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Autore: Hiram

Disfunzioni sessuali femminili di Nada Loffredi

Le attuali tecniche diagnostiche e le nuove terapie mediche e psicologiche hanno permesso, negli ultimi decenni, di conoscere sempre meglio la risposta sessuale e hanno fornito soluzioni mirate a problemi che, un tempo, erano considerati difficili o non trattabili. Queste nuove possibilità di cura dei problemi sessuali, nonostante le ottime percentuali di successo, sono ancora poco conosciute.
È emerso, negli ultimi anni, che il rapporto fra cause organiche e psicologiche può essere molto complesso. Anche quando la diagnosi di un disturbo sessuale pone in evidenza un problema di tipo organico, fattori psicologici possono essere sempre presenti, e tra questi il più importante è la paura dell’insuccesso. Dopo i primi fallimenti può accadere, infatti, che la paura di ulteriori insuccessi porti a situazioni così ansiogene da divenire un vero e proprio fattore di mantenimento del disturbo stesso.
In questa breve rassegna spiegheremo in modo chiaro e sintetico i principali disagi, le possibili cause e le diverse cure oggi a disposizione per i disturbi sessuali della donna.

  • Carenza di desiderio
  • Avversione o fobia sessuale
  • Desiderio compulsivo
  • Disturbo dell’eccitazione femminile
  • Anorgasmia
  • Vaginismo e dispareunia

CARENZA DI DESIDERIO
Le donne che presentano una carenza di desiderio appaiono ‘asessuali’ e si comportano come se i centri sessuali del cervello fossero ‘bloccati’. Non manifestano alcun interesse per la sessualità e, se si presenta un’occasione erotica, non ne approfittano. La caduta del desiderio, in alcuni casi, non coinvolge la normale risposta sessuale. Si può avere la vasocongestione degli organi genitali, la lubrificazione caratteristica della fase di eccitazione e anche un orgasmo, ma ogni esperienza sessuale viene vissuta in modo meccanico, senza provare piacere.

Come si manifesta
Questo sintomo può manifestarsi, secondo i casi, nella masturbazione, con il partner fisso o con qualunque tipo di pratica e partner sessuale.

Possibili cause
Quando il disturbo si manifesta in tutti i casi, compresa la masturbazione, il problema assume maggiore rilevanza e nasconde cause organiche e/o psicologiche più profonde come, ad esempio, una depressione o un trauma sessuale subito durante l’infanzia o l’adolescenza.
Quando è legato al partner abituale è più probabile che si tratti di un conflitto di coppia.
Quando, invece, è legato a tutti gli uomini può trattarsi di una fobia generalizzata verso il sesso maschile oppure di una omosessualità latente.

Le terapie
– Terapie farmacologiche
Quando il sintomo è associato a un disturbo dell’umore, come una depressione, può essere utile somministrare farmaci antidepressivi parallelamente ad un percorso psicoterapeutico.

– Le psicoterapie
Il tipo di psicoterapia più indicata dipenderà dalle specifiche cause del sintomo e dalle caratteristiche peculiari della paziente o della coppia. Le psicoterapie che, in generale, sono risultate più efficaci sono:
a) le terapie del come (cognitivo-comportamentali)
b) le terapie del perché (di tipo psicoanalitico)
c) le terapie della comunicazione di coppia
d) le terapie corporee
e) la terapia sessuale integrata di Helen Kaplan
f) stimoli erotici (films o vibratori da usare all’interno di un processo terapeutico)

AVVERSIONE O FOBIA SESSUALE
Alcune donne sviluppano un rifiuto fobico delle sensazioni erotiche e/o di alcune attività legate al sesso. I comportamenti e le situazioni sessuali più frequentemente rifiutati sono: la penetrazione, il rapporto orale, il rapporto anale, la masturbazione, il bacio, le carezze, l’atto di spogliarsi, il guardare i genitali, ecc.
Queste persone vanno incontro a forti stati ansiosi e a veri e propri attacchi di panico nelle situazioni che risvegliano la loro reazione fobica. L’ansia che precede le situazioni ‘a rischio’ conduce queste donne ad evitare a priori qualunque occasione o comportamento di tipo sessuale.

Come si manifesta
Può manifestarsi, secondo i casi, verso l’uomo, verso parti del corpo maschile, come il pene, lo sperma, i peli pubici, o verso il sesso in generale, comprese le immagini erotiche.

Possibili cause
Il disturbo può essere causato da inibizioni e sensi di colpa legati alla sessualità appresi durante l’infanzia all’interno di famiglie molto rigide. Può essere presente, in alcuni casi, una paura inconscia del piacere, del successo, o dell’intimità stessa.
Altre cause configurano conflitti di livello più profondo. Alcuni soggetti appartenenti a questa categoria inibiscono il proprio desiderio perché lo percepiscono come una minaccia. Queste persone possono provare, ad esempio, il timore inconscio di essere aggredite da parte di rivali immaginarie o di uomini pericolosi.

Le terapie
– Terapie farmacologiche
Le fobie sessuali rispondono bene agli stessi tipi di trattamento usati per altri tipi di fobie. In particolare, quando la fobia sessuale rientra in una sindrome complessa fobico-ansiosa, un trattamento efficace è rappresentato dai farmaci antidepressivi della nuova generazione (triciclici) in grado di ridurre gli attacchi di panico sperimentati in situazioni fobiche.

– Le psicoterapie
L’ansia anticipatoria, che precede la situazione sessuale fobica, può essere contenuta attraverso tecniche di desensibilizzazione diretta e sistematica verso lo stimolo ansiogeno. Ciò richiede l’utilizzo di esercizi sessuali graduali all’interno di una terapia sessuale integrata o di una terapia cognitivo-comportamentale. Nei casi più gravi, può essere d’aiuto una terapia psicoanalitica che aiuti la donna a rintracciare le cause remote e i traumi all’origine del sintomo.

DESIDERIO COMPULSIVO (O DIPENDENZA SESSUALE)
Le persone con un desiderio sessuale compulsivo, o dipendenti sessuali, hanno attività sessuali molto frequenti e, spesso, riescono a raggiungere diversi orgasmi ogni giorno. La percentuale di donne che soffre di questo disturbo è nettamente inferiore a quella degli uomini. Queste persone sono ossessionate da sensazioni e fantasie sessuali che interferiscono con l’attività lavorativa, e che creano seri problemi all’interno delle relazioni interpersonali. Solitamente, rispondono a una vasta gamma di stimoli erotici e possono eccitarsi perfino in assenza di sollecitazioni esterne. Ciò che differenzia queste donne da altre che hanno semplicemente un sano e forte appetito sessuale, è la qualità compulsiva e coatta dei loro impulsi sessuali.

Come si manifesta
L’auto-controllo delle persone dipendenti dal sesso è così inadeguato da spingerle ad intraprendere iniziative e attività sessuali – prostituzione, uso di materiale pornografico, rapporti occasionali, ecc. – anche quando esiste la consapevolezza di rischiare la perdita del lavoro, del compagno o, in caso di rapporti non protetti, della vita. Il problema è che quando tentano di astenersi dall’attività sessuale divengono tese, ansiose e depresse. Spesso, inoltre, mettono in atto una forte pressione sessuale nei confronti del partner e ciò può avere un impatto molto negativo sulla relazione. I comportamenti sessuali compulsivi possono essere di tipo perverso – sadismo, masochismo, esibizionismo, ecc. – oppure di tipo convenzionale – masturbazione, partner multipli, rapporti occasionali, ecc. – ma la caratteristica di fondo è sempre la mancanza di controllo sul comportamento sessuale sintomatico.

Possibili cause
Una singolare caratteristica del disturbo è che le persone che ne soffrono sembrano essere ‘insaziabili’. Al contrario, le donne che hanno una pulsione sessuale elevata, ma normale, sono generalmente soddisfatte dopo uno o due orgasmi nell’ambito di un singolo rapporto e, comunque, non hanno problemi a tenere sotto controllo i propri impulsi sessuali. Questa peculiarità potrebbe essere causata da un deficit dei normali meccanismi di regolazione degli impulsi che, ordinariamente, modulano i nostri desideri adattandoli alle opportunità e ai pericoli dell’ambiente che ci circonda. Altre ipotesi riguardano le famiglie di origine di queste persone, spesso molto rigide e anaffettive o, al contrario, troppo intrusive e invischianti. All’interno di queste famiglie, inoltre, sono spesso presenti altri tipi di dipendenze, come l’alcolismo, il gioco d’azzardo, i disturbi alimentari, ecc.

Le terapie
– Terapie farmacologiche
I farmaci comunemente usati nel trattamento delle dipendenze sessuali sono gli stessi che vengono utilizzati per curare altri tipi di dipendenze, come quelle alimentari, da gioco d’azzardo, ecc. Si tratta di farmaci anti-depressivi di tipo serotoninergico che hanno l’effetto di favorire il controllo degli impulsi. Inoltre, contribuiscono a stabilizzare il tono dell’umore, spesso soggetto a notevoli oscillazioni nelle persone che soffrono di dipendenze.

– Le psicoterapie
Si tratta di un disturbo particolarmente difficile da trattare. Le terapie che si sono dimostrate maggiormente efficaci sono quelle di tipo cognitivo-comportamentale e strategico. Solitamente è opportuno associare la terapia individuale ad una terapia di gruppo (secondo il modello Minnesota) che svolga un ruolo di sostegno durante le fasi critiche del percorso terapeutico. Le terapie di tipo psicodinamico possono aiutare ad approfondire le cause e l’origine del disagio, ma sono indicate solo in una fase successiva del trattamento. Prima è necessario eliminare i comportamenti sessuali sintomatici e aiutare le pazienti a prendere consapevolezza della loro reale motivazione al cambiamento.

 

DISTURBO DELL’ECCITAZIONE FEMMINILE
Le donne che soffrono di questo disturbo hanno difficoltà a rispondere a uno stimolo erotico che esse stesse giudicano adeguato. La persona affetta da un disturbo dell’eccitazione riesce a provare desiderio sessuale, ma l’eccitazione viene inibita nel momento in cui si verifica un’azione sessuale.

Come si manifesta
Le donne che soffrono di questa disfunzione sessuale non riescono a raggiungere, o a mantenere per un tempo sufficiente al completamento del rapporto, un livello di lubrificazione e di inturgidimento vaginale adeguati.
Il sintomo può manifestarsi, secondo i casi, con il partner abituale, con gli altri uomini o in tutte le attività sessuali, compresa la masturbazione

Possibili cause
Quando il disturbo è generalizzato è possibile che sia causato da altri disagi psichici più gravi, come ad esempio, una depressione.
Altre cause possono essere legate ad un conflitto di coppia o all’atteggiamento della paziente nei confronti della sessualità in genere.
Questo disturbo può essere anche legato alle modificazioni psicofisiche causate dalla menopausa, spesso accompagnata da una mancanza di lubrificazione vaginale e da disagi di tipo psicosessuale.

Terapia
– Terapie farmacologiche
Quando il disturbo insorge durante la menopausa è possibile rimediare alla scarsa lubrificazione e agli altri sintomi associati alla menopausa con alcune creme lubrificanti e con le terapie ormonali sostitutive.

– Le psicoterapie
Il tipo di psicoterapia più indicata dipenderà dalle specifiche cause del sintomo e dalle caratteristiche peculiari della paziente o della coppia. Le psicoterapie che, in generale, sono risultate più efficaci sono:
a) le terapie del come (cognitivo-comportamentali)
b) le terapie del perché (di tipo psicoanalitico)
c) le terapie della comunicazione di coppia
d) le terapie corporee
e) la terapia sessuale integrata di Helen Kaplan

ANORGASMIA
L’anorgasmia è una ricorrente e persistente inibizione dell’orgasmo femminile. Può manifestarsi con un ritardo o con l’assenza dell’orgasmo, dopo una normale fase di eccitamento sessuale, durante un’attività sessuale giudicata adeguata per intensità e durata.

Come si manifesta
Il sintomo può manifestarsi, secondo i casi, con il partner abituale, con altri partner o in qualunque attività sessuale, compresa la masturbazione.

Possibili cause
Le cause organiche sono rare nella donna anorgasmica. I fattori psicologici che possono causare un’inibizione dell’orgasmo femminile sono essenzialmente di tre tipi:
a) cause superficiali, come un’auto-osservazione ossessiva (spectatoring) durante il rapporto
b) cause banali, come un’insufficiente stimolazione clitoridea
c) cause più profonde legate a conflitti psicologici o relazionali con il partner o con la figura paterna.
C’è da dire che alcune donne sono incapaci di raggiungere l’orgasmo durante il coito, a meno che non vengano stimolate con le mani direttamente sul clitoride: questo, però, non sempre rappresenta un problema di anorgasmia. Spesso si tratta semplicemente di una normale variante della risposta sessuale femminile.

Terapia
Il tipo di terapia più indicata dipenderà dalle specifiche cause del sintomo e dalle caratteristiche peculiari della paziente o della coppia. Le psicoterapie che, in generale, sono risultate più efficaci sono:
a) le terapie del come (cognitivo-comportamentali)
b) le terapie del perché (di tipo psicoanalitico)
c) le terapie della comunicazione di coppia
d) le terapie corporee
f) la terapia sessuale di Masters e Johnson o quella integrata di Helen Kaplan
g) la terapia strategica

 

VAGINISMO E DISPAREUNIA
Il vaginismo si manifesta con una contrazione involontaria della muscolatura pelvica e vaginale che impedisce la penetrazione da parte dell’uomo. Questa patologia è spesso alla base dei cosiddetti ‘matrimoni bianchi o non consumati’. Recentemente, infatti, si tende a focalizzare l’attenzione sulla disfunzione del sistema coppia più che sulla singola paziente.
Spesso in queste coppie c’è un’ottima intesa e il disturbo non impedisce tutte le alte pratiche sessuali che non comportano la penetrazione.
La dispareunia si manifesta, invece, con la presenza di dolore nell’area vaginale durante il rapporto sessuale. Il dolore può presentarsi, secondo i casi, prima, durante e/o dopo la penetrazione. Esiste anche la possibilità che questa disfunzione si presenti nell’uomo.

Come si manifesta
La contrazione dei muscoli pelvici, caratteristica del vaginismo, e il dolore genitale, caratteristico della dispareunia, generalmente accompagnano qualunque tipo di attività sessuale, compresa la masturbazione.
Nella dispareunia il dolore può essere superficiale durante la penetrazione e più profondo durante le spinte del pene in vagina.

Possibili cause
La dispareunia è dovuta quasi sempre a cause organiche. Può essere causata da infezioni e irritazioni dei genitali esterni o della vagina, da una fimosi clitoridea, da un imene imperforato o rigido, da un trauma da parto o dall’esito di interventi chirurgici. Possibili cause psicologiche sono un’elevata ostilità che, non riuscendo ad esprimersi direttamente verso il partner, trova sbocco nella somatizzazione dolorosa.
Le cause organiche del vaginismo, invece, se si esclude un trauma o un’infiammazione vaginale ricorrente, sono molto rare. I fattori psicologici più ricorrenti vanno rintracciati soprattutto nel rapporto fra queste donne e la propria madre: in molti casi, infatti, esiste una situazione di dipendenza psicologica della paziente nei confronti della figura materna. In altri casi si possono riscontrare, invece, un’educazione religiosa molto rigida, tentativi di stupro, una scarsa educazione sessuale o una disfunzione erettile del partner.

Terapia
– Terapie mediche
Le terapie mediche sono indicate solo quando la dispareunia o il vaginismo sono di origine organica. In questi casi, a seconda che di tratti di stati infiammatori, di malformazioni o di traumi vaginali, potrà rivelarsi utili un trattamento farmacologico adeguato o un intervento chirurgico mirato alla risoluzione del problema.

– Le psicoterapie
Il tipo di psicoterapia più indicata dipenderà dalle specifiche cause del sintomo e dalle caratteristiche peculiari della paziente o della coppia. Le psicoterapie che, in generale, sono risultate più efficaci sono:
a) le terapie del come (cognitivo-comportamentali)
b) le terapie del perché (di tipo psicoanalitico)
c) le terapie della comunicazione di coppia
d) le terapie corporee
e) la terapia sessuale di Masters e Johnson o quella integrata di Helen Kaplan
f) la terapia strategica

La risposta sessuale maschile di Nada Loffredi

Che cosa accade esattamente nel corpo di un uomo durante l’attività sessuale? Cosa succede realmente in quei momenti così magici e appassionati?
Scoprite tutto ciò che è necessario sapere sul ciclo della risposta sessuale maschile…

  • Fase del desiderio
  • Fase dell’eccitazione
  • Fase di Plateau
  • Fase dell’orgasmo
  • Fase di risoluzione
  • Fase refrattaria

FASE DEL DESIDERIO
Il desiderio, che si manifesta in maniera molto simile nell’uomo e nella donna, può essere definito come uno stato di tensione emotiva che porta a cercare di raggiungere l’oggetto del proprio interesse o del proprio amore. Questo stato emotivo rimane però, per così dire, un’esperienza psicologica. Ci si sente coinvolti e ‘spinti’ verso l’altra persona, ma è assente qualunque manifestazione fisiologica. Gli organi genitali, in questa fase, non subiscono alcuna variazione visibile.

FASE DELL’ECCITAZIONE
Il ciclo della risposta sessuale maschile può essere innescato da una stimolazione fisica, psicologica oppure da entrambe. Inizia, così, la cosiddetta fase di eccitazione, che può durare da pochi minuti ad alcune ore secondo il tipo di uomo o la particolare situazione.
Alcune stimolazioni fisiche possono essere, ad esempio, i baci, le carezze, le stimolazioni dirette sui genitali o sul resto del corpo, mentre gli stimoli di tipo psicologico sono generalmente rappresentati da ricordi di incontri sessuali passati o da fantasie erotiche.
Quando un uomo è eccitato il sangue si concentra in alcune zone del corpo (fenomeno che viene definito ‘vasocongestione’), producendo l’erezione del pene e dei capezzoli, l’elevazione del sacco scrotale e il rigonfiamento dei testicoli.
Così come le donne, anche gli uomini in questa fase subiscono un aumento del battito cardiaco, della pressione sanguigna e della tensione muscolare.

FASE DI PLATEAU
Se la stimolazione continua l’uomo entrerà nella fase di plateau, che può durare un tempo variabile a seconda del tipo di stimolazioni e delle preferenze individuali (molti uomini amano prolungare questa fase e godere delle intense sensazioni che l’accompagnano).
In questa fase il livello di eccitazione diventa sempre più elevato e aumenta progressivamente il battito cardiaco, la pressione del sangue, il respiro e la tensione muscolare. Anche il flusso del sangue aumenta, producendo un ulteriore ingrossamento del pene e dei testicoli che possono aumentare fino al 50% oltre le loro dimensioni normali.
La ghiandola della prostata si ingrandisce, mentre le piccole ghiandole di Cowper rilasciano alcune gocce di fluido pre-eiaculatorio, una sostanza chiara e lubrificante che viene secreta dalla punta del pene (questo liquido pre-eiaculatorio può anche contenere alcuni spermatozoi rimasti vivi dopo un’eiaculazione precedente e fecondare la donna).
Molti uomini manifestano anche un arrossamento della pelle soprattutto nella zona toracica.

FASE DELL’ORGASMO
L’orgasmo consiste nella liberazione di tutta la tensione sessuale accumulata durante le fasi precedenti e provoca molte modificazioni fisiologiche.
In realtà nessuno sa con certezza come il sistema nervoso o i sistemi biochimichi inneschino il riflesso dell’orgasmo; quel che è certo è che sia i fattori fisici che psicologici giocano un ruolo importante. Un’altra cosa interessante è che la stimolazione fisica dei genitali non è sempre necessaria: alcune persone riescono a raggiungere l’orgasmo concentrandosi semplicemente sulle proprie fantasie erotiche.
Nell’uomo le sensazioni orgasmiche si focalizzano generalmente sul pene. L’eiaculazione è accompagnata da contrazioni ritmiche delle vescicole seminali, dei vasi deferenti, della prostata e dei dotti eiaculatori. Esse spingono il seme nell’uretra poco prima dell’eiaculazione e, quando questa avviene, coinvolgono l’intero canale uretrale che espelle il seme fuori dal corpo. Le prime contrazioni sono più potenti e ravvicinate, mentre le altre sono più deboli e distanziate. Durante questa fase si verificano anche contrazioni dello sfintere anale e dei muscoli del pavimento pelvico.
Diversamente dalle donne, gli uomini percepiscono, a un certo momento, quella che viene definita fase di ‘inevitabilità eiaculatoria’. Pochi secondi prima dell’orgasmo c’è un istante in cui l’uomo percepisce l’imminenza dell’eiaculazione e sa che, qualunque cosa accada, non riuscirà più a fermarla.
L’orgasmo, generalmente, oltre a provocare sensazioni molto intense e piacevoli, è accompagnato anche da un leggero obnubilamento della coscienza e da una temporanea perdita di percezione del mondo circostante.

FASE RI RISOLUZIONE
Durante la fase di risoluzione il corpo dell’uomo ritorna ad uno stato rilassato e privo di eccitazione. Il sangue che riempiva gli organi genitali drena rapidamente e il pene ritorna allo stato flaccido.
I testicoli scendono nuovamente e riassumono le loro normali dimensioni; diminuisce prograssivamente la tensione muscolare e l’eventuale rossore della pelle inizia a scomparire. Anche il respiro, il battito cardiaco e la pressione sanguigna ritornano ai livelli normali.

FASE REFRATTARIA
Le fasi del ciclo della risposta sessuale sono simili negli uomini e nelle donne, con un’eccezione: subito dopo l’orgasmo e la fase di risoluzione l’uomo entra nel cosiddetto periodo ‘refrattario’.
In questo lasso di tempo nessuna stimolazione potrà produrre un ulteriore orgasmo.
Nei ragazzi più giovani il periodo refrattario dura solitamente pochi minuti mentre negli uomini più anziani può durare alcune ore o anche giorni. Le donne, diversamente dagli uomini, non hanno un vero e proprio periodo refrattario ed è per questo che possono raggiungere diversi orgasmi in successione.
Chiaramente, non tutti i rapporti devono necessariamente culminare nell’orgasmo. L’apice del piacere non dovrebbe mai essere visto come un traguardo: molto meglio abbandonarsi al piacere che ogni momento del rapporto erotico dà, concentrarsi anche sulla più lieve sensazione, e non pensare mai a quello che succederà un secondo dopo. L’ideale è iniziare a fare l’amore solo proponendosi di vivere un momento di gioco, di scoperta, di scambio: il resto, il più delle volte, viene da sé.

Tenerezza contro virilità di Willy Pasini

La tenerezza è un sentimento autentico di partecipazione rispetto ai bisogni dell’altro e si sviluppa molto precocemente, durante le primissime interazioni fra madre e bambino. E’ proprio la disponibilità e la capacità di condivisione di questo sentimento da parte delle figure significative che favorisce, nell’età adulta, l’intimità di coppia, fatta di calore, fiducia e continuità.

Nonostante la tenerezza sembra essere una delle caratteristiche più apprezzate dalle donne, accanto alla affidabilità e al senso dell’umorismo e, anche se la rigida ripartizione dei ruoli fra maschi e femmine, nella società attuale, è andata via via attenuandosi, non si è ancora arrivati, purtroppo, a una piena interscambiabilità di ruoli.

Molti uomini mantengono un grave senso di pudore nel manifestare sentimenti come la tenerezza perché, essendo stati educati in modo tradizionale e stereotipato, ritengono che questo genere di sentimenti sia associato alla debolezza.

Permane lo stereotipo secondo cui la donna viene associata al binomio “tenerezza-debolezza” e l’uomo al binomio forza- fierezza.

 

Dunque, la tenerezza e la virilità potranno mai coesistere?

Sembrerebbe proprio di sì. Alcuni ricercatori dell’università di Manchester hanno evidenziato come i soggetti maschi più inclini alla pazienza, alla tenerezza e alla riflessione hanno anche livelli di testosterone più elevati della media.

Questo fenomeno può essere spiegato dall’ottima capacità di adattamento caratteristica degli esseri umani che, pur di preservare la continuità della specie, sostituiscono pian piano certi comportamenti con altri che risultano più funzionali. E’ come dire che, per continuare ad avere la loro preda, gli uomini abbiano dovuto impegnarsi e imparare la manifestazione della tenerezza…

Oggi che, dalla coppia, non ci si aspettano più certezze materiali, ma garanzie affettive ed esistenziali, il mito dello “sciupafemmine bello e impossibile”, sta perdendo man mano il suo fascino anche e soprattutto perchè, spesso, alla base di questo tipo di scelta, veniva soddisfatta più l’esigenza esibizionistica che quella relazionale.

Le donne, oggi, chiedono al proprio uomo condivisione, progettualità e fiducia, componenti fondamentali della tenerezza.

La tenerezza, però, può essere “strumentalizzata” inconsciamente per coprire altri tipi di sentimenti meno nobili: a volte serve a coprire una certa difficoltà di espressione della sessualità all’interno della coppia. Altre volte la tenerezza giustifica una vera e propria incapacità di separarsi in modo efficace e maturo e senza provare “angosce abbandoniche”. L’eccesso di tenerezza, infine, può produrre legami soffocanti e apparentemente non conflittuali, dietro ai quali si cela una aggressività ingestibile da parte di uno o entrambi i partner. Quest’ultimo è il genere di coppia che, durante la psicoterapia, tende a fuggire nel momento in cui emerge, inevitabilmente, una certa quota di aggressività. Per costoro, infatti, la tenerezza serve proprio ad evitare la sana conflittualità.

Biografia di Carl R. Rogers

CARL RANSOM ROGERS nacque ad Oak Park, Illinois, l’8 gennaio 1902 da una famiglia benestante, numerosa e di rigida osservanza fondamentalista. Lo stile di vita e i principi familiari  ricalcavano, senza troppo discostarsene, il rigore e l’austerità dei Padri Pellegrini che tre secoli innanzi avevano fondato le prime colonie in terra americana. Di questa visione del mondo erano parte integrante: la morale calvinista della responsabilità personale non mediata; la fiducia nella possibilità, concessa ad ogni essere umano, di realizzarsi nella vita; lo spirito di completa uguaglianza nei
rapporti: da qui il rispetto profondo per l’altro, il cui punto di vista è importante al pari del nostro e decisivo nelle scelte che lo riguardano. Tali convinzioni, precocemente assorbite, determinarono gli interessi teologici del giovane Rogers e in seguito ne avrebbero informato l’opera teorica.

Dopo la laurea, egli frequenta l’Institute for Child Guidance, di impostazione psicoanalitica, e consegue il dottorato in psicologia clinica alla Columbia University, studiando con W. Kilpatrik, a sua volta allievo del filosofo J. Dewey.

Grande sarà l’influenza del pragmatismo sul pensiero di Rogers: i rigidi principi assorbiti dalla famiglia verranno stemperati in una visione progressista, dinamica e gli interessi filosofico-religiosi affiancati dalla fiducia nel metodo specifico.

Nel 1924 Carl sposa Helen Elliott; dal matrimonio nasceranno due figli, David e Natalie. Per dodici anni, dal 1928 al 1939, Rogers rimane al Child Study Department di Rochester, nello stato di New York. All’inizio egli imposta il lavoro in modo tradizionale: raccoglie le anamnesi, somministra i test, conduce i colloqui secondo un approccio prescrittivo ed impersonale ma ben presto è deluso dai risultati e il contatto con una realtà umana e sociale difficile lo induce ad abbandonare il ruolo dell’esperto e a prediligere il “semplice” ascolto, seguendo i pazienti là dove i loro discorsi li conducono (Rogers, 1980; Raskin, Rogers, 1989). In questo mutamento di rotta egli trova conferme e stimoli nelle teorie di Otto Rank che conosce sia direttamente sia attraverso gli allievi F. Allen e J. Taft.

Alla fine degli anni di Rochester, Rogers condensa le sue recenti acquisizioni nel primo dei suoi libri: “The Clinical Treatment of the Problem Child” (1939), che gli vale una certa notorietà nell’ambiente accademico e, di conseguenza, una cattedra di psicologia clinica all’università dell’Ohio, dove tiene un corso pionieristico di psicoterapia.

L’anno seguente, il suo intervento ad un congresso all’università del Minnesota può considerarsi il manifesto del nuovo approccio: Rogers delinea un nuovo tipo di terapia, il cui obiettivo non è quello “di risolvere un particolare problema, ma di aiutare l’individuo a crescere, cosicchè egli possa far fronte ai problemi attuali e futuri in modo più integrato […] In secondo luogo, questa nuova terapia mette in rilievo maggiormente gli aspetti emozionali […] che quelli intellettuali. In terzo luogo […] si concentra sulla situazione attuale piuttosto che sul passato dell’individuo […]
Infine […] pone l’accento sulla relazione terapeutica stessa come esperienza di crescita” (Kirschenbaum, 1979, pag.113).

Questa terapia è radicata nel lavoro di Rank, Taft e Allen, in quello degli analisti neofreudiani, in particolare di Karen Horney, nella play therapy e nella terapia di gruppo. Sulla scia delle polemiche suscitate da questa presa di posizione, Rogers scrive la prima grande opera teorica “Counselling and Psychotherapy” (1942) che contribuisce, insieme a “The Art of Counselling”di Rollo May (1939), a gettare le basi del movimento umanistico (Yalom, 1995).

Ma la novità più importante di questo libro è senza dubbio di tipo epistemico: per la prima volta nella storia della psicoterapia vengono registrate al magnetofono e pubblicate integralmente le sedute di una intera, seppur breve, psicoterapia.

Fino a quel momento ciò che avveniva durante il colloquio non era disponibile ad una indagine obiettiva, avendo quale unico riscontro i ricordi o gli appunti del terapeuta. Il caso di Herbert Bryan invece introdusse la psicoterapia in un ambito pienamente scientifico e inaugurò un’entusiasmante stagione di ricerche che vide Rogers e il suo gruppo fra i più attivi.

Nel 1945 egli si trasferisce all’università di Chicago dove rimane dodici anni, creando un Counselling Center che presto diverrà uno dei più noti per la psicoterapia e la ricerca.

Nel 1951 esce “Client-centered Therapy”, che amplia e perfeziona, da un punto di vista fenomenologico, i principi contenuti in “Counselling and Psychotherapy” e li estende alla terapia di gruppo, al campo educativo, lo sviluppo delle risorse umane e infine, ai contenuti dei corsi di formazione in psicoterapia.

Nel 1957 Rogers ottiene la cattedra di “psicologia e psichiatria” all’università del Wisconsin, diventando così il primo psicologo clinico ad insegnare in un dipartimento di psichiatria. Come abbiamo detto, le sue posizioni si ponevano in radicale scontro con quelle psichiatriche tradizionali, per di più, le sue teorie erano state, fino a quel momento, applicate e verificate prevalentemente su ragazzi difficili, genitori, studenti universitari, insomma su varie tipologie, tranne proprio quelle psichiatriche.

Da qui l’impegno, la “sfida” a verificare se “le tre condizioni necessarie e sufficenti” (che egli aveva definito proprio in un articolo del 1957) fossero efficaci anche nei casi di psicosi; ciò si concretizzò nella lunga e poderosa “ricerca del Wisconsin” con gli schizofrenici cronici del Mendoza State Hospital. I risultati, pubblicati nel volume “ The Therapeutic Relationship and its Impact: A Study of Schizophrenia” (1967), firmato insieme a E. Gendlin, D. Kiesler e C. Truaux, dimostrano in sintesi che le attitudini di empatia e accettazione esplicate dal terapeuta sono davvero correlate al  miglioramento psicologico del paziente, ma soltanto se quest’ultimo riesce a recepirle.

Nel 1964 Rogers rinunciò all’insegnamento universitario e si trasferì al prestigioso Western Behavioural Science Institute di La Jolla, in California. In quegli anni la West Coast era un crogiolo di fermenti e di idee innovative in campo politico, sociale e culturale.

Nel 1962 era stata fondata da A. Maslow la Association of Humanistic Psychology (Buhler, Allen, 1972), in cui si riconosceva la cosiddetta “terza forza” fra psicoanalisi e comportamentismo, formata da studiosi di varia provenienza teorica: oltre a Maslow e a Rogers, ricordiamo G. Allport, R. May, F. Pearls, G. Kelly.

Immerso in questo clima, Rogers vi contribuì applicando il suo approccio all’educazione, al management, ai “gruppi di incontro”, alla comunicazione interculturale, alla filosofia della scienza; ad ognuno di questi argomenti corrisposero ricerche e pubblicazioni.

Nel 1969 Rogers crea, con alcuni colleghi, il Center for the Study of the Person, che diventerà punto di incontro e coordinamento delle varie esperienze di “approccio centrato sulla persona” che stanno sorgendo nel mondo.

Ma il culmine dell’impegno di Rogers è senza dubbio la fondazione, dell’ Institute for Peace, per lo studio e la risoluzione dei conflitti. Insieme a numerosi collaboratori egli faciliterà grandi gruppi d’incontro fra cattolici e protestanti a Belfast, fra rappresentanti dell’Europa dell’Est e dell’Ovest, fra neri e bianchi in Sud Africa, fra capi di stato e diplomatici dell’America Centrale ed esponenti del governo degli Stati Uniti. Ciò gli varrà la candidatura al premio Nobel per la pace.

Fino a pochi giorni prima della morte, il 7 febbraio 1987, Rogers lavora con l’exallievo e collaboratore N. Raskin alla stesura del capitolo sulla client-centered therapy, pubblicato postumo nella raccolta di Corsini e Wedding (1989), che costituisce il suo testamento spirituale.

Carl Rogers: un terapeuta verbale centrato sul corpo

Peter S. Fernald

University of New Hampshire

…..la psicoterapia è un processo per mezzo del quale l’uomo diventa il proprio organismo – senza inganno, senza distorsioni….. (Essa) pare che significhi un ritorno ai fondamenti dell’esperienza sensoriale e viscerale (Rogers, 1961, p.103).

Circa quaranta anni fa, mentre seguivo un corso di laurea, venni a conoscenza dell’approccio centrato sul cliente di Carl Rogers. Rimasi profondamente commosso dalle parole di Rogers. In seguito mi iscrissi ad un programma di dottorato molto più eclettico che poneva l’enfasi sulla psicodinamica, sull’apprendimento sociale e sugli approcci esistenziali. Non tornai sugli scritti di Rogers se non venti anni dopo quando per la prima volta mi trovai ad insegnare un corso di counseling. Ancora una volta gli scritti di Rogers ebbero un forte impatto su di me. Questa volta le sue parole apparivano più come poesia che non come prosa, una poesia che suscita significati nuovi e una comprensione più profonda ad ogni lettura.

Tuttavia, soltanto di recente sono riuscito ad apprezzare e a comprendere ancora più pienamente le idee di Rogers. Credo che la mia comprensione più grande e più accurata dei suoi scritti sia derivata dai miei studi e dalla mia formazione nell’analisi bioenergetica, una forma di psicoterapia che si focalizza sulla relazione corpo-mente (Lowen, 1975,1980,1990).

Ponendo l’enfasi sul corpo, l’analisi bioenergetica mi indusse a vedere l’approccio di Rogers da una prospettiva diversa, una prospettiva che dà pieno riconoscimento all’esperienza organismica. La mia tesi è che l’esperienza organismica è uno, se non il più importante e fondamentale costrutto dell’approccio centrato sulla persona di Rogers. Come suggerisce il titolo di questo scritto, penso che l’intenzione primaria di Rogers come counselor o terapeuta fosse quella di facilitare il cliente ad essere più in contatto con il proprio corpo. Nel tentativo di dimostrare la mia tesi farò riferimento a quattro argomenti:

  1. le questioni fondamentali attinenti allo studio della personalità e/o della psicoterapia;
  2. le descrizioni di Rogers dei momenti e delle dimensioni del cambiamento in psicoterapia;
  3. alcune analogie tra Rogers e Wilhelm Reich, il nonno della psicoterapia centrata sul corpo;
  4. le varie attività di Rogers durante una seduta di terapia.

Domande fondamentali per una teoria della personalità

Cinque domande a cui qualunque sistema di personalità e/o di psicoterapia deve far riferimento sono presentate nella Tavola 1. Per scopi illustrativi la Tavola 1 include anche risposte brevi a domande poste da una prospettiva freudiana. Le domande riguardano i seguenti argomenti: struttura, motivazione, crescita, psicopatologia e cambiamento. Facendo riferimento a ogni domanda dimostrerò che l’esperienza organismica è uno, se non il costrutto fondamentale dell’approccio centrato sulla persona di Carl Rogers (Rogers, 1951, 1961, 1980a).

 

La struttura

Rogers postula due “strutture” o processi, l’esperienza organismica e il sé. L’esperienza si riferisce a qualsiasi cosa che è potenzialmente disponibile per la consapevolezza che si verifica all’interno dell’organismo ad ogni dato momento. Questa esperienza include sia processi consci (simbolizzati), sia processi inconsci (non simbolizzati). L’esperienza organismica, dunque, include tutte le esperienze sensoriali consce ed inconsce.

Il sé si riferisce a quella parte dell’esperienza organismica che si differenzia e che contiene il senso di “io” e di “me”. La differenziazione si riferisce alle percezioni di “io” o “non io” e a quelle di “me” o “non me”.

Rogers descrive due tipi di differenziazione, uno che include l’identificazione di se stessi come esseri fisici differenti da altre entità fisiche. Per esempio, il bambino che succhia alternativamente il proprio pollice e il seno della madre, impara presto che il pollice è “me” mentre il seno è “non me”. Questa differenziazione fisica ha luogo presumibilmente molto presto nella vita ed è non-verbale.

Un secondo tipo di differenziazione ha luogo internamente. Il processo è simile a quello appena descritto. Di conseguenza, alcune esperienze organismiche vengono identificate come “io” e “me”; altre sono relegate al non conscio, al “non io” e al “non me”. Prendiamo ad esempio il bambino a cui viene detto “I bambini forti non piangono!”. L’esperienza organismica collegata alla rabbia si identifica come “me”, mentre quelle della tristezza e del dolore si identificano come “non me”.

In sintesi, le due strutture o processi basilari  nell’approccio centrato sulla persona di Rogers sono l’esperienza organismica e il sé. Dal momento che il sé deriva dall’esperienza organismica, quest’ultima è al contempo fondamentale e primaria.

 

La motivazione

Cos’è che dà energia e dirige il comportamento umano? Rogers fornisce una risposta semplice e diretta a questa domanda: la tendenza attualizzante.

C’è un’unica fonte centrale di energia nell’organismo umano. Questa fonte è una funzione fidata dell’intero organismo piuttosto che una parte di esso; è più semplicemente concettualizzata come una tendenza verso la realizzazione,  verso l’attualizzazione, includendo non solo il mantenimento ma anche l’accrescimento dell’organismo (Rogers, 1980a, p.123).

Qui è bene notare che Rogers avrebbe potuto usare le parole “essere umano”, “individuo” oppure “persona”; invece egli fa riferimento all’ ”organismo umano” o semplicemente “organismo” che suggerisce un legame stretto tra la tendenza attualizzante e il corpo.

Rogers postula anche il bisogno di riconoscimento positivo che è al contempo universale (presente in tutti) e costante. Il riconoscimento positivo riguarda il calore, la cura, il rispetto, e la comprensione. Uno sviluppo sano richiede che le persone significative abbiano queste qualità. Tuttavia, sorge un problema con il riconoscimento positivo, in particolare, cioè che il riconoscimento espresso da una persona significativa può diventare più impellente dell’esperienza organismica. Ecco quando le condizioni di valore entrano in gioco.

 

La crescita

Le condizioni di valore si riferiscono ad attitudini che sono condizionali – ad esempio, giudicanti, valutative e critiche. Il concetto di sé di un bambino emerge attraverso l’interazione con le persone significative che mantengono e sposano le condizioni di valore. Di conseguenza, i diversi valori positivi e negativi sono attaccati alle percezioni di sé del bambino, e le esperienze organismiche sono differenziate in quanto degne di valore (approvate) oppure no (disapprovate). Il bambino agisce in modo tale da aumentare le prime, negando, minimizzando o distorcendo le seconde che necessitano di una spaccatura tra l’esperienza organismica e il sé.

In condizioni ideali, il bambino, sentendosi pienamente apprezzato, non introietta condizioni di valore. I suoi sentimenti sono completamente accettati e rispettati da chi ha cura di lui, sebbene certi comportamenti non siano permessi.

L’attitudine genitoriale, teoricamente parlando, potrebbe essere una cosa di questo genere: “Sei arrabbiato. Vedo che prendere a calci tua sorella (oppure fare pipì dove e quando vuoi) ti fa sentire così tanto soddisfatto. Desidero davvero che tu abbia questi sentimenti e ti voglio bene. Anche io, però, ho i miei e mi sento turbata e sconvolta quando tua sorella si fa male (o quando devo pulire dopo che hai sporcato)”. L’esperienza organismica del bambino e dei genitori è molto importante (Rogers, 1959).

E’ un bambino unico e fortunato quello che riceve il riconoscimento positivo incondizionato (ad esempio, senza condizioni di valore) dalle persone significative.

Nella situazione ideale nessuna esperienza organismica viene considerata cattiva né tantomeno se ne nega la consapevolezza. Il concetto di sé del bambino include tutta l’esperienza organismica. Un bambino del genere diventa un adulto sano, pienamente funzionante.

 

La psicopatologia

La circostanza più comune è quella in cui sono presenti le condizioni di valore, spesso perfino onnipresenti. Una circostanza del genere è terreno fertile per lo sviluppo della disfunzione di personalità.

Nell’essere umano….. la potenzialità per la consapevolezza del funzionamento può andare così tenacemente storta da rendere una persona veramente estraniata dall’esperienza organismica. Si può diventare autolesionistici, come nella nevrosi; incapaci di affrontare la vita, come nella psicosi; infelici e divisi, come nei malaggiustamenti che hanno luogo in ciascuno di noi. Perché questa divisione? Come può essere che una persona lotti consapevolmente per uno scopo, mentre tutta la sua direzione organica è in contrasto con questo? (Rogers, 1977a, p.244).

La risposta di Rogers a questa domanda ha a che fare con le condizioni di valore, evidenti in affermazioni del tipo: “Non essere così spaventato”, “Fai la faccia felice” e “I bambini non piangono”. Attraverso queste condizioni di valore, i genitori e la cultura premiano comportamenti che sono perversioni delle direzioni naturali della tendenza attualizzante. L’individuo diventa alienato dall’esperienza organismica, comportandosi consciamente in termini di costrutti introiettati e rigidi (ad esempio, le condizioni di valore) che definiscono il proprio concetto di sé e inconsciamente in termini di tendenza attualizzante.

Rogers evita le classificazioni complesse di psicopatologia, come quelle incluse nelle varie edizioni  del Diagnostics and Statistics Manual. Infatti, egli credeva che la diagnosi di qualsiasi genere non solo fosse inutile, ma anche insensata e di frequente dannosa. Perfino una “diagnosi” disattenta come quella implicita in un’affermazione come questa: “Mi domando se questo sia il momento migliore per muoverti”, Rogers credeva potesse minare la fiducia nell’esperienza organismica e, in definitiva, il progresso in terapia.

Questo è così perché qualunque affermazione che contenga perfino una valutazione implicita del cliente designa il terapeuta come l’esperto, come colui che sa. Il locus della valutazione, quindi, è nelle mani del terapeuta, minando in tal modo la presa di responsabilità da parte del cliente per la comprensione e la risoluzione delle proprie difficoltà e delle proprie lotte. Per Rogers, la  diagnosi è appropriata solo quando è basata sull’esperienza organismica del cliente, non sull’intelletto del terapeuta (Rogers, 1951).

 

Il cambiamento

Un’affermazione chiara della prospettiva di Rogers su come avviene il cambiamento è evidente nella sua ipotesi fondamentale che consiste in tre parti: (in corsivo nel testo): se riesco a stabilire un certo tipo di relazione, l’altra persona scoprirà in se stessa la capacità di utilizzare la relazione per la crescita e in tal modo si avrà lo sviluppo personale (Rogers, 1951, 1961). Il tipo di relazione che include le tre qualità per le quali l’approccio centrato sulla persona è ben conosciuto – empatia, riconoscimento positivo incondizionato, genuinità – viene analizzata qui di seguito. La capacità di utilizzare la relazione per la crescita, che fa riferimento alla tendenza attualizzante, è stata sopradescritta sotto la questione della maturazione.

La nostra attenzione qui è concentrata sulla terza parte dell’ipotesi, vale a dire sullo sviluppo personale. I cambiamenti della personalità hanno luogo quando un individuo, sperimentando le tre qualità appena menzionate, permette alle forze attualizzanti di avere il sopravvento.

L’apprendimento che si verifica attraverso le forze attualizzanti è “…. totale, organismico, spesso non di tipo verbale….” (Rogers, 1961, p.86). La negazione e la distorsione  dell’esperienza diminuiscono al punto che il sé e l’esperienza organismica diventano una sola identica cosa. Con poca o nessuna censura di autofiltro concettuale, la persona diventa il completo potenziale dell’organismo umano, includendo l’assoluta consapevolezza di reazioni basilari sensoriali e viscerali.

La persona giunge ad essere quello che è, così come spesso dicono i clienti in terapia. Ciò che questo sembra intendere è che l’individuo arriva ad essere – nella consapevolezza – quello che è – nell’esperienza …..in altre  parole, un organismo umano pienamente funzionante (Rogers, 1961, pp. 104-105).

Vediamo di nuovo e riassumiamo brevemente la risposta a ciascuna delle cinque domande.

Quali sono le strutture fondamentali della personalità? Risposta: L’esperienza organismica e quella parte dell’esperienza organismica chiamata “sé”.

Cos’è che dà energia e dirige il comportamento umano? Risposta: La tendenza attualizzante, “la fonte centrale di energia nell’organismo umano”.

Come si sviluppa la personalità? Risposta: Il potenziale umano si realizza (ad esempio, la personalità è pienamente funzionante) fino a che l’esperienza organismica non viene più né negata né distorta.

Quali sono le varie cause di disfunzione della personalità? Risposta: La disfunzione della personalità si verifica ogniqualvolta le condizioni di valore provocano “estraniazione” dall’esperienza organismica”.

Come si modifica la disfunzione della personalità? Risposta: Quando certe condizioni (empatia, riconoscimento positivo incondizionato, genuinità) sono presenti, le forze attualizzanti prendono il sopravvento, la negazione e le distorsioni dell’esperienza diminuiscono e la persona arriva ad essere nella consapevolezza quello che è nell’esperienza, più precisamente un organismo umano pienamente funzionante.

La risposta a ogni domanda fa riferimento in maniera chiara e diretta all’organismo, ovvero compatibilmente con la mia tesi, al corpo.

 

Il Processo di Cambiamento in Psicoterapia

L’essenza della psicoterapia è il cambiamento. Abbiamo già accennato brevemente all’argomento. Ora consideriamo il processo con maggiori dettagli, focalizzandoci sui momenti e sulle dimensioni di cambiamento così come descritti da Rogers.

Momenti di cambiamento

Rogers pensava di poter riconoscere i “momenti di movimento”, quegli esempi in cui il cambiamento avveniva realmente. Un momento del genere riguardava un giovane che desiderava la scomparsa o addirittura la morte dei propri genitori (Rogers, 1961, p.148).

Cliente: “E’ come se desiderassi la loro scomparsa, il desiderio che non ci siano mai stati….. Ed io mi vergogno così tanto di me stesso perché a quel punto mi chiamano e io vado fuori – swish! In qualche modo sono ancora così forti. Non lo so. Esiste qualche ombelicale – posso quasi sentirlo dentro di me – swish (gesticola, si spoglia e afferra il suo ombelico)”.

Terapeuta: “Hanno ancora controllo sul tuo cordone ombelicale”.

Cliente: “E’ strano come sembra reale….. E’ come una sensazione bruciante, una sorta, e quando dicono qualcosa che mi mette ansia lo sento proprio qui (indicando). Non ci ho mai pensato in quel modo”.

Terapeuta: “Come se esistesse un qualcosa che disturba la relazione tra voi, allora tu senti questa cosa come se fosse uno strappo sul tuo ombelico”

Cliente: “Si, proprio così qui nell’intestino. E’ davvero duro definire la sensazione che sento qui”.

Un altro momento di movimento avviene in un uomo che esplora alcuni sentimenti, in precedenza non riconosciuti, di paura, di bisogno e di solitudine, che improvvisamente evolvono in un intenso responso fisico simile ad una preghiera o ad una supplica (Rogers, 1961, p.149).

Cliente: “Ho una sensazione di – è come un bambino piagnucoloso. E’ questo gesto da mendicante. (Alza le mani come in preghiera).

Terapeuta: “Metti le mani come in una sorta di supplica”.

Cliente: “Si, è vero. Una specie di: ‘farai questo per me?’. Oddio è terribile! Chi, io? Mendicare? ….. E’ un’emozione che non ho mai provato chiaramente – qualcosa che non sono mai stato – (Pausa) ….. è un sentimento talmente confuso. E’ una sensazione talmente meravigliosa quella di far venir fuori queste cose nuove. Ogni volta mi sorprendono così tanto, e c’è quello stesso sentimento, la paura, ne ho abbastanza (Lacrime) ….. semplicemente non conosco me stesso. All’improvviso ecco qualcosa che non avevo mai realizzato, di cui non avevo mai avuto alcun sentore – che era qualcosa o un modo che volevo essere”.

I momenti di cambiamento implicano sempre il corpo, poiché hanno, secondo le parole di Rogers, “ovvie concomitanze fisiche” (Rogers, 1961,, p.130). Queste ultime implicano tipicamente un allentamento fisiologico, ad esempio, gli occhi lucidi, lacrime, singhiozzi, sospiri e rilassamento muscolare. Per gli individui descritti sopra, l’allentamento fisiologico avveniva sotto forma di uno strappo bruciante sull’ombelico e come esperienza corporea di paura e di supplica improvvisamente emersa nella consapevolezza. Rogers pensava che nel corso di una terapia riuscita l’allentamento fisiologico avvenisse in tutto l’organismo. Rifletteva che se venivano adottate misure appropriate, si sarebbe potuto osservare un miglioramento sia nella circolazione sia nella conduttività degli impulsi nervosi. (Rogers, 1961).

Un individuo successivamente può prendere le distanze da un momento di movimento, come appare chiaro dall’affermazione riportata sopra, “Chi, io? Mendicare?”. Ma, come sottolinea Rogers, un momento del genere è irreversibile, significa che una volta avuta un’esperienza di questo tipo questa è disponibile per riferimenti futuri. I sentimenti e i significati attribuiti alle sensazioni provate durante un momento di movimento in seguito possono spostarsi. Ciononostante, un momento di movimento fornisce un punto di riferimento, “un evento fisiologicamente preciso” (Rogers, 1961, p.150) a cui l’individuo può tornare di continuo finché non è soddisfatto esattamente di quello che l’esperienza significa per lui – oppure come affermato altrove – finché l’esperienza non viene pienamente integrata nella consapevolezza.

Dimensioni del cambiamento

Nella concezione del processo di psicoterapia, Rogers descrive minuziosamente varie dimensioni di crescita: apertura all’esperienza, locus di valutazione interno piuttosto che esterno, volontà di essere un processo, sperimentare se stessi come soggetti più che come oggetti, e fiducia nel proprio organismo (Rogers, 1961). Rogers non afferma in modo esplicito che una dimensione è più importante di un’altra. Le sue discussioni sulle dimensioni, tuttavia, suggeriscono che la fiducia nel proprio organismo è un, se non il, processo, centrale e generico che include tutte le altre.

Per esempio, dal momento che tutta l’esperienza ha una base organismica, l’apertura all’esperienza implica la fiducia nell’organismo. Analogamente, un locus interno di valutazione implica sempre un senso organismico di base di soddisfazione e/o insoddisfazione. Poiché tutti gli organismi esistono in un continuo processo di cambiamento attimo per attimo, la fiducia nel proprio organismo indica la volontà di essere un processo. Infine, in quei momenti in cui si ha pienamente fiducia e si accetta l’esperienza organismica, si sperimenta se stessi come soggetti non come oggetti. Nei casi sopra menzionati, ad esempio, sarebbe sbagliato dire che lo strappo all’ombelico e il sentimento di supplica erano percepiti, come un’affermazione del genere suggerisce, come sentimenti oggetto. In questi momenti esistenziali, non si fa esperienza. Invece, fidarsi del proprio organismo, si è l’esperienza. E, di conseguenza, il sé è soggetto, non oggetto.

Vedo risultati costruttivi in terapia …..possibili solo in termini dell’individuo umano che è arrivato a dare fiducia alle proprie direzioni interiori, e la cui consapevolezza è parte integrante del processo naturale del suo funzionamento organico .…. il funzionamento dell’individuo psicologicamente maturo è simile per molti versi a quello del bambino, ad eccezione del fatto che il processo fluido dell’esperienza ha più campo d’azione e una portata maggiore, e l’individuo maturo, come il bambino, ha fiducia e usa la saggezza del suo organismo con la differenza che lo fa in modo consapevole (Rogers, 1977a, p.248).

Riassumendo, i momenti di cambiamento che hanno luogo nel corso della psicoterapia hanno una base fisiologica, e la direzione fondamentale del cambiamento è verso la fiducia crescente nell’organismo. Ancora una volta l’enfasi di Rogers sul corpo appare evidente.

 

Reich e Rogers

Nel fare un caso di Carl Rogers psicoterapeuta centrato sul corpo, è opportuno confrontare le sue idee sulla natura umana con quelle di Wilhelm Reich, il nonno della psicoterapia orientata sul corpo. Sebbene Rogers fosse nato soltanto nove anni dopo Reich, in apparenza sembra che l’uno non abbia letto il lavoro dell’altro e viceversa, né che se ne facciano riferimenti di qualche sorta. Ciononostante, i loro scritti sulla natura umana, sulla scienza e sulla natura dell’universo sono marcatamente simili (Davis, 1997). Allo stesso modo lo sono le rispettive visioni della società e anche le ricette per muoversi oltre la nevrosi individuale e di gruppo verso una vita piena (Reich, 1948, Rogers, 1977).

Tra i numerosi contributi importanti di Reich, forse il più significativo riguarda la sua obiezione all’istinto di morte di Freud. Reich credeva che il fondamento della natura umana fosse uno slancio innato verso la vita e verso tutto quello che è positivo. Scrive, “Sotto questi meccanismi nevrotici, dietro tutte queste fantasie e impulsi pericolosi, grotteschi e irrazionali, riesco a trovare un pezzettino di natura semplice, decente e pratica” (Reich, 1942, p.148).

Anche Rogers si opponeva alla nozione dell’istinto di morte, e benché rigorosamente coltivata nella tradizione cristiana, egli rifiutava l’idea del peccato originale. Rogers riconosceva la riluttanza ad abbandonare la visione freudiana e cristiana. Pensando alle ragioni della sua riluttanza, egli osserva che in terapia i sentimenti ostili e anti-sociali vengono continuamente scoperti, il che suggerisce che questi sentimenti costituiscano i fondamenti della natura umana. Ma, questi sentimenti, sostiene Rogers, non sono né i più profondi, né i più forti. Il nucleo interiore della personalità umana, sostiene sempre Rogers, “è l’organismo stesso, che è essenzialmente autoconservativo e sociale” (Rogers, 1961, p.92).

Reich distingue tra il carattere nevrotico, il cui comportamento è contro natura e moralisticamente guidato, e il carattere gentile o sano, il cui comportamento è autoregolato e allineato con le funzioni naturali (Reich, 1942). Reich riteneva che il comportamento sano autoregolato fosse raro. Il comportamento nevrotico moralistico era molto più comune, e spesso assumeva una forma collettiva o sociale che Reich chiamava “peste emozionale” (Reich, 1945). Il termine “peste” si riferisce alla natura contagiosa della finzione moralistica, clamorosamente evidente nella patologia sociale o di gruppo come il fascismo nella Germania nazista e l’Inquisizione cattolica nel Medioevo, e meno apparente ma nondimeno sempre presente, nei numerosi gruppi repressivi e nelle istituzioni della società.

Reich era consapevole della diffusa natura sociale della nevrosi. Egli pensava che la maggior parte degli esseri umani fosse prigioniera delle attitudini moralistiche e delle tradizioni sia della società che proprie (Reich, 1948, 1953). La sua più accesa speranza era quella di liberare gli uomini e le donne dal fascismo morale.

Reich era acutamente consapevole delle pratiche costrittive della vita, della politica e dell’educazione del suo tempo. Egli credeva nelle capacità autoregolanti dell’organismo umano, e faceva quello che poteva per eliminare pratiche e politiche repressive che minavano l’autoregolazione. Uno di questi sforzi includeva il suo lavoro nell’igiene sessuale nelle lezioni di medicina clinica dove affermava sia il bisogno degli adolescenti di masturbarsi, sia il loro diritto a conoscere e ad ottenere contraccettivi. Reich era molto interessato all’educazione dei giovani in una maniera che affermasse la vita, una maniera che sostenesse la loro capacità innata di autoregolazione. Reich era amico da una vita di A.S. Neill, fondatore e direttore della Summerhill School, molto conosciuta per la sua pedagogia progressiva. Nella scuola di Neill Reich vede l’applicazione dei principi di lavoro democratico e autoregolanti che lui stesso valutava così tanto.

L’autoregolazione è il filo rosso, per usare una sua frase, che corre attraverso il lavoro di Rogers. Infatti, il termine centrato sulla persona significa essenzialmente persona-regolata. Come Reich, Rogers riconosceva la diffusione delle tradizioni sociali e istituzionali che aiutavano e appoggiavano la nevrosi. Egli applicava concetti e principi che aveva scoperto nel suo modo di condurre la terapia in questioni sociali più ampie. L’approccio centrato sullo studente, presentato in Freedom to Learn (Rogers, 1969), un classico nelle scuole di istruzione secondaria, è precisamente equivalente alla pedagogia presentata in Summerhill di Neill.

In uno dei suoi ultimo libri, On Personal Power: Inner Strenght and its Revolutionary Impact, Rogers esamina la politica delle relazioni interpersonali, compresa la politica delle professioni di aiuto, del matrimonio e della società, della famiglia, dell’amministrazione e delle differenze internazionali e interculturali.

In tutto il suo lavoro, il messaggio di Rogers è costante e chiaro. Il nucleo più interno degli esseri umani, l’organismo, è degno di fiducia, positivo, affermazione di vita, sociale, razionale e autoregolante.

Reich e Rogers erano uomini avanti rispetto ai tempi. Entrambi erano rivoluzionari, Rogers un rivoluzionario silenzioso che fu sentito commentare: “Io cammino tranquillamente attraverso la vita”, e Reich, un rivoluzionario non altrettanto silenzioso, che morì nella prigione federale. Supponiamo che Reich non fosse stato avanti rispetto ai suoi tempi. Supponiamo credesse che gli istinti umani fossero malvagi, che gli impulsi sessuali e aggressivi intrinsecamente intrattabili e pericolosi. I suoi sforzi psicoterapeutici, allora, non avrebbero mai concentrato l’attenzione a dissolvere la corazza del corpo, a rilasciare l’energia biologica e ad incoraggiare l’espressione emozionale. Ma questo non era il caso. Reich credeva in una predisposizione umana innata verso il movimento di affermazione della vita, e con questa prospettiva iniziò la psicoterapia orientata sul corpo. Data la visione simile della natura umana di Rogers, non sorprende che il suo approccio centrato sulla persona, inizialmente definito non-direttivo e in seguito centrato sul cliente, sia essenzialmente centrato sul corpo.

 

Rogers come terapeuta

E’ la straordinaria capacità di Rogers di ascoltare empaticamente, la sua volontà a rispondere personalmente e genuinamente, il suo calore e l’attenzione non giudicante, tutto questo credo che susciti la profonda esperienza organismica nei suoi clienti. Credo anche che un aspetto saliente dell’attenzione non giudicante di Rogers (il suo riconoscimento positivo incondizionato), sia la sua riluttanza costante ad offrire interpretazioni o a utilizzare delle tecniche.
Nel tentativo di dimostrare questa affermazione, commenterò un colloquio filmato condotto da Rogers nella metà degli anni ’70.

 

Il caso del Sig.J.

Il colloquio è con il Sig.J., un afro-americano estremamente articolato che ha avuto la leucemia al momento in regressione (Rogers, 1977b). Rogers si incontra con il giovane per una seduta di un’ora per due giorni consecutivi. Durante il corso delle due sedute, il Sig.J. cambia da individuo estremamente loquace, incoerente e sulla difensiva, a uno che trabocca di sentimenti dolorosi e a corto di parole.

Dopo quaranta minuti nella seconda seduta, egli non riesce più a tollerare l’intensità dell’esperienza organismica e chiede di terminarla.

Nella prima seduta il Sig.J. aveva parlato della sua rabbia. Negli estratti seguenti, presi dalla seconda seduta, il Sig.J. inizia a sperimentare questa rabbia.

  1. 11: E non c’è nessuno su cui poter puntare il dito. Non c’è nessuno….. la persona che ha iniziato tutta la cosa, quel processo. Probabilmente sarebbe molto meglio per me, forse cercherei di uccidere quella persona.

Rogers 11: Si. Se tu potessi fissarti su una persona, allora la tua rabbia sarebbe giustificata e potresti davvero dare addosso a quella persona.

  1. 12: Ma come puoi incolpare qualcun altro che è malato? E penso che quelli che fanno questo ad altre persone sono, ….. sono davvero malati….. So che c’è molta rabbia qui. Ma non è nella mia natura arrabbiarmi, eppure lo sono.

Rogers 12: Così ti sento spiegare e rispiegare che “non è nella mia natura arrabbiarmi ….. semplicemente lo sono proprio ora”.

  1. 13: Certo. Arrabbiarsi in modo producente …. Non so come ci si può arrabbiare in modo producente.

L’interesse più grande di Rogers è quello di facilitare l’esperienza organismica. Tuttavia, egli non spinge per una maggiore intensità, né per un tipo particolare di esperienza organismica. Piuttosto, i suoi responsi empatici (11 e 12) riconoscono semplicemente qualunque cosa l’esperienza organismica presenti, inclusi i sentimenti (ad esempio, collera e rabbia) e le inibizioni dei sentimenti (ad esempio, il bisogno di giustificarsi e la natura del Sig. J.). Per Rogers i movimenti organici di contrazione e restrizione non sono meno importanti di quelli di espansione e di rilasciamento. Che i responsi empatici di Rogers seguino le tracce dei movimenti organismici ugualmente in entrambe le direzioni, di apertura e di chiusura, è testimoniato dalla accettazione incondizionata.

Rogers 21: Capisco quello che stai dicendo. E sento anche in maniera abbastanza forte che io voglio dire, “Per  me va bene se ti arrabbi qui”.

  1. 21: Però è duro sapere come arrabbiarsi.

Rogers 22: Certo. Non sto dicendo che devi farlo. Dico solo che per me va bene. Se ti va di arrabbiarti, puoi farlo.

  1. 22: Lo pensi davvero.

Rogers 23: Certo, maledizione! (Lunga pausa. Il cliente sospira)

  1. 23: Non sono affatto sicuro di come rispondere a questa cosa. Perché una parte di quella rabbia è tutto il dolore. Forse quello che sta succedendo è che, se mi arrabbio e vuoto il sacco, allora vedrò veramente come sono ferito. E questo mi è venuto in mente proprio mentre mi parlavi.

Rogers 24: Forse ad un livello più profondo hai paura del dolore che potresti provare se ti abbandoni all’esperienza della rabbia.

Qui, nelle sue prime tre affermazioni (21, 22, 23) vediamo Rogers essere estremamente personale e genuino, vediamo il suo sé trasparente. Le affermazioni bloccano il Sig. J. nei suoi percorsi di rabbia emozionale, catalizzandolo verso un livello più profondo di sentimento, il suo dolore. Di per sé, il responso seguente di Rogers (17) potrebbe apparire come un’interpretazione, invece si tratta semplicemente di una riflessione empatica  su quello che il Sig. J. ha appena detto.

Il Sig. J. continua a riconoscere e ad esplorare il proprio dolore sepolto in profondità.

  1. 31: Vorrei davvero che qualcuno mi dicesse come lasciar venir fuori quel dolore….. in circa 5 minuti e non averci più niente a che fare. Sarebbe come vivere il resto della mia vita in pace. Sai cosa intendo?

Rogers 31: Certo. Sarebbe terribilmente bello se qualcuno potesse dire: “Ora, se fai questo e questo, tutto il tuo dolore verrà fuori, e poi se ne andrà per sempre”.

  1. 32: Altro che!

Rogers 32: Sarebbe grande, no?

  1. 33: Ho il sospetto che tu sappia qualcosa che io non so.

Rogers 33: No. Non ti nascondo nulla.

  1. 34: Si, invece. Credo che….. sembra che io nasconda qualcosa a me stesso.

Qui, di nuovo, Rogers è empatico (31 e 32) e genuino (33). In un altro approccio psicoterapeutico, il responso del terapeuta poteva essere quello di rifugiarsi nel silenzio, l’interpretazione che il Sig. J. non si fida della franchezza di Rogers, o forse l’interpretazione che il Sig. J. pensa che Rogers sappia più di lui che lui stesso di sé. E’ interessante notare che, il responso genuino di Rogers induce il Sig. J. ad una “interpretazione”, un’interpretazione che equivale alla proiezione propria del Sig. J. del “tenere nascosto”.

  1. 41: Il mio corpo deve davvero aver subito dei cambiamenti o qualcosa del genere perché c’è qualcosa proprio qui che lo trattiene, trattiene quel dolore …..e conosco tutte quelle ragioni, ma sembra che non riesca a chiamare a raccolta quel potere di farlo uscire, di farlo veramente…..

Rogers 41: E’ ancora troppo chiuso dentro.

  1. 42: E’ vero. Ma aiuta davvero, perché è incredibile. Questa è la prima volta che parlo ad una persona senza controllo. Per certi versi, ho veramente rinunciato a molto controllo…..

Rogers 42: Come lasciar andare le cose. Piuttosto che tenerle sotto controllo.

  1. 43: Proprio così.

Rogers 32: E’ un’esperienza nuova.

  1. 44: Proprio un’esperienza nuova per me. Un’esperienza veramente nuova.

Durante tutta la seduta sono impliciti il calore e l’accettazione di Rogers, il riconoscimento positivo incondizionato per qualunque cosa dica e senta il Sig. J.

Il fatto che il Sig. J. ammetta di rinunciare al controllo (42), suggerisce che egli è rimasto profondamente toccato e commosso dal calore e dall’attenzione non giudicante di Rogers.

Il Sig. J. va avanti indicando come sia difficile, quasi impossibile, per lui descrivere quanto è stato ferito. Commenta, “…..è come se qualcuno ti gettasse a terra….. calpestandoti e sputandoti addosso….. facendoti sentire spazzatura….. come se qualcuno scuotesse un grande dannato albero…..”.

Rogers 51: Ed è di questo genere di dolore che hai sofferto.

  1. 51: Si. Semplicemente non voglio che succeda ancora. Non so davvero come dirti il male che ho sofferto. Non lo so davvero.

Rogers 52: Vai oltre le parole.

  1. 52: Si, certo, ma so che è là, e penso che forse potrei occuparmene di più. Ma dannazione, è così….. Ooooooooh! (Un gemito di dolore).

Rogers 53: Ora stai sentendo un po’ di quel dolore.

  1. 53: Si, proprio così.

L’esperienza organismica profonda, sostiene Rogers, inizialmente viene descritta metaforicamente (per esempio, la spazzatura e il dannato albero). Una volta pienamente sperimentata, resta senza parole, in questo esempio c’è un gemito (Oooooooo!) di dolore straziante. L’accettazione piena, la genuinità e l’empatia di Rogers hanno dato avvio ad una intensità tale di esperienza organismica che è maggiore di quello che il Sig. J. può sopportare, o almeno, che vuole sopportare.

  1. 61: Penso che, se ti facessi vedere quanto sono stato ferito o cose simili, probabilmente diventerei un nulla in questa sedia, capisci?

Rogers 61: In pratica potresti scomparire, se veramente mi mostrassi quanto ti senti ferito, abbattuto e orribile?

  1. 62: Sicuramente si. Potrei raccontarti delle cose che ti spazzerebbero via. Buffo, no? E’ troppo per me.

Rogers 62: Troppo. Penso che tu ti senta come se dicessi, ”A questo punto sono arrivato fin dove potevo”.

  1. 63: Proprio così. Quando inizio a sorridere so che ho….. Ma tuttavia sono sincero al riguardo.

Rogers 63: Si. Lo sento anche io. Hai camminato sull’orlo di quell’abisso di dolore, angoscia e abbattimento e ne hai risentito un po’; e forse è il massimo cui puoi arrivare in questo momento….. anche se sai che c’è dell’altro. Sai benissimo che stai trattenendo qualcosa. E sapere queste cose forse può esserti d’aiuto.

  1. 64: (Sospira e geme) Puah! ….. Oh!….. Accidenti! Devo smetterla. Ok?

Rogers 64: Ok, va bene. Sei arrivato fin dove potevi.

  1. 65: Proprio così.

In questo estratto, tutti i responsi di Rogers sono empatici, sebbene uno (53) impegna Rogers ad essere anche genuino. Sia il Sig.J., sia Rogers sanno che ci sono dei sentimenti più dolorosi da esplorare. Tuttavia, il Sig. J. Afferma chiaramente che il processo è diventato troppo per lui. Deve fermarsi. Acconsentendo a finire la seduta, Rogers agisce nella convinzione che la miglior guida per il processo terapeutico del Sig.J. sia lo stesso Sig.J.

Interpretazione e tecniche

Durante le due sedute, il Sig.J. fornisce a Rogers numerose opportunità di offrire interpretazioni. Mai una volta, tuttavia, Rogers fa una cosa del genere. Per esempio, quando il Sig.J. si dibatte e si sbalordisce della propria incapacità ad esprimere la sua rabbia, Rogers non suggerisce né indaga su esperienze precedenti o circostanze presenti che potrebbero dare un contributo alla difficoltà del Sig.J.

Forse l’esempio più adatto per un’interpretazione si ha quando il Sig.J. dice: “Ho il sospetto che tu mi stia nascondendo qualcosa”. Un’interpretazione classica qui farebbe riferimento al transfert del Sig.J., un transfert fondato su esperienze infantili con un genitore che si tratteneva. Ma il responso di Rogers non implica nessuna interpretazione. Piuttosto, il suo responso è da persona-a-persona, genuino e franco: “No. Non ti sto nascondendo niente”.

Supponiamo che Rogers avesse dato un’interpretazione del transfert, affermata forse con titubanza in forma di domanda: “Ricordi uno dei tuoi genitori nasconderti qualcosa?” Molto probabilmente il responso del Sig. J. sarebbe stato di resistenza, resistenza cui il Sig.J. e Rogers avrebbero dovuto far riferimento. Però, una circostanza del genere, come la seguente affermazione indica chiaramente, non si sarebbe mai verificata.

Trattare i sentimenti di transfert come una parte molto particolare della terapia… è secondo me un grave errore. Un approccio del genere favorisce la dipendenza e allunga la terapia. Crea tutto un nuovo problema il cui unico scopo pare essere la soddisfazione intellettuale del terapeuta che mostra l’elaborazione della propria expertise. Disapprovo profondamente questa cosa (Rogers, 1987).

Rogers osserva che molti terapeuti lavorando con il Sig.J. avrebbero potuto far ricorso ad una tecnica (Rogers, 1980b). Nello sforzo di aiutare il Sig.J. a sperimentare la rabbia e il dolore, per esempio, avrebbero potuto chiedergli di battere un cuscino o lanciare un urlo. Rogers non utilizza queste tecniche perché pensa che facendolo sarebbe come suggerire che lui sa meglio del Sig.J. in quale direzione procedere. Invece, la direzione della terapia è basata principalmente e fondamentalmente sulle esperienza organismica del Sig.J. che favorisce la fiducia del Sig.J. in se stesso. La terapia condotta da Rogers, d’altro canto, potrebbe indebolire questa fiducia. L’impegno di Rogers verso il riconoscimento positivo incondizionato, e di conseguenza, verso l’esperienza organismica del Sig.J., forse è più evidente nella sua costante riluttanza a offrire interpretazioni o a impiegare tecniche di qualunque tipo.

La maggior parte degli psicoterapeuti, se non tutti, usano delle tecniche. Queste ultime variano ampiamente: da quelle che implicano in misura maggiore intensi interventi manuali (ad esempio, Biodinamica, Bioenergetica, Terapia Reichiana, Radix, Rolfing), a quelle che impiegano interventi manuali meno intensi e più lievi (ad esempio, Biosintesi, Feldenkrais, Hakomi), a quelle basate su esercizi fisici guidati o modellati verbalmente (ad esempio, Tecnica Alexander, Reintegrazione Emozionale, Tai Chi, Yoga).

L’osservazione di Rogers sulle tecniche solleva questioni spinose per i professionisti di questi approcci. L’uso di una qualche tecnica facilita davvero lo sviluppo del cliente? Oppure dal momento che la tecnica è tipicamente scelta dal terapeuta, non dal cliente, il suo uso indebolisce involontariamente le direzioni e i movimenti spontanei e interiori del cliente insieme alle sue intenzioni esistenziali?

Un famoso psicoterapeuta orientato sul corpo è molto vicino alle posizioni di Rogers. Formatosi come vegetoterapeuta da Reich, Rolf  Gronseth per molti anni ha impiegato tecniche manuali forti e intense. Ma ora, al tramonto della sua carriera si astiene dall’usare queste tecniche. E andando oltre, Gronseth afferma: “La considero una terapia sbagliata….. quando gli psicoterapeuti del corpo ordinano ai propri clienti di fare qualcos’altro rispetto a quello che stanno già facendo” (Gronseth, 1995, p.8).

Questi, terapeuti, sostiene egli, non riescono a riconoscere e a rispettare “le attività intenzionali immediate” dei propri clienti (Gronseth, 1995, p.8).

 

Centrarsi sul corpo

In meno di due ore con Rogers, il Sig.J. caratterologicamente corazzato e sulle difensive, si è spostato in uno stato di maggiore apertura e esperienza organismica sostanziale. Il respiro del Sig.J. si è fatto più profondo. Ha smesso di controllarsi, allentando la presa su se stesso. La sua corazza corporea si è ammorbidita, almeno per un po’. Sentimenti a lungo sepolti hanno iniziato ad emergere nella consapevolezza. E’ entrato più intimamente in contatto sia con Rogers, sia con il proprio essere interiore. Queste osservazioni fanno sorgere una domanda:

Come è riuscito Rogers a facilitare questa apertura all’esperienza organismica? La risposta semplice ma incompleta fa riferimento alle tre qualità già menzionate: empatia, genuinità e riconoscimento positivo incondizionato. La risposta è incompleta perché non riconosce che l’Approccio Centrato sulla Persona è essenzialmente prima di tutto un’attitudine, un modo di essere in relazione.

L’empatia, la genuinità e il riconoscimento positivo incondizionato non sono tecniche (Rogers, 1951, 1957). Sono qualità umane. L’enfasi non è su cosa fa il terapeuta; è su chi è in quel momento.

Come terapeuta Rogers non risponde in modo pianificato o analitico. Piuttosto, reagisce in modo avventato, essendo i suoi responsi verbali non consci basati sulla sua sensibilità organismica verso il cliente.

Mi lascio andare all’immediatezza della relazione in cui è il mio organismo totale a prendere il sopravvento e ad essere sensibile alla relazione, non soltanto semplicemente alla mia consapevolezza  (Rogers, 1961, p.202).

Detto in modo familiare, Rogers sta dentro e risponde dal corpo.

Il mezzo di Rogers sono le parole: è un terapeuta verbale. Ciononostante, le sue parole emergono dal suo essere  centrato sul suo corpo, non sulla mente. E lo scopo delle sue parole è quello di facilitare il cliente ad essere più in armonia con il proprio corpo. Rogers è un terapeuta verbale centrato sul corpo.

 

Bibliografia

Davis, W (1977). The interdependency of humanistic psychology and Reichian energy concepts in modern physics. Unpublished manuscript. Contact Will Davis at the European Reichian School, Mas de a Capelle, Route de Saint Come, 30420 Sinsans, France, Telephone/fax (+33) 466814325.

Gronseth, R. (1995). On the shift of paradigms from character analytic vegetotherapy, bioenergetic analysis, psychoanalysis and existential analysis to existential characteranalytic psychotherapy. Unpublished paper, presented in briefer form at the 3rd Congress of Body-Psychotherapy at Lindau 1991, and published under the title, “Words, not Touch, not using the Concept of Transference”. In B.Maul (ed.) (1992): Body Psycho Therapy or the art of contact. Gottingen: Bernhard Maul Verlag.

Lowen, A. (1995). Bioenergetics. London, Penguin

Lowen, A. (1980). Fear of life. New York, Macmillan.

Lowen, A. (1990). Spirituality of the body. New York, Macmillan.

Reich, W. (1942). The function of the orgasm. New York, Farrar, Straus, & Giroux.

Reich, W. (1945). Character analysis. New York, Simon and Schuster.

Reich, W. (1948). Listen, little man! New York, Farrar, Straus, & Giroux.

Reich, W. (1953). The murder of Christ. New York, Farrar, Straus & Giroux.

Rogers, C.R. (1951). Client-centered psychotherapy. Boston, Houghton Mifflin.

Rogers, C.R. (1957). The necessary and sufficient conditions of therapeutic personality change. Journal of Consulting Psychology, 21, 95-103.

Rogers, C.R. (1959). A theory of Therapy, personality, and interpersonal relationship, as developed in the person-centered framework. In S. Koch (Ed.) Psychology: A study of science, vol.III. Formulations of the person and the social context. New York: McGraw-Hill, pp. 184-256.

Rogers, C.R. (1961). On becoming a person. Boston: Houghton Mifflin.

Rogers, C.R. (1969). Freedom to learn. Columbus, Ohio: Charles E. Merrill.

Rogers, C.R. (1977a). On personal power. New York: Dell

Rogers, C.R. (1980). A way of being. Boston: Houghton Mifflin.

Rogers, C.R. (1980). Client-centerd psychotherapy, chapter 30 in H. I Kaplan, Sadock, B. J. And Freedman, A.M. (1980). Comprehersive textbook in psychiatry. Baltimore: Williams and Wilkins.

Rogers, C.R. (1987). Comment on Shlien’s article “A countertheory of trasference.” Person-centered Review, 2, 182-188.

 

Tavola 1

Domande per una Teoria della Personalità

 

Struttura: Quali sono gli elementi fondamentali della personalità?

Id

Ego

Superego

 

Motivazione: Cos’è che dà energia e dirige il comportamento umano?

Eros (istinti di vita)

Thanatos (istinti di morte)

 

Crescita: Come si sviluppa la personalità? 

Stadi: orale, anale, edipico, latente, genitale

La frustrazione ottimale porta alla crescita sopra o sotto indulgenza

di fissazione

 

Psicopatologia: Quali sono i vari tipi e cause della disfunzione di personalità?

I conflitti inconsci portano all’ansia, a vari altri sintomi e ai disordini

nevrotici (ad es., depressivi, fobici, compulsivi-ossessivi)

 

Cambiamento: Come diminuisce o si elimina la disfunzione di personalità?

Attraverso l’analisi del transfert, dei sogni, e delle libere associazioni

e insieme al lavoro attraverso il processo i conflitti inconsci diventano

consci e più maneggevoli.

Le classi di esercizi di Bioenergetica

Potremmo dire che uno dei tratti tipici della cultura occidentale sia la tendenza a dicotomizzare piuttosto che integrare e armonizzare; il cogito ergo sum cartesiano ha dato i suoi buoni frutti. La logica degli opposti caratterizza tutta la nostra vita: mente-corpo, dovere-piacere, istinto-ragione, amore-sesso, ecc… Le classi di esercizi di bioenergetica, in questo specifico contesto, si presentano come un valido strumento che consente di andare oltre la dualità e la separazione, proponendosi come obiettivo fondamentale quello dell’integrazione, dell’armonia e dell’equilibrio tra l’aspetto corporeo, quello emotivo e quello relazionale. Fortunatamente oggi si sta sviluppando e consolidando il concetto di promozione della salute, la cultura bel benessere fisico, l’importanza di un’attività fisica regolare e costante, di un’alimentazione sana, ecc…

Ma accade purtroppo che la nostra cultura occidentale, fortemente narcisistica, oscuri il lato sano e positivo dell’attenzione al corpo e del prendersi maggiore cura di se stessi, facendo emergere l’aspetto del successo, della performance, della bellezza e della perfezione fisica. Come afferma Lowen facendo riferimento alla cultura americana, ma esprimendo un concetto perfettamente estensibile anche alla cultura occidentale: “Purtroppo l’atteggiamento americano nei confronti del corpo è pesantemente incrostato di considerazioni legate all’io”[1]. Alexander Lowen introdusse le classi di esercizi di bioenergetica con lo scopo di promuovere e favorire una maggiore salute psicofisica delle persone, di prevenire malattie e disagi e, inoltre, creando un contesto sicuro e positivo in cui poter eseguire gli esercizi insieme ad altri, dare la possibilità di crescere insieme in termini di consapevolezza e benessere, favorendo l’interazione e la comunicazione.Gli esercizi bioenergetici differiscono dalla classica ginnastica o dagli esercizi di fitness, basati sostanzialmente sulla prestazione e sul raggiungimento della “giusta” forma fisica, in quanto mirano al sentire e non al fare, all’entrare in contatto con se stessi prendendo coscienza dei propri blocchi corporei ed emotivi.

Uno dei presupposti fondamentali, infatti, della bioenergetica, è che il corpo e la mente siano funzionali l’uno all’altra e in stretta sinergia: ciò che accade nella mente,  riflette esattamente ciò che accade nel corpo e viceversa. Credo però, che per comprendere pienamente il significato della teoria e della pratica bioenergetica, sia importante vedere brevemente ciò che ne sta alle spalle, ovvero Wilhelm Reich, che sarà maestro di Lowen e suo analista. Reich, a sua volta allievo di Freud, decise di affrontare e approfondire le resistenze dei pazienti alla terapia psicoanalitica, individuando degli atteggiamenti difensivi cristallizzati nel corpo, che egli definì corazza o armatura caratteriale, descrivendola tanto nei suoi aspetti fisici quanto in quelli somatici ed energetici.

Reich individuò le modalità di formazione dell’armatura in specifici blocchi energetici (la libido freudiana), a seguito di un trauma o del perpetuarsi di uno stato frustrante, infatti, “lavorando sull’armatura, i pazienti avvertivano formicolii o sensazioni di correnti nel corpo che Reich chiamò Correnti vegetative, da cui: VEGETOTERAPIA CARATTEROANALITICA”[2]. La formazione reichiana fu fondamentale per la nascita della bioenergetica, consentendo a Lowen di approfondire il lavoro sul corpo e di introdurre nuove tecniche volte allo scioglimento delle tensioni muscolari e
dei blocchi emotivi sottostanti. Divenne sempre più centrale il lavoro sulla respirazione e il concetto di grounding, ovvero di radicamento a terra, concetto che appartiene esclusivamente alla bioenergetica come capacità di essere nel presente e di provare piacere.

Lowen infatti, sostituì la nozione reichiana di riflesso orgasmico, inteso come movimento ondulatorio prodotto dalla capacità di abbandonarsi completamente ai movimenti spontanei e involontari del corpo, a seguito di un processo respiratorio[3], con il concetto di capacità di provare piacere nella propria vita come autoespressione di sé. Quest’ultimo concetto presuppone la capacità di sapersi ascoltare, di entrare in contatto con il proprio corpo, di vivere con pienezza e consapevolezza i flussi essenziali presenti nel nostro intimo, riconoscendo e accettando le parti dimenticate di sé. Esse con il tempo possono trasformarsi in un delicato percorso di rievoluzione personale, che può consentire di raggiungere uno degli obiettivi sostanziali delle classi di esercizi bioenergetici: “limitare il
controllo cosciente ai campi in cui esso ha effettivamente senso, per dare, invece, più spazio alla spontaneità del corpo e della mente”[4].

Questo processo è racchiuso in quello che potremmo definire il nucleo essenziale  della bioenergetica, nonchè suo fine ultimo, ovvero il grounding. Ogni classe di esercizi, infatti, prende sempre il via da un esercizio di grounding e, allo stesso tempo, possiamo considerare il medesimo corso di classi di esercizi bioenergetici come un processo di progressivo radicamento nella realtà e nella propria vita. Nonostante la parola grounding non abbia una esatta traduzione italiana, essa si riferisce alla sensazione del contatto tra i piedi e il terreno, contatto che può essere sentito in modo più o meno profondo da persona a persona e, nella stessa persona, da un momento all’altro della propria vita.

Il classico modo di dire: “è una persona che ha i piedi per terra” esprime bene il concetto di grounding, indicando colui che sa perfettamente dov’è e chi è.“In senso più ampio , il grounding, rappresenta il contatto dell’individuo con la realtà base della sua esistenza. Egli è radicato nella terra, identificato con il proprio corpo, consapevole della propria sessualità, è teso verso il piacere”[5]. Nella posizione base di grounding le persone sono in posizione eretta, con i piedi paralleli e alla distanza l’uno dall’altro della larghezza delle spalle, o del bacino se esso è molto più largo delle spalle, il peso del corpo poggia sugli avampiedi, le ginocchia sono leggermente flesse, il bacino è tenuto sciolto e inclinato all’indietro, e la parte superiore del corpo è dritta e rilassata. Questa posizione conferisce al corpo una postura salda e radicata e “implica che una persona si lasci scendere, che abbassi il suo centro di gravità, che si senta più vicino alla terra. Il risultato più immediato è di aumentare il suo senso di sicurezza”[6].

Il grounding, in sostanza, aiuta a ritrovare la parte più istintiva e spontanea di sé, quella meno sottoposta al controllo cosciente e che risiede nella metà inferiore del nostro corpo, la metà potremmo dire più “animale”, in cui risiedono le funzioni della locomozione, defecazione e sessualità.Purtroppo, la cultura occidentale ha subito uno spostamento verso l’alto, quindi verso la metà superiore del nostro corpo, in cui risiedono le funzioni ritenute nobili, ovvero pensiero, linguaggio e manipolazione dell’ambiente. Tutto ciò è andato a scapito della spontaneità, della grazia e del ritmo. Gli esercizi bioenergetici di grounding permettono di invertire questo spostamento verso l’alto, abbassando il centro di gravità del corpo nella pelvi e percependo il centro di sé nel basso ventre, in quello che le filosofie orientali definiscono hara: “La mancanza di contatto con questo centro vitale è causa di squilibrio e conduce all’angoscia e all’insicurezza”[7].

Due sono le regole fondamentali, o come le definice Lowen “comandamenti”, che consentono di conseguire e mantenere il giusto grounding:
1) Le ginocchia sempre leggermente flesse. Esse sono gli ammortizzatori del nostro corpo, e quando le manteniamo rigide e serrate impediamo all’energia di scorrere e di non assorbire il peso del nostro corpo che, al contrario, viene intrappolato nel fondo schiena producendo una condizione di stress che causerà fastidiosi disturbi nella zona lombo-sacrale.
2) Il ventre è in fuori. La contrazione di questa parte del corpo rende estremamente difficile la respirazione, limitandola alla zona toracica che così viene eccessivamente caricata per avere abbastanza aria. Purtroppo il taglio narcisistico della nostra società, ci impedisce di rilassare questa zona del corpo, in nome di una buona postura, un buon portamento e un bell’aspetto. Inoltre, la pancia tirata in dentro, tronca ogni sensazione sessuale nel bacino, impedendo così di godere del piacere di una parte fondamentale della nostra vita, ma che troppo spesso viene mozzata dai tabù e dai falsi pregiudizi della nostra cultura.

Oltre all’importanza di sviluppare un buon grounding, un altro obiettivo importante delle classi di esercizi bioenergetici è quello di aumentare lo stato vibratorio del corpo: la vibrazione è segno di un corpo sano e in buona salute. Lo stato vibratorio è generato da una carica di energia nella muscolatura, e man mano che esso cresce in maniera coordinata, si formano e si diffondo delle onde pulsanti lungo tutto il corpo. Durante le classi di esercizi le persone vengono poste volontariamente in uno stato di vibrazione, con lo scopo di renderlo regolare e delicato. Spesso infatti possiamo notare in persone diverse, diverse qualità di vibrazione che sono indicative dello stato in cui si trova quella persona. Vibrazioni troppo irregolari e caratterizzate da brusche scosse, sono indicative di un’ostruzione nel flusso libero dell’eccitazione o della carica, dovuto a muscoli contratti o ad uno stato di tensione cronica. Vibrazioni sottili e caratterizzate da un fremito delicato sono indicative di un allentamento delle tensioni e di uno stato di rilassamento. In questo caso si è raggiunta la capacità di tollerare e contenere l’eccitazione e il piacere che attraversa il corpo e di assecondarne i movimenti spontanei, il che presuppone un io ancorato e identificato con il proprio corpo, un io grounded.

Quando le vibrazioni attraversano completamente il corpo, la persona si sente unita, integrata, ed ha una percezione intera di sé, sperimentando il piacere di essere pienamente vivi.
Questa qualità del sentire “è percepito nella piena espansione e contrazione pulsante dell’organismo e dei sistemi di organi che lo costituiscono, […]. È sentito come una corrente di sensazioni che riflette il fluire dell’eccitazione. È la dolce e struggente sensazione del desiderio sessuale, il lampo dell’intuizione, il desiderio intenso di vicinanza e contatto, è il fremito dell’eccitazione”[8]. L’esercizio fondamentale per fare iniziare le vibrazioni nelle gambe e aiutare a sentirle, nonché sviluppare il grounding e il contatto con il suolo è l’esercizio del bend-over. Eseguire questo esercizio è estremamente semplice: dalla posizione di grounding, con i piedi distanti tra loro circa 25 cm, le punte leggermente rivolte verso l’interno e i talloni rivolti leggermente verso l’esterno, si flette il busto lentamente in avanti fino a toccare il pavimento con le dita delle mani, ma mantenendo sempre il peso del corpo completamente sui piedi. Le ginocchia devono restare un po’ flesse, la testa è completamente rilassata e il mento è rivolto verso il cuore. Il concetto di vibrazione rientra, a sua volta, all’interno di quel processo basilare della bioenergetica che ne definisce esattamente la sua essenza: il ciclo dell’energia.

La stessa definizione che Lowen dà della bioenergetica chiarisce ogni dubbio, essa è “lo studio della personalità umana dal punto di vista dei processi energetici del corpo”[9]. Il postulato di base è che l’energia, al di là di quale sia la sua precisa definizione e sostanza, caratterizzi tutti i processi vitali, e che essi si arresterebbero qualora ci fosse un’interruzione di questa stessa energia. Il ciclo energetico appare composto da quattro fasi: tensione, carica, scarica, distensione o rilassamento. Ogni classe di esercizi, per essere ben articolata, deve seguire questo ciclo sviluppando, quindi, una fase di contrazione ed una fase di espansione.

Vediamo come: In prima istanza, il muscolo o i gruppi di muscoli sui quali si sta lavorando vengono sottoposti volontariamente ad uno stato di tensione, il quale, sovrapponendosi ad una tensione preesistente e involontaria, crea una condizione di carica che stimola il corpo a reagire. Ci troviamo nella fase della contrazione. In seguito a questa condizione di carica, il corpo reagisce scaricando e liberando lo stress contenuto in quell’area sottoposta a tensione, attraverso dei movimenti vibratori e movimenti spontanei che in genere si producono quando i muscoli raggiungono una tensione limite. Dopo la scarica, l’energia che prima era intrappolata, riprende a circolare, permettendo così alle persone di entrare in contatto con quelle parti di sé che si erano chiuse alla loro percezione. Questo crea un vissuto di benessere diffuso e l’organismo può rilassarsi. Scarica e rilassamento coincidono con la fase dell’espansione.

Come possiamo ben vedere, non è possibile parlare di carica energetica senza considerare la scarica dell’energia, in quanto sono parti di uno stesso processo, il quale, non esisterebbe se una delle sue componenti venisse a mancare: “Poiché la carica e la scarica funzionano come unità, la bioenergetica lavora simultaneamente su entrambi i membri dell’equazione per elevare il livello energetico, aprire la strada all’autoespressione e reinstaurare nel corpo il flusso delle sensazioni”[10]. L’obiettivo è quindi quello di creare un buon livello di energia, adeguato ai propri bisogni e alla propria condizione, attraverso il raggiungimento di un esatto equilibrio tra carica e scarica. Il significato dell’aumentare il livello energetico di un individuo risiede proprio nella sua possibilità di scaricarsi
attraverso le vie dell’autoespressione, come la voce, gli occhi, il movimento. Le classi di esercizi di bioenergetica aiutano le persone proprio a ritrovare l’espressione libera di sé, spontanea e adeguata alla realtà, procurando un senso di benessere e di piacere che stimola l’individuo a sperimentarsi in altre attività che richiedono una maggiore carica energetica.

Come Lowen afferma nel suo libro Bioenergetica: “È la spontaneità, non la consapevolezza, la qualità essenziale dell’autoespressione”[11], inoltre è proprio l’espressione autentica e libera di sé
che genera una esperienza di piacere molto elevata. Ma, è importante chiarire che quando si parla di autoespressione, non ci si riferisce all’agito impulsivo, quest’ultimo è solo in apparenza una forma spontanea di espressione di sé, perché in realtà è fortemente condizionato dalle esperienze precedenti: “Il piacere dell’autoespressione non dipende dalla risposta dell’ambiente; l’autoespressione è piacevole in sé”[12]. Il piacere dell’autoespressione, infatti, raggiunge il suo culmine proprio quando spontaneità e controllo interagiscono in perfetta sinergia, creando così una coordinazione di movimento armoniosa ed equilibrata. Da tutto ciò, ne consegue, che un organismo è tanto più capace di esprimere se stesso quanto più è elevata la sua motilità e il livello energetico che ne sta alla base: “ Energia e autoespressione sono collegate da una linea diretta: energia → motilità → sentimenti → spontaneità → autoespressione. Questa sequenza opera anche all’inverso”[13].

Lowen racchiude questi concetti in uno schema che esemplifica l’interrelazione fra i tre elementi della personalità: vita interiore, espressione esteriore, individualità.

LE COORDINATE DELLA CLASSE DI ESERCIZI BIOENERGETICI
Condurre in modo appropriato una classe di esercizi bioenergetici è un compito tutt’altro che semplice, in quanto richiede non solo una interiorizzazione di tutti i concetti, le nozioni e i processi
precedentemente trattati e che stanno alla base della Bioenergetica, ma richiede anche una acquisizione di abilità e competenze specifiche e una somma di esperienza non indifferente, a partire proprio dalla consapevolezza della propria persona in relazione agli esercizi bioenergetici. Un bravo conduttore di classi di esercizi deve aver maturato dentro di sé una serie di abilità è qualità che gli consentano da un lato di padroneggiare la classe stessa in modo tale da garantirne la sua efficacia, in merito al raggiungimento degli obiettivi di una classe di esercizi, e dall’altro lato che gli
consentano di gestire la classe rispettandone la sua specifica natura e i suoi limiti.

In tal senso, il conduttore deve sempre tenere in considerazione una serie di coordinate da rispettare e che caratterizzano le classi di esercizi di bioenergetica.
Esse sono: 1. Lo spazio; 2. Il tempo; 3. Il numero di partecipanti; 4. L’uso delle parole; 5. Gli obiettivi; 6. I limiti; 7. La conduzione.

Lo spazio in cui si svolgeranno le classi di esercizi di bioenergetica, deve essere rispondente alle necessità che le classi stesse impongono, ovvero quelle di fornire ai partecipanti un senso di  protezione, accoglienza, riservatezza, ma anche di benessere e di agio. Di conseguenza, lo spazio in cui si svolgeranno le classi di esercizi dovrà essere sufficientemente grande, tenendo in considerazione il numero dei partecipanti, un posto pulito, accogliente, dotato possibilmente di tappeti o comunque di un pavimento che consenta di stare tranquillamente a piedi nudi e di sdraiarsi per terra. Dovrà essere inoltre situato in una zona tranquilla, in cui non ci sia troppo rumore o traffico automobilistico, per favorire nei partecipanti la concentrazione giusta e il pieno contatto con se stessi. Inoltre dovrà essere uno spazio che consenta di potere utilizzare la voce liberamente, senza arrecare disturbo e senza creare nei partecipanti uno stato di inibizione.

Il tempo, ovvero la durata delle classi di esercizi, in genere varia da un minimo di quarantacinque minuti a un massimo di un’ ora e mezza. Il tempo, in ogni caso, deve essere di durata tale da consentire di toccare tutte le parti del corpo e lavorare su tutti i segmenti corporei, sciogliendo i blocchi e le tensioni che si possono presentare.

Il numero dei partecipanti deve rientrare anch’esso in limiti precisi, sia in relazione alla partecipazione massima che a quella minima. Perché si possa definire una classe di esercizi di bioenergetica è necessario che vi sia un limite minimo di quattro partecipanti, perché lavorare con un numero inferiore di persone significherebbe snaturare la classe stessa, nonché correre il rischio di entrare in un lavoro quasi individuale che potrebbe facilmente portare a oltrepassare i limiti di una classe di esercizi, entrando in ambiti più profondi che non sono di sua competenza. Inoltre, è importante tenere in considerazione il fatto che molte persone si trovano in grande difficoltà a lavorare in un gruppo troppo piccolo, il quale,  se in alcuni può creare un senso di maggiore protezione e accoglienza, in altri può invece creare un forte disagio dovuto ad una maggiore esposizione e visibilità. Anche la partecipazione massima deve essere limitata a venti persone circa, perché
lavorare con un numero superiore vorrebbe dire incorrere facilmente nel rischio di una pessima conduzione. Durante le classi di esercizi è sicuramente importante che il conduttore partecipi con il gruppo stesso nello svolgimento degli esercizi, ma allo stesso tempo è importante che egli presti attenzione ai singoli al fine di correggere posizioni erronee, di essere presente se un partecipante si scioglie in una emozione o anche di essere in grado di cogliere certe esigenze che emergono da più parti del gruppo, in modo da potere così modificare l’andamento della classe stessa. Prestare attenzione a tutti questi aspetti diventa ovviamente molto difficile se si lavora con un gruppo eccessivamente numeroso, si rischia infatti non solo di portare la classe di esercizi ad un livello di mera prestazione, ma anche di non essere in grado di fornire ai partecipanti la giusta attenzione e sicurezza, dando una immagine di poca professionalità e di incompetenza.

L’uso delle parole nelle classi di esercizi bioenergetici deve essere ridotto all’essenziale e comunque mirato a favorire l’attenzione dei partecipanti verso il loro corpo. A tale scopo, le spiegazioni verbali degli esercizi devono essere date a piccole dosi, devono essere brevi e concise, al massimo, in alcuni specifici esercizi può essere brevemente spiegato il suo campo d’azione e lo  scopo. L’obiettivo è quello di condurre le classi “massimizzando l’azione e minimizzando la discussione”[14], in modo che venga evitata qualsiasi tipo di spiegazione o di ricerca mentale. L’abilità di un conduttore esperto consiste nel portare i propri partecipanti ad abbandonarsi al proprio corpo e a ciò che esso porta, perché nel momento in cui si sperimenta un vero contatto con il proprio corpo, attraverso gli esercizi bioenergetici, si sperimenta al tempo stesso un vero contatto con la realtà, con ciò che si sente realmente. Come afferma Ellen Green Giammartini raccontando delle sue prime esperienze come conduttore di classi di esercizi: “Scoprii anche che l’abilità del conduttore consiste meramente nel dirigere l’attenzione senza dire ai partecipanti che cosa dovrebbero sentire, ma semplicemente aiutandoli ad arrivare al sentire, qualsiasi siano i sentimenti e le sensazioni nel loro corpo”[15].

Gli obiettivi delle classi di esercizi bioenergetici sono: l’integrazione, l’autoregolazione energetico-emozionale, la crescita. Il concetto di integrazione si riferisce ad un processo profondo che si esprime con l’instaurarsi di un legame equilibrato e di reciproca collaborazione tra le tre parti del corpo: testa, torace, bacino e le corrispondenti funzioni dell’intelletto (mente), dell’affettività (cuore), della sessualità (istinto). Accade però che, un po’ per la nostra cultura occidentale frenetica, basata sul fare ed estremamente razionale, un po’ per una questione anatomo-fisiologica,
siano proprio le estremità del corpo, ed in modo particolare la testa, ad essere enfatizzate e valorizzate, avendone quindi più coscienza. Mentre, le parti più interne del corpo, come il torace e il bacino, vengono generalmente meno attenzionate rimanendo in una posizione più nascosta rispetto alla coscienza. Ma, “è proprio all’interno che, ovviamente, si trova il centro di gravità del corpo, appena un poco sotto l’ombelico, potremmo dire: nel laboratorio della vita, nel centro vitale ed energetico del corpo”[16]. Ecco che ci ritroviamo ad avere a che fare con due elementi antitetici, il pensare e il sentire, che da bravi opposti tendono ad agire e a manifestarsi in un modo apparentemente inconciliabile e in comunicante. L’elemento che riesce a creare l’armonia e quindi
l’integrazione è proprio il cuore con la sua funzione dell’amare e dell’affettività: “dal nostro cuore fluisce il calore che ci unisce al mondo in cui viviamo. Questo calore è l’amore. L’obiettivo di ogni
terapia è di aiutare una persona ad accrescere la propria capacità di dare e ricevere amore – di espandere il suo cuore e non solo la sua mente”[17]. Integrare le tre parti del corpo presuppone anche l’integrazione di tutti gli organi interni a queste aree corporee, il nostro organismo può essere infatti definito come uno spazio strutturato pulsante, in senso verticale, orizzontale e circolare. Il nostro organismo, d’altronde, prende origine da una unica cellula da cui si sviluppano, per differenziazione, tre foglietti embrionali dai quali derivano tutti gli organi del corpo. Essi sono: ectoderma→pelle e sistema nervoso, mesoderma→muscoli, vasi sanguigni e le ossa, endoderma→i visceri e il tessuto connettivo. Il processo di integrazione, quindi, deve comprendere anche questi tre strati nonché le due direzioni del ciclo energetico: carica e scarica. L’obiettivo dell’autoregolazione è conseguente al processo di integrazione e consiste  nel raggiungimento di una consapevolezza interna delle funzioni delle tre parti del corpo.
Consiste nella capacità di mantenere e recuperare l’equilibrio tra gli opposti, tra cui le due direzioni energetiche di carica e scarica. In una classe di esercizi bioenergetici i partecipanti imparano a creare, proprio con l’energia e con la consapevolezza di cui rientrano via via in possesso, una struttura di autocontenimento e autoregolazione: una struttura psicofisica che consente loro di lasciarsi andare, di arrendersi ai propri sentimenti e alle proprie emozioni, senza paura di esserne sopraffatti. L’obiettivo della crescita è una conseguenza del processo di integrazione e di autoregolazione: “il movimento è l’essenza della vita, i suoi due aspetti sono la crescita e il declino (…) Se la crescita, intesa come sviluppo della personalità, si arresta, inizia un declino che, se all’inizio può essere impercettibile, prima o poi diventa però evidente”[18]. Ciò significa che attraverso le classi di esercizi i partecipanti possono intraprendere un percorso che consente loro di sviluppare la loro personalità, rafforzando l’io, mediante un processo di progressivo radicamento finalizzato all’espansione.

I limiti delle classi di esercizi bioenergetici sono fortemente correlati allo scopo e alla natura del lavoro che si svolge all’interno delle classi stesse.È importante, innanzi tutto, che il conduttore abbia le idee chiare riguardo ciò e che sia dotato di capacità e di integrità professionale, al fine di mantenere e riportare sempre le classi di esercizi all’interno dei propri limiti. Il limite primario che deve essere rispettato è quello di non spingere mai le classi di esercizi al punto tale da entrare in un lavoro più profondo, come quello che si scolge in analisi bioenergetica: “Si deve mantenere il lavoro all’interno di limiti specifici, incoraggiando nello stesso tempo il fluire dell’energia (non bloccandola) e tutto questo mentre si conduce un esercizio per, diciamo, dieci persone”[19]. Il compito è tutt’altro che semplice, dato che gli esercizi bioenergetici sono dotati di un forte potenziale e sono molto spesso gli stessi che si utilizzano in un contesto terapeutico, ma il loro scopo non è quello di riparare ma di evolvere.
Un conduttore di classi di esercizi ha nelle proprie mani delle potenti tecniche terapeutiche che deve essere in grado di gestire efficacemente al fine di proprio di non renderle tecniche terapeutiche potenti, e questo richiede lo sviluppo di abilità discriminatorie sottili riguardanti la scelta degli esercizi, la sequenza e la loro durata, nonché la capacità di cogliere le reazioni dei partecipanti agli esercizi proposti, in modo da poter modulare il ritmo e l’andamento della classe in base alla tolleranza dei partecipanti agli esercizi stessi. Inoltre, nonostante gli esercizi bioenergetici abbiano una forte risonanza a livello emotivo e psicologico, nelle classi non è contemplato un momento di elaborazione verbale dei vissuti che emergono e di integrazione analitica con il conduttore. Ciò non vuol dire che i partecipanti siano abbandonati a loro stessi e alle loro emozioni, ma semplicemente che non vi sarà nessuna rielaborazione analitica del vissuto.

Il compito del conduttore è quello di sostenere nei momenti di difficoltà, essere una presenza che garantisce contenimento al gruppo e alle singole persone che si trovino a vivere delle emozioni che da sole non riescono ad arginare. In sintesi, quindi, possiamo dire che le classi di esercizi devono servire a sbloccare l’energia intrappolata all’interno del corpo e accrescere la motilità esterna ed interna di ogni persona, possono quindi essere un valido supporto ad un lavoro di analisi, o un modo per approcciarsi alla bioenergetica senza entrare in processi più profondi e impegnativi, o un modo per continuare a prendersi cura di sé anche al termine di un percorso terapeutico. In ultimo rimane la conduzione, elemento che è già stato abbondantemente trattato all’interno delle coordinate precedentemente considerate. Sono già emerse, infatti, le diverse abilità e capacità che un buon conduttore deve sviluppare, anche attraverso l’esperienza: la padronanza nel gestire la classe di esercizi, nel riuscire sempre a riportarla entro i suoi ben precisi limiti, la capacità di utilizzare nel modo giusto le parole, l’abilità di saper supportare i singoli partecipanti nei momenti di difficoltà e la capacità di stare al contempo attento all’andamento del gruppo, ecc…

In modo generico possiamo raggruppare le capacità del conduttore delle classi di esercizi in tre categorie:  1) Creatività; 2) Ritmo; 3) Sintonizzazione con il gruppo.
Con il concetto di creatività si intende la capacità del conduttore di saper essere sempre innovativo e di saper trovare il suo personale stile di conduzione che renderà le sue classi di esercizi uniche e originali. Con il concetto di ritmo intendiamo invece la capacità di saper trovare sempre il giusto andamento della classe, in base anche al gruppo che si ha di fronte e al livello di energia che esso porta. La sintonizzazione con il gruppo è fortemente legato all’aspetto precedente, infatti, si intende la capacità di saper ascoltare e osservare costantemente quello che avviene nel gruppo e i messaggi, diretti e indiretti, che esso manda.

L’ARCO BIOENERGETICO E STILI DI RESPIRAZIONE
Scegliere tra i moltissimi esercizi bioenergetici non è un compito assolutamente facile, anche perché, a mio parere, la bellezza delle classi sta proprio nel fatto che, attraverso la poliedricità degli esercizi, esse ti consentono di sperimentare varie parti di te: quella timida, quella arrabbiata, quella che ha paura, che si vergogna, quella bambina, quella forte, ecc.. Inoltre, gli esercizi bioenergetici sono fortemente legati al momento che ti trovi a vivere, a come stai il quel periodo della tua vita, ai cambiamenti che magari ti stai trovando ad affrontare, per cui succede che degli esercizi che fino a poco tempo prima non ti portavano a nulla, improvvisamente ti mettono di fronte ad emozioni e vissuti che non avresti mai immaginato di provare, acquistando un significato diverso rispetto al passato. Credo però che, al di là di quanto detto, vi siano alcuni esercizi che nonostante la facilità di esecuzione e l’apparente semplicità, in realtà abbiano sempre e comunque un potere grandissimo, dato dalla capacità di metterti immediatamente in contatto con il tuo corpo, come l’esercizio di grounding, di bend-over e l’arco bioenergetico. Quest’ultimo è proprio l’esercizio che ho deciso di
trattare in questa parte finale del mio lavoro. L’arco è un esercizio di apertura che consente di favorire in modo completo la respirazione, rilassando le tensioni nella zona toracica e nel bacino, serve ad aumentare la flessibilità delle caviglie, delle ginocchia e della schiena, favorendo così un libero fluire dell’energia vitale nel corpo.

Nonostante questo esercizio conduca ad un profondo contatto con il suolo, in quanto l’arco è un grounding che mira quindi al radicamento della persona, chi lo esegue ha allo stesso tempo l’opportunità di sperimentare una totale sensazione di espansione verso l’esterno, gli altri…verso la vita. Esecuzione dell’esercizio: dalla posizione eretta con i piedi distanti quaranta centimetri circa e le punte delle dita dei piedi rivolti leggermente verso l’interno, piegare entrambe le ginocchia senza mai sollevare i talloni, mantenendole allineate con le punte dei piedi. Posizionare le mani a pugno dietro le vertebre lombari, portando il bacino un po’ in avanti, ma senza scaricarlo completamente, e inarcare la schiena sopra i pugni, assicurandosi sempre che il peso del corpo rimanga sugli avampiedi. È importante sentire i glutei rilassati, l’ano aperto, il collo è rivolto leggermente all’indietro ma senza mai lasciarlo cadere completamente, perché questo determinerebbe una spezzatura in questa fascia corporea. La bocca è mantenuta aperta per facilitare la respirazione e l’emissione di suoni consoni ai vissuti e sensazioni personali.

Prima di entrare nel vivo dell’esercizio, ritengo importante descrivere brevemente la mia esperienza personale con l’arco bioenergetico. Paradossalmente ho scelto di trattare uno degli esercizi per me più difficili, faticosi e spesso dolorosi, ma che allo stesso tempo sento estremamente importante perché mi consente di stabilire un profondo contatto con il mio corpo e con i blocchi e le tensioni presenti.
Ritengo di essere una persona che ha difficoltà a sentire e soprattutto ascoltare il proprio corpo e che ne ha fatto troppo spesso uno strumento per nascondere un nucleo profondo molto fragile. Ho praticato lo sport a livelli agonistici, sottoponendo il mio corpo per molti anni a forti stress e dure prestazioni, non avrei mai pensato che degli esercizi, in apparenza così semplici, potessero farmi sentire in difficoltà… eppure è successo. L’arco è proprio uno di questi, forse l’esercizio che in assoluto mi ha messo in contatto con la mia fragilità. Ricordo che le prime volte in cui ho svolto l’esercizio dell’arco non riuscivo a mantenere la posizione per più di venti, massimo trenta secondi, perché immediatamente sentivo una fortissima tensione al collo, nella zona dei trapezi, e un bruciore talmente forte da non consentirmi di respirare. Oggi la mia esperienza dell’arco si è notevolmente modificata, e nonostante rimanga per me un esercizio molto impegnativo, riesco anche a godere del piacere dell’apertura e della vibrazione che scorre lungo il mio corpo. Proprio lo stato di vibrazione che oggi riesco a raggiungere, mi dice dei cambiamenti che sono avvenuti, dato che inizialmente la vibrazione rimaneva estremamente limitata alle gambe o comunque alla parte inferiore del mio corpo. Attualmente, durante l’esercizio dell’arco, sento che la vibrazione è più completa e che riesce ad attraversare il corpo in modo abbastanza fluido, nonostante sia consapevole che ancora rimane soffocata nella zona del collo e delle braccia. Le mie esperienze personali con l’arco sono state numerose, ma, sento che alcuni vissuti importanti si sono aperti proprio nel momento in cui si sono allentate alcune tensioni nel bacino, nel torace e nel collo, entrando così in contatto con la parte debole e a volte struggente della mia personalità. Tra questi vissuti quello che ritengo più profondo risale ad alcuni mesi fa, quando Maurizio durante l’esecuzione dell’arco in una classe di esercizi, si accostò a me toccandomi leggermente dietro la schiena e invitandomi a provare a tirare fuori un po’ di più il petto, che evidentemente tendeva a stare in una posizione collassata. Ricordo che tentavo di aggiustare la posizione con una immensa fatica, avvertendo dentro di me una sensazione di impotenza, ma ciò che si modificò immediatamente fu la mia voce: divenne spezzata, afona, discontinua. Sentivo la mia voce come la voce di una persona disperata, che sta soffocando e che non riesce a chiedere aiuto. Non riuscivo a respirare, gli occhi erano spalancati e l’ansia saliva, decisi di non spingere l’esercizio, ma sapevo che in un altro contesto questo mi avrebbe potuto portare oltre.Credo che quell’esperienza abbia rappresentato un momento di svolta nel mio percorso di crescita personale, al quale hanno fatto seguito molti altri vissuti, immagini e ricordi che mi hanno permesso di guardare un po’ oltre le mie difese, oltre una immagine di me costruita per gli eventi vissuti, e riconoscere l’insicurezza e la fragilità.

Fatta questa breve ricognizione della mia esperienza con l’arco bioenergetico, credo che sia arrivato il momento di addentrarmi nell’essenza e nel profondo significato di questo esercizio. L’esercizio
dell’arco è uno dei primi esercizi che fu sviluppato da Lowen con lo scopo di aumentare il grounding e quindi rafforzare il contatto con il suolo, accrescendo la sensazione di stare bene sulle proprie gambe e sui propri piedi. L’arco viene anche definito “posizione fondamentale di sforzo”[20] in quanto, come abbiamo potuto vedere dalla spiegazione dell’esercizio, il corpo inarcato all’indietro viene posto in una situazione di carica, in totale apertura ed espansione verso l’esterno, pronto a scoccare da un momento all’altro. Quando, nella posizione di arco, le parti del corpo sono bene equilibrate avviene che il punto centrale delle spalle si trova perfettamente sopra al punto centrale dei piedi, e la linea che immaginariamente li collega è un arco perfetto, carico e pronto all’azione. Nella realtà, però, non accade mai che si riesca a sviluppare immediatamente un arco perfettamente equilibrato, in quanto i disturbi corporei che normalmente tutti sviluppiamo impediscono di svolgere l’esercizio correttamente. Nello specifico, infatti, l’arco è utilizzato come strumento diagnostico, in quanto la forte posizione di stress e di apertura, fa emergere istantaneamente i principali blocchi corporei e la loro esatta ubicazione. Lowen, nel suo libro “Bioenergetica”, fa una precisa distinzione delle problematiche che frequentemente si riscontrano nella posizione di arco, suddividendole in tre categorie: rigidità diffusa, iperflessibilità della schiena, grave ritrazione della pelvi.
Nel primo caso, la grande difficoltà nello svolgere l’esercizio, risiede proprio nell’impossibilità di arcuare il corpo, a causa della rigidità diffusa che impedisce la flessibilità della schiena e la giusta
articolazione delle ginocchia e delle caviglie. Così accade che la linea immaginaria che congiunge il punto in mezzo alle spalle con il punto che sta in mezzo ai piedi è una linea retta. Il caso dell’iperflessibilità della schiena è esattamente l’opposto di quello precedente, infatti il busto è completamente scarico in avanti a causa della debolezza dei muscoli dorsali, la quale porta quasi ad una spezzatura esatta della linea dell’arco: “Il corpo e la personalità rigidi sono inflessibili; in questo caso invece il corpo e la personalità sono troppo malleabili”[21]. Nell’ultimo caso di esecuzione problematica dell’esercizio assistiamo proprio ad una rottura della linea dell’arco dovuta ad una grave ritrazione della pelvi, caso esattamente opposto a quello precedente in cui la pelvi era
completamente scarica in avanti.

Da questa posizione emergono le numerose frammentazioni del corpo, sintomo di un flusso interno a sua volta spezzato: in genere la testa e il collo sono inclinati verso un lato o l’altro del corpo, mentre il tronco tende ad andare verso il lato opposto, e lo stesso avviene per le gambe rispetto al tronco. Se consideriamo nuovamente la linea immaginaria che unisce il punto centrale delle spalle e quello dei piedi, essa sostanzialmente assume una forma a serpente. Queste forti frammentazioni e spaccature sono tipiche della struttura caratteriale schizoide o nella sua forma patologica dello schizofrenico: “Schizoide significa spaccato in due. Se c’è una spaccatura nella personalità, deve esserci anche a livello energetico nel corpo”[22]. Dalle spiegazioni di Lowen emerge chiaramente il potere diagnostico dell’arco, la sua capacità di palesare i disturbi corporei come quelli esposti precedentemente e i disturbi emotivi sottostanti, come l’incapacità di cedere e di dare nel rigido, la mancanza di assertività e autoaffermazione nei soggetti con il dorso collassato, e la totale mancanza di armonia negli schizoidi.

L’arco è inoltre definito strumento diagnostico in quanto “Non è una questione di pratica: è una posizione che non si può imparare. Non è una posizione statica”[23]. Detto ciò, vorrei soffermarmi su
un aspetto specifico fortemente implicato nell’esecuzione dell’esercizio dell’arco: la respirazione. L’arco, come abbiamo già detto, è un grounding che apre in modo completo la respirazione attraverso l’espansione e il rilassamento delle tensioni del bacino, del diaframma e del torace, favorendo così il libero fluire dell’energia nel corpo. È fondamentale, mentre si esegue l’esercizio, respirare pienamente e profondamente, cercando di mantenere l’integrità e il retto funzionamento del corpo anche mentre si è sotto sforzo.

La respirazione è la più vitale delle funzioni fisiologiche ed è anche l’unica funzione ad essere sia volontaria che automatica, ciò vuol dire che possiamo coscientemente controllare la respirazione nell’ampiezza, nella frequenza, possiamo accelerarla o rallentarla. Inoltre, la respirazione è anche tra le funzioni fisiologiche più profondamente connesse allo stato emotivo e al funzionamento della psiche. Non è un caso che l’individuo occidentale, così coinvolto nelle sue attività frenetiche, tenda a dissociarsi dal corpo, ignorando “la semplice verità che dice che per essere vivi si deve respirare e che meglio si respira e più si è vivi (…) la respirazione è una questione di vita o di morte o, per vederla da un punto di vista positivo, che la vita è una questione di respirazione”[24]. Non a caso, in tutte le tradizioni e civiltà antiche, il termine aria conteneva in sé anche il significato biologico e psicologico di  energia vitale, perché in realtà una respirazione agevole e libera consente una
profonda sensazione di essere pienamente vivi, di essere un’unità che si trasforma, che pulsa, che cambia.

Il pensiero di Carlos Briganti esprime bene questo concetto: “Con ogni movimento respiratorio avviene una trasformazione dello spazio interno. La respirazione è il movimento tramite il quale viene stabilita la consapevolezza del ritmo. Siamo una forma nuova in ogni istante e a ogni movimento. Spazio, ritmo e forma: le tre dimensioni che ci servono come punti di riferimento in ogni momento. Qui sta l’espressione dinamica di un sé che si organizza, si disorganizza e si riorganizza. Rottura, scissione e creazione in ogni istante”[25]. Briganti esprime benissimo il principio bioenergetico dell’identità funzionale corpo-mente e la ferma convinzione che un essere umano non possa essere mai scisso in due. Ciò vuol dire che qualsiasi cambiamento nel pensiero di una persona, nel suo
comportamento e nelle sue emozioni e sentimenti, è condizionato e implica, allo stesso tempo, un cambiamento nella funzionalità del proprio corpo.

In una persona che ha un conflitto emotivo, le funzioni della respirazione e del movimento sono inevitabilmente disturbate; questo emerge esattamente nell’esercizio diagnostico dell’arco, attraverso
il quale possiamo analizzare i principali blocchi corporei, come quello del bacino, del diaframma e del torace, e correlarli alle diverse patologie dell’apparato respiratorio che a loro volta esprimono specifiche strutture della personalità. Per approfondire questo discorso ritengo sia utile fare riferimento al libro di David Boadella e Jerome Liss La psicoterapia del corpo[26] , in cui gli autori riprendono e descrivono degli stili respiratori che Reich e Lowen avevano precedentemente trattato in alcuni loro capolavori.
Il primo tipo di respirazione trattata è la respirazione costretta dai muscoli, che Reich per primo aveva descritto come caratterizzata da una forte rigidità dei muscoli pettorali con una conseguente tensione della gabbia toracica e riduzione del movimento diaframmatico. Infatti, nella posizione dell’arco, uno dei blocchi facilmente individuabili è proprio quello toracico, che può esprimersi sia in una rigidità e immobilità del petto, sia in una eccessiva espansione o al contrario in un collassamento di questa parte del corpo. Il tipo di respirazione costretta dai muscoli, descritta da Reich, si riferisce sostanzialmente alla caratterologia rigida e muscolarmente corazzata di Lowen, la quale è caratterizzata da una forte tensione delle larghe fasce muscolari del corpo che riducono fortemente la respirazione rendendola superficiale: “La respirazione di questi individui è una respirazione insensibile (…) è ridotta dalle tensioni e non esprime profonde emozioni né reagisce ad esse”[27]. Reich afferma che: “l’espressione della corazza toracica è di autocontrollo e di freno. Le spalle, che sono spinte all’indietro, esprimono letteralmente il trattenersi. Insieme con la corazza del collo, la corazza del torace esprime disprezzo e ostinazione repressi”[28]. È un tipo di personalità che così come tende a controllare la respirazione entro i limiti imposti dalla pressione della cassa toracica e della parete addominale, allo stesso modo tende a porre sotto il controllo dell’io il cuore e l’affettività: “da bambino ha vissuto il rifiuto della sua ricerca di piacere erotico e sessuale, come un tradimento del suo protendersi verso l’amore (…) il suo cuore non è escluso dalla periferia”[29].

La respirazione intestinale, contrariamente a quella precedente, ha il suo centro di tensione nella pressione addominale. Molti soggetti, soprattutto nella nostra civiltà occidentale frenetica e totalmente dedita al fare, lamentano frequentemente molti fastidi all’addome che possono manifestarsi con sensazioni particolari come avere qualcosa nel ventre, sentire come una cintura che stringe, sentire una pressione allo stomaco, ecc, o addirittura con veri e propri disturbi fisici come coliti, gastriti, ulcere, stipsi, ecc…

Esistono moltissimi modi di usare l’intestino come mezzo per reprimere i sentimenti, essi vanno dalla contrazione per la pressione addominale, fino alla contrazione dello sfintere anale, ma, nello specifico, Reich discute di questo in relazione alla dinamica del vomito affermando che: “Il vomito è un movimento biologico espressivo la cui funzione ottiene esattamente ciò che esprime: l’espulsione convulsiva del contenuto del corpo (…) Un bambino che è costretto a vergognarsi o a sentirsi in colpa per l’espulsione del contenuto del corpo impara ad ingoiare i cattivi sapori e le cattive sensazioni piuttosto che a sputarli fuori, e impara a inibire i movimenti peristaltici del colon.

Egli spesso sviluppa un tipo particolare di respirazione che accompagna e sostiene la struttura antiperistaltica”[30]. Questo tipo di respirazione che fu descritta da Reich, viene invece definita da Lowen respirazione paradossale e caratterizzata da una inspirazione che è prodotta da un movimento verso l’alto piuttosto che verso l’esterno, come normalmente dovrebbe accadere, egli infatti scrive: “Il sollevarsi e l’espandersi del petto è favorito dall’innalzamento delle spalle che tira verso l’alto il diaframma e contrae la parete addominale. Così l’espansione del petto è accompagnata dal restringersi della cavità addominale. Qualche volta succede che il ventre venga risucchiato durante l’inspirazione e rilasciato nell’espirazione”[31]. Questo stile di respirazione, che Lowen riferì parlando di un soggetto masochista, si osserva, non a caso, in individui esposti a situazioni talmente nauseanti da stimolare il vomito, o in individui esposti a situazioni di umiliazione anale e di disgusto per il contenuto intestinale.

Se infatti andiamo a vedere la struttura masochistica descritta da Lowen nell’esecuzione dell’arco bioenergetico, ritroviamo un palese blocco a livello pelvico che si manifesta con un avanzamento di quest’ultima e, nello specifico, con una contrazione del sedere, che appare per questo motivo appiattito. Tenendo in dentro il sedere, inoltre, il corpo si piega a livello della vita e si accascia. Nell’eziologia del carattere masochista troviamo, infatti, una madre estremamente dominante e tendente al sacrificio, che opprime letteralmente il figlio: “Un fatto tipico è la grande importanza
attribuita al cibo e all’evacuazione. Questo indica pressione dall’alto e dal basso”[32]. Nelle pagine precedenti era stato detto che, nella posizione di arco, il blocco toracico poteva esprimersi con una rigidità, una espansione o, al contrario, un collassamento del petto. Questo ultimo caso è quello che si presenta nella respirazione come suzione, caratterizzata, infatti, da poca profondità del respiro correlata ad un basso livello energetico della personalità.Nella caratterologia di Lowen, questo tipo di respirazione appartiene al carattere orale, in cui “Una forte tensione muscolare pare assente nella parte anteriore del corpo, ma solo a causa dell’aspetto sgonfio del petto e dell’addome (…) è abbastanza facile individuare il riflesso endoreattivo che può essere dovuto a primitivi disturbi nell’alimentazione, con persistenti tendenze al vomito”[33].

Come afferma Lowen nel Il tradimento del corpo: “Ogni disturbo della suzione avrà una ripercussione immediata sulla respirazione”[34], infatti, se osserviamo questi soggetti nella posizione dell’arco bioenergetico, noteremo una estrema difficoltà nel portare in fuori il petto, inoltre molti di essi, nel momento in cui eseguono l’esercizio in questione aprendo la respirazione e spalancando la gola, avvertono frequentemente sensazioni di annegamento e soffocamento. Questi sono sintomi di esperienze primarie, risalenti ai primi mesi di vita, se non addirittura all’esperienza intrauterina. Infatti, molti studi hanno messo in evidenza che “i bambini allattati al seno di norma respirano meglio di quelli allattati col poppatoio perché la suzione dal seno è un processo più attivo dal succhiare da una tettarella di gomma (…) Le deprivazioni e le frustrazioni in questa zona li hanno spinti a rifiutare e a rinnegare l’impulso di suzione (…) Questi sentimenti e impulsi infantili vengono ridestati quando il paziente prova a respirare più a fondo. La sua reazione è di soffocarli come quando era bambino”[35].

Le tensioni al torace portano inevitabilmente anche a delle tensioni e blocchi nella fascia corporea del collo, comportando una forte contrazione della gola. Quest’ultima, normalmente
rappresenta un grande organo di assorbimento che porta l’aria nei polmoni, ma, quando questa è contratta, questa azione di assorbimento viene ridotta. La respirazione normale e salutare deve coinvolgere tutto il corpo, creando una sensazione di unità e di integrità: “il flusso respiratorio si dirige normalmente dalla bocca ai genitali. Nella parte superiore del corpo si trova in connessione con il piacere erotico della suzione e dell’allattamento. Nella parte inferiore, è legato al piacere e ai movimenti sessuali. La respirazione è la pulsazione basilare (espansione e contrazione)
di tutto il corpo; è quindi il fondamento dell’esperienza di piacere e dolore”[36].

La respirazione profonda attiva il corpo e lo riporta alla vita, ed è proprio questo l’obbiettivo che si vuole raggiungere in questo tipo di persone attraverso l’arco bioenergetico. Il loro livello energetico deve essere attivato e i loro corpi devono essere caricati, per cui attraverso l’arco è possibile, da un lato, rafforzare il radicamento portandoli a sperimentare la capacità di stare sulle proprie gambe, senza aggrapparsi agli altri, dall’altro lato è possibile riempirli energeticamente andando a colmare quel senso di vuoto interiore che li fa rimanere in una posizione di costante attesa che qualcuno arrivi a colmarlo.

In ultimo prendiamo in considerazione la respirazione come nascita e come rifiuto alla nascita, che viene descritto da Reich in relazione ad un caso di schizofrenia, e che ritroviamo in Lowen come il tipo di respirazione che caratterizza la struttura caratteriale schizoide. È stato detto, nelle prime pagine di quest’ultimo capitolo, che l’esercizio dell’arco mette in evidenza tutte le frammentazioni che caratterizzano il corpo schizoide e che sono a loro volta rappresentanti di profonde spaccature a livello della personalità e a livello energetico.

Lo schizoide mantiene l’unità corpo-mente con un filo sottile e fragile.Il corpo è in genere striminzito e contratto, soprattutto alla base del cranio, alle articolazioni delle spalle, delle gambe, della pelvi e intorno al diaframma dove la tensione è talmente forte da tendere a spaccare in due il corpo. Questa specifica strutturazione fisica fa si che la respirazione sia estremamente superficiale e che i movimenti respiratori siano ridotti al minimo; Reich afferma: “È una respirazione interiore, invisibile se paragonata a quella di chi respira con un atteggiamento fiducioso verso il mondo (…) La respirazione impercettibile non è un rifiuto dell’aria, ma del processo di respirazione stesso che è il requisito indispensabile per la vita extra uterina (…) è la respirazione di qualcuno riluttante o incapace di nascere”[37].

Alle sue spalle troviamo, infatti, una esperienza nella primissima infanzia, se non addirittura nella vita intrauterina, di rifiuto da parte della madre, vissuto come minaccia alla propria esistenza. Non a caso Lowen descrive un tipo di respirazione che, potremmo dire, rappresenta l’opposto di quello descritto da Reich, e che ben riflette questi vissuti antichi di paura: “Nella struttura schizoide l’espansione della cavità toracica è accompagnata da una contrazione della cavità addominale. Ciò impedisce al diaframma di scendere (…) In questa condizione lo schizoide e lo schizofrenico si sforzano di respirare con la parte superiore del torace, in modo da inspirare una quantità d’aria sufficiente”[38].

Questo specifico tipo di respirazione nasconde uno stato emotivo ben preciso; se proviamo a bloccare la respirazione durante l’inspirazione, sentiremo come una specie di rantolo mentre l’aria entra nei polmoni e sarà facile riconoscere una espressione di paura. Nel caso dello schizoide quindi, l’esercizio dell’arco ha il fondamentale compito di espandere e favorire la respirazione, aumentando quindi il flusso energetico interno che porta ad una maggiore identificazione con il proprio corpo e a sviluppare lentamente un vissuto di armonia e di maggiore integrità.

È giusto dire però, che aver condotto questa analisi dei vari stili respiratori in relazione all’esercizio dell’arco bioenergetico, risente di tutti quei limiti che generalmente caratterizzano le classificazioni e le schematizzazioni, soprattutto quando applicate alla personalità umana. E’ doveroso precisare che non è possibile classificare rigidamente i vari tipi di respirazione e considerarli come scompartimenti stagni da appioppare a specifiche personalità… sarebbe anti-umanistico.

Così come ogni persona è un insieme di più tratti che appartengono a diverse strutture caratteriali, anche i tipi di respirazione si intersecano e si incontrano nello stesso individuo, o al contrario, possono alternarsi gli estremi opposti quando viene superato il margine dello stress, o in condizioni di particolare angoscia e tensione.

(Dott.ssa Lucia Malandrino, educatore professionale, conduttore di Classi di Esercizi bioenergetici e Counsellor bioenergetico in formazione)

La coppia di Willy Pasini

A che cosa serve la coppia? Se uno di voi mi facesse questa domanda, io gli risponderei che la coppia serve a far durare l’amore; del resto, alla tanto bistrattata e vituperata vita a due non è ancora stata trovata una valida alternativa. Provate ora a porre la stessa domanda a qualcun altro: da ognuno dei vostri interlocutori otterrete una risposta diversa, nella quale tuttavia si intrecciano sempre bisogni e aspettative, la voglia di romanticismo e le impellenze della vita quotidiana, i ricordi di chi ha trascorso pomeriggi a leggere Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir e i sogni di chi vorrebbe vivere un giorno, almeno uno, come Bonnie e Clyde. C’è persino chi prende a modello Bill e Hillary Clinton. Nessuno di questi ideali di coppia, però, riesce a nutrire l’immaginario collettivo e, in assenza di modelli forti, ci troviamo di fronte a uno dei grandi paradossi della nostra epoca. Da un lato, la vita di coppia non è mai stata così poco messa in discussione come oggi, al punto da essere considerata l’unica forma di rapporto amoroso socialmente plausibile. Dall’altro, mai come adesso la vita a due è stata fonte di continui fraintendimenti che, alla lunga, finiscono per portare a inevitabili separazioni.
A mio avviso, per superare questa fase di stallo, è necessario conoscere e rivoluzionare il nostro modo di pensare la coppia.

La coppia in evoluzione
La coppia ‘malata’
La coppia ‘sana’

La coppia in evoluzione

Nella società attuale manca un paradigma positivo della vita di coppia, e la sua ridefinizione è resa ancora più difficile dai grandi cambiamenti socioculturali in atto nella nostra epoca. Fra questi, i fenomeni che influenzano direttamente il rapporto a due sono almeno cinque:

1- La divaricazione tra vita di coppia e famiglia procreativa
Il tasso di natalità inferiore allo zero dei paesi occidentali dimostra che mettersi assieme, oggi, non significa più automaticamente procreare. Il centro dell’interesse si è quindi progressivamente spostato dai figli alla coppia, le cui esigenze tendono a separarsi da quelle della famiglia.

2- Il passaggio dai bisogni familiari ai bisogni individuali
Ora che non ci si mette più assieme solo per procreare, anche la dialettica tra vita di coppia e vita individuale è in cerca di una nuova definizione. A mettere in primo piano i bisogni dell’individuo è una serie di fattori concomitanti: dall’emancipazione del ruolo della donna nella società a una retorica collettiva che privilegia la riuscita dell’individuo a discapito dei bisogni affettivi del partner.

3- La transizione verso una società secolare e multiculturale:
Ora che le società occidentali si avviano a essere sempre più secolarizzate e multiculturali, aumentano anche le differenti visioni della vita a due. Per alcuni la coppia è un’unione sacra, indissolubile e imprescindibile da una visione religiosa della vita. Per altri, si tratta solo di un’entità giuridica, con diritti e doveri. C’è poi chi intende la vita di coppia come una convivenza regolata esclusivamente da regole psicologiche. Il riferimento a uno di questi tre codici può generare malintesi e conflitti.

4- La continua collusione fra vecchio e nuovo
Viviamo in una società postmoderna, in cui riferimenti culturali diversi sono accessibili a tutti nello stesso momento. C’è chi ha una visione romantica della coppia. Altri nutrono nei confronti della coppia pregiudizi nati negli anni ’60 e ’70, agli albori della rivoluzione sessuale e del conflitto generazionale. Per alcuni, ancora, la coppia è solo una ‘società per azioni’, nata per soddisfare le comuni esigenze di affermazione nel sociale. E c’è, infine, chi vuole una storia di una notte e chi intende coronare il sogno di una vita. In questa selva di atteggiamenti è ormai virtualmente impossibile identificare la direzione della modernità: abbiamo tutti ragione e tutti torto, a seconda delle circostanze. Sullo sfondo di queste diverse concezioni c’è infatti per tutti una società consumista che riserva sempre meno spazio al mondo privato e alle ragioni della morale. La coppia romantica esiste nella fantasia, ma non nella realtà dove è pressata dall’urgenza quotidiana e dai consumi.

5- Dalla società rigida a quella flessibile
È stato calcolato che i nostri figli cambieranno almeno sei lavori nel corso della loro vita. Già oggi ci muoviamo nella dimensione spazio-temporale a velocità elevatissime: attraverso il computer siamo collegati al mondo intero, e proprio la possibilità di disporre di un intero ufficio in valigia rende gli spostamenti sempre più facili. Non è infrequente cambiare residenza e attività professionale più di una volta nel corso della vita. Le nostre vite, dunque, sono molto diverse da quelle previste dai legislatori che hanno redatto il codice civile, la cui rigidità ricorda quella che alcune coppie dimostrano nell’adeguarsi alle nuove regole del gioco.

La coppia ‘malata’

Gli studi sull’attaccamento nella vita adulta rivelano che, alla base del concetto di formazione della coppia, sembra esserci il tipo di attaccamento che si è instaurato nell’infanzia con la figura di riferimento principale (spesso rappresentata da un genitore), che determina nel futuro dell’individuo la ricerca di un certo tipo di partner a seconda del modello di relazione che si vuole ripetere. In questo senso, i modelli di attaccamento si perpetuano per più generazioni.
Nella crescita di ogni individuo può intervenire qualcosa che permette un certo grado di differenziazione dalla famiglia di origine ma, se questo processo viene ostacolato per qualunque motivo, da adulti ci si trova ‘costretti’ a scegliere un certo tipo di partner.
Ho individuato quattro tipi di coppie che possono essere definite ‘malate’ perché, appunto, i due partner soddisfano reciprocamente i propri bisogni inconsci. Il fatto che la relazione sia sana o malata non dipende semplicemente dall’appartenenza a una di queste categorie ma dal livello di collusione che i due partner hanno instaurato.

1- Amore come fusione: la coppia narcisistica
Questo tipo di coppia è costituito da due narcisisti: uno che esibisce il proprio narcisismo e l’altro che lo inibisce.
Il narcisista ‘espressivo’ ha bisogno di sentirsi straordinario e dipende dall’ammirazione altrui.
Il narcisista ‘inibito’ sogna di perdersi nell’altro e il solo fatto di essere stato scelto lo rende disponibile ad ogni sacrificio. Quando due tipi del genere si incontrano è amore a prima vista. Purtroppo però la passione narcisista è passeggera perché il narcisista ‘espressivo’ è capace di concedersi totalmente solo per breve tempo. Infatti poco dopo tempo il partner ‘inibito’ non interessa più e viene estromesso. D’altra parte la personalità narcisista di tipo inibito si lascia estromettere perché ha una autostima bassissima e sente di non meritare un uomo di successo.

2- Amore come nutrimento reciproco: la coppia orale
La coppia caratterizzata da questo tipo di legame può essere paragonata alla coppia madre-figlio. L’una deve accudire l’altro nei suoi bisogni. All’interno della coppia orale chi fa la parte del poppante non è riuscito a identificarsi con il ruolo materno perché sono state troppe le frustrazioni che ha vissuto con la vera madre e, quindi, trasferisce sul partner le funzioni materne.
Chi ricopre il ruolo di madre ideale e gratificante cerca continuamente di curare l’altro perché non è in grado di occuparsi di se stesso. In realtà quest’ultimo si prende cura di sé proiettando la sua parte poppante sul partner. Questo tipo di coppia rischia la rottura solo quando prende il sopravvento l’invidia: la madre è gelosa delle attenzioni che il bimbo riceve e lui , a sua volta, è angosciato dalla posizione regressiva in cui è caduto.

3- Amore come possesso reciproco: la coppia sadomasochista.
In questo tipo di coppia, il piacere di controllare si trasforma in gusto del potere e i conflitti hanno l’unico obiettivo di non darla vinta all’altro.
In tali coppie il partner dominante assume di solito atteggiamenti dispotici, ambisce al controllo dei comportamenti e della mente dell’altro.
Il partner passivo sopporta tutto delegando all’altro ogni decisione ed è contento di vivere sotto la sua protezione: questo lasciarsi dominare è comunque solo un modo per dominare l’altro.
La coppia sadica entra in crisi solo quando uno dei due fa emergere le tendenze che fino ad allora erano state rimosse ed è ovvio che spesso queste relazioni sfociano nel sadomasochismo, anche se solo di tipo psicologico.

4- Amore come dovere: la coppia isterica
Questo tipo di coppia è costituita da un partner (generalmente la donna) che tende a trasferire i conflitti all’esterno della coppia oppure a somatizzarli in improvvise malattie. L’altro partner (generalmente l’uomo) si è emancipato molto tardi ed è passivo per natura, anche se cerca di non darlo a vedere. I due si incontrano perché la donna cerca aiuto e pensa di ottenerlo sposando un uomo che aspira solo a consolarla; l’uomo, invece, si sposa perchè è stato convinto dalla famiglia a mettere la testa a posto. Questo tipo di coppia entra in crisi nel momento in cui è il partner ‘consolatore’ ad avere bisogno di aiuto e la partner lo respinge sdegnata.

La coppia ‘sana’

Al di là delle considerazioni fatte finora, la coppia costituisce una importante fonte di energia e questo diventa evidente quando si mette fine a un rapporto e si cerca di costruirne uno nuovo. Se si resiste alla tentazione di imporre il proprio stile di vita ci si ritrova automaticamente arricchiti di quello dell’altro. Generalmente si pensa che il benessere e l’euforia che caratterizzano l’inizio di un nuovo rapporto debbano essere limitati alla fase dell’innamoramento. In realtà la coppia che dura nel tempo può produrre emozioni analoghe a quelle del legame che nasce, sempre che riesca ad evitare di cadere in alcuni meccanismi molto diffusi che possono, col tempo, far naufragare l’unione.
Senza pretendere di fornire un ricettario che garantisca il successo e la felicità di ogni legame di coppia ho individuato 15 sentieri che possono favorire un rapporto di coppia solido e duraturo.

1- il sentiero del sano egoismo
È importante che la coppia si protegga dalle interferenze dei rispettivi nuclei familiari d’origine e dai figli. Anche quando i due partner si sono fisicamente allontanati dalle rispettive famiglie, infatti, può continuare ad esistere un coinvolgimento eccessivo fra i membri della coppia e i loro genitori.

2- Il sentiero della razionalità
La coppia sana deve definire a quale principio religioso, giuridico, sociologico o psicologico fa riferimento.
Spesso infatti le coppie infelici sono quelle in cui a dominare sono gli obblighi della morale e della legge, i quali possono rappresentare sì una misura protettiva nei momenti di crisi, ma non per questo devono annullare la dimensione psicologica e la spontaneità che sole permettono un autentico confronto all’interno della coppia

3- Il sentiero dell’umiltà
La maggior parte delle coppie entra in crisi perché le aspettative nei confronti del partner e della coppia sono sproporzionate alla realtà.
Soprattutto nel passaggio dalla fase dell’innamoramento a quella dell’amore è fondamentale per la coppia riavvicinare le proprie aspettative alla realtà dell’altro, senza abbandonare le proprie ambizioni personali.

4- Il sentiero della generosità
La coppia è una struttura emotivamente fragile che deve essere periodicamente nutrita affinché possa nutrire i suoi membri.
Chi vede la coppia come un nido in cui essere nutriti e basta non fa che prolungare il vissuto infantile di avere sempre a disposizione il nutrimento (latte o affetto) della mamma, senza imparare a ricambiare.

5- Il sentiero della matematica
Nella realtà affettiva la matematica che abbiamo imparato a scuola non funziona.
Nelle coppie definite simbiotiche, ad esempio, 1+1 è sempre uguale a 1. In questo tipo di coppia non esistono i confini dell’altro.
Quando, al contrario, non esiste alcun interesse comune nella coppia, allora 1+1 è sempre uguale a 0.
All’interno della coppia sana si alternano momenti di condivisione a spazi di autonomia e, in questo tipo di coppia, 1+1 è uguale a 3 perché due innamorati sono capaci di realizzare cose insieme che il singolo non riuscirebbe neppure ad immaginare.

6- Il sentiero della complessità
La coppia che dura ha bisogno di sentimenti, come la stima e la modestia, che rappresentano la base stabile e che vengono, per questo, definiti ‘centripeti’. Accanto a questo, la coppia ha bisogno anche di emozioni forti come la passione e l’imprevisto. Queste emozioni vengono definite ‘centrifughe’ perché aiutano ad uscire dalla routine quotidiana.

7. Il sentiero della fedeltà
Nella prima fase dell’innamoramento essere fedeli è semplice perché tutte le attenzioni sono rivolte al nuovo partner. Nel passaggio dall’innamoramento all’amore c’è chi rimane fedele per convinzione ideologica, chi rimane assillato dal dubbio se tradire o non tradire il proprio partner e chi trasforma il desiderio in realtà.
C’è chi, infine, rimane fedele per scelta, grazie alle capacità di rinnovare gli interessi comuni che mantengono viva la sessualità. Questo tipo di fedeltà attiva diventa un vero e proprio afrodisiaco per la vita di coppia.

8. Il sentiero del dialogo
Per poter compensare la mancanza di riferimenti ideologici e sociali chiari che caratterizzano la società attuale, i membri di una coppia sana devono imparare a comunicare le reciproche esigenze in maniera chiara. In modo particolare, nei momenti di crisi, imparare a dialogare senza distruggersi significa aumentare le possibilità di far durare il rapporto

9. Il sentiero del bambù
In coppia è fondamentale essere flessibili senza per questo adattarsi incondizionatamente alle esigenze dell’altro.

10. Il sentiero della parità
La coppia sana è regolata dal principio della reciprocità e non da rapporti di forza. Per garantire una ‘democrazia a due’ può essere auspicabile una buona ripartizione dei ruoli ma alla base ci deve essere la tolleranza e la coesistenza.

11. Il sentiero dell’intimità
L’intimità di coppia comprende la dimensione spirituale, intellettuale, affettiva, corporea e sessuale. Non è necessario che la coppia riesca a sperimentare tutte le dimensioni: spesso possono bastare tre di questi livelli per far durare una coppia nel tempo.
Nelle coppie in cui è assente la dimensione sessuale sembra aumentare il livello di conflitto a dimostrazione dell’incontrovertibile importanza del sesso.

12. Il sentiero della complementarietà.
Le coppie, secondo gli studiosi, si dividono in complementari e simmetriche. Nelle prime i membri della coppia si scelgono perché sono molto diversi fra di loro. Nelle coppie simmetriche i due partner si comportano esattamente nello stesso modo, sia in termini positivi che negativi. La coppia che dura di più è quella costituita da 2/3 di complementarietà e 1/3 di simmetria.

13. Il sentiero della lotta.
Le coppie che durano di più sembrano essere quelle che hanno affrontato insieme delle grandi difficoltà come, ad esempio, situazioni eccezionali, povertà o crescere un figlio malato.
Questi eventi estremi permettono, infatti, di tirar fuori il guerriero che è dentro i membri della coppia.

14. Il sentiero del mattone.
Stabilire un progetto comune di coppia come comprare una casa o sognare una vacanza permette di esprimere una grossa quantità di energia della quale ne beneficierà sicuramente il rapporto a due.

15. Il sentiero del gioco
La coppia ha bisogno di gioco e a volte basta l’ironia di uno dei membri della coppia per rendere meno pesante l’atmosfera di coppia.
Il gioco permette alla coppia di mantenersi giovane e dà la possibilità di sdrammatizzare anche le tensioni che sembrano essere radicalizzate.

 

tratto da  http://www.willypasini.it

Mamme depresse

Quando il momento più gioioso si trasforma in un incubo. Crisi di pianto, insonnia, nervosismo, irritabilità, cambi d’umore. Per molte donne le prime settimane post parto sono difficili. Un problema sottovalutato, ma che conta 50mila casi solo in Italia

È nato e tutti si aspettano che tu sia felice e raggiante per il lieto evento. Spesso però la nascita di un figlio è accompagnata da uno stato di disagio che colpisce il 10-20 per cento delle donne nei giorni successivi il parto. Crisi di pianto, cambiamenti di umore, irritabilità generale, perdita dell’appetito, insonnia o all’opposto difficoltà a rimanere svegli, assenza di interesse nelle attività quotidiane e/o verso il neonato sono alcuni dei sintomi della depressione post-parto.

Un disturbo che colpisce sempre più neomamme e di cui nel nostro Paese si parla ancora poco, nonostante ogni anno in Italia si registrino 50mila casi. «La nostra società vive un’emergenza silenziosa, quella della madri che sperimentano la depressione post partum, il 10-15 per cento del totale nei Paesi occidentali». A lanciare l’allarme è il dr. Claudio Cricelli, presidente della Società Italiana di Medicina Generale. «Eppure – osserva – un problema così diffuso passa quasi inosservato sotto gli occhi dei familiari ma anche degli stessi operatori sanitari.

Il medico di famiglia deve essere una sentinella del problema: siamo noi infatti, prima ancora degli specialisti, a possedere gli strumenti per prevedere una possibile situazione di crisi. Noi che conosciamo la paziente fin dall’adolescenza e sappiamo da quale contesto familiare proviene, possiamo con più facilità identificare i sintomi». Un problema che emerge in maniera più drammatica nelle donne che sperimentano situazioni di emarginazione o disagio, anche se può comunque colpire qualsiasi neomamma.

Chi non ricorda, ad esempio, la toccante testimonianza di Brooke Shieldsche in E poi venne la pioggia, un sincero e toccante libro autobiografico, ha raccontato lo stato d’animo tutt’altro che materno e felice che ha accompagnato la nascita della sua prima figlia, Rowan Francis. «Guardavo le finestre del mio appartamento di New York e mi veniva voglia di buttarmi giù. Non volevo più vivere. Mi ha salvato solo il pensiero che, stando al terzo piano, non sarei neppure riuscita a morire.

Un mucchio di ossa rotte, e sarebbe stato ancora peggio», si legge nel libro. Ma se questo disagio è quasi fisiologico e accompagna un po’ tutte le puerpere nelle prime settimane dopo il parto, non si può dire lo stesso per un 20 per cento di neomadri che soffrono di un disturbo più profondo. La cui corretta identificazione rappresenta il primo passo per la presa in carico del problema. La sottostima e il mancato trattamento di questa condizione psicologica ha infatti una pesantissima ricaduta sul contesto familiare.

Ma soprattutto presenta importanti conseguenze sul benessere dei bambini, particolarmente fragili a causa del mancato o compromesso sviluppo della normale interazione madre-neonato, con ricadute a livello cognitivo, emotivo e comportamentale. Identificare e curare questa patologia significa non solo aiutare le donne, ma tutelare le generazioni di domani.

Osservazioni sulla pratica di Corrado Pensa

LA FASCINAZIONE DEL PENSARE
Ovvero la tendenza ad attribuire il massimo valore possibile al pensare in sé e per sé. Non ci riferiamo, perciò, all’apprezzamento della riflessione saggia o di altre forme costruttive di pensiero, bensì, appunto, a una fascinazione indiscriminata per l’attività mentale. Due aspetti salienti di tale orientamento sembrano questi. 1) Ci sentiamo ‘a posto’ e in regola solo quando la mente pensa molto, non importa a cosa e non importa come. Quello che conta, invece, è il discorrere mentale: e discorrere viene dal latino discurrere, che significa ‘correre di qua e di là’. 2) Ci aspettiamo tutto e la soluzione di tutto in primo luogo dal pensare e poi anche dal leggere e dal parlare. È come se una parte di noi dicesse: se soltanto riesco a pensare abbastanza e abbastanza ripetutamente alla tale questione, se solo rivedo il film mentale di quell’avvenimento tantissime volte, se ce la faccio a leggere in abbondanza sulla meditazione… allora sì, allora succederà sicuramente qualcosa di buono. È una specie di fede cieca, di abbandono a un presunto potere magico del pensare e del ripensare, della cogitazione compulsiva o proliferazione mentale.
In realtà – e questa è una delle lezioni più preziose della pratica – siamo davanti a uno degli attaccamenti più forti e radicati, l’attaccamento al pensare per pensare, l’attaccamento alla concettualizzazione e alla verbalizzazione, la dipendenza dall’incessante discorrere mentale, con la conseguente e inevitabile diffidenza nei confronti di tutto ciò che esula dalla discorsività. Ed è proprio l’attaccamento alla proliferazione che ci rende ciechi a fondamentali capacità della mente diverse dal pensare, in particolare sati (consapevolezza) e metta (benevolenza incondizionata).
Ossia da una parte la capacità di ascolto attento, di intimità non giudicante con ciò che i sensi e la mente via via ci presentano e, dall’altra, la capacità di investire i medesimi oggetti di una tenerezza altrettanto non giudicante e silenziosa (fatte salve, s’intende, le frasi-supporto per la metta). E ugualmente silenziosa – in quanto più intuitiva che discorsiva – è poi la saggezza compassionevole che nasce come frutto dell’esercizio di sati e di metta.
La difficoltà principale circa questo attaccamento è che il continuo discorrere mentale ci sembra una cosa normale o, addirittura, appetibile. Diversamente da quanto può accadere in altre forme di dipendenza, delle quali, pur continuando a coltivarle, conosciamo il carattere nocivo.
E perché la proliferazione mentale e l’attaccamento nei suoi confronti è un impedimento alla crescita interiore? Per molte ragioni. Vogliamo ricordarne una particolarmente importante. La discorsività mentale compulsiva è uno schermo, una barriera alla chiara percezione. Se, per esempio, ci troviamo di fronte a una nostra esperienza dolorosa, il pensarvi in modo ossessivo, in realtà, ci separerà da essa, rendendoci progressivamente più impotenti e più appesantiti. Mentre, al contrario, se impariamo a collocare questa esperienza nel raggio di un’osservazione attenta e affettuosa – il che comporta subito più silenzio mentale – entreremo finalmente in contatto con essa. E a misura che ci apriamo all’esperienza, si rafforzerà la nostra capacità di comprenderla e di lasciarla andare delicatamente, ossia di ampliare il potere liberante della saggezza compassionevole.

 

Una sequenza cruciale
È la sequenza phassa (contatto tra i sensi, che includono la mente, e i loro rispettivi oggetti) – vedana (sensazione piacevole, spiacevole o neutra) conseguente a tale contatto – tanha (attrazione, repulsione, confusione o distrazione rispettivamente davanti al piacevole, allo spiacevole o al neutro). Questa sequenza è chiamata anche l’‘anello debole’ nella catena della ‘produzione condizionata’ (paticca-samuppada), che è il cuore dell’insegnamento del Buddha circa la sofferenza e le sue cause. Perché anello debole? Perché l’area di phassa-vedana-tanha è quella in cui è possibile intervenire con la pratica, applicando una precisa consapevolezza su tutta la sequenza. Ciò avrà per effetto un progressivo indebolimento dell’attaccamento (upadana, il fattore immediatamente successivo a tanha) e dunque della causa fondamentale, insieme con l’ignoranza, della sofferenza.
Diciamo, dunque, che se la coltivazione della presenza mentale o consapevolezza (sati) è sempre auspicabile, la sequenza suddetta è uno dei suoi campi d’elezione, uno di quei campi dove emerge il carattere intrinsecamente saggio della vera consapevolezza, che non a caso è chiamata ayoniso-manasikara, attenzione saggia. È bene ricordare, in proposito, che è possibile essere meditanti disciplinati e, tuttavia, lavorare poco o nulla in questa zona del contatto-sensazione-reazione. Addirittura, è possibile fare ritiri lunghi, acquisire una buona capacità di pacificazione interiore e però, anche per mancanza di guida, rimanere piuttosto crudi in questo lavoro crucialissimo di investigazione della sequenza fondamentale.
Perciò io credo che sia molto utile prefiggersi deliberatamente di praticare sulla sequenza, sia durante la pratica formale, sia durante la pratica in azione. Altrimenti, se ci limitiamo all’intento generale di attenzione, si corre il rischio, da un certo momento in poi, di girare in tondo, senza entrare mai con pienezza nell’attenzione-investigazione circa le cause del dolore. E dunque, per usare la famosa immagine del Buddha, rischiamo di non mettere mai in acqua la zattera del Dharma per farne l’uso specifico cui essa è adibita, che è quello di portarci al di là delle acque della sofferenza.
I piccoli momenti di reattività che capitano nel quotidiano sono ottimo materiale di lavoro. Ottimo perché, essendo minimi, sono episodi che non ci annebbiano e dunque non spengono il nostro intento di pratica che, soprattutto agli inizi (ma non soltanto), può essere cosa fragile. Immaginiamo, ad esempio, di trovarci di fronte a qualcuno che si comporta in modo lievemente irritante o magari davanti a uno spot televisivo che non ci piace. Se prestiamo la retta consapevolezza (né tesa, né, d’altra parte, vaga e superficiale) sia al fuori (ciò che vediamo e ascoltiamo), sia al dentro (il nostro reagire), percepiremo come il gonfiarsi di una piccola onda di avversione. Questa onda sarà comunque – dato che si tratta di un evento minimo – effimera e di breve durata. Ma se viene fermamente illuminata dalla consapevolezza è ben possibile che l’onda si dissolva all’istante. Quasi un subitaneo rinvenire a una nostra pace di fondo che si indovina, promettente, al di là del piccolo turbamento.
Lavorando sulla sequenza (sempre davanti a minime cause di fastidio) può anche succedere questo, se l’attenzione è specialmente stabile, viva e accurata: percepiamo suoni, forme, colori, sensazioni fisiche, pensieri che si avvicendano in un movimento continuo. Niente altro. Non c’è spiacevolezza né avversione. E ciò con nostra sorpresa, dato che ci saremmo aspettati – sulla base dell’esperienza passata – una nostra piccola reazione avversiva, come al solito. Evidentemente quella spiacevolezza che abitualmente emergeva in noi vedendo la tal cosa è diversa dalla spiacevolezza, che potremmo chiamare oggettiva, di un ginocchio sbucciato. Si trattava, piuttosto, di una spiacevolezza mentale ‘confezionata’ in base a condizionamenti passati. Ma se, in virtù dell’attenzione, siamo radicati nel presente vivo, allora quei frammenti semiconsci di ricordi, mescolati a ‘cariche’ reattive ancora in circolo, non hanno potere e non si manifestano.
Ci ritroviamo, invece, con una intuizione, piccola ma molto istruttiva, del continuo avvicendarsi di suoni, colori, forme eccetera (anicca) che caratterizza la realtà ma che la nostra reattività e la nostra distrazione ci impediscono di vedere. Attenzione: quello che sto cercando di dire è che, nell’attimo di chiara visione, questo avvicendarsi, questo continuo processo, ci colpisce come più immediato, più evidente, più rilevante, più vero che non le nostre reazioni o interpretazioni. Dunque, se la sequenza di cui parliamo non è ‘lavorata’ con lo strumento della pratica, essa porta al costante rafforzarsi dell’attaccamento (upadana) che va a potenziare, altrettanto costantemente, la nostra sofferenza.
Al contrario, se la sequenza è resa oggetto di una giusta osservazione (ossia precisa e, insieme, duttile e tenera) ciò favorirà una progressiva attenuazione dell’attaccamento e dunque della stessa predisposizione alla sofferenza mentale: infatti tale predisposizione è fatta di quell’ansia di sicurezza, di possesso, di identificazione che è la trama medesima dell’attaccamento. E questo perché sati, tipicamente, illumina quello che non vediamo, e cioè tanto il carattere in vario grado nocivo e doloroso (dukkha) dell’attaccamento, quanto le altre caratteristiche dell’esistenza (cambiamento e non-solidità, anicca e anatta) che l’attaccamento, per sua natura, ci occulta.
A scanso di fraintendimenti da parte di meditanti principianti: sati, la consapevolezza saggia, non è un analgesico. In effetto il suo potere è complesso e si mostra, inoltre, gradualmente. Se in quei casi di reattività minima tale potere agisce facendo dissolvere il minuscolo disagio, allorché invece abbiamo a che fare con disagi più grandi, allora il potere di sati – ovvero l’esplicazione della sua saggezza intrinseca – si manifesta secondo modalità più indirette, nelle quali predomina un insieme di accettazione-discernimento. Il che, senza dissolvere la sofferenza, modifica tuttavia in profondità il nostro rapporto con essa. E poiché all’origine della parte più tossica della sofferenza, che è quella mentale, c’è, appunto, il nostro rapporto sbagliato con le cose, vediamo che – pur non scomparendo la sofferenza – sati, di fatto, opera per la guarigione dalla sofferenza. E questo non già sospendendola, come fa un analgesico, bensì, piuttosto, curandola nelle cause, come fa un farmaco specifico.
Dunque i piccoli disagi quotidiani, che conviene proficuamente usare per la nostra pratica, ci servono per uno scopo tanto semplice quanto importante: toccare con mano, spesso e immediatamente, il potere benefico (kusala) di sati nell’intervenire sul potere non benefico (akusala) dell’attaccamento.

 

LA PRATICA FORMALE
La figura dell’aspirante meditante curvo sotto il peso della colpa e della frustrazione perché non riesce ad avviare una regolare disciplina quotidiana di pratica seduta non è un incontro raro in ambiti di Dharma. Ora dietro questa insoddisfazione c’è spesso una equiparazione arbitraria, l’equiparazione della pratica del Dharma – che nella scuola antica è pratica dell’ottuplice sentiero (retta comprensione, retta motivazione, retta parola, retta azione, retto modo di vita, retto sforzo, retta consapevolezza, retta calma concentrata), con la pratica dei tre ultimi fattori soltanto e, per giunta, intesi solo come aspetti della meditazione formale. Laddove retto sforzo, retta consapevolezza e retta calma concentrata sono concepiti per essere praticati sia nella pratica formale sia nella pratica in azione.
Tale equiparazione tra una parte e il tutto, oltre a essere indebita, è prevedibilmente fallimentare, dato che il sentiero è un insieme unitario e bilanciato, una unità organica. Perciò, se ne ritagliamo una parte, questa parte è destinata ad appassire o a vivere di una vita fittizia, dato che non riceve la linfa proveniente dal resto della pianta, ossia dagli altri cinque fattori.
Ci sono tanti interrogativi fondamentali che fanno capo all’ottuplice cammino nella sua interezza, interrogativi che però noi mettiamo a tacere se siamo ossessionati da quell’unico interrogativo (“Perché non riesco a sedermi” oppure “Mi voglio sedere oppure no”), che è spesso la nuova edizione di una nostra vecchia ambivalenza e indecisione. Interrogativi come: quanta contentezza e serenità c’è nelle nostre vite e cosa facciamo perché ci sia? In che rapporto siamo con gli altri: distratto o rispettoso? Etica è una parola morta o viva per noi? Quanta sofferenza non necessaria siamo consapevoli di fabbricare dentro e fuori di noi? Quanta capacità abbiamo di abbandonare ciò che nuoce e di scegliere ciò che giova e quanto ci anima un progetto siffatto? Concepiamo la possibilità di una visione della vita e della morte che trascenda la visione angusta e confusa che ci portiamo dentro? Intendiamo esplorare questa possibilità?
Lavorare a questi interrogativi significa lavorare a tutto l’ottuplice sentiero, a cominciare dal fattore chiave della retta comprensione. E se ci interroghiamo sul modo giusto di essere nel mondo, sulla possibilità di una comprensione delle cose più ampia e profonda, prima o poi capiremo che abbiamo bisogno di emigrare dall’abitudinario e dal meccanico, che abbiamo necessità di una energia di pace e di una intelligenza amorosa nutrita da questa energia. Insomma se coltiviamo davvero un cammino la necessità di una pratica formale emerge con una certa naturalezza. Tutte le grandi tradizioni interiori sottolineano con vigore la necessità di regolari tempi protetti, di recinti di quiete. Questi tempi, questi recinti servono ad alimentare quell’energia di pace che è indispensabile per sostenere l’impegno radicale del lavoro interiore.
Allora praticando il cammino nella sua interezza, vedremo che, se la pratica formale stenta e si inaridisce qualora sia disgiunta dal resto del cammino, allo stesso modo succede che l’etica (ossia i tre fattori morali) e la comprensione (i primi due fattori) crescono e fioriscono se hanno le radici immerse nell’humus della contemplazione.
Uno dei contributi più lucidi dell’insegnamento del Buddha riguarda l’universale interdipendere e intercondizionarsi delle cose. L’ottuplice sentiero non fa eccezione: i suoi vari fattori sono in rapporto di mutua dipendenza e di mutuo sostegno. Cogliere al vivo questa realtà significa cominciare a capire in profondità il sentiero e quindi, in ultima analisi, la pratica formale.
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