, determinati in parte geneticamente ed in parte in base alle esperienze infantili.
Teoria della personalità. Secondo questo modello sarebbero elementi della personalità individuale a predisporre l’individuo a determinate malattie piuttosto che altre, come la personalità di tipo A, individuata quale fattore predisponente le malattie di tipo cardiologico.
Modelli integrativi. Alcune teorie cercano di “integrare” le varie ipotesi in un modello onnicomprensivo, nel quale vengono presi in considerazione sia gli aspetti comportamentali delle emozioni che quelli biologici. Secondo tali modelli, la reazione dell’organismo si manifesta sia su base biologica che comportamentale.

Tali considerazioni rappresentavano lo scenario della ricerca della fine degli anni Settanta, ma non sono molto diverse da ciò che la ricerca ha elaborato in merito ai meccanismi psicosomatici nei decenni successivi, fino ai giorni nostri. Il concetto che colpisce maggiormente è quello della “predisposizione alla malattia” o “precursore di malattia” o “terreno biologico”: lo stress agirebbe in definitiva in tale direzione, favorendo, cioè, l’insorgenza delle malattie nel momento in cui gli stimoli stressanti altererebbero le condizioni biologiche dell’organismo.

In definitiva, si potrebbe riassumere che tutta la ricerca sullo stress, quindi, proseguita con lo sviluppo e le elaborazioni della medicina psicosomatica, invece di arrivare ad una spiegazione finalmente plusibile in merito all’origine della malattia e soprattutto che andasse oltre la tradizionale separazione tra malattie del corpo e della psiche, ha aggiunto un’ipotesi in più, rendendo ancora più confusa l’etiologia con i concetti di multicausalità o multifattorialità. Tutta la ricerca sullo stress, in definitiva, lascia sostanzialmente intatta la concezione millenaria che la malattia è “qualcosa”, un’”entità” – ovviamente sbagliata, temibile e da combattere – che può colpire l’organismo, senza che nessuno possa dire perché.

Afferma Pancheri, infatti: “alla luce di quanto è emerso dallo studio dello stress dalla prima formulazione di Selye fino ad oggi, appare chiaro come tale suddivisione (tra malattie somatiche e malattie psicosomatiche) sia priva di significato, e come stressors di varia natura (fisica, biologica o psicosociale) possano, direttamente o attraverso una mediazione emozionale, influenzare il terreno biologico sul quale si inserisce la malattia” (1979)

 

Il concetto immutato di malattia.

La “malattia”, quindi, è salva! Chiamata anche “entità nosografia”, la patologia non centra con lo stress: quest’ultimo è responsabile solamente di renderle la vita più facile. La presunta unificazione tra mente e corpo rimane viva solo nelle parole. Sempre il padre della medicina psicosomatica italiana afferma, infatti, ancora: “Alcune malattie possono ancora essere considerate come prodotte da un’unica causa (ad esempio la paraplegia da sezione del midollo spinale), ma in molte altre, definite spesso come idiopatiche o essenziali, l’eziologia è certamente pluricausale, senza possibilità di individuare una causa predominante. Anche dove, tuttavia, un agente patogeno appare strettamente connesso a una particolare malattia, è possibile quasi sempre individuare una serie di concause dotate di potere patogeno a livello del terreno biologico. Ogni malattia dove sia individuabile un agente patogeno principale, infatti, può essere vista come la risultante di due fattori: l’aggressività dell’agente patogeno da un lato e le condizioni dei sistemi biologici di difesa (il terreno) dall’altro” (Pancheri, 1979).

Negli ultimi trent’anni, la ricerca sullo stress ed, in particolare, la medicina psicosomatica hanno imboccato, purtroppo, un tunnel da cui non riescono più ad uscire ed hanno determinato l’esatto opposto di ciò che probabilmente era nelle loro intenzioni originarie: cercando, probabilmente di riunire l’organismo in una visione olistica, lo ha spezzettato ancora di più!

“La funzionalità e la ricettività di questi sistemi (neurovegetativo, endocrino e immunitario) sono a loro volta controllate da una serie di fattori reciprocamente ineìteragenti tra loro: la struttura genetico-costituzionale, l’imprinting psicobiologico, l’ambiente fisico e, infine, i determinanti emozionali e psicosociali.

I determinanti emozionali e psicosociali, e la reazione di stress da essi dipendente, sono dunque sempre delle concause nella genesi delle malattie a etiologia totalmente o parzialmente multicausale. Essi, a seconda del momento in cui agiscono, della loro intensità e durata e della loro interazione con altri determinanti, possono agire come elementi predisponesti o come fattori scatenanti. Il punto importante da sottolineare è che, allo stato attuale delle nostre conoscenze, non è dimostrato un rapporto specifico tra tipo di attivazione emozionale e tipo di malattia somatica sviluppata anche quando il ruolo determinante dello stress emozionale è stato accertato.

Le differenze nel tipo di malattie sviluppate per cause emozionali dipendono dalla particolare vulnerabilità dei singoli organi a sua volta dipendente da fattori puramente fisico-biologici o genetico-costituzionali” (Pancheri, 1979).

Su questi presupposti e su queste conclusioni del filone di ricerca psicosomatico, alla fine degli anni Settanta, inizia la ricerca di Hamer.

 

BIBLIOGRAFIA

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  • Pancheri P. (1979), Stress, Emozioni, Malattia, Mondadori, Milano.
  • Selye H, (1936), A syndrome produced by diverse nocuous agent, in Nature, CXXXVIII, n° 32.

La spiritualità del contatto di Silja Wendelstadt

Il massaggio bioenergetico neonatale di Eva Reich come promozione della salute come prevenzione delle “biopatie” (1)

Quando Wilhelm Reich fondava il OIRC (Orgon-Infant-Research-Center), nel 1949, Eva Reich era medico e assistente di suo padre. Lo scopo della fondazione del Centro era di scoprire che cosa fosse un bambino sano. Wilhelm Reich voleva comprendere in che modo i bambini iniziano a sviluppare blocchi muscolari ed emotivi, per prevenire la formazione precoce di una “armatura caratteriale” muscolare ed emozionale(2) che li avrebbe predisposti a una futura vita infelice. Infatti, non c’era dubbio per W. Reich che la depressione cronica, la scissione schizofrenica, i tratti di carattere schizoide, il comportamento violento e antisociale abbiano la loro origine in esperienze traumatiche precoci, avvenute all’inizio della vita quando il bambino, per proteggersi dal dolore, contrae tutto il suo “plasma vitale”. È in quella fase dell’esistenza, perciò, che si deve attuare il lavoro di prevenzione delle biopatie.

Eva Reich è una delle poche persone che ha visto lavorare suo padre, alla fine della sua vita, in un modo estremamente dolce con i neonati. Dopo la sua morte, lei ha continuato l’opera di prevenzione e ha elaborato le tecniche della “Gentle Bioenergetics”(3), insegnandole poi in America, Europa e Australia.

Il concetto del “contatto”

Osservando al microscopio i movimenti di organismi unicellulari vivi come i bioni(4) o le amebe, Wilhelm Reich ha scoperto delle leggi che, secondo lui, regolano i processi vitali pulsatori all’interno di questi organismi unicellulari e nelle relazioni tra di loro. W. Reich ha chiamato questi unicellulari “bio-sistemi”. Un “bio-sistema” consiste in un nucleo energetico pulsante al centro, il plasma, e in una membrana che lo contiene. L’energia pulsa all’interno della membrana e un campo energetico si estende intorno a essa. Se l’ambiente è stimolante, l’ameba si espande con un movimento fluido, cioè l’energia fluisce verso la periferia e il campo di energia si allarga. Se invece la stimolazione da parte dell’ambiente è ostile, l’ameba si contrae, cioè la sua energia fluisce dalla periferia verso il centro, e così anche il campo di energia si ritrae. Se la stimolazione da parte dell’ambiente continua ad essere negativa, la pulsazione cessa e l’ameba muore.

Per W. Reich, metaforicamente, è come se, nel caso di un ambiente stimolante, l’ameba dicesse “sì” con il movimento di espansione verso l’esterno; mentre invece con quello di contrazione dicesse “no”.

L’ameba cerca l’incontro piacevole con altre amebe mediante un movimento ondulatorio e fa “contatto” con loro attraverso un “ponte di energia”. Il processo di “contatto” avviene quando due campi di energia di due bio-sistemi pulsanti si attraggono, si toccano, si sovrappongono e si compenetrano, emanando luce e vibrando insieme.

W. Reich ne deduce che il movimento della “bioenergia” nel plasma dell’ameba sia funzionalmente identico al movimento del plasma in tutti gli esseri viventi (biosistemi più complessi) e che l’emozione (espansione = “sì”; contrazione = “no”) sia un reale movimento energetico-espressivo del plasma. Egli chiama questo movimento “linguaggio espressivo del vivente”.

W. Reich sostiene che questo processo è funzionalmente identico nel “contatto” tra neonato e madre.

La funzione della madre (o di chi ne fa le veci) è di procurare piacere al neonato in modo che possa entrare in “contatto” con lei, per poter sviluppare il suo innato potenziale di crescita. Per W. Reich il piacere diventa il processo specificamente produttivo del sistema biologico.

Il neonato “passivo” nella “fase autistica” è, secondo questo modello, un bambino non adeguatamente stimolato dalla madre, che si è ritirato dal mondo.

Secondo W. Reich il bambino non è passivo ma nasce con un alto potenziale di bio-energia pulsante con la quale si esprime: onde di eccitazione partono dal suo corpo, si espandono per entrare in contatto con l’ambiente – il corpo della madre. I due bio-sistemi si esprimono ciascuno con le proprie vibrazioni auto-espressive e, nel “contatto”, formano un unico biosistema più grande, all’interno del quale i campi di energia compenetrati comunicano commuovendosi ed espandendosi verso l’ambiente circostante.

W. Reich chiama questo processo “biosociale”: “bio” perch è una comunicazione emotiva a un livello di pulsazione plasmatico-energetico, “sociale” perch si svolge tra due esseri umani. Secondo lui la comunicazione bio-sociale è la base di ogni comunicazione(5).

Le ricerche di W. Reich degli anni Cinquanta vengono oggi confermate dalle recenti indagini fatte sui neonati e le loro madri(6). In video-registrazioni analizzate al rallentatore vengono rese visibili delle micro-interazioni che non si possono osservare a occhio nudo, e viene rivelato un neonato mai visto prima: tutt’altro che passivo, stimola di sua propria iniziativa la madre a rispondergli, le segnala i suoi bisogni, ne riceve e ne comprende i messaggi. Se il suo anelito al dialogo viene ricambiato, il piccolo è motivato a esplorare, a giocare e a cercare piacere. Se la madre non può ascoltare i suoi messaggi, il neonato lotta per essere notato: piange. Soltanto se non è corrisposto ripetutamente, rinuncia e si ritira in s : non crede più nelle proprie capacità di stabilire un “contatto”.

Il neonato, per la stimolazione delle proprie funzioni vitali, ha bisogno di radicarsi nel campo di energia della madre: la sua vita dipende da questo. Quando è radicato nel “contatto” con la madre, il neonato si trova nello stato di salute: questo è osservabile come dolce calore emanato dal corpo, è visibile sulla pelle come colore roseo, si evidenzia negli occhi luminosi, mentre i movimenti espressivi commoventi del bambino attirano le cure della madre. Quando questo avviene durante il massaggio neonatale, Eva Reich parla di “glow and flow” (ardore e flusso): “glow and flow” è l’espressione visibile dello stato di salute e di benessere del neonato “in contatto” con la madre; è l’espressione visibile della libera pulsazione plasmatica-energetica auto-espressiva, attraverso la quale madre e neonato dialogano, uniti in un unico bio-sistema, che “sa” come svilupparsi, se la madre può cooperare.

Dal piacere di funzionare in questa interrelazione durante il “contatto bio-energetico” dipende il futuro sviluppo del bambino.

Eva Reich spiega come il “bonding” sia una funzione del “contatto” sul quale si può lavorare bio-energeticamente e insegna come farlo con i metodi della “Gentle Bioenergetics”; insegna soprattutto come prevenire, all’inizio della vita, i disturbi nel rapporto madre-bambino, e di conseguenza i loro gravi effetti per il futuro sviluppo del piccolo.

Un dialogo speciale, carico d’amore

Il “contatto” è un processo ritmico, energetico, di tensione-carica e di scarica-distensione, come Wilhelm Reich lo ha descritto in La funzione dell’Orgasmo(7). Tutte le emozioni hanno questo ritmo: l’allattamento, il gioco, il pianto e così via.

Durante il massaggio bio-energetico che insegna Eva Reich, la pelle del bambino ha fame del contatto con il corpo della madre e lo desidera ardentemente (tensione). Nel contatto piacevole con le mani della madre la pelle di entrambi si carica energeticamente, diventa rosea, calda, vibrante, e un senso di benessere li pervade tutti e due; il bambino arde dal piacere di essere amato (carica).

Poi il piccolo si sazia, la carica rifluisce al centro (scarica) e, felicemente rilassato, si abbandona nelle braccia della madre (distensione). “Tu senti me, io sento te: noi due ci apparteniamo”. Questa è la struttura della vita e dell’amore: un flusso ritmico-energetico tra due esseri viventi. Il significato originario della parola religione è “appartenersi”.

In un continuum di esperienze filogenetiche il bambino sa stimolare la madre a rispondere ai suoi messaggi e si aspetta che siano ascoltati. Con un senso infinitamente sottile e raffinato, comune a tutte le donne, la madre sente dentro di s la risposta “giusta”, risponde e gioisce a sua volta del feedback del bambino(8).

Questo “contatto” ritmico-energetico è “Grounding and Grace”(9). Grace, o grazia, viene dal greco charis, amore che cura. Grazia in ebraico significa anche utero, Il grounding è la connessione energetica con la madre, il filo con il quale il bambino può tessere il suo S nel mondo. Grazia è l’incarnazione di amore e di cura con la quale la madre si dedica, dal suo essere più profondo, ai bisogni del bambino e ne è appagata.

Questo fenomeno del “contatto”, che secondo W. Reich è “il linguaggio espressivo del vivente”, viene da lui descritto in termini scientifici bio-energetici come superimposizione dei campi di energia di due bio-sistemi vibranti. Oggi le recenti ricerche sui neonati, fatte con la videocamera, mostrano al mondo commosso il fenomeno del “contatto” madre-neonato, questo dialogo-danza del linguaggio primario del vivente. “Ciascuna delle madri crea i passi di questa personale, unica danza da eseguire e da portare avanti con il proprio bambino. Questi particolari movimenti compiuti e le improvvisate sequenze del reciproco adattamento sono parte di un processo universale, comune a tutte le donne”(10).

Il concetto di “identificazione vegetativa” è stato introdotto da W. Reich e indica la capacità di sentire nel proprio organismo un processo specifico energetico, emozionale, di eccitamento, di un’altra persona e di riconoscerlo come tale. Egli scoprì che se esiste un “contatto” sufficientemente profondo tra i due organismi, avviene una risonanza energetica e con ciò plasmatica. Questa risonanza rende possibile vivere nel proprio corpo l’espressione della persona con la quale si è in “contatto”.

Il bambino si manifesta con movimenti auto-espressivi, che sono reali processi biofisici energetico-plasmatici, con i quali stimola sua madre a entrare in contatto con lui. Nello stato di “contatto bio-energetico” il flusso di espressioni pulsatorie, biofisiche, del bambino può essere percepito nel bio-sistema (corpo) della madre commossa come impressioni e può essere compreso e soddisfatto come se le appartenesse.

La capacità della madre di essere “in contatto” con il bambino attraverso le proprie pulsazioni plasmatiche, percepita come emozione nel proprio corpo, dipende dalla sua capacità di sopportare, senza paura, le forti onde di eccitazione con le quali il bambino si esprime durante la nascita e dopo. Chi ha tenuto in braccio un neonato non potrà mai dimenticare questa impressione.

Il problema di coloro che assistono la nascita

Per W. Reich era essenziale che i suoi collaboratori avessero questa capacità di identificazione vegetativa come principale strumento per riconoscere i bisogni di madre e bambino: il senso orgonotico (= identificazione vegetativa) di contatto, una funzione del campo di energia di entrambi, madre e bambino, è sconosciuto agli specialisti. Il “contatto orgonico” (bio-energetico) è l’elemento esperienziale ed emozionale più essenziale nell’interrelazione tra madre e bambino, soprattutto nel periodo prenatale e nei primi giorni e settimane di vita. La sorte futura del bambino dipende da esso. Sembra essere il “core” dello sviluppo emozionale del neonato. Sappiamo molto poco su questo”(11).

I risultati delle recenti osservazioni dirette della coppia madre-figlio consentono di prevedere che sarà presto possibile analizzare nelle videoriprese anche ciò che succede nella interrelazione neonato-operatore (ostetriche, ginecologi, neonatologi, pediatri e così via). Si porranno allora dei criteri oggettivi per scegliere quegli operatori che possano assistere il “bio-sistema” madre-neonato prima, durante e dopo il parto, facilitandone lo sviluppo e la loro capacità di auto-regolazione della salute. In futuro, queste persone dovrebbero avere l’abilità di “identificazione vegetativa” per poter seguire i messaggi non verbali della coppia madre-neonato. Questa capacità è stata molto sottovalutata fino a oggi e non è stata oggetto di ricerca e di insegnamento n nelle scuole di specializzazione n nelle università. Oggi si sa che persone fortemente corazzate, che hanno dovuto reprimere le proprie emozioni, anche se hanno una ottima preparazione universitaria, non riescono a comunicare a livello di “identificazione vegetativa” con la coppia madre-neonato e possono infliggere, senza volerlo, danni al plasma vitale del bambino(12).

“Non abbiamo ancora nessuna idea precisa su quelli che sono i normali schemi interattivi tra madre e bambino. Non si può ridurre il sapere intuitivo di una madre a qualcosa da imparare. L’adattamento interattivo si realizza attraverso questo rispondersi intuitivo e istintivo. Il sostegno emotivo non viene dai consigli degli esperti, ma da gruppi informali di donne che vivono la stessa esperienza”(13). Le madri dispongono di una naturale capacità di identificarsi con i loro bambini, e di comunicare con loro nell’unico modo giusto per entrambi; e i bambini sanno rapportarsi naturalmente alle loro madri. “Gli specialisti devono imparare ancora ciò che le madri sanno da sempre intuitivamente. Il consiglio per gli esperti della nascita è di immischiarsi il meno possibile nelle faccende delle madri”(14).

Questa è diventata la principale caratteristica dei miei gruppi di Baby-massaggio.

Il Baby-massaggio

Il Baby-massaggio(15) bio-energetico offre ai genitori la possibilità di comprendere e sostenere questo tenero (e potente) processo della libera pulsazione bio-energetica. Il quale, secondo Eva Reich, è il prerequisito della salute autoregolata, presente e futura.

Il massaggio è parte di una antica tradizione orientale, che conosce il profondo valore del legame tra madre e figlio. Eva Reich, elaborando il pensiero di suo padre, ha riscoperto in Occidente, su basi scientifiche, il valore del Baby-massaggio e lo applica anche ai neonati a rischio e ai prematuri. Dalle ricerche scientifiche è risultato che un gruppo di neonati, massaggiati regolarmente dalle loro madri, ha avuto uno sviluppo neurologico significativamente migliore del gruppo di controllo non massaggiato(16).

Gli effetti del Baby-massaggio

La stimolazione dolce del massaggio di Eva Reich, che deriva dalla vegetoterapia (la vegetoterapia è una psicoterapia corporea chiamata così da W. Reich perch incide sul sistema nervoso vegetativo), fa fluire l’energia attraverso i blocchi muscolari e verso la periferia (verso il mondo). La pulsazione energetica-plasmatica attraverso la quale madre e bambino comunicano, viene armonizzata in modo tale che, a molte donne, con profondi problemi emotivi, può essere risparmiata la depressione post-partum se ricevono una quantità sufficiente di massaggi prima, durante e dopo la nascita del bambino.

Il piacere funzionale che si ripristina con il massaggio armonizza l’azione del sistema neurovegetativo simpatico-parasimpatico e ha un effetto positivo su tutte le funzioni dell’organismo, promuovendone la salute. Basta pensare che gli animali “massaggiano” i loro neonati leccandoli, e che i piccoli che non vengono leccati muoiono. I neonati umani non accarezzati non muoiono, ma la qualità della loro sopravvivenza è gravemente compromessa.

Il massaggio è particolarmente importante:

– per bambini adottati e per i loro nuovi genitori, per favorire il legame;

– per bambini nati con taglio cesareo: loro non hanno ricevuto la forte stimolazione cutanea della nascita vaginale;

– per bambini che non possono essere allattati e che con il massaggio ricevono nutrimento energetico;

– per bambini con madri che lavorano: l’incontro regolare e l’intenso flusso di benessere che si trasmette durante il massaggio, danno alla madre e al bambino distensione, nutrimento energetico e vicinanza;

– per bambini prematuri: l’effetto del massaggio neo-natale è sorprendente sul loro sviluppo(17).

Le ultime ricerche psicoanalitiche confermano l’importanza del buon contatto con la pelle per lo sviluppo del S e le gravi conseguenze della sua mancanza(18).

La pelle è l’organo di senso più esteso del corpo e il più importante per lo sviluppo del S . Sin dall’inizio il bambino percepisce e conosce il mondo attraverso la pelle: il modo in cui viene toccato e tenuto in braccio è all’inizio un’esperienza totale.

Tutto il mondo delle sensazioni originato dalla pelle viene rielaborato dalla mente: le sensazioni diventano percezioni, emozioni e sentimenti. La pelle protegge, contiene, limita e contemporaneamente permette il contatto con gli altri, accoglie un’infinità di stimoli e risponde. Sin dalla nascita la pelle è l’organo che filtra il mondo esterno. Per tale ragione questo delicato organo di senso ha un’importanza fondamentale fin dalla nascita. La psicologia infantile colloca lo sviluppo della mente e del pensiero già nel primo anno di vita e la pelle è l’organo principale attraverso il quale ciò avviene(19).

I gruppi di Baby-massaggio

L’esperienza che descrivo qui si riferisce ai gruppi di Baby-massaggio che ho formato in un consultorio privato. Le donne hanno già fatto la preparazione al parto con me con il metodo della bio-energetica dolce e si conoscono sin dai primi mesi di gravidanza. Dopo il parto, quando il bambino ha da uno a tre mesi, le donne tornano, a volte con i loro mariti, per tre o quattro incontri della durata di una mattina intera. Il massaggio in s prende soltanto da dieci a venti minuti, a seconda delle esigenze: è la risposta del bambino e il suo piacere che guida i movimenti e la durata.

All’inizio dell’incontro le donne hanno bisogno di molto tempo per scambiarsi le loro esperienze. Di solito il gruppo è composto mediamente di sei madri con i propri bambini e quasi sempre c’è un padre o due. Quando vogliono iniziare il massaggio, le madri possono spogliare i loro bambini, ma se piangono i piccoli possono restare vestiti. Il massaggio tocca soprattutto l’aura del bambino e fa effetto anche attraverso gli abiti. Le madri, sedute su dei materassini, si dispongono in semicerchio intorno a me. Mentre io faccio vedere i movimenti su una bambola, loro massaggiano i figli imitandomi. Il tocco è leggero come un soffio o, come dice Eva Reich, come il tocco delle “ali di una farfalla”. Le mani si muovono dalla testa verso i piedi (per scaricare le tensioni verso la parte bassa del corpo, dove possono essere “digerite” o scaricate) e dal centro del corpo verso la periferia (mani).

In caso di stress, l’energia è contratta al centro del corpo e grazie alla stimolazione piacevole fluisce verso la periferia, cioè verso la pelle, verso le mani della madre. Un campo di energia vibrante si crea tra mani e pelle e si estende. È un’esperienza energizzante per entrambi, durante la quale si rende possibile una profonda comunicazione. Quando l’energia comincia a fluire e la pelle del bambino si fa rosea e pulsante di un dolce calore, si possono sciogliere le più profonde contrazioni nel bambino e anche nella madre.

Imparata la facile tecnica di Eva Reich(14) e approfondito il suo significato, si può dimenticarla: tutto si trasforma allora in una danza delle mani con il corpo del bambino e lentamente l’intero corpo delle madri partecipa di un movimento ritmico, a volte accompagnato da un canto spontaneo.

Osservo spesso come all’inizio le mani delle madri siano poco abili e piene di timori e non piacciano molto ai bambini, ma presto si avvia il vero “contatto” e, con un po’ di incoraggiamento, le mani e tutto il corpo delle madri si sciolgono. Nell’ultima seduta a volte sembra che le mani suonino il corpo del bambino come uno strumento: il piccolo sembra essere strumento e maestro al tempo stesso e il piacere che ne deriva è visibile sia nelle mani delle madri che nei corpi dei bambini.

Dopo il Baby-massaggio, le donne restano ancora per molto tempo in compagnia delle altre madri e dei loro figli. Dal fervore con il quale parlano tra di loro si percepisce che si comunicano delle cose importanti, come in una “identificazione vegetativa” generale. Spesso si verifica ciò che chiamo un “contatto bio-energetico di gruppo”: è come se i campi di energia delle mamme e dei neonati si espandessero e diventassero più luminosi, quasi pulsanti. La stanza sembra trasformarsi in un morbido utero di energia che avvolge tutti. Si sente che è un momento di scambio particolarmente intenso. I bambini non piangono ma ascoltano attenti, come meravigliati, e respirano più profondamente; il loro aspetto è roseo, gli occhi brillano e si vede lo stesso calore nei visi delle madri e nei loro movimenti. L’insieme dei suoni delle voci diffonde una vibrazione di benessere e di amore. Quando in questi momenti qualcuno entra, si sente “come in un altro mondo” e, se aspetta con calma, ne viene coinvolto e diventa raggiante a sua volta.

Periodo sensibile

Dobbiamo ad altri ricercatori l’osservazione e l’approfondimento del cosiddetto “periodo sensibile” subito dopo la nascita: un momento unico in cui si sviluppa un forte legame reciproco, “privilegiato”, tra il neonato e i genitori(20). Questa fase ha un’influenza profonda sulla famiglia. L’antica tradizione indiana lo sa bene: le donne da millenni ricevono massaggio quotidiano e aiuto per molte settimane dopo la nascita.

Già nei miei gruppi di preparazione al parto propongo ai mariti di massaggiare regolarmente il corpo delle loro mogli durante la gravidanza, il travaglio e il postpartum. Questa pratica dovrebbe diventare una regola generale in ostetricia, perch le madri che sono state toccate con cura e dolcezza durante il parto subito dopo toccano i loro neonati con mani più abili, e un neonato toccato con dolcezza farà altrettanto a sua volta con i suoi figli(18).

Eva Reich non soltanto insiste nel sottolineare nei suoi workshop che la madre dopo la nascita non deve essere separata in nessun caso dal neonato, ma sostiene che la separazione sia un “crimine” contro la vita del bambino, e mette in guardia dalle gravi conseguenze di un trattamento insensibile di madre e bambino prima, durante e subito dopo la nascita, perch una legge bio-energetica unisce i due in modo particolare in quei momenti. Tale legame sviluppa nella madre il suo sapere, istintivo e nel bambino l’energia per la sua crescita. Questo contatto si rinforza con il massaggio: “Il bambino accarezzato, come una pianta ben curata, ha più possibilità di svilupparsi, di crescere” e di fidarsi di se stesso nelle avversità inevitabili della vita.

In questo periodo poco considerato, profondi e raffinati processi emotivi, tra l’innato e l’appreso, si innescano tra madre e bambino. Un bambino dolcemente abbracciato già appena nato, impara per sempre che è desiderato e, da adulto, sarà a sua volta tenero nell’abbracciare. Per questo è importante che le ostetriche insegnino il Baby-massaggio nei primi giorni di vita e che i gruppi di Baby-massaggio inizino il più presto possibile dopo la nascita.

 

Il massaggio alle madri: “mothering the mother”

I sentimenti forti e contrastanti, di tenerezza e di paura, che inondano il corpo della madre durante e dopo la nascita, possono essere così potenti da sopraffarla quasi e per questo la madre resiste e si oppone a essi. La comprensione, se espressa anche con un tocco empatico da parte di chi le sta vicino, può aiutarla a superare il trauma e ad accettare il bambino e le sensazioni sconvolgenti che porta con s . Il potenziale biologico con il quale il neonato e la madre autoregolano il loro rapporto in questo modo può svilupparsi in tutta la sua plasticità e produttività.

Per la madre, però, fare il Baby-massaggio quando è ancora stanca per il parto può essere pesante, soprattutto se i primi tentativi sono frustranti e la rendono insicura. In questo caso le madri stesse ricevono il Baby-massaggio, per far fluire di nuovo la loro energia, insieme con un senso di benessere. Le madri vengono rassicurate sul fatto che non è possibile avere sempre un buon contatto con il loro bambino ma che è importante che loro possano riconoscere quando hanno perso “contatto” per poter ricorrere a un aiuto. Nelle città in cui Eva Reich ha insegnato sono stati istituiti dei centri per un “pronto soccorso emozionale” dove le madri (o meglio i genitori) con i loro piccoli, quando il “contatto bio-energetico” tra di loro si è interrotto, ricevono il necessario aiuto con i metodi della “Bio-energetica dolce”, soprattutto con il massaggio bio-energetico neonatale. In questo modo si vuole prevenire o interrompere subito l’instaurarsi di un “circolo vizioso”, con effetti negativi talora gravi per lo sviluppo del bambino. È relativamente facile all’inizio di un circolo vizioso restaurare un naturale equilibrio bio-emotivo. Quando la madre è sovraccarica e il bambino piange lei diventa nervosa, il piccolo piange di più e lei diventa ancora più tesa(21).

Durante lo stato di apertura della madre nel periodo sensibile, sembra che avvenga qualcosa di particolare quando lei riceve l’intenso contatto ritmico e rilassante del massaggio bio-energetico. Il piacere e il calore del contatto stimolano, in tutte le cellule della madre, la libera pulsazione bio-energetica, autoespressiva. Sembra che gli schemi affettivo-motori, bloccati nel passato (forse nella prima infanzia? forse al momento della nascita?) possano ora, nel rapporto con il proprio neonato, essere stimolati a sciogliersi e a svilupparsi. Come se la natura stessa volesse, in questo momento particolare, mettere a disposizione della coppia madre-neonato tutto il suo potenziale di auto-guarigione: è per questo che tale periodo si situa tra la guarigione e il sacro.

“La spiritualità del contatto”

Durante il massaggio bio-energetico neonatale, quando l’energia tra madre e bambino fluisce e pulsa, e tutti e due, nella profondità del loro essere, possono vivere questo “glow and flow” e l’amore vibrante irradia sugli altri, secondo me siamo di fronte a momenti sacri, in cui il sociale e il biologico si incontrano.

Due personalità così differenti come Wilhelm Reich e Fridirick Leboyer, in epoche differenti, osservavano sui visi dei neonati soddisfatti tratti divini in cui compare il sorriso di Buddha, una grazia infinita che silenziosamente irradia e verso la quale aspiriamo poi per tutta la vita.

“Se una fraternità internazionale tra gli esseri umani potrà mai essere fondata su una base stabile, tale base naturale per un funzionamento internazionale cooperativo delle società potrà essere soltanto il principio del vivente, l’eredità bio-energetica che ogni neonato porta con s : un sistema energetico enormemente produttivo e adattabile che dalle proprie fonti contatta l’ambiente e lo modella secondo i propri bisogni. Il compito di base dell’educazione dovrebbe essere di rimuovere ogni ostacolo che si oppone a questa produttività e plasticità della energia biologica naturalmente data”(22).

Più entriamo in contatto con i neonati, più sentiamo come da loro emani qualcosa che pur rendere il mondo più abitabile: loro sono capaci in misura sorprendente di diffondere amore e gioia in chi li sa ascoltare.

Forse possiamo finalmente iniziare a imparare a percepire e a comprendere dentro di noi il loro grande potenziale di energia creativa e a proteggere dalla nostra corazza i “Bambini del Futuro”.

Note

1) Con il termine “biopatia” si intendono tutti i processi patologici causati da una disfunzione dell’apparato vivente autonomo. Vedi Biopatia del cancro, SugarCo, Milano 1968.

2) “Armatura muscolare ed emozionale”, detta anche corazza: il corpo, secondo W. Reich, si difende da stress eccessivi contraendo i muscoli. Secondo lui le emozioni troppo forti (paura, rabbia, odio) sono ancorate nel corpo nella corazza muscolare. Questa difende la persona da un’eccessiva percezione del dolore, ma al contempo fa sì che essa sia collegata con le proprie sensazioni vitali in un modo distorto.

3) “Gentle Bioenergetics” sono i metodi vegetoterapeutici di Eva Reich, raccolti da Eszter Zornansky nel recente libro Lebensenergie durch sanfte Bio-energetik, Kösel, München 1997. 1 metodi che riguardano la prevenzione sono: il massaggio bio-energetico per le madri e per i neonati; il bilanciamento dell’energia (o polarity passiva) dopo una nascita traumatica o in seguito a un taglio cesareo; il massaggio metamorfico, con il quale si riesce frequentemente, tra l’altro, a girare il bambino se si trova in posizione podalica.

4) Wilhelm Reich, Esperimenti bionici sull’origine della vita, SugarCo, Milano, 1981.

5)Thomas Harms, tesi di diploma: Diesseits des Lustprinzips (tradotto: al di qua del principio del piacere), un paragone critico tra il modello dell’economia della libido di Freud e l’economia sessuale di W. Reich e la sua rilevanza per la odierna ricerca sui neonati. Freie Universität Berlin, Istituto di Psicologia della Facoltà di Filosofia e Sociologia.

6) Martin Dornes, Der kompetente Säugling (Il lattante competente), Fischer 1992.

7) W. Reich, La funzione dell’Orgasmo, SugarCo, Milano, 1969.

8) Jean Liedloff, Il concetto del continuum, La meridiana, 1994.

9) “Grounding and Grace” è il titolo del Congresso dell’IIBA (Istituto Internazionale di Analisi Bioenergetica) che si è tenuto nel 1990 in Portogallo. Articolo di Robert Hilton “Grounding and Grace” in The Clinical Journal of the International Institute for Bioenergetic Analysis, Vol. 4 Nr. 2, 1990.

10) Daniel Stern, Il mondo interpersonale del bambino, Bollati Boringhieri, Torino 1987.

11) Wilhelm Reich, Bambini del Futuro, SugarCo, Como, 1994.

12) Sugli interventi insensibili da parte di operatori durante il periodo perinatale e le loro tragiche conseguenze si riferisce al Congresso “Birth and Violence” in Atti del Congresso dell “Association for Pre-and Perinatal Psychology and Health”, San Francisco 1995.

13) Daniel Stern, Le prime relazioni sociali, il bambino e la madre, Sovera Multimedia, 1989.

14) Donald Winnicott, Babies and their Mothers, Addison-Wesley Publishing Company, 1987.

15) Amelia Auckett, Massaggio per i vostri bambini, Red, Como 1981.

16) Ruth Rice, “Neurophysiological Development in Premature Infants Following Stimulation”, in: Developmental Psychology, 1977, vol. 13, nr. 1, p. 69-76.

17) ibidem.

18) Questo punto di vista di W. Reich oggi h, secondo Stephen Johnson in La trasformazione del carattere, Astrolabio 1986, perfettamente conciliabile, anzi complementare, col modello carenziale, approfondito dalle più recenti correnti psicoanalitiche delle relazioni oggettuali, della psicologia dell’Io e della psicologia del S , come riporta l’articolo di Luciano Marchino sulla “Formazione e dissoluzione dell’armatura caratteriale” in Cyber n. 36, 1992, p. 16.

19) Ashley Montagu, Il linguaggio della pelle, Vallardi, 1989.

20) Marshall H. Klaus e J.H. Kennell in Maternal Infant Bonding C. V. Mosby Company, Saint Louis, 1976.

21) Sul circolo vizioso che porta a un inizio di armatura in un neonato vedi l’articolo di W. Reich, “Inizio della corazzatura all’età di cinque settimane”, in Bambini del Futuro, SugarCo, Como, 1987. Un “pronto soccorso emozionale” per madre-padre e neonato è stato istituito al Centro Studi Eva Reich a Roma, con lo scopo di prevenire la formazione di una precoce armatura nel neonato.

22) W. Reich, Bambini del Futuro, cit.

 

Estratto in parte dall’articolo di Silja Wendelstadt, “Die Spiritualität der Beruehrung” in Eva Reich / Eszter Zornansky, Lebensenergie durch sanfte Bioenergetik (Energia vitale attraverso la bio-energetica dolce), Kösel Verlag, München 1997.

Copyright by Anima e Corpo 1997

Il pronto soccorso emozionale neonatale

Il massaggio dato al neonato e alla madre nei primi giorni, settimane e mesi dopo la nascita promuove la salute nel rapporto madre-neonato e previene la patologia.

Se la nascita è stata traumatica il massaggio può ristabilire l’interrotto flusso di energia bio-emozionale nel neonato, nella madre e tra loro.

Il caso di Pietro e Valeria, curato con il massaggio bioenergetico di Eva Reich, ne è una testimonianza

Incontro Valeria e Pietro in un gruppo di yoga per il post-partum dove davo una dimostrazione del baby-massaggio bioenergetico.

Pietro (2 mesi), nelle braccia della madre, stava in una posizione, tesa, innaturale, con la schiena inarcata all’indietro. Sembrava che si spingesse lontano dalla madre, non volesse vederla, e la madre, in quella posizione, non poteva guardarlo negli occhi; era difficile reggerlo tra le braccia e non farlo cadere.

Il primo incontro di terapia bioenergetica: la madre, Valeria, viene al “Pronto soccorso emozionale neonatale” del Centro Studi Eva Reich, per una prima seduta di massaggio neonatale bioenergetico.

PIETRO, INARCANDOSI fortemente, SI SPINGE costantemente lontano dalla madre.

La madre è disperata. Dice di s che è una “ex-anoressica”, come per dire che è colpa sua.

La storia del parto: il bambino doveva nascere con un parto podalico e la madre voleva che nascesse per via vaginale e non, come si usa adesso, in caso di posizione podalica, con taglio cesareo. Durante il parto, nella fase di espulsione, dolorosissima, una mano messa di traverso impediva l’uscita del bambino e fu deciso il taglio cesareo all’ultimo momento. Il bambino è nato asfittico, blu e contratto e lo hanno portato subito via.

La storia post-partum: la madre lo ha visto solo dopo 3 giorni. Quando lo ha visto per la prima volta dopo la nascita, il bambino stava sotto una “campana”, pieno di elettrodi. Valeria si sentiva piena di rabbia e di odio e lo ha rifiutato. Soltanto dopo un po’, quando lei ha toccato Pietro con un dito sul sopracciglio, e lui ha accennato un sorriso, lei si è sentita riconosciuta da Pietro e si è stabilito un primo legame.

Furono dimessi dopo otto giorni. Pietro inarcava costantemente la schiena e la testa non riusciva a reclinarsi in avanti. Ai TIN (terapia intensiva neonatale), alla domanda della madre se si trattava di un danno neurologico o muscolare, le rispondevano che era neurologico e la madre pensava che fosse irreversibile e si sentiva in colpa. Dopo un mese e dieci giorni Pietro fu di nuovo ricoverato con una bronchiolite, e messo sotto tenda di ossigeno per una settimana. Pietro continuava a stare con la schiena inarcata.

Alla madre venivano dati degli esercizi di gioco da fare con Pietro, ma non riusciva a farglieli fare nel modo giusto e si sentiva ancora più frustrata.

“POSSO FARE QUALCOSA PER LUI! MI ASCOLTA!”

Eravamo disposti per terra sui materassi. Valeria, era tesa ed esausta e per questa ragione riceveva lei per prima, il dolce massaggio bioenergetico. Le dicevo che dopo aver conosciuto su di s l’effetto unificante (“mi sento integra!”) e rilassante del massaggio, lei lo avrebbe potuto dare al bambino con il mio aiuto. La invitavo ad esprimere con un suono “aaah” prolungato le sensazioni di piacere che avrebbe provato. Questo sospiro lungo, sonoro, della madre non solo rilassava lei stessa, ma faceva anche un effetto visibilmente rilassante sul bambino.

Per mostrarle l’effetto del contatto delle dita sulla pelle del bambino, ho toccato leggermente le spalle del bambino. Il bambino restava come meravigliato, trasognato, come in ascolto di una profonda sensazione, mentre io sentivo, sotto le mie dita, sciogliersi i muscoli delle sue spalle.

Quando la madre si è sentita pronta ha detto: “ora faccio io il massaggio a Pietro”. Seduta eretta, con me alle spalle, con calma e guidata da me, ha iniziato i movimenti del massaggio e ha sentito le spalle del bambino rilassarsi. Questa sensazione le ha procurato sicurezza e ha detto: “posso fare qualcosa per Pietro!”

Dopo il massaggio il bambino piangeva. Ho chiesto alla madre di tenerlo dolcemente stretto tra le braccia, di camminare dondolandolo e di parlargli del parto guardandolo negli occhi. Questo era possibile ora, perch il bambino era meno inarcato indietro. La madre, profondamente commossa, ha cominciato a parlare a Pietro del parto e di quanto aveva sofferto e quanto lo aveva fatto soffrire e che questo le dispiaceva e le dava un senso di colpa. Gli diceva quanto era stata una brutta esperienza. E poi ha detto: “ma ora sei vivo ed io sono felice con te e tu con me”. In quel momento il bambino ha interrotto il pianto. La madre ed io abbiamo avuto la precisa sensazione che lui stesse capendo le parole. Ciò che il bambino capiva, mi sembrava, era che ora lei era felice che lui c’era e che stavano insieme dopo la lunga separazione dell’incubatrice. Fino allora non aveva mai parlato a nessuno con tanta commozione del parto doloroso. Dopo un po’ il bambino si è addormentato profondamente. Ai genitori abbiamo consigliato di massaggiare il bambino tutti i giorni a casa, all’ora del bagnetto, e di non scoraggiarsi se non si sentivano molto abili.

2. seduta: “MI GUARDA!”

Una settimana dopo sono andata a casa di Pietro e di sua madre, Valeria, e c’era anche il padre e il fratello più grande di 4 anni.

Ci siamo messi sul tappeto nella stanza da letto dei bambini. Pietro inarcava di meno la schiena ma era ancora difficile captare il suo sguardo. Faccio il dolce massaggio bioenergetico alla madre. Mentre le mie mani sono in contatto con il suo corpo, lascio fluire le mie parole, in contatto con le mie mani e con il suo corpo e le parlo del suo corpo, di ciò che le mie mani sentono, delle sue paure, delle sue speranze. Parlo alla sua energia.

Il marito è presente e ascolta e a volte mi aiuta: mentre faccio i movimenti a un braccio, lui li fa all’altro, in sintonia con me. E’ musicista. Toccare è come suonare uno strumento. Anche qui la scioltezza delle mani e l’equilibrato movimento fanno il tono. Si può diventare virtuosi.

Il bambino giace vicino, guarda quasi immobile, come per ascoltare dentro, “sintonizzato” e piange quando parliamo del taglio cesareo. Di nuovo tutti e tre abbiamo la sensazione che il bambino ci comprende. Ci scambiamo le parole, portate sulle onde dell’energia. Il nostro chiacchierare allegro è terapeutico: non intervengo con consigli, ma in contatto con la madre lascio fluire le parole e le sensazioni.

Il massaggio della madre è finito e la madre desidera darlo al bambino. Sta seduta per terra, appoggiata al corpo del marito, che le fa da sostegno. Tra le gambe divaricate, giace il suo bambino, per terra, su una coperta morbida.

Il bambino accetta il massaggio, si presta, gode, ascolta il flusso delle mani della madre sulla pelle e risponde con movimenti sempre più deliziati. Anche la voce tranquilla della madre, che nomina le varie parti del corpo, lo tocca, lo avvolge. Visibilmente la madre inizia a sentire il piacere dei propri gesti, che diventano più morbidi, più esperti. I gesti della madre, fatti con piacere sono quelli che piacciono di più al bambino. La madre li fa con delle lunghe espirazioni sonore, che possono diventare un ritmo e un canto. Tutto il sistema corporeo del bambino sa armonizzarsi con questo flusso di sensazioni dolci di movimento, di tatto e di suoni.

Ora, quasi per combinazione, gli occhi del bambino toccano gli occhi della madre: “mi guarda!” esclama la madre, con un suono che non dimenticherò. Si erano incontrati. Gli occhi del bambino si erano attaccati agli occhi della madre e, come attraverso un cordone ombelicale di energia, si nutrivano reciprocamente attraverso gli occhi come due innamorati. Era come un riconoscersi, un attimo (gli occhi sono organi di senso emozionali).

La madre voleva ancora guardare negli occhi di Pietro. Le ho detto che bastava questo breve contatto spontaneo e che non era necessario forzarlo perch gli occhi di Pietro la avrebbero cercata ancora e bastava cogliere l’attimo. Gli doveva lasciar tempo per riosare, riscoprire, per rifarlo.

La terza seduta :”MI SORRIDE, MI FA I VERSI

La seduta veniva ripetuta a casa di Valeria con il marito e Pietro. Questa volta il bambino non faceva più l’arco indietro con la schiena. Lei riferisce che lo fa ancora quando gli dà il biberon, perch lei era anoressica e quindi anche lui doveva, secondo lei, avere problemi di cibo. Invece io credo che Pietro si sintonizzi sulle sue preoccupazioni e il suo senso di colpa di essere “ex-anoressica”.

Pietro la guardava negli occhi, durante il massaggio, sorrideva, faceva i versi, e la madre rispondeva divertita e rassicurata.

Valeria mi ha chiesto una quarta seduta nel mio studio, prima della visita di controllo della quale aveva paura. Ma alla quarta visita il bambino stava così bene che non lo aveva portato neanche con s.

Ha dimenticato di telefonarmi dopo la visita medica di controllo al TIM, che era stata, come ha detto lei, “un trionfo”.

Più tardi mi ha detto che “il trionfo” consisteva nel fatto che le psicologhe notavano che lei “teneva bene in braccio” Pietro e che Pietro superava brillantemente i test di deficit sensoriale. Alla fine di questa visita le psicologhe hanno battuto le mani per congratularsi con la madre.

Ho rivisto Pietro quando ha compiuto un anno. Camminava e mi veniva vicino, si fermava per guardarmi con due occhi profondi che mi toccavano il cuore, come se mi conoscesse. Pietro era dolce e vivace e, in questo precario equilibrio dei suoi primi passi, perfettamente equilibrato.

C’è un periodo dopo la nascita in cui la madre e il bambino sono molto sensibili. Facilmente il loro sistema bio-emozionale di comunicazione può essere disturbato ma è anche relativamente facile ristabilire il flusso di energia (il bonding) tra loro. In questo modo si interrompe il “circolo vizioso” tra madre e bambino, in cui il bambino è teso e preoccupa la madre, la preoccupazione della madre rende più teso il bambino, la madre ha più paura, il bambino si innervosisce ancora di più…. e cosi via. Il nostro “Pronto soccorso emozionale” è stato istituito per poter interrompere subito questo circolo vizioso.

In questo stato di apertura, come è il periodo sensibile, sembra che qualcosa di particolare avvenga quando la madre riceve l’intenso contatto ritmico e rilassante del massaggio bioenergetico. Il piacere e il calore del contatto stimolano in tutte le cellule la libera pulsazione bioenergetica, autoespressiva nella madre. Sembra che antichi schemi affettivi-motori, bloccati nel passato (sin da quando lei era a sua volta bambina), possano ora essere stimolati a sciogliersi nel rapporto con il proprio neonato. Come se la natura stessa volesse, in questo momento particolare, mettere a disposizione della coppia madre-neonato tutto il suo potenziale di auto-guarigione. Sono dei momenti tra guarigione e sacralità.

La madre, “ex-anoressica”, poteva scoprirsi, con il nostro aiuto, “madre sufficientemente buona” e nutriente e poteva, probabilmente, in quel momento, incontrando il suo amore per Pietro, superare antichi blocchi nel proprio equilibrio bio-emozionale.

L’aiuto non viene da parte di chi analizza e dà consigli, ma da parte di chi intuisce la natura delle dinamiche della coppia madre-neonato e sa stare CON loro con empatia.

Questa capacità di intuito empatico e di “essere semplicemente con” e questo bisogno di proteggere, sono qualità insite non solo nella natura umana: gli elefanti lo fanno e i delfini adulti proteggono le femmine con i loro neonati.

BIBLIOGRAFIA

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A. Montagu, Il linguaggio della pelle, Vallardi, 1989.

Marshall H. Klaus and John H. Kennel, Maternal Infant Bonding, Mosby 1965 (sul periodo sensibile”)

Mechthild Papousek, Vom ersten Schrei zum ersten Wort, Verlag Hans Huber, Muenchen 1994 (Dal primo grido alla prima parola).

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Wilhelm Reich, Bambini del Futuro, Sugar 1987

Daniel Stern, Il mondo interpersonale del banbino, Bollati Boringhieri, Torino 1987, (Sulla sintonizzazione degli affetti).

Silja Wendelstadt, Lo sviluppo del concetto di energia in Wilhelm Reich e le sue implicazioni psicosociali, tesi di laurea, Napoli 1979-80.

Motivazione ed emozione

La motivazione ha a che fare con ciò che ci spinge ad agire: essa si riferisce infatti alle forze che dirigono e sostengono il comportamento, rendendolo possibile; è strettamente legata alle emozioni

I. Le teorie dell’istinto.

la nozione di istinto è stata spesso utilizzata per esprimere il carattere naturale della motivazione; è stata applicata dagli studiosi del comportamento animale di ispirazione etologica per denominare dei pattern (modelli) comportamentali innati, a carattere automatico ed involontario, innescati da stimoli specifici (stimoli-segnale); fissi, in q 626j98g uanto non appresi, non modificabili dall’apprendimento e rigidi ” alcuni studiosi hanno sostenuto che anche nella nostra specie vi sono alcuni tipi di risposta, ovviamente molto semplici, che sembrano essere innati ed avere le stesse caratteristiche di immodificabilità del comportamento istintivo, come i riflessi (es: il riflesso di suzione del neonato), oppure talune espressioni facciali (come il sorriso) D naturalmente, però, le analogie con le osservazioni compiute nel mondo animale non devono far dimenticare le differenze enormi con il comportamento umano, che è molto sensibile all’apprendimento e alla cultura; inoltre, la nozione di istinto appare alquanto inappropriata per poter rendere conto della variabilità, complessità e differenziazione comportamentale della nostra specie; sono soprattutto gli psicologi che si ispirano alla teoria evoluzionistica che attribuiscono maggiore importanza ai fattori innati e cercano di spiegare comportamenti anche complessi come determinati da tali fattori innati, geneticamente trasmessi

II. Le teorie della riduzione delle pulsioni.

le pulsioni, o pulsioni primarie, sono, come gli istinti, innate (non apprese); tuttavia, diversamente dagli istinti, possono mostrare un grado di variabilità interindividuale molto elevato e possono dar luogo a differenze sensibili anche nello stesso individuo, in situazioni diverse; si manifestano in modo automatico; si tratta di bisogni organici, che si manifestano come degli stati corporei spiacevoli, che richiedono, con maggiore o minore intensità e urgenza, di essere alleviati ” Cannon ha proposto una teoria, detta omeostatica, secondo la quale tutte le pulsioni tenderebbero all’equilibrio; le teorie della riduzione delle pulsioni si basano sull’idea che il comportamento sia guidato dalla necessità di mantenere il più possibile una situazione di equilibrio e che quindi cerchi di riprodurlo in risposta ai cambiamenti imposti dall’ambiente; quando l’equilibrio viene interrotto, si genera una pulsione, che predispone e spinge l’organismo ad intraprendere un’azione capace di stabilirlo; fa riferimento alla dimensione naturale del comportamento e alle sue caratteristiche biologiche, ma, diversamente dalla teoria degli istinti, riconosce l’importanza dell’apprendimento; le pulsioni diventano anzi fonte importante di apprendimento, dando luogo ai fenomeni cosiddetti di rinforzo; si distinguono le pulsioni primarie (come la fame o la sete, dove cibo e acqua funzionano come rinforzi primari per l’apprendimento) dalle pulsioni secondarie (es: il bisogno di denaro), che sono inizialmente apprese, ma che successivamente funzionano esattamente come quelle primarie, generando appunto uno stato di bisogno che dev’essere soddisfatto

III. Teorie dell’arousal e dell’incentivo.

vi sono molte circostanze nelle quali gli individui sembrano motivati piuttosto dall’esigenza di rompere che da quella di ristabilire un equilibrio; molti comportamenti curiosi o esplorativi non danno luogo ad alcuna riduzione delle pulsioni, anzi, al contrario, accrescono il livello di attivazione dell’organismo ” i teorici dell’arousal (specie di livello generale di attivazione di diversi sistemi fisiologici) ritengono che la motivazione abbia a che fare non solo con la riduzione, ma anche con l’accrescimento dell’attivazione, e che in definitiva ne rappresenti una forma di regolazione; queste teorie sostengono che le persone siano motivate non tanto ad abbassare l’arousal, quanto piuttosto a mantenerlo ad un livello ottimale; questo livello ottimale di stimolazione non è uguale per tutte le persone: generalmente, comunque, gli individui cercano di aumentarlo quando esso è basso (es: sono eccessivamente rilassati) e di abbassarlo quando è alto (e sono quindi sovra-attivati); la legge di Yerke-Dodson dice che un arousal moderato favorisce un buon livello di prestazione; livelli eccessivi di arousal sono invece considerati dannosi, specialmente per quanto riguarda l’attività cognitiva

la teoria dell’incentivo, diversamente dalle precedenti, è particolarmente centrata sul ruolo svolto dagli stimoli ambientali sul comportamento, più che su quello di componenti motivazionali interne; secondo questa teoria, il comportamento è regolato da una relazione costi-benefici; il valore degli incentivi non è comunque indipendente dagli stati interni dell’individuo (es: l’acqua avrà un diverso ruolo incentivante se l’animale è assetato oppure no); gli incentivi sono particolarmente importanti nell’apprendimento basato sul condizionamento e possono dar luogo alla formazione di motivi condizionati

IV. L’alimentazione.

la fame è una delle più note pulsioni primarie; si pensa che nello stomaco (ma non solo) vi siano dei recettori speciali, in grado di analizzare chimicamente il cibo e di segnalare i risultati al cervello; può capitare, inoltre, che le nostre regolazioni falliscano (disturbi alimentari); l’ipotalamo laterale ed il nucleo ventro-mediale sono particolarmente importanti nel controllo della fame e della nutrizione: sembra che questi 2 centri interagiscano tra loro, equilibrandosi, per mantenere un punto di riferimento nel peso corporeo (teoria del punto di regolazione), come una specie di termostato; naturalmente il comportamento alimentare, specialmente nella specie umana, è determinato non soltanto da fattori di tipo biologico:

  • gusto
  • varietà
  • voglie
  • modo di presentazione del cibo
  • aspetti di natura culturale
  • età

 

I DISTURBI ALIMENTARI

disturbi alimentari: quei comportamenti che si distaccano in misura notevole (in eccesso o in difetto) dalle richieste biologiche dell’organismo e dagli standard culturali, determinando talvolta anche variazioni patologiche del peso corporeo; possono, e spesso lo sono, essere associati ad altri tipi di disturbo, di natura psicologica

¡ obesità: è ormai certo che vi siano fattori predisponesti; si ipotizza che le persone obese mangiano di più perché sono relativamente insensibili agli stimoli interni, cioè alle sensazioni di fame, mentre sono molto più dipendenti dagli stimoli esterni (es: la quantità dell’offerta di cibo); si ipotizza anche che nelle persone obese il punto di regolazione del peso sarebbe spostato verso un valore più alto del normale; il solo fatto di essere a dieta provoca un senso continuo di deprivazione e un’attività cognitiva esageratamente centrata sul cibo

¡ anoressia nervosa (progressiva inappetenza, fino a raggiungere livelli di denutrizione patologica) e bulimia nervosa (alternanza di abbuffate e di vomito o assunzione di potenti lassativi): entrambe sono caratterizzate da un timore eccessivo per il peso corporeo; le cause di questi disturbi non sono ancora completamente conosciute; certamente essi trovano un rinforzo nella cultura contemporanea, che valorizza la snellezza della linea

V. La sessualità.

gli studiosi hanno a lungo discusso se il sesso debba essere considerato una pulsione biologica, come il cibo e la sete: in effetti, la grande varietà di costumi sessuali nelle differenti popolazioni farebbe pensare che la sessualità dipenda piuttosto dall’apprendimento e dalla cultura; tuttavia, la componente biologica, ed in particolare quella ormonale, ha un ruolo tutt’altro che trascurabile; gli ormoni sessuali (femminili = estrogeni, maschili = androgeni, tra cui il più importante è il testosterone) hanno un’importanza fondamentale nel desiderio e nell’attivazione sessuale; ciascun ormone sessuale è presente in entrambi i sessi, che differiscono tra di loro soprattutto per la quantità; la differenziazione sessuale (dimorfismo) è presente nell’ipotalamo; importanti differenze nel ciclo della risposta sessuale nell’uomo e nella donna; successione dell’atto sessuale: fase di eccitamento, fase di plateau, fase dell’orgasmo, fase di risoluzione (posizione di rilassamento, periodo refrattario)

il desiderio sessuale non è soltanto una questione di ormoni, l’attività mentale dell’individuo e le norme culturali hanno un’influenza considerevole: preoccupazioni troppo invadenti impediscono di godere appieno e persino di portare a termine, o anche solo di iniziare, l’atto sessuale; sono spesso decisive le attribuzioni che l’individuo (uomo o donna) dà alla propria attivazione sessuale, o comunque a quei sintomi che sono assunti come caratteristici del desiderio sessuale; le persone hanno attività sessuali non soltanto per rispondere ad un’eccitazione fisiologica (spesso sono spinte da motivazioni di tipo psicologico; molto spesso le persone hanno rapporti sessuali contro voglia, perché si sentono forzate dalla situazione); vi sono anche i casi di violenza vera e propria (le cause sono solo in parte legate al desiderio sessuale; lo stupro è una manifestazione di aggressività, più che di sessualità); per quanto la sessualità abbia un evidente fondamento biologico (del resto è collegata alla funzione riproduttiva), essa appare modulata in modo estremamente vario nelle diverse culture e nelle diverse epoche storiche; i criteri di giudizio si manifestano non solo nei comportamenti esplicitamente sessuali, ma in genere nei rapporti tra i sessi e persino nell’abbigliamento; anche nella stessa cultura possono esservi differenti rappresentazioni e regolamentazioni della sessualità, ad esempio in relazione agli ambienti sociali, ai ruoli sessuali codificati e, naturalmente, all’età; i ruoli sessuali sono profondamente cambiati con lo sviluppo economico, con il crescente inserimento professionale della donna e con lo sviluppo delle tecniche di controllo delle nascite

L’ORIENTAMENTO SESSUALE

l’attività sessuale nella nostra specie è prevalentemente eterosessuale e svolge una funzione essenziale nella riproduzione; l’eterosessualità è anche sostenuta culturalmente; vi è comunque una quota non lieve, anche se difficile da quantificare in modo preciso (in parte anche per il sanzionamento sociale), di persone che hanno un orientamento diverso, detto omosessuale, in quanto rivolto a persone del proprio sesso; vi sono comunque anche persone che, pur avendo un orientamento prevalentemente eterosessuale, oppure omosessuale, occasionalmente hanno comportamenti di orientamento diverso; l’omosessualità, ritenuta normale in alcune culture, è considerata tuttora ripugnate in altre; nella cultura occidentale l’omosessualità è stata a lungo considerata come una manifestazione di anormalità (epoca nazista); considerata una forma di malattia mentale, fu cancellata dalla classificazione dei disturbi mentali solo nel 1973; oggi la situazione, almeno nell’Occidente europeo e nordamericano, è molto cambiata, anche se non è ancora facile, per gli individui di orientamento omosessuale, dichiarare pubblicamente la propria scelta; recentemente si sono ricercate prove che dimostrino l’origine biologica dell’omosessualità; anche l’impatto degli ormoni sessuali sull’orientamento sessuale ha trovato conferma in alcune ricerche; a favore dell’ipotesi biologica dello sviluppo dell’orientamento sessuale sono anche la relativa insensibilità dell’omosessualità a trattamenti di tipo psichiatrico (quando essa era ancora ritenuta una malattia mentale), sia la scarsa influenza riscontrata sull’orientamento sessuale di bambini affidati a persone omosessuali; al momento non si può sostenere con sicurezza che l’orientamento sessuale sia determinato biologicamente, o almeno non esclusivamente

VI. Attaccamento e amore.

sentirsi in contatto, anche fisico, con un individuo amato (la madre, ma anche altri adulti che si prendono cura di lui) è un bisogno fondamentale (altrettanto primario come il cibo) dei piccoli della nostra specie e di altri primati (bisogno di attaccamento); la deprivazione del contatto fisico con la madre, anche quando siano disponibili nutrimento e cure adeguate, può avere conseguenze molto gravi nei bambini (anche a lungo termine e dare luogo a problemi di natura comportamentale o psicologica); le madri e le altre figure di attaccamento rappresentano una base sicura per l’esplorazione dell’ambiente: questa è una condizione fondamentale per lo sviluppo cognitivo ed affettivo successivo del bambino; tra i 7 e i 9 mesi i bambini presentano reazioni di ansia dell’estraneo e di ansia della separazione ! studiata utilizzando una particolare tecnica, detta della strange situation ” 3 diverse tipologie di attaccamento:

  • sicuro
  • evitante: il bambino sembra non fare differenza tra la madre e l’estraneo; non protesta quando la madre si allontana, né fa particolari feste quando ritorna
  • ansioso ambivalente: il bambino protesta quando viene lasciato, ma oppone resistenza al contatto con la madre, si mostra arrabbiato e non si lascia consolare

questi differenti stili di attaccamento sono collegati al rapporto che la madre ha avuto col bambino già dai primi mesi, anche se non soltanto ad esso (le forme di attaccamento insicuro non sono principalmente collegate a delle cure insufficienti, ma con il tipo di comportamento (poco sensibile o non responsivo) delle madri); recentemente si è collegato l’amore adulto all’attaccamento

quella basata sull’attaccamento non è l’unica tipologia concernente l’amore ” si distinguono spesso l’amore romantico, o appassionato, immediato, instabile e tormentato, caratterizzato soprattutto dal desiderio sessuale e dalla possessività, e l’amore di compartecipazione, che si sviluppa tra pari, basato sul rispetto e sulla reciprocità, più stabile e duraturo; Stenberg ha distinto 3 ingredienti fondamentali dell’amore:

  • passione (caratterizzata dall’eccitamento sessuale e dall’euforia)
  • intimità (caratterizzata della comprensione e dall’affetto)
  • impegno (caratterizzato dalla reciprocità e lealtà interpersonale)

queste dimensioni appaiono generalmente ben comprese e condivise dalle persone e nelle diverse culture; secondo Stenberg, le varie forme dell’amore risultano da mescolanze di questi ingredienti fondamentali; un amore completo, o ideale, dovrebbe comprendere tutti e 3 gli ingredienti, anche se sono possibili differenti modulazioni in base ai diversi periodi di vita; le ricerche non evidenziano diversità particolari tra i 2 sessi rispetto agli stili amorosi; piuttosto, uomini e donne possono differire, in rapporto ai diversi ruoli e copioni (script) sessuali, nel modo in cui esprimono l’amore, o nei significati attribuiti, ad esempio, all’intimità o alla reciprocità; una relazione valida si basa su una dialettica tra prossimità e lontananza

VII. Motivazioni cognitive e sociali.

il comportamento umano non è rigidamente fissato nell’istinto, ma è orientato verso il raggiungimento di scopi, che gli assicurano la direzionalità necessaria; normalmente ci proponiamo più scopi: alcuni possono far parte di un’unica catena, rispetto alla quale gli scopi più concreti rappresentano delle condizioni per raggiungerne altri, più generali ed astratti, posti gerarchicamente più in alto; in alcuni casi, fanno parte di catene diverse e possono anche entrare in conflitto tra di loro; un ruolo essenziale è svolto dalle nostre aspirazioni, in quanto queste influenzano notevolmente le aspettative circa i risultati del nostro comportamento; la misura in cui le nostre aspettative saranno confermate o meno costituisce un feedback importante per modificare il nostro comportamento e renderlo più efficace: se lo scarto dal risultato atteso è troppo alto, è possibile che si perda fiducia nella possibilità di raggiungere lo scopo e magari si rinunci a perseguirlo, adottandone un altro, percepito come più raggiungibile; Weiner ha analizzato le componenti cognitive dei processi di attribuzione della causalità del successo e dell’insuccesso:

  • cause interne ed esterne (al soggetto)
  • cause stabili ed instabili
  • cause controllabili e non controllabili

l’impegno è una causa interna variabile e controllabile, mentre l’abilità è una causa interna, stabile e non controllabile (se l’individuo attribuirà il suo insuccesso ad un impegno insufficiente, e non alla mancanza di abilità, persevererà nel suo scopo e si sentirà motivato ad impegnarsi di più la volta successiva; se, al contrario, attribuirà l’insuccesso ad una mancanza di abilità, oppure ad un compito troppo difficile (causa esterna, stabile e incontrollabile), sarà indotto a rinunciare; un aspetto altrettanto importante della motivazione è il mantenerli nonostante gli insuccessi e cercare le strategie più opportune per raggiungerli senza dovervi rinunciare ” Deci e Ryan hanno distinto una motivazione intrinseca, che ci spinge a svolgere delle attività per se stesse, senza ricercare una ricompensa esterna, da una motivazione estrinseca, che dipende invece da ricompense adeguate; molti comportamenti (esplorazione di nuove attività, gioco, ..) si basano prevalentemente o esclusivamente su motivazioni intrinseche; motivazione intrinseca ed estrinseca non sono però necessariamente in accordo: sebbene sembri che premiare un’attività che si fa già spontaneamente possa renderla ancora più piacevole, vi sono ricerche che mostrano, al contrario, come dare troppi premi possa avere effetti diversi da quelli attesi (esempio del disegnare per i bambini); l’uso dei rinforzi attiva infatti una motivazione estrinseca, regolata dall’esterno: essa può dare anche risultati molto efficaci, specie in situazioni in cui gli individui debbano fare cose che non li attraggono, o che non farebbero se non dietro ricompensa, ma raramente duraturi, senza il supporto di motivi maggiormente intrinseci

VIII. La motivazione al successo.

un ruolo molto importante è svolto dal bisogno di successo (o di realizzazione) ” gli individui con bisogno di successo elevato differirebbero dagli altri per:

  • un maggiore coinvolgimento nei compiti assunti
  • un desiderio intenso alla riuscita

conseguentemente

  • si impegnerebbero più a fondo
  • tratterebbero dai successi ottenuti una più intensa soddisfazione
  • sarebbero più preoccupate riguardo alle loro prestazioni e al loro livello di abilità
  • tenderebbero a scegliere compiti in cui i risultati possano essere chiaramente individuati
  • preferirebbero il parere, anche critico, di persone competenti a quello, più benevolo, di persone amiche, ma non competenti
  • elaborerebbero piani dettagliati per il futuro
  • preferirebbero affrontare i problemi senza chiedere aiuto
  • si mostrerebbero maggiormente capaci di posticipare le ricompense attese

il bisogno di successo si formerebbe già durante l’infanzia, in rapporto allo stile educativo ricevuto; il bisogno di successo, benché in gran parte modellato durante l’infanzia, resta suscettibile di miglioramento anche in età più avanzata, impegnando i giovani in programmi in cui vengano incoraggiati a sviluppare maggiori aspettative circa le loro attività e più fiducia nella capacità di raggiungere scopi accuratamente pianificati; oltre alle pratiche di socializzazione infantile e scolastica, anche l’ambiente culturale può favorire o scoraggiare lo sviluppo di una motivazione al successo (mentre le culture dei paesi occidentali fortemente industrializzati tendono ad incentivare lo sviluppo del bisogno di successo, altre culture (come quelle orientali) incoraggiano altri tipi di motivazione); differenze importanti sono state riscontrate anche tra uomini e donne (generalmente le donne mostrano punteggi più bassi di motivazione al successo); paura del successo: incapacità di andare fino in fondo per conseguire obiettivi molto elevati e tendenza a tirarsi indietro quando la meta è relativamente vicina; anche nella nostra cultura, nonostante il ruolo della donna sia radicalmente cambiato, il successo professionale delle donne non è particolarmente incoraggiato; le pratiche di socializzazione infantile hanno sempre riprodotto una situazione di inferiorità della donna: le donne sono abituate ad attribuire i propri fallimenti a mancanza di abilità, mentre i maschi a mancanza di impegno

 

LE MOTIVAZIONI SUL LAVORO

la motivazione e la soddisfazione sul lavoro non dipendono unicamente da una paga adeguata, ma il lavoratore è motivato anche da altri fattori (interesse del compito, riconoscimento individuale, bisogno di appartenenza al gruppo, rapporti umani soddisfacenti); anche per quanto riguarda le motivazioni sul lavoro vi sono differenze culturali molto grandi: spesso si contrappongono le culture industriali orientali (specie quella giapponese) a quella occidentale (nei paesi a cultura occidentale ad alto sviluppo industriale, i rapporti fortemente gerarchizzati sono meno accettati; gli studiosi da tempo individuano una maggiore diffusione nella nostra cultura di motivazioni puramente strumentali (legate alla paga e al reddito)

IX. Il senso di autoefficacia.

per Dweck gli scopi possono essere ricondotti a 2 classi fondamentali:

  • scopi di prestazione (performance), che implicano cioè la ricerca di un giudizio favorevole sulla propria competenza
  • scopi di apprendimento (learning), che implicano invece la ricerca di un aumento della propria competenza

alcuni studiosi hanno distinto 2 principali modelli cognitivo-motivazionali di risposta:

  • il primo, fondamentalmente disadattivo, denominato senza aiuto (helpless), consiste nel rifiuto delle difficoltà e nel deterioramento della performance di fronte agli ostacoli
  • il secondo, più adattivo, denominato orientato alla competenza (mastery oriented), consiste nel cercare le situazioni impegnative e nel mantenere una tensione dopo il fallimento

scopi di performance D modello helpless

scopi di apprendimento D modello di competenza più adattivo

una focalizzazione sull’apprendimento rende le persone meno ansiose e lo svolgimento del compito come più piacevole; sentirsi competenti ed efficaci è un motivo importante per gli individui; Bandura ha condotto un vasto programma di ricerca finalizzato a scoprire che cosa promuove negli individui il senso di autoefficacia (self-efficacy) e a mostrare come questa sia importante in una grande varietà di situazioni interpersonali e sociali, nel mondo del lavoro e nei comportamenti connessi con la salute:

¡ l’autoefficacia si sviluppa innanzitutto con l’esperienza di acquisire nuove abilità e di superare degli ostacoli: anche qualche insuccesso è necessario, perché se si ha sempre successo, si tende ad aspettare dei risultati immediati e a scoraggiarsi troppo presto

¡ importanti sono gli esempi forniti da modelli di persone percepite come simili a sé che hanno avuto successo ed hanno superato delle difficoltà

¡ anche l’incoraggiamento da parte di altri e la consapevolezza di aver fatto quello che si doveva fare consentono di superare i risultati temporaneamente negativi

¡ è importante la percezione di potersi mantenere calmi e rilassati anche in condizioni di tensione e di stress

 

RAPPORTI TRA MOTIVI

le motivazioni umane sono molto più numerose e varie di quelle descritte: vi sono infatti anche la motivazione alla chiusura (bisogno di una conoscenza definita e non ambigua), la motivazione al potere (desiderio di dominare e influenzare le altre persone); la motivazione all’affiliazione (desiderio di stare insieme con altre persone e adeguarsi alle richieste del gruppo), la motivazione all’appartenenza (ricerca dell’aggregazione ad un gruppo del quale ci si sente membri) ” un’utile classificazione dei bisogni è quella proposta da Maslow, che ha descritto una piramide dei bisogni (è lungi dall’essere esaustiva; è altresì semplicistica l’idea che i bisogni vengano realizzati secondo una sequenza gerarchica; tuttavia, può essere un utile riferimento per cogliere i collegamenti tra i vari motivi):

1. bisogni biologici (come quelli di cibo, acqua, aria)

2. di sicurezza (come quelli di attaccamento)

3. affettivi e di appartenenza (il far parte di gruppi sociali e avere valide relazioni affettive con altre persone)

4. di stima e considerazione (essere persone ben considerate ed onorate)

5. di autorealizzazione (essere capaci di esplorare e sviluppare le relazioni con altri, seguire degli interessi per motivi intrinseci e non per status o per ottenere il consenso, ..)

X. Che cos’è un’emozione??

i contributi che hanno maggiormente influenzato la riflessione teorica sulle emozioni sono stati indubbiamente quelli offerti da:

¡ Darwin: inquadrò lo studio delle emozioni all’interno della teoria evoluzionistica, mostrando la continuità tra le emozioni (o meglio le espressioni emozionali) nel mondo animale e tra questo e l’uomo; studio basato sull’osservazione oggettiva del comportamento; carattere intrinsecamente adattivo delle emozioni, loro natura biologica e innata (le espressioni emotive sarebbero universali e non variabili culturalmente)

¡ Freud: elaborò le sue idee prevalentemente all’interno di un contesto terapeutico, di cura delle nevrosi; servono a proteggersi dalla sofferenza emotiva; natura ambivalente delle emozioni; tipico della tecnica psicoanalitica è l’uso della narrazione come strategia di elaborazione delle emozioni

¡ James: rovesciò una tradizione secolare affermando che le emozioni erano piuttosto la percezione dell’attivazione corporea innescata da stimoli ambientali a carattere emotivo

la concezione, propria del senso comune, secondo cui le emozioni sarebbero reazioni irrazionali, disgregatrici del comportamento, appare ormai superata dalle teorie moderne, che guardano alle emozioni come a risposte adattive dell’organismo alle sollecitazioni ambientali; nell’uomo l’adattamento non può più essere affidato a semplici reazioni riflesse o istintuali che, per la loro rigidità, non consentirebbero di reagire in modo appropriato ad un ambiente complesso ed altamente dinamico ” le emozioni operano invece una dissociazione tra stimoli e risposte, a partire dalla quale la condotta dell’organismo diventa più lenta, ma più varia e flessibile ” i vantaggi di questa separazione sono rappresentati dal fatto che:

  • si interpone una sia pur breve latenza tra l’evento-stimolo e la risposta
  • una risposta appropriata può essere preparata velocemente

le funzioni che vengono riconosciute generalmente alle emozioni sono molteplici:

  • capacità di determinare rapidamente i cambiamenti fisiologici necessari per sostenere le risposte adattive dell’organismo
  • preparazione all’azione
  • funzioni sociali e più specificamente interpersonali, come la possibilità di coordinarsi e di cooperare comunicando i propri piani e le proprie intenzioni attraverso l’espressione

gli studiosi di ispirazione cognitivista sottolineano inoltre:

¡ funzione di modificazione dell’attività cognitiva, ad esempio l’interruzione dell’esecuzione dei piani in corso e il riorientamento alla condotta con la segnalazione di nuove priorità

le emozioni possono essere viste appunto come segnali non preposizionali (cioè privi di contenuto informativo) capaci di settare rapidamente l’individuo in un dato modo (a livello cognitivo, fisiologico, comportamentale), rendendolo pronto a reagire adattivamente alla situazione ambientale; sono una potente e sofisticata interfaccia tra l’organismo e l’ambiente, in grado di mediare fra le situazioni costantemente mutevoli e le risposte comportamentali dell’individuo; sono anche potenti mezzi di comunicazione

 

CLASSIFICAZIONE DELLE EMOZIONI

quali e quante sono le emozioni?

¡ secondo i sostenitori delle teorie evoluzionistiche, le emozioni sarebbero relativamente poche (6 o al massimo 10) e costituirebbero delle entità discrete, cioè distinte le une dalle altre e caratterizzate da configurazioni ben specifiche, a livello espressivo, fisiologico, motivazionale ed esperienziale: esse sono dette anche emozioni fondamentali, o di base, e sarebbero innate e perciò uguali in tutte le culture (felicità, tristezza, paura, rabbia, disgusto, sorpresa); tutti gli altri nomi di emozioni si riferirebbero ad emozioni derivate (o complesse, perché aggiungono un contenuto preposizionale, cioè una valutazione di sé in un specifico contesto situazionale), che dipenderebbero maggiormente dalla cultura e dall’apprendimento

¡ secondo le teorie costruzionistiche, le emozioni non avrebbero invece un’origine biologica, ma culturale: esse dipenderebbero sostanzialmente dal linguaggio e dalla struttura dei valori di una data società; come tali, esse sarebbero infinite, o comunque variabili secondo le culture

¡ gli autori di ispirazione cognitivista connettono le emozioni al cosiddetto appraisal (valutazione cognitiva), e ritengono che le diverse emozioni siano connesse a differenti profili valutativi

XI. Le teorie delle emozioni.

benché vi siano molte teorie, tutti gli studiosi sono d’accordo sul fatto che le emozioni sono dei sistemi complessi, comprendenti molteplici componenti che vengono attivate insieme:

  • vissuti soggettivi che accompagnano le nostre emozioni; essi sono sempre caratterizzati da una particolare valenza (positiva o negativa) dell’emozione
  • valutazione cognitiva dell’avvenimento che è all’origine della nostra emozione, di cui stima l’impatto rispetto ai nostri scopi o interessi
  • componenti fisici che accompagnano le reazioni emotive e preparano fisiologicamente l’organismo a reagire all’evento
  • le emozioni sono inoltre caratterizzate da un’espressione (soprattutto, ma non esclusivamente) facciale, con la quale segnaliamo le nostre emozioni e le nostre intenzioni comportamentali agli altri individui nel volto e con movimenti del nostro corpo e attiviamo sempre anche una tendenza all’azione, che ci spinge a reagire in un certo modo all’evento: come un impulso a fare qualcosa, più che un’azione diretta
  • non vanno trascurati gli effetti sull’attività cognitiva e sul pensiero dell’individuo, attività che viene rivolta verso particolari aspetti della situazione e distolta da altri
  • diversamente da altri fenomeni affettivi (come gli stati dell’umore o gli atteggiamenti), le emozioni sono concepite come fenomeni transitori (anche se capaci di produrre effetti che durano nel tempo), connessi ad eventi specifici

1. la prima e più nota delle teorie fisiologiche è quella formulata alla fine dell’800 da James, detta anche teoria periferica delle emozioni: quando nell’ambiente si verifica un avvenimento emotivamente rilevante, questo provoca in modo diretto un’attivazione fisiologica (arousal) a livello periferico, la cui percezione, da parte dell’individuo, dà luogo all’esperienza emotiva

E

questa teoria fu poi criticata da Cannon, in quanto i visceri hanno una sensibilità poco elevata, troppo lenta e soprattutto poco differenziata per rendere conto della diversità delle esperienze emotive

la teoria periferica non si è estinta con James: ad essa si collegano infatti, direttamente o indirettamente, ipotesi più recenti, come quella cosiddetta del feedback facciale o la teoria vascolare dell’efferenza emotiva

alla teoria periferica di James, si contrappone l’altra teoria fisiologica fondamentale, detta centrale, di Cannon: i centri di attivazione, controllo e regolazione delle emozioni sono piuttosto localizzati a livello centrale, nella regione talamica ” circuito (limbico) di Papez: zone del cervello considerate i centri di elaborazione e controllo delle emozioni

 

IPOTESI PERIFERICHE DELLA GENERAZIONE DELL’EMOZIONE

secondo la teoria del feedback facciale, le espressioni facciali forniscono informazioni propriocettive, motorie, cutanee e vascolari, capaci di influenzare il processo emotivo:

¡ nelle sue versioni più forti, quest’ipotesi sostiene che il feedback facciale sia capace di generare da solo l’esperienza emotiva

¡ una versione meno estrema ha invece sostenuto che il feedback facciale aumenta l’intensità dell’emozione

se, dunque, diverse ricerche mostrano una certa capacità di modulazione dell’esperienza emotiva da parte del feedback facciale, resta però il fatto che questa non è comunque assoluta, né sono del tutto chiari i meccanismi con cui avviene tale influenza

2. le teorie evoluzionistiche si ispirano alle idee e agli studi di Darwin sull’espressione delle emozioni negli animali e nell’uomo: sottolineato la continuità e la somiglianza delle espressioni emotive umane con quelle del mondo animale (in particolare dei primati) e hanno sostenuto che le emozioni sono risposte adattive innate, uguali in tutte le culture e indipendenti dell’apprendimento; le emozioni avrebbero un ruolo molto importante nell’adattamento delle specie all’ambiente (funzione sia comunicativa, sia di preparazione ad azioni utili per la sopravvivenza)

teorie delle emozioni di base, o fondamentali, le quali propongono una differenziazione categoriale delle emozioni, viste come stati discreti, universali e, in definitiva, innati: esisterebbe un numero relativamente ristretto, e comunque finito, di emozioni (per Ekman sono 6: rabbia, disgusto, paura, tristezza, felicità e sorpresa), ben demarcate dalle altre e tali da non poter essere confuse

3. teorie costruzionistiche: posizione radicalmente opposta a quella dei sostenitori delle emozioni di base; le emozioni non vanno intese come entità biologiche determinate, ma come costruzioni sociali; sono infatti il linguaggio e la struttura dei valori delle società a determinare le emozioni, come è del resto testimoniato dall’analisi del lessico emotivo, che mostra come le loro denominazioni varino sensibilmente nelle varie epoche storiche e nelle diverse culture; numerosi studi interculturali hanno fornito ampia evidenza della diversità e specificità delle emozioni nelle diverse culture

 

ESISTONO EMOZIONI UNIVERSALI?

  • per Ekman, e in genere per gli studiosi di scuola evoluzionista, le emozioni fondamentali sono controllate da programmi neuronali innati, uguali in tutte la specie; le differenze che talvolta si riscontrano, tra una cultura e un’altra, sono soltanto dovute alle regole con le quali le culture stesso codificano il modo in cui le emozioni debbano venire espresse (regole di esibizione)
  • per altri studiosi invece vi sono delle emozioni non universali (la rabbia, un’emozione ritenuta di base, è praticamente sconosciuta presso gli esquimesi Inuit; in altre culture, vi sono emozioni a noi del tutto sconosciute, come l’amae giapponese, che può essere descritta come una sorta di dipendenza (piacevole) che gli individui adulti ricercano nei loro rapporti con gli altri)
  • la contrapposizione di punti di vista biologici e costruzionisti è probabilmente inadeguata, in quanto le emozioni sono sia biologiche sia costruite socialmente

4. teorie cognitive: concezioni che ritengono che la cognizione abbia un ruolo essenziale nella generazione delle emozioni

agli inizi degli anni 80 è stata molto vigorosa la polemica tra Zajonc, sostenitore della priorità dello stimolo (lo stimolo, immediatamente dopo la registrazione sensoriale, dà luogo ad una risposta affettiva)

Lazarus, sostenitore della priorità della cognizione (una sia pur minima elaborazione della valenza e della rilevanza per gli scopi è indispensabile perché si produca una reazione emotiva)

le teorie cognitive sono generalmente alquanto indifferenti, se non contrarie, all’idea delle emozioni universali e innate; radicalizzando il concetto di componenzialità, nella loro concezione, le emozioni fondamentali sono semplicemente alcune combinazioni essenziali di diverse componenti di base; secondo le teorie cognitive le diverse emozioni possono essere differenziate tra di loro in base al profilo emergente dalla combinazione di alcune dimensioni valutative, o di appraisal (come la novità, la piacevolezza, la controllabilità dell’evento da cui ha origine l’emozione) ” dette anche teorie dell’appraisal; le emozioni sono adattive: esse insorgono, infatti, nelle situazioni in cui accade qualcosa d’importante per l’individuo e servono a prepararlo e a motivarlo a rispondervi adattivamente; le emozioni non sono semplici risposte agli stimoli situazionali (cioè non sono simili ai riflessi), ma rispecchiano le implicazioni personali di una persona, le sue conoscenze, la sua esperienza passata (per questo motivo le reazioni emozionali di individui diversi alla stessa situazione non sono identiche, così come la reazione dello stesso individuo potrà essere diverse in situazioni simili tra loro); l’emozione è attivata dalla valutazione cognitiva, da parte dell’individuo, degli effetti che le circostanze produrranno sul suo benessere ” il risultato di questa valutazione modella e organizza le altre componenti della risposta emozionale; gli stati emozionali sono dunque virtualmente infiniti, ma ciò non esclude che possano esservi alcune configurazioni più frequenti di altre, in quanto costituiscono la risposta a situazioni maggiormente ricorrenti nel corso dell’adattamento

5. teorie psicoanalitiche: si ricollegano alla concezione elaborata da Freud all’inizio del 900, partendo dalle sue esperienze psicoterapeutiche; benché l’influenza delle sue idee sia ancora notevole e l’impianto generale di esse sia ancora ben riconoscibile, e benché il riferimento alla psicopatologia e al contesto psicoterapeutico siano ancora fondamentali, le teorie recenti si sono molto evolute:

¡ innanzitutto hanno cercato di integrarsi maggiormente nella cultura più strettamente psicologica, in particolare nella psicologia dello sviluppo, favorendo il confronto (e la contaminazione) con le altre teorie psicologiche (specialmente quella cognitivista), con le neuroscienze e, naturalmente, con la teoria evoluzionistica

¡ hanno notevolmente allargato il proprio orizzonte, includendo nell’ambito del proprio interesse le emozioni cosiddette quotidiane, ad esempio l’analisi della solitudine, della nostalgia, dell’invidia e della gelosia

l’orientamento psicoanalitico continua a guardare alle emozioni non come a fenomeni di breve durata, legati a situazioni ambientali transitorie, ma come a fenomeni di lunga durata, con un’origine essenzialmente interna, pur se in un contesto interpersonale, come elaborazione di relazioni affettive in cui i processi di tipo inconscio sono ancora dominanti e l’ambivalenza è un tratto intrinseco

XII. Biologia delle emozioni.

le nostre emozioni non sono soltanto eventi mentali, ma toccano anche, e spesso violentemente, il nostro corpo; James, alla fine dell’800, suggerì addirittura che le emozioni non fossero altro che la percezione dei nostri cambiamenti fisiologici ! oggi sappiamo che James sopravvalutava la nostra capacità di riconoscere ciò che accade nel nostro corpo (le persone infatti non sono accurate nel riportare le proprie esperienze fisiologiche e spesso commettono degli errori perché non vi hanno normalmente accesso, anche se tali descrizioni possono essere altamente condivise per effetto di schemi sociali comuni)

il Sistema Nervoso Autonomo (SNA) ha un ruolo fondamentale nel provocare una serie di modificazioni fisiologiche che accompagnano spesso vistosamente le emozioni; esso invia informazioni tra il cervello e molti organi del nostro corpo, di cui modula l’attività, incrementandola oppure diminuendola ” in questo modo coordina l’attività dei nostri organi in modo da rendere disponibili al corpo le risorse di cui ha bisogno; si articola in 2 sottosistemi:

  • simpatico: stimola le funzioni che producono energia (implicato nelle situazioni di emergenza)
  • parasimpatico: svolge una funzione detta antagonista, perché cerca, all’opposto, di risparmiare energia (implicato nelle situazioni di recupero)

le emozioni possono attivare entrambi questi sistemi

dalla prima formulazione della teoria di James in poi, si è cercato di individuare se le emozioni possano esser differenziate dal punto di vista psicofisiologico:

  • Cannon sosteneva che le diverse emozioni fossero caratterizzate da un pattern di attivazione fisiologica unica, comune a tutte; all’ipotesi del carattere indifferenziato dell’arousal aderirono i sostenitori della teoria cognitivo-attivazionale

tuttavia, per quanto appaia ancora oggi difficile differenziare in modo stabile e sicuro da un punto di vista fisiologico le varie emozioni, vi sono sufficienti evidenze di un certo grado di differenziazione tra le emozioni di paura e rabbia, e tra le emozioni a qualità positiva e negativa

il riconoscimento della valenza emotiva (positiva o negativa) dello stimolo avviene dopo che l’informazione è pervenuta ad è stata elaborata dell’amigdala (una struttura del sistema limbico) ” a seconda della provenienza dell’informazione all’amigdala, è possibile distinguere 2 vie:

  • via talamica (o via bassa): invia un’informazione molto povera dello stimolo, ma sufficiente ad iniziare una risposta emotiva indifferenziata, non necessariamente compatibile con la situazione stimolo (attributi emotivi)
  • via corticale (o via alta): invia invece un’informazione molto più dettagliata dello stimolo e serve al soggetto per preparare una risposta adeguata ad esso (attributi semantici)

modello della doppia via di LeDoux

 

IL MODELLO COGNITIVO-ATTIVAZIONALE

negli anni 60 riscosse grande interesse il modello cognitivo-attivazionale di Schachter e Singer: questo modello conciliava il punto di vista jamesiano, che sosteneva l’importanza dell’attivazione fisiologica autonomica nella generalizzazione dell’esperienza emotiva, con quello di Cannon, che ne affermava invece il carattere indifferenziato; questo modello affermava che, perché si verifichi un’emozione, occorrono necessariamente 2 ingredienti:

  • attivazione fisiologica (arousal), che viene rappresentata come indifferenziata (come la monetina che si usa nei juke-box, che vale per tutte le canzoni)
  • cognizione, che è invece specifica della situazione, rende diverse le varie esperienze emozionali e permette di etichettarle con dei nomi specifici (felicità, paura, rabbia) (come i diversi tasti del juke-box, che permettono la selezione delle singole canzoni) ! intesa come una conoscenza di tipo causale, che consente di attribuire al tipo di situazione nella quale si trova l’individuo (specialmente di interazione sociale) lo stato di attivazione fisiologica da lui vissuto

la dimostrazione sperimentale, al di là della limitatezza e lacunosità dei risultati, ha dato luogo a molti tentativi di replica ed ha ispirato molti originali filoni di ricerca (come quelli cosiddetti dell’attribuzione erronea, o del transfert di eccitazione, nei quali l’individuo è indotto ad attribuire o trasferire ad altra causa, anche non emozionale, la propria attivazione fisiologica); essa era basata sulla manipolazione indipendente dell’attivazione fisiologica (attraverso un’iniezione di epinefrina, un sostanza attivante il SNA) e della cognizione (attraverso la costruzione di vere e proprie trappole interazionali, in cui un complice dello sperimentatore aveva il compito di ingannare i soggetti, inducendoli ad attribuire il proprio stato di attivazione a delle specifiche condizioni situazionali di tipo emotivo); la principale aspettativa era che un’emozione si sarebbe attivata soltanto nelle condizioni nelle quali erano simultaneamente presenti l’arousal e la cognizione, ed in particolare in quelle condizioni nelle quali i soggetti non potevano attribuire la propria attivazione all’iniezione di epinefrina; non tutte le previsioni furono confermate; tuttavia, ciò non impedì a questa ricerca di restare uno degli esperimenti maggiormente citati e più classici della psicologia delle emozioni

XIII. Espressione e decodifica delle emozioni.

le mimiche facciali sono di gran lunga la forma di espressione delle emozioni più studiata a livello neuropsicologico (ruolo predominante dell’emisfero destro D maggiore espressività della metà sinistra del volto); molto importante è la capacità, da parte degli individui, di riconoscere le varie espressioni emozionali e il loro significato ” molti elementi che fanno supporre che tale capacità sia organizzata in forma modulare:

  • accertata dissociabilità delle espressioni facciali dal vissuto emotivo
  • indipendenza del riconoscimento dell’identità del volto da quella del significato emotivo dell’espressione
  • lo stesso tipo di dissociabilità caratterizza il riconoscimento della prosodia, che può veicolare nello stesso tempo informazioni emotive oppure linguistiche

vi sono molti modi in cui possiamo comunicare le nostre emozioni:

  • linguaggio
  • altri modi, non meno potenti, anche se molto meno flessibili, perché meno controllabili dalla volontà dell’individuo: le espressioni del nostro volto, ma anche l’intonazione vocale, le posture (comunicazione non verbale)

sono stati soprattutto gli studiosi di impostazione evoluzionistica che si sono interessati alle espressioni facciali; essi sono infatti convinti che le espressioni siano universali e possano essere riconosciute (decodificate) in contesti culturali anche molto distanti tra loro ” Ekman e Friesen hanno messo a punto un particolare metodo, detto FACS, che ha consentito loro di individuare le espressioni facciali tipiche delle principali emozioni, in particolare per le 6 emozioni ritenute di base, o fondamentali, da questi 2 autori (felicità, sorpresa, tristezza, rabbia, disgusto, paura) ” basandosi principalmente su compiti di riconoscimento, nei quali agli individui era richiesto di decodificare espressioni facciali prototipiche delle varie emozioni, raffigurate in speciali tavole fotografiche, Ekman, Frieser e molti altri studiosi ritengono di aver potuto dimostrare il carattere universale e innato delle espressioni emotive ! diversi autori hanno sollevato obiezioni, soprattutto di tipo metodologico:

  • si tratta di riconoscimento a scelta forzata
  • artificialità della procedura

per spiegare le differenze tra le diverse culture nel modo di esteriorizzare le emozioni, hanno introdotto il concetto di regole di esibizione: le variazioni tra le diverse culture non sono sostanziali, ma si limitano a differenze nell’intensità o nel controllo dell’espressione e forse nell’esperienza soggettiva

meno studiate delle espressioni facciali, anche per la maggiore complessità dei metodi di studio adottati, sono le modificazioni nel respiro, nella fonazione e nell’articolazione dei suoni, che danno luogo a variazioni vocali utili per il riconoscimento delle emozioni (eppure la letteratura scientifica ha individuato, a proposito della decodifica di messaggi vocali, un’accuratezza media non inferiore a quella delle espressioni facciali)

XIV. L’appraisal.

secondo gli psicologi di orientamento cognitivo, le emozioni sono in genere attivate da una valutazione cognitiva; il termine appraisal è definito come un elemento che:

  • completa la percezione permettendo di valutare in modo immediato, automatico e quasi involontario la presenza o l’assenza di un oggetto, o evento, e il suo carattere di positività o negatività
  • produce la tendenza a fare qualcosa

il sistema di valutazione è molto semplice, in quanto si basa su 3 sole dimensioni dicotomiche:

  • presenza o assenza dell’oggetto
  • sua natura benefica o nociva
  • proprietà di facilitare il raggiungimento di uno scopo positivo o l’evitamento di qualcosa di dannoso

per la teoria dell’appraisal, le emozioni sono fenomeni adattivi; in quanto tali, esse adempiono a delle precise funzioni, principalmente autoregolative:

  • regolare l’attenzione: questa funzione, con la quale l’individuo viene messo all’erta circa di avvenimenti significativi è ampiamente inconscia e preattentiva; in quanto tale, il sistema è rapido, ma molto poco informato
  • funzione motivazionale: la risposta emozionale prepara l’individuo e lo motiva ad affrontare l’evento che ha provocato l’emozione (questa funzione richiede invece una descrizione molto dettagliata dello stimolo situazionale, perché solo in questo caso può predisporre l’individuo a reagire appropriamente ad esso; pertanto, il sistema non può essere né pre-attentivo, né inconscio)

distinti 2 tipi di elaborazione, corrispondenti alle 2 diverse funzioni dell’emozione, che non è difficile collegare con quanto detto a proposito di LeDoux e delle 2 vie, talamica e corticale, di attivazione dell’amigdala:

  • processamento schematico: trova un esempio nel priming (facilitazione) e nella propagazione dell’attivazione; si tratta di processi veloci e automatici, che possono attivare molti tipi di memoria simultaneamente (in parallelo); operano al di fuori dalla consapevolezza e richiedono pochissime risorse attentive, non dipendono dalla volontà e sono quindi rigidi; non dipendono totalmente dall’informazione verbale, ma possono basarsi su qualsiasi tipo di informazione venga memorizzata: qualunque indizio (cue) sensoriale può fungere da facilitatore (primer); quando è attivata una qualsiasi di queste memorie sensoriali, tutta l’informazione immagazzinata, si rende subito disponibile e può essere ulteriormente elaborata anche in modo cosciente
  • processamento concettuale: è invece coscio e pressoché esclusivamente verbale; è quindi più flessibile, ma più lento; funziona solo in modo sequenziale e lineare e perciò assorbe molte risorse attentive; la dipendenza dall’informazione semantica è insieme il punto di forza e il punto di debolezza del processamento concettuale: da un lato, infatti, essa lo rende più flessibile, potente, astratto e quindi creativo; dall’altro, però, il processamento concettuale è largamente insensibile a tutte le trasformazioni che non siano presentate semanticamente (come gli stimoli sensoriali)

i 2 tipi di processamento interagiscono tra loro “il registro rileva e combina i significati valutativi generando una risposta emozionale basata su ciò che ritiene sia lo stato del mondo valutato; quando l’emozione è sufficientemente intensa, si registra a livello coscio un vissuto soggettivo

i modelli più recenti dell’appraisal ritengono che l’elaborazione cognitiva debba essere concepita in modo più complesso e differenziato: è infatti ormai comunemente accettato che nell’emozione non sia implicato un unico tipo di elaborazione e che questa vada vista come operante a più livelli tra di loro interagenti ” uno dei modelli più noti è quello descritto da Leventhal e Scherer, che individuano 3 differenti livelli di elaborazione:

  • sensomotorio: include le capacità primarie di risposta emozionale dell’individuo e genera i primi comportamenti emotivi osservabili
  • schematico: prototipi delle situazioni emozionali
  • concettuale: permette di situare gli eventi emotivi in una prospettiva temporale a lungo termine

 

REGOLAZIONE DELLE EMOZIONI: IL COPING E L’EMOTION WORK

il concetto di coping (fronteggiamento), molto applicato in psicoterapia, indica le strategie con cui l’individuo affronta la situazione emotiva; se ci troviamo di fronte ad un problema che provoca in noi una risposta emotiva, possiamo innanzitutto cercare di affrontarlo utilizzando una strategia focalizzata su di esso: lo affrontiamo direttamente, facendo ricorso alle risorse di cui disponiamo; se questo non è possibile, possiamo adottare una strategia focalizzata sull’emozione, rivolta cioè a controllare gli effetti negativi di una reazione emotiva troppo intensa:

  • accettare il confronto
  • prendere le distanze
  • autocontrollarsi
  • cercare il sostegno sociale
  • accettare la responsabilità
  • fuggire ed evitare
  • pianificare la soluzione
  • rivalutarsi positivamente

collegato alle regole di esibizione, troviamo l’emotion work: tutte quelle strategie con le quali gli individui si sforzano di assumere l’atteggiamento emotivo più appropriato alle diverse situazioni sociali, oppure alle aspettative connesse al ruolo esercitato; si tratta di un vero e proprio lavoro, svolto su se stessi e sul proprio comportamento, che può essere notevolmente affinato dall’esperienza, ma anche da uno specifico addestramento; si applica non solo al dominio dell’espressione, ma anche all’esperienza interna dell’individuo, motivo per il quale vengono usate anche altre denominazioni, come regole dei sentimenti oppure dominio esercitato sui sentimenti; anche se ci sembra di essere poco sinceri, la buona educazione e la sensibilità, ma anche talvolta l’ipocrisia, ci spingono spesso a modificare volontariamente le nostre espressioni emotive

XV. Emozione e memoria.

benché sia evidente che vi è uno stretto rapporto tra emozioni e memoria, non è facile definire un rapporto generale tra di loro, che possa rendere conto di tutti i fenomeni studiati:

¡ un primo tipo di relazione si basa sull’intervento dell’attenzione: noi prestiamo più attenzione agli stimoli salienti emotivamente e ciò dà luogo conseguentemente ad un miglior ricordo D un elevato arousal provoca un restringimento dell’attenzione e una minore sensibilità agli altri stimoli presenti nell’ambiente; i meccanismi invocati nell’elaborazione emozionale sono piuttosto di tipo pre-attentivo; a questo processo pre-attentivo può far seguito una maggiore focalizzazione attentiva

¡ Bower ha indicato negli effetti di stato-dipendenza (accoppiamento dell’emozione al momento dell’apprendimento e a quello del recupero) e di congruenza (corrispondenza tra la valenza affettiva dello stimolo al momento in cui ha agito e lo stato affettivo al momento del recupero) una seconda via fondamentale attraverso cui l’emozione può influenzare il ricordo ! le conferme empiriche all’effetto di stato-dipendenza appaiono oggi complessivamente piuttosto modeste; l’effetto di congruenza appare invece meglio documentato, almeno per quanto riguarda i ricordi autobiografici; anche se è molto difficile isolare l’effetto di congruenza da quello di stato-dipendenza ! oggi, da parte di alcuni studiosi, si comincia comunque a proporre modi alternativi di spiegazione degli effetti di congruenza, che prescindono dal primato della valenza affettiva; una caratteristica importante dei ricordi emotivi appare essere la cosiddetta persistenza (i ricordi emotivi si dimenticano più lentamente); i dati sperimentali non confermano dunque l’ipotesi della rimozione, o almeno ne limitano la portata generale D ciò nonostante, nella pratica clinica si riscontrano spesso casi di vera e propria amnesia psicogena, cioè casi di deterioramento anche molto grave della memoria in soggetti che abbiano avuto esperienze emotive molto intense o estreme (è possibile ricordare l’emozione senza ricordare le caratteristiche dell’evento emotivo)

 

LA TESTIMONIANZA

il tema della testimonianza ha suscitato un grande interesse in psicologia ed è uno degli argomenti centrali della psicologia giuridica; l’esperienza testimoniale comporta la capacità di rievocare e riferire il ricordo di un evento spesso altamente emozionale o, al limite, traumatico; le condizioni di esposizione all’evento e le caratteristiche disposizionali, stabili o temporanee, del testimone, possono falsare la percezione di quanto accade; inoltre, la memoria di un evento di rilevanza emotiva è ben lontana dall’essere un attendibile ritratto dell’accaduto; il dibattito sulla relazione tra emozione e memoria è complesso:

  • alcuni studiosi hanno sostenuto che l’emozione danneggia inequivocabilmente la memoria, provocando amnesie retrograde da cui non è più possibile recuperare il materiale originario
  • altri studiosi ritengono invece che sia possibile recuperare ricordi di eventi traumatici anche a distanza di molti anni da quando questi sono accaduti

le reiterazioni post-evento di materiale emozionale possono incidere notevolmente sul ricordo; il testimone può tendere a semplificare il ricordo e a renderlo coerente con gli schemi abituali di esperienza; gli interrogatori possono produrre un notevole effetto di suggestione;

XVI. La condivisione sociale del ricordo emotivo.

la persistenza dei ricordi emotivamente più intensi o traumatici si traduce spesso in un’insopprimibile necessità di parlare dell’evento che è alla loro origine; gli psicologi clinici considerano tale ruminazione, almeno in una certa misura, un sintomo della sofferenza emotiva, ma la pongono in qualche modo in relazione al processo di recupero emotivo, in quanto il confronto, pure se forzato, con l’evento emotivo o traumatico, ne consente la progressiva elaborazione ed assimilazione; finché il vissuto emotivo non si attenua, o non viene in qualche modo elaborato, il ricordo continua a riproporsi in modo intrusivo e insopprimibile; è necessario un intenso lavoro di elaborazione cognitiva, volto a ristabilire l’equilibrio compromesso; le emozioni comportano frequentemente una perturbazione dell’equilibrio anche nelle relazioni interpersonali; comunicare ad un’altra persona la propria emozione produce, oltre che molteplici effetti sociali (sostegno, intimità interpersonale, ..) anche importanti effetti cognitivi, concorrendo a strutturare la propria conoscenza emozionale, tanto che alcuni autori hanno addirittura coniato il termine di script emozionali; le emozioni implicano necessariamente anche una dimensione interpersonale e sociale

 

FLASHBULB MEMORY

flashbulb memory (ricordo fotografico): ricordo vivido, dettagliato e persistente delle circostanze di apprendimento di un evento pubblico significativo; gli individui conservano dettagliatamente e a lungo non solo il ricordo dell’evento in sé, ma anche le circostanze in cui hanno appreso la notizia

  • in origine, si ipotizzava che il contesto di apprendimento di un evento pubblico rilevante fosse ricordato in modo inusualmente vivido per effetto della sorpresa e dell’impatto emozionale; la consequenzialità, intesa come possibilità dell’evento di produrre conseguenze significative sulla vita dell’individuo o gruppo sociale cui appartiene, era considerata l’altra determinante essenziale; in seguito, le reiterazioni dell’accaduto, ossia le discussioni con altre persone e la ruminazione mentale, interverrebbero a consolidare la traccia mnestica
  • accanto a questa lettura del fenomeno, altri autori enfatizzano il ruolo dei fattori ricostruttivi

a ricomporre questo dibattito, alcuni studiosi hanno posto l’emozione come cardine del processo di formazione della flashbulb memory; tanto le valutazioni cognitive che precedono e provocano l’emozione, quanto gli effetti di condivisione sociale e ruminazione mentale dell’emozione agirebbero come determinanti (l’inaspettatezza non è più considerata un requisito irrinunciabile)

la flashbulb memory è stata recentemente applicata anche a eventi privati e a eventi pubblici non traumatici o positivi e alla ricerca sulla memoria collettiva

 

GLI SCRIPT EMOZIONALI

gli script emotivi sono astrazioni di episodi emotivi reali, possono variare in modo notevole secondo la situazione, sono strettamente legati alla cultura e possono essere concepiti come delle rappresentazioni stereotipate, socialmente condivise, di episodi emozionali

1. fine 800: psicologia scientifica (Fechner, Weber, Wundt, Ebbinghaus, scuola di Würzburg)

2. prima metà del 900

Stati Uniti

  • strutturalismo: inaugurato da Wundt in Germania e proseguito negli U.S.A. dal suo allievo Titchener; riconosciuto come il primo modello di psicologia sperimentale (laboratorio); metodo introspettivo
  • funzionalismo: inaugurato da James e Dewey; interpreta i fenomeni psichici non come elementi disgiunti fra loro, ma come funzioni mediante le quali l’organismo si adatta all’ambiente sociale e fisico; evoluzionismo di Darwin
  • comportamentismo: il comportamento esplicito è l’unica unità di analisi scientificamente studiabile della psicologia (Watson)

scuola sovietica

  • riflessologia: condizionamento (Pavlov)

Europa

  • psicologia della Gestalt: detta anche psicologia della forma; rifiuta di suddividere l’esperienza umana nelle sue componenti elementari e tende a considerare l’interezza più che le singole componenti; quello che noi sentiamo è il risultato di una precisa organizzazione; i medesimi principi di organizzazione guidano anche i nostri processi di pensiero

Freud e la psicoanalisi

3. anni 40-70: dalla psiche alla mente

  • neocomportamentismo: si differenzia dal comportamentismo watsoniano per accogliere idee cognitiviste o anche psicoanalitiche ! fine dell’utopia comportamentista
  • cognitivismo: ha come obiettivo lo studio dei processi mediante i quali le informazioni vengono acquisite dal sistema cognitivo, trasformate, elaborate, archiviate e recuperate; la percezione, l’apprendimento, il problem solving, la memoria, l’attenzione, il linguaggio e le emozioni sono i processi mentali studiati; studia il funzionamento della mente come elemento intermedio tra il comportamento e l’attività cerebrale prettamente neurofisiologica; il funzionamento della mente è assimilato a quello di un software che elabora informazioni (input) provenienti dall’esterno, restituendo a sua volta informazioni (output); nasce verso la fine degli anni 50 in contrapposizione al comportamentismo
  • cognitivismo HIP: Human Information Processing
  • scienza cognitiva: fine anni 70; orientamento a carattere interdisciplinare; studio della mente
  • costruttivismo: approccio alternativo al comportamentismo; considera le costruzioni mentali con cui essa si adegua alle esperienze percepite

Arte e tecnica del silenzio

Parlare del silenzio potrebbe sembrare una contraddizione, o almeno un paradosso, ma in realtà non è così. Come avviene per molte paia di opposti, i due poli non sono nemici, non si escludono a vicenda; entrambi sono necessari. Il problema non consiste nell’eliminare uno di essi, ma nella saggia regolazione di entrambi; questo è un aspetto, un’applicazione importante della Legge dei Retti Rapporti.

Cominciamo quindi a parlare del nostro tema dal punto di vista dei rapporti fra silenzio da un lato e la parola e il suono dall’altro. Questo che vi espongo non è violare il silenzio, ma semplicemente un’umile guida all’entrata del Tempio del Silenzio.

Al silenzio segue poi il suono; ma o-ni suono o parola creativa dovrebbero provenire dal silenzio.

Il primo genere di detti rapporti fra silenzio e parola è quello delle loro giuste proporzioni; non occorre che mi dilunghi a indicare l’enorme sproporzione che esiste attualmente tra silenzio e suono.

La nostra civiltà è stata chiamata giustamente la civiltà del rumore; ogni genere di rumori ci assilla in quelle che l’Istruttore Tibetano ha giustamente chiamato le « giungle dell’Occidente ». Il continuo frastuono è stato dimostrato essere dannoso anche alla salute fisica; ma il peggio è che l’umanità attuale, e soprattutto i giovani, si abituano al rumore, anzi lo desiderano, tanto che lo creano quando non c’è, ad esempio tenendo la radio a pieno suono, finché essi divengono incapaci di sopportare il silenzio.

Questo riguarda il rumore ed 727i88h i suoni dall’estemo; ma la situazione non è migliore riguardo ai rumori ed ai suoni che vengono dal nostro interno, il che significa soprattutto: parlare a vanvera. Se ci fossero strumenti per misurare la somma di energie sprecate in parole vane e anche dannose, ne saremmo veramente colpiti; ma non occorre grande immaginazione o un contatore speciale per rendersene conto. L’abitudine di parlare troppo e male è stata incoraggiata da quello che può essere chiamato il culto moderno dell’espressione, il diritto dell’autoespressione. Questa è stata una reazione all’eccessiva repressione dell’Ottocento, ma, come tutte le reazioni, è andata all’altro estremo e vi è in realtà un bisogno urgente di limitare l’attuale eccessivo, sregolato « espressionismo ».

Anche qui la soluzione consiste in una giusta regolazione, ciò che significa semplicemente: pensare prima di parlare, considerare se quello che stiamo per dire ha qualche valore o serve a qualcosa. L’Istruttore sopra nominato ha detto: «L’umanità nel suo insieme ha bisogno del silenzio ora come mai prima, ha bisogno di riflettere e di percepire il Ritmo Universale ». (Psicologia Esoterica, 11, p. 44).

Questo bisogno è particolarmente grande e urgente per gli aspiranti e per i discepoli spirituali, e questo ci porta a considerare un altro genere di silenzio, più sottile ma non meno vitale e necessario, cioè il silenzio interno.

Silenzio non significa soltanto astenersi dal parlare; quando le tempeste delle nostre emozioni tumultuano in noi, quando la nostra mente discorre continuamente con se stessa, non vi è vero silenzio; perciò l’Istruttore ha ammonito: « Dico a tutti gli aspiranti che si allenano per il discepolato: imparate il silenzio esoterico che produce potenza interna e silenzio esterno, parlate meno e amate di più ». (Discepolato nella Nuova Era, Il, 237). « Essenzia/ venite il silenzio non è soltanto l’astenersi dal parlare; il silenzio richiesto in ii Ashrai è l’astenersi da certe linee di pensiero, l’eliminazione delle fantasticherie e dell’uso non sano dell’immaginazione creativa». (I Raggi e le Iniziazioni).

Il silenzio interno è di varii generi e si potrebbe dire che ogni piano ha il proprio silenzio. Tutti conosciamo il meraviglioso silenzio della natura, sia in un meriggio d’estate, sia soprattutto durante la notte il silenzio di fronte ad un cielo stellato. Vi è poi il silenzio delle emozioni, dei desideri, delle paure, dell’immaginazione: quello che in senso positivo è: pace e serenità. Il silenzio nel livello mentale che consiste nel tener ferma e calma la sostanza, mentale (chiamata dagli iridiani chitta), il fermare l’attività della mente. Di questo trattano di Yoga Stitras di Pantanjali, che contengono, specialmente nel primo libro ottimi insegnamenti al riguardo. (Un’edizione italiana, con ampi commenti di Alice A. Bailey, è stata pubblicata col titolo: La Luce dell’Anima).

Vi è anche un silenzio della volontà, cioè della volontà personale, che significa la dedizione di questa volontà e la sua unificazione con la Volontà Spirituale. La forma più alta del silenzio è quella conseguita e mantenuta nella contemplazione. Sulla via religiosa o mistica è chiamata « l’orazione di quiete »; ma anche dal punto di vista esoterico la contemplazione è la forma più alta di silenzio, che richiede ed include tutte le altre.

Un aspetto del silenzio che non è generalmente preso in considerazione è la letizia. E’ stata data un’interessante definizione della letizia: « il silenzio che risuona », ed è stato detto che è una caratteristica del nuovo servitore Spirituale. Un altro fatto ancor meno riconosciuto è che il silenzio è un’Entità; vi è uno Spirito del Silenzio, nello stesso senso in cui vi è uno Spirito dell’Amore, uno Spirito della Luce, uno Spirito della Bellezza. Alla nostra mente materialistica questo sembra strano, difficile a concepire, eppure tutti gli attributi e le qualità di Dio sono Esseri, sono i Suoi Angeli, i Suoi Messaggeri, sono Forze coscienti e viventi. Nella Dottrina Segreta E.P. Blavatsky dice chiaramente che tutto è vivente nell’Universo; e del resto anche nelle varie religioni i fedeli senza rendersene conto si rivolgono agli Angeli, agli Spiriti o Esseri Superiori. Le nostre Anime, chiamate esotericamente « Angeli Solari », sono Esseri Viventi e operanti in piani superiori ove le qualità, o note dello Spirito, esistono quali Esseri Viventi. Il riconoscerlo ci dà un senso meraviglioso della Vita Universale che è Una e Molteplice, manifestata in miriadi di Entità gerarchicamente ordinate.

Vi è un particolare beneficio nel pensare al Silenzio come ad una Entità, perché ci aiuta a comprendere la Sua Natura positiva ed attiva e a non considerarlo, come si fa di solito, semplice assenza di suono o di parola. Il silenzio è un’energia Spirituale positiva e, se lo ammettiamo, possiamo venire aiutati a praticarlo invocando lo Spirito del Silenzio, entrando in comunione con Lui, e così divenire recettivi a Lui e alle « impressioni » che ci vengono quando siamo, metaforicamente « avvolti nelle Sue ali ». Vi è uno stretto rapporto tra il silenzio e la reazione telepatica dall’alto; è stato detto che la Scienza della Recettività, dal punto di vista esoterico, è basata su vari tipi di silenzio.

Dirò ora qualcosa sulla pratica, sulla tecnica di quest’arte del silenzio. Come per sviluppare ogni altra qualità spirituale, una prima facile ed utile preparazione è il mettersi in quella « atmosfera » leggendo qualcosa sul tema. Fra gli scritti adatti a tale scopo citerò il bel saggio di M. Maeterlink sul silenzio nel vol. Le tresor des humbles. La celebrazione del silenzio di Th. Carlyle contenuta nel suo libro On Heroes. I Quaccheri hanno pubblicato numerosi scritti sul silenzio poiché essi basano la loro vita religiosa su riunioni di silenzio (vedi, fra altri: C.H. Hepher (ed.) The Fellowship of Silence, London, Macmillan, 1915; L.V. Hodkin, Silent Worship, London, Swarthmore, 1919; G. Hoyland, The Use of Silence, Wallingford, Pendle Hill, 1961.

Inoltre può essere di stimolo e di monito l’esempio di coloro che hanno praticato il silenzio in modo particolare: fra i moderni vi è Aurobindo, il quale per parecchi anni è stato in silenzio per 360 giorni ogni anno e in tali periodi scriveva molto ma taceva; un esempio meno estremo è quello di Gandhi che una volta alla settimana, ogni lunedì, osservava 24 ore di silenzio.

,Dopo questa preparazione dobbiamo « fare silenzio » dentro di noi; e questo si può ottenere mediante i variì stadi della meditazione: anzitutto raccoglimento « dalla periferia al centro »; poi elevazione del centro di coscienza mediante l’aspirazione del sentimento e la direzione dell’interesse della mente verso l’Anima, ed in generale verso il mondo dello Spirito e della Realtà.

E’ importante traversare rapidamente, per così dire, il livello emotivo e immaginativo per non disperdersi nelle impressioni psichiche che possono venire quando ci soffermiamo in esso. La coscienza deve essere tenuta ad un alto punto di tensione interna. Questa tensione, che è una consapevolezza vigile, una « presenza » Spirituale a noi stessi, è il vero segreto, la condizione essenziale per ogni conquista Spirituale. Essa può essere considerata una combinazione dell’Intenzione e dell’Attenzione. L’Intenzione è quella che ci sospinge a penetrare a livelli più alti di coscienza; l’Attenzione è la « polarizzazione » della coscienza, e il mantenerla fissa al livello raggiunto (1).

Questa tensione è seguita dal silenzio, un silenzio vivente, che crea le condizioni necessarie per ogni rivelazione, e soprattutto per la rivelazione dell’Anima. L’Istruttore Tibetano consiglia: « Riflettete, visualizzando un vivido giallo dorato, sul vero significato, sul valore e sui benefici del Silenzio » (Discepolato nella Nuova Era, I, p. 42 1 ).

Tutto quanto è stato detto fin qui riguarda il silenzio individuale, ma può e dovrebbe essere applicato anche al silenzio in Gruppo e di Gruppo. Le riunioni di Gruppo facilitano la pratica del silenzio, non solo per l’occasione, la necessità di stare in silenzio, ma anche perché si crea, insensibilmente ma realmente, una comunione fra un gruppo di persone o anche fra due persone che stiano insieme in silenzio. Nei Fioretti di San Francesco c’è un anedotto che mostra bene come i francescani conoscessero il valore del silenzio.

« Poco dopo la morte di San Francesco, San Luigi Re di Francia andò, travestito, da Fratello Egidio nel suo convento a Perugia; ma era stato rivelato al Fratello che il pellegrino era in realtà il Re di Francia, perciò egli lasciò in fretta la sua cella e andò ad incontrarlo al cancello senza porgli alcuna domanda. Essi si inginocchiarono e si abbracciarono con grande reverenza e segni di affetto come se già esistesse una lunga amicizia fra essi, per quanto non si fossero mai incontrati prima.

Nessuno di essi disse una parola e dopo essere rimasti abbracciati per qualche tempo si lasciarono in silenzio; poi quando gli altri Fratelli appresero chi era l’umile pellegrino, rimprovera-

(1)La tensione spirituale è diversa dalla tensione personale; sono anzi due condizioni opposte. La seconda ostacola la prima, mentre la tensione spirituale può meglio venire attuata e mantenuta in uno stato di rilasciamento fisico e di calma emotiva e mentale.

rono aspramente Fratello Egidio per il suo silenzio. – Egli rispose: – Cari Fratelli non siate sorpresi a ciò se io non ho detto una parola a Lui ne Lui a me, perché quando ci siamo abbracciati ci siamo visti l’uno nel cuore dell’altro è molto di più che se avessimo spiegalo a parole ciò che abbiamo sperimentato nelle nostre anime. La lingua dell’uomo rivela così imperfettamente i segreti misteri di Dio che le parole sarebbero state per noi più un ostacolo che un conforto ».

Gli effetti del silenzio sulla nostra personalità sono il ricaricamento di energia, il ritemprante e vero processo di rigenerazione di tutti i veicoli personali. L’effetto del silenzio in Gruppo è inoltre l’armonizzazione: quando in un gruppo ci sono contrasti o dissensi o semplici diversità d’opinioni su qualche decisione da prendere, su qualche attività da svolgere, il miglior modo è di fare un silenzio, un raccoglimento insieme, (questo naturalmente presuppone che tutti conoscano ed apprezzino l’arte del silenzio); dopo un periodo di silenzio insieme è molto più facile intendersi, poiché allora si considera il problema dall’alto, impersonalmente; si sono messe a tacere le personalità separative e ci si è riuniti – parlando simbolicamente – nel Tempo del Silenzio e qui ognuno, avvicinandosi alla propria Anima unita alle Anime degli altri, vede i punti di accordo, di contatto, d’intesa.

Ma i buoni effetti del silenzio non si limitano a questo, con la pratica del silenzio a poco a poco si sviluppa quella che è stata chiamata « la duplice vita del discepolo », cioè la capacità di mantenere Lina « zona di silenzio » durante la vita quotidiana, in mezzo ai rumori ed al tumulto: « Il silenzio del centro mantenuto nel rumore di tutto il mondo». Anche a questo riguardo vi è un esempio incoraggiante, quello di Frate Lorenzo della Resurrezione, il quale era capace di mantenere il senso della presenza di Dio mentre era affaccendato in urla rumorosa cucina.

Un altro buon risultato della pratica del silenzio è quello di imparare ad agire in silenzio, senza chiasso o rumore.

Nel metodo educativo di Maria Montessori viene usato un esercizio per allenare i bambini a muoversi ordinatamente in attento silenzio; essi lo fanno volentieri e imparano così l’autodominio.

Un altro vantaggio del mantenere una zona di silenzio di disidentificazione, di raccoglimento, pur dando la parte necessaria e sufficiente di attenzione e di energia (ma non più) alle attività che svolgiamo, è quella di poter prestare ascolto e riconoscere intuizioni, messaggi, spinte interne che molte volte vengono più facilmente quando pensiamo ad altro o siamo attivi esternamente, che nei momenti di raccoglimento.

L’educazione dei figli: si, no, devi

Tre parole sono responsabili di tutta l’educazione del bambino: si, no, devi.
L’educazione interviene in un’epoca in cui il bambino sta sviluppando il senso di sé, esplorando la sua psicomotricità, e frequentemente ne limita la libera espressione.
L’adulto trascura troppo spesso che educare deriva da
e-ducere, non significa mettere dentro o imporre qualcosa, ma significa tirare fuori dal bambino il meglio delle sue potenzialità, consentendogli, allo stesso tempo, l’apprendimento dei propri limiti.

Il Si dell’adulto contiene tre principali significati, a seconda che sia un:

SI IGNORATIVO (fa quello che vuoi ma non mi seccare). Il bambino sente di essere ignorato, sviluppa insicurezza, ansia, l’illusione di non avere bisogno di nessuno, ribellione per l’autorità da cui si sente ignorato.

SI PERMISSIVO (non sei capace, ma ti do il permesso proteggendoti). Il bambino impara che se fa le cose che la madre gli permette di fare, la madre si sente amata da lui e lo amerà a sua volta.

SI AFFERMATIVO (tu hai la capacità di farlo) Il fanciullo sente di poter imparare dall’esperienza, emerge la gioia di vivere, di affermazione dell’Io, il senso di libertà acquisito da una educazione gioiosa

Anche dire No, presenta tre diversi significati:

NO REALISTICO (insegna al bambino i limiti ed i pericoli). Equivale al si affermativo. Per esprimere le sue potenzialità e conoscere i suoi limiti il bambino necessita di no realistici e di si affermativi.

NON VOGLIO (esiste anche la volontà; la libertà individuale termina dove inizia quella dell’altro, che non deve essere sopraffatto. Il principio di uguaglianza.) Genitori prepotenti che dicono “non voglio” senza discutere e a sproposito, creeranno adolescenti ribelli e adulti aggressivi, oppure gregari e sottomessi, tipico della posizione masochistica. Di contro, genitori con sensi di colpa perché trascurano il loro bambino, non riescono a dire dei sani “non voglio” e creeranno adulti prepotenti.

NON E’ PERMESSO (senza dare alcuna spiegazione) Il bambino non riesce ad allenare il proprio diritto di esprimersi, non può sperimentare la giusta frustrazione, indispensabile per saper negoziare. Non può scaricare la rabbia per un divieto a lui incomprensibile, verso la persona di riferimento. Questa rabbia trattenuta sarà successivamente agita, indirettamente, contro gli altri oggetti carichi affettivamente o emotivamente (genitori, fratelli, compagni, amici, etc.); oppure contro se stesso. Se disobbedisce a questo divieto immotivato, si sentirà colpevole e/o cattivo.

Il no, può essere dato con diverse tonalità:

  • quelle in sintonizzazione coni bisogni evolutivi del bambino (tono fermo ma gentile e sempre improntato all’affetto, disponibilità alla spiegazione e al ragionamento),
  • quelle categoriche che guardano solo ai comodi del genitore,
  • quelle superegoiche (istanze censorie dell’individuo) che comunicano disgusto, durezza, rimprovero, ricatto affettivo e sono foriere di violenza e punizioni corporali

Per una crescita sana il bambino deve incontrare tanto il “Si” quanto il “No” e imparare a maneggiarli entrambi, per sperimentare e comprendere non solo i suoi diritti, ma anche i suoi doveri.

Il “DEVI” sprigiona forti emozioni evolutive, che possiamo riassumere in:

DEVI PERCHE’ E’ NECESSARIO. E’ un devi realistico, con cui il bambino si arricchisce di esperienza, comunica fare questo, per ottenere quello (devi mettere a posto i tuoi giocattoli dopo l’uso se vuoi trovarli in ordine la prossima volta,) o perché non succeda quest’altro (devi stare lontano dal forno quando è acceso se non vuoi scottarti le manine).

DEVI PERCHE’ IO VOGLIO COSI’. E’ un devi autoritario, il bambino non è in condizione di resistere o reagire; lo orienta verso una posizione passiva (una formazione reattiva nel maschio può strutturare una tendenza all’omosessualità latente); oppure scatena in lui rabbia che il genitore non potrà accettare, mentre sarebbe opportuno farlo, per evitare il blocco della rabbia, con conseguenze patologiche.

DEVI FARE QUESTO SE NO MI DISPIACCIO. E’ un devi ricattatorio, fa sentire il bambino sbagliato, deludente, cattivo e colpevole se non obbedisce. La paura di poter perdere l’affetto (ricatto emotivo) lo indurrà all’obbedienza per compiacere il genitore. La perdita della libertà nella scelta se aderire o meno alle richieste del genitore lo farà sentire imprigionato dal ricatto, umiliato e arrabbiato. Terreno fertile per strutturare il masochismo come equilibrio difensivo.

DEVI FARE QUESTO PERCHE’ IO SO CHE FA BENE PER TE. Non considerando assolutamente tutto ciò che il bambino sta esprimendo con la psicomotricità del corpo, è un doppio messaggio psicotizzante, perché il bambino pur di conservare l’amore del genitore, rinuncerà alle sue sensazioni e alle percezioni di se stesso, in favore di quelle del caregiver (figura affettiva e accudente di riferimento).

  • Il volere è il linguaggio del desiderio e degli istinti,
  • il potere è il linguaggio della volontà,
  • il dovere è il linguaggio superegoico dei divieti.

La psicomotricità sviluppatasi al servizio del Super-Io (dovere), produce incapacità di amare e di essere amato, con un blocco delle emozioni e dei sentimenti.
L’energia bloccata muscolarmente sostiene la rigida corazza muscolo-carattetteriale, mentre, sul piano mentale, la corazza si esprimerà con una rigidità di comportamento e un’eccessiva razionalizzazione, che porta ad una limitazione dell’immaginario e della capacità di condivisione e di espressione delle emozioni.

L’ipertrofia e la rigidità dell’Io e del Super-Io, allontana dal principio del piacere per obbedire al principio del dovere, evidenziato, nel corpo, dall’ipertono muscolare, la cui collocazione e distribuzione evidenzia situazioni patologiche, conseguenza delle ingiustizie sofferte.

Tratto da: Ezio Zucconi Mazzini, La malattia del potere, Alpes Italia, Roma, 2010

Prospettive costruttiviste in PSICOANALISI a cura di GILDA BERTAN

Il grande Freud è certamente figlio del suo tempo. Anche se, in epoca positivista, egli parla di inconscio, di un’istanza, cioè, che sfugge alla ragione, la sua teoria è supportata dalla concezione positivista secondo cui esiste una “vera” conoscenza, fondata sulla corrispondenza tra il pensiero e una presunta realtà oggettiva, posta “fuori”, cui il pensiero aderisce. Lo “scontro” tuttavia quotidiano di situazioni transferali e controtransferali (all’epoca teoricamente ancora fragili e poco articolate) insinuerà un qualche dubbio sulla figura dell’analista come garante neutrale di quella presunta “verità”. Come fa notare Jorge Luis Martin Cabrè (2006) , tali preoccupazioni si rilevano, più che dai dati ufficiali, dai carteggi con i suoi allievi e collaboratori, in particolare con Ferenczi, allievo particolarmente dotato che già nel 1928, nel suo saggio “Elasticità della tecnica psicoanalitica“, introduce il concetto di “empatia”, intesa come “sentire- con” allo scopo di con-dividere per poter essere d’aiuto. Sarà poi la Klein(1946), di cui Ferenczi è stato il primo analista, a spostare il processo psicoanalitico su un piano relazionale, introducendo il concetto di identificazione proiettiva, divenuta poi, soprattutto con la successiva elaborazione di Bion, uno degli assi portanti della psicoanalisi e in particolare del modello di campo, anticipato dall’accento fortemente trasformativo con cui Bion connota il processo analitico.

Ma sarà con la “crisi” del pensiero positivista, che verrà a cadere l’utopia di una scienza indipendente dal tempo, dalla storia e dalla teoria stessa. La fisica quantistica e i suoi legami con la Gestalt, con la loro inclusione nel campo osservato dell’osservatore stesso, influenzeranno significativamente il pensiero dell’epoca.
L’epistemologia di Popper, nel dopoguerra, asseriva che la scientificità di una disciplina non dipende dall’osservazione neutra dei dati e dal metodo induttivo, perché l’osservazione non è mai neutra, ma avviene sempre all’interno di una teoria “a priori” dell’osservatore e dai suoi punti di vista Questo metteva in discussione l’assetto terapeutico psicoanalitico fondato sul paziente bisognoso di fronte all’analista neutrale e interprete non partecipante. Anche il pensiero psicoanalitico risentiva della crisi che aveva investito tutto il mondo scientifico.
Nascono così nel mondo psicoanalitico teorie che focalizzano le dinamiche interpersonali e si muovono, intrecciando riferimenti filosofici provenienti dall’ambito fenomenologico (Husserl, Heidegger, Karl Jaspers, Ludwig Binswanger, EugeneMinkowski…) dall’ambito costruttivista,
(George Kelly, George Herbert Mead, Jean Piaget, Humberto Maturana, Ernst von Glasersfeld, Francisco Varela, Heinz von Foerster, Niklas Luhmann, Paul Watzlawick, Lev Vygotskij…), e da quello ermeneutico (Hans Gadamer, Paul Ricoeur…).
L’esperienza è qui intesa come frutto di una creazione continua soggettiva e intersoggettiva, alla cui costruzione contribuiscono varie componenti interagenti fra loro, provenienti sia dal mondo interno che esterno al soggetto.
La creazione/ ricreazione dell’esperienza è continua. Presente e passato si creano e ri-creano uno sull’altro. Nel presente vive il nostro passato e, nel racconto, il passato è ricreato dal e nel presente.
Anche l’inconscio è in continua for/ rifor -mazione e rimanda costantemente alla relazione.
Attualmente, possiamo, grosso modo (modo chiaramente riduttivo e impreciso), individuare, in ambito psicoanalitico, alcuni filoni che assumono al loro interno un’ottica che si fa interprete del cambiamento del pensiero “post positivista”: l’infant research, il filone più dichiaratamente costruttivista, quello più fenomenologico e quello che si rifà alla teoria del campo:

● L’infant research, il cui esponente più noto è Daniel Stern, utilizza metodi sperimentali di laboratorio per studiare lo sviluppo del bambino, riportando poi tali risultati nell’ambito della teoria e della prassi psicoanalitica.
● L’indirizzo interrelazionale/ intersoggettivista, pur collocandosi in ambito psicoanalitico, si scosta da un’ottica pulsionale, abbracciando la teoria dell’attaccamento di Bowlby e incrociandola con i dati provenienti dall’Infant research.
● L’indirizzo fenomenologico che unisce il vertice di osservazione della fenomenologia e le sue applicazioni in ambito psicopatologico con la psicoanalisi freudiana interpretata in senso ermeneutico, in particolare attraverso il contributo di Gaetano Benedetti.
● Il modello di campo, si pone in continuità con la tradizione classica psicoanalitica accogliendo e sviluppando tutto ciò che nei vari autori (Freud, Ferenczi, Klein, Winnicott, Baranger, Bion, Meltzer …) prelude alla concezione di uno scenario terapeutico in cui coesistono una molteplicità di attori tra loro interagenti (Ferro.) e aprendosi alla ricerca neurofisiologica e neuropsicologica (Mancia…) e talora all’infant research (Stern, Emde…) e alla psicologia dell’io (Kohut)

il filo conduttore in tutti questi diversi approcci è la consapevolezza della partecipazione continua dell’analista in un processo terapeutico co-costruito e all’interno di una continua negoziazione della relazione nel qui ed ora.

L’INFANT RESEARCH

Stern (2002..) e i suoi collaboratori (Lichtenberg, Emde, Greenspan, Beebe, Lachmann, ) hanno dimostrato che l’essere umano, fin dalla nascita, è “programmato” per relazionarsi con gli altri, confutando così la tesi del “narcisismo primario di Freud” e le teorie a ciò conseguenti, come quella dell’esistenza di una fase “autistica normale” nel neonato. (Mahler)
Questa scoperta ha portato alla concezione di una psicoanalisi improntata al “relazionale” e all’”intersoggettivo”, affermando che l’intersoggettività è condizione di umanità (Stern)
Attualmente Stern parla di “present moment” e “now moment” come momenti di scambio intersoggettivo, a forte pregnanza affettiva e di riconoscimento reciproco che accadono in seduta e che si configurano, all’interno del processo terapeutico, come veri e propri motori del cambiamento, al di là dell’interpretazione.

L’INTERSOGGETTIVISMO

Nella prospettiva interrelazionale/ intersoggettivista sono confluite scuole di pensiero aventi origine da varie correnti all’interno del mondo psicoanalitico, a partire, ad esempio, dalle teorie interpersonali (Sullivan) e delle relazioni oggettuali, dalla Psicologia del Sé (Kohut.) e dai tentativi di integrare Infant research e psicoanalisi. Tutti postulano una mente intrinsecamente diadica, interazionale, interpersonale, sociale, funzionante in tal senso fin dalla nascita (rifiutando la tesi Freudiana del narcisismo primario inteso come totale indifferenziazione) e avanzano una visione del rapporto terapeutico che si fonda soprattutto sull’interazione.
Tra le più importanti si impongono:

● A) La corrente interrelazionale, elaborata da Stephen Mitchell (2000), in continuità con Sullivan e a cui appartengono anche Lewis Aron, Jessica Benjamin, Philip Bromberg, Donnel B. Stern ed altri. In questa prospettiva la mente funziona con una forte”matrice relazionale” che intesse e organizza i molteplici aspetti dell’esperienza umana lungo tutto l’arco della vita. Su un piano terapeutico ne consegue che il lavoro analitico è basato sulla possibilità di cambiamento dell’organizzazione di base del mondo relazionale dell’analizzando,, senza con ciò sminuire l’importanza dell’acquisizione di consapevolezza rispetto a deficitarie o traumatiche esperienze precoci.
● Per Mitchell Il transfert è inteso come riproduzione nel “qui e ora”, delle stesse modalità patologiche con cui l’analizzando ha affrontato o è solito affrontare specifici temi conflittuali, nella ricerca di nuove soluzioni di fronte alle caratteristiche della situazione presente.
● Mitchell considera fattori imprescindibili della prospettiva relazionale ed essenziali nel processo terapeutico, l’interazione, l’influenza reciproca bidirezionale, e la co-costruzione del significato tra paziente e analista.

● B) La corrente intersoggettivista, che, a partire da Merton Gill (1994), si sviluppa poi con Robert Storolow (1992), George Atwood (1992), Donna Orange(1997) ed altri. Lascio la parola all’IPPA, l’Istituto di Psicologia Psicoanalitica di Brescia che si situa in quest’ambito e che così si presenta: ” La Scuola, sin dalla sua nascita, si è segnalata e contraddistinta per una concezione della psicoterapia psicoanalitica tesa a privilegiare l’aspetto relazionale, intersoggettivo e interattivo in coerenza con le risultanze della psicologia evolutiva, dell’infant research, delle neuroscienze e delle altre discipline di confine.
La Scuola ha avuto sin dall’inizio, come suo punto di riferimento e maestro M. Gill, con cui è stata in contatto fino alla sua scomparsa. La nostra parabola teorica ha seguito la sua e, quindi, il nostro approdo al modo di pensare costruttivista ha seguito il suo.
La nostra visione costruttivista concepisce la situazione psicoterapeutica come una interazione intersoggettiva e considera l’interazione, in ogni suo aspetto, come intrinseca alla procedura.
In quest’ottica, analista ed analizzando costituiscono un cerchio intersoggettivo in quanto l’interazione diventa il veicolo della soggettività di entrambi e quindi l’oggetto da osservare, capire, interpretare, compito questo che l’analista svolge attraverso la sua posizione ‘meta’ o ‘asimmetrica’”.

L’INDIRIZZO FENOMENOLOGICO

Lascio anche in questo caso ai rappresentanti di tale indirizzo raccontarsi attraverso la presentazione della Scuola di specializzazione di Padova da loro fondata .
“Le basi storico-scientifiche dell’indirizzo sono, dunque, su un versante, la fenomenologia di Husserl e di Heidegger e le sue applicazioni in ambito psicopatologico: la fenomenologia soggettiva di Karl Jaspers, la Daseinsanalyse di Ludwig Binswanger, la fenomenologia strutturale di Eugene Minkowski e Emil von Gebsattel; sull’altro versante, la psicoanalisi freudiana interpretata in senso ermeneutico, in particolare attraverso il contributo di Gaetano Benedetti.
Il rapporto tra psicoanalisi e fenomenologia ha una significativa origine storica nella figura di Franz Brentano che ebbe come allievi sia Freud che Husserl. Affrontato sul piano teorico fin dalla nascita dei due indirizzi (ad esempio da Fink, allievo di Husserl e nel carteggio Freud-Binswanger), tale rapporto si è sviluppato ed è stato facilitato dall’evolversi delle concezioni scientifiche e culturali.
In accordo con i più recenti studi epistemologici sulle strutture e sui sistemi complessi, la psicoanalisi post-freudiana si è allontanata dalle basi naturalistiche dell’impianto teorico e ha modificato l’impostazione classica del setting psicoanalitico, riconoscendo il ruolo dell’osservatore nello studio dei fenomeni e la rilevanza del significato e dello stile personale insito in ogni manifestazione psicopatologica. Alcuni sviluppi della psicoanalisi (si pensi a Bion, Racamier, Matte Blanco, Resnik, Rosenfeld, Segal, Searles) hanno rinnovato l’interesse per l’epistemologia e sottolineato l’importanza dell’intersoggettività e del linguaggio sia nella teoria che nella psicoterapia.
L’orientamento inaugurato dagli psicopatologi e dagli psichiatri fenomenologi, d’altra parte, ha contribuito a trasformare in modo radicale l’idea di cura psicologica, delineando, come dice Borgna (1973), le “fondazioni antropologiche della psicoterapia”. Riconoscendo, infatti, e tematizzando la differenza essenziale tra metodo naturalistico e metodo fenomenologico, la psichiatria di Binswanger, Minkowski, von Gebsattel, Tellenbach, Straus ha consentito di vedere la reificazione della persona implicita nell’atteggiamento delle scienze naturali e ha posto le premesse per un’alternativa scientifica alla psicopatologia e alla psicoterapia tradizionali. In questa prospettiva il fenomeno “malattia mentale” viene compreso in una dimensione antropologica e relazionale come esperienza umana dotata di senso, con una sua fondazione e una sua articolazione di significato.
Sul piano epistemologico e teorico il terreno d’incontro tra la psicologia del profondo (intesa nell’ottica di Benedetti) e la fenomenologia è costituito dal comune rifiuto del naturalismo e dalla centralità della nozione di intenzionalità. Tali premesse aprono immediatamente l’orizzonte della psicopatologia e della psicoterapia verso il rapporto intersoggettivo inteso come essenziale con-esserci.
Sul piano psicoterapeutico, psicoanalisi e fenomenologia condividono la scelta di rivolgersi al vissuto (e non al comportamento) del soggetto e il rilievo dato all’incontro umano, inteso in senso dialogico, producendo una rilettura della nozione freudiana di transfert e del contro-transfert che ha lo stesso senso del Mit-Dasein fenomenologico (cfr. Blankenburg, 1983).
Da queste premesse derivano comunanze metodologiche, come l’impiego della narrazione, dell’ascolto, del silenzio, dell’intuizione, dell’empatia, dell’interpretazione interattiva”.

IL MODELLO DI CAMPO

Non è facile delineare un vero e proprio “modello di campo”, in quanto all’interno di questo vertice di osservazione, mutuato dalla fisica, il dibattito è vivace. Nella psicoanalisi italiana il modello di campo si sviluppa in un crocevia dove si incrociano, oltre ai criteri costruttivisti già citati della fisica quantistica, le concettualizzazioni dei coniugi Baranger(1961), la teoria della mente di Bion e un clima culturale sia italiano che proveniente da oltreoceano che sempre di più mette in luce la natura costruttiva e relazionale di quanto avviene in analisi. L’idea, concettualizzata dai Baranger, propone la coppia paziente-terapeuta inglobata in un campo da essa stessa creato che li rende complementari e coinvolti nello stesso processo dinamico, campo in cui si dispiegano numerose fantasie inconsce latenti provenienti da entrambi i membri della coppia al lavoro (“fantasie bi-personali”). D’altra parte, anche Bion, indipendentemente dai Baranger, formulava l’ipotesi di un continuo interscambio tra analista-paziente di fantasie inconsce prodotte da continue identificazioni proiettive. L’elaborazione di Bion(1962) del concetto di identificazione proiettiva, toglieva, infatti, quelle caratteristiche “negative” con cui M. Klein (1946) aveva connotato questo suo importante concetto, rendendolo uno “strumento” di lavoro della coppia analista-paziente. Ecco quindi che l’intreccio di questi due vertici (quello dei Baranger e quello di Bion) hanno fatto lievitare pensieri e tensioni verso la teoria del “campo” anche se, come spesso accade per le nuove idee, abbiamo una gamma di sfumature difficili da sintetizzare. E così, mentre per alcuni autori il campo è solo una metafora riferita agli aspetti relazionali del “luogo” analitico per altri, invece, il modello di campo nasce proprio “dalla necessità di ampliare il punto di vista relazionale, senza perdere di vista la prospettiva storica e le sedimentazioni teoriche che mantengono la profondità e le caratteristiche proprie dell’esperienza psicoanalitica” . Diciamo, tuttavia, che alcuni punti sono senz’altro chiari e comuni ai vari autori:
• vertice osservativo che tiene conto dell’inconscio
• inclusione dell’analista all’interno del campo “osservato”
• critica alla rigidità dell’interpretazione diretta della fantasia inconscia
• l’interpretazione è co-costruita nel qui ed ora del campo, a partire dai “personaggi” co-narrati che hanno preso forma al suo interno e che hanno portato a delle nuove co-costruzioni di senso e alla nascita di nuovi pensieri co-pensati
• il campo come uno spazio-tempo che si attiva e si trasforma in base al funzionamento mentale della coppia paziente- analista e al cui interno si realizzano operazioni trasformative.

Tra gli autori italiani ricordiamo Francesco Corrao (1986), profondo conoscitore e studioso del pensiero di Bion che introdusse il suo modello di campo ( mutuandolo, con precisione, dopo una scrupolosa ricerca epistemologica, dalla teoria quantistica dei campi) alla metà degli anni 80. La sua ricerca era tesa a trovare un modello (quello di rete risultava incompleto per lo scopo) che si prestasse a spiegare psicoanaliticamente i movimenti gruppali.
Altri autori come C. Neri, G. di Chiara(1997), D. Chianese(1997) ed altri, avvertono l’importanza di superare il concetto di interazione, spostandosi più verso l’intersoggettività e quindi verso quelle “aree terze” che questa mette inevitabilmente in evidenza.
Per altri ancora un’ottica di campo all’interno dell’istituzione può porsi come “campo” che ricongiunge nella visione pluridimensionale dell’équipe degli operatori gli elementi frammentati e scissi nella “mente – campo” del paziente (Correale (2006), Boccanegra (1997).
Riolo (1997) conduce un’analisi che, come Corrao, si rifà puntualmente alla fisica e alle sue attuali evoluzioni, le quali, superando il dualismo tra energia e materia e tra campi e oggetti, approdano all’ipotesi secondo cui ciò che ad un livello di osservazione appare come realtà indipendente (particelle, singoli elementi del campo), in realtà è determinato dalla diversa intensità dei punti del campo e dalle diverse configurazioni delle sue linee di forza. Assumere questa nuova configurazione di campo come riferimento concettuale per il campo psicoanalitico, induce Riolo ad accentuare al suo interno gli aspetti costruttivisti e creatori di nuovi elementi e di nuovo senso, cioè gli aspetti trasformazionali, anziché le differenze dei singoli elementi (transfert, controtransfert…. che non hanno realtà indipendente da quella del campo) con evidenti ricadute sul piano teorico della teoria psicoanalitica stessa e a sottolineare ancora, qualora ce ne fosse bisogno, come il concetto di campo non possa risolversi in quello di relazione, ma lo superi di gran lunga.
Grande attenzione viene quindi posta alle trasformazioni nel campo che Riolo sostiene veicolate dalle componenti affettivo/cognitive/emotive che, come onde, producono cambiamenti nel processo analitico.
Anche Gaburri (1997) sembra intendere il campo analitico come un “luogo” fortemente connotato dagli eventi emotivi che agiscono sulla realtà fattuale, trasformandola. Egli denomina tale fenomeno come “campo emozionale” (Gaburri 1997).
Per F. Borgogno (1997) il campo è anche il luogo di una paziente e sofferente attesa, un campo che si “ammala” e “parla” del disagio “portato” dai personaggi che vi entrano (familiari, figure significative…), facendosi transitare da emozioni che diventando “vivibili”, potranno poi divenire “pensabili”

Anche per Antonino Ferro (1992;1996;1999;2000;2002;2003;2006;2007), Bezoari (1991) e Barale (1992) il campo è fortemente connotato in senso emotivo; esso è uno spazio-tempo che diviene contenitore di “intense turbolenze emotive”, dove avvengono trasformazioni dell’intera situazione analitica. In tale spazio-tempo si dispiegano narrazioni che introducono personaggi testimoni del funzionamento della coppia analista-paziente e che in un gioco continuo di contenuto/contenitore creano la possibilità di accedere a pensieri nuovi, prima impensabili.
Le prese di posizione più radicali nell’ambito del modello di campo, le ultime citate, conducono ad una “rivoluzione” di tutti gli elementi psicoanalitici e delle loro variegate denominazioni; come afferma Corrao “se utilizziamo il concetto di campo non c’è bisogno di pensare allo spazio intermedio tra interno ed esterno, perché nel campo, visto che tutti i punti possono essere utilizzabili, ci possono essere [simultaneamente] interni, esterni, intermedi … perché è omnicomprensivo” E ancora c’è da chiedersi, quale pregnanza possono ancora avere concetti come quello di transfert, controtransfert, setting, se tutto nel campo è in movimento e se ciò che vogliamo ottenere in un processo analitico è certamente in direzione della trasformazione e non della fissità degli elementi?
All’interno di questa “corrente” tutta italiana collocherei due autori d’oltre oceano che mi sembrano piuttosto vicini ad essa: Ogden (1994) per il suo originale sviluppo del pensiero di Bion e per la sua formulazione del “terzo analitico” e Renik (2007) per la sua attenzione alla non neutralità dell’analista e il forte accento intersoggettivista che assegna all’incontro psicoterapico, pur collocandosi in continuità con la tradizione psicoanalitica.

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Tratto da http://www.psicoterapia.name/Prospettive_costruttiviste_in_PSICOANALISI.htm

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