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Autore: Hiram

IL FUOCO DELLA VITA della dott.ssa Livia Geloso

“IL FUOCO DELLA VITA”
della dott.ssa Livia Geloso
psicoterapeuta bioenergetica supervisore e docente
Dedicato alla memoria dei cari colleghi e maestri
dott.ssa Giovanna Epifani Zerilli
e dott. James A. Miller
La vita è uno stato di eccitazione: un movimento costante e sottile fatto di vibrazione e pulsazione. Occorre imparare a percepirlo, a difenderlo, a coltivarlo e a svilupparlo. Occorre imparare a lasciare che la vita scorra dentro e attraverso di noi con tutti i suoi eventi, quelli gioiosi e quelli dolorosi, quelli teneri e quelli violenti.
La coscienza della morte – ignota agli animali ed ai bambini – fa sì che cominciamo a illuderci di poterci opporre allo scorrere del tempo e alla sofferenza irrigidendoci. Così facciamo resistenza, ci blocchiamo e la vita non scorre più liberamente in noi; lo stato di eccitazione si smorza, diventa debole, lo percepiamo saltuariamente, sembra quasi scomparire. Diventiamo dipendenti dall’esterno per vivere qualche momento di eccitamento. Ma la personalità adulta ha in sè le risorse per ricostruire consapevolmente l’armonia perduta grazie ad un addestramento adeguato.
Alexander Lowen, il fondatore dell’Analisi Bioenergetica, così definisce lo stato di eccitazione tipico della vita:
“Quando sentiamo il cuore leggero o pesante, quando sentiamo che ci si stringe il cuore o che si allarga (…) ciò che avviene può essere descritto come un aumento o una diminuzione dello stato di eccitazione dell’organismo. L’eccitazione ci fa sentire leggeri, in sua mancanza ci sentiamo pesanti e depressi. (…) In ogni cellula, sia negli organismi più semplici, sia in quelli complessi e altamente strutturati, come l’uomo, finchè c’è vita, c’è uno stato di eccitamento. Può aumentare o diminuire, ma è sempre presente in una certa misura (…) il fuoco della vita…” (1)
Lo stato di eccitazione di cui parliamo e che chiamiamo “il fuoco della vita” è alla base del piacere di essere vivi, esperienza fondamentale e fondante il nostro “esserci”. Si tratta, infatti, dell’esperienza ontologica fondamentale, quella che, al di là delle affermazioni di principio solo verbali, fa sì che noi si ponga come gerarchicamente originaria la dimensione dell’essere su quelle del fare e del potere, che dall’essere devono, quindi, derivare e prendere significato.
Questo piacere ha già in sè qualcosa di estatico, in quanto nasce dall’unione degli opposti, ovvero, dall’unione dei due fiumi di energia che scorrono in noi: quello dell’aggressività nella parte dorsale del corpo e quello della sensibilità nella parte anteriore.
“In queste occasioni l’individuo conosce e sente l’unità della vita (oltre la dualità, infatti) la vita è un paradosso (il paradosso dell’unità e della dualità). E’ un fuoco che brucia nell’acqua.” (2)

Il fuoco è la sensazione che scorre nella parte dorsale del corpo; l’acqua è la sensazione di scioglimento che percepiamo nella morbidezza dei visceri nella parte frontale del corpo. Quando i due fiumi si uniscono nel bacino, percepiamo l’istinto sessuale come un fuoco liquido, lava di vulcano; all’altro polo, questa stessa qualità si manifesta nello sguardo carico di desiderio.
Questo si intende in Analisi Bioenergetica quando diciamo che occorre essere “orientati al piacere” piuttosto che al potere, e che l’orientamento al potere, in tutte le sue forme, è un ripiego quando la via al piacere di essere vivi è preclusa.
“…senza questo piacere fisico di sentirci vivi, la vita diventa la spietata necessità di sopravvivenza nella quale non è mai estranea la minaccia della tragedia.” (3)
Il piacere di essere vivi, infatti, è l’unica forza che può opporsi all’angoscia di morte e tenerla a bada. Certo, non possiamo evitare di temere la morte, ma possiamo eliminare l’ossessione della morte che ci toglie la voglia di vivere; e lo possiamo fare proprio imparando a godere consapevolmente ogni attimo del fatto puro e semplice di essere vivi e di tutto quello che ciò comprende: dalle esperienze vitali fondamentali, quali la percezione della funzionalità del corpo, la respirazione e il movimento, il piacere stesso di percepire sensazioni, movimenti ed emozioni; fino alle esperienze più raffinate collegate all’amare, al creare e costruire, al pensare, nonchè alle manifestazioni artistiche del piacere di essere vivi come la danza e il canto.
“Lo stato di eccitazione di una persona è sempre visibile nel corpo. A un alto grado di eccitamento, più sangue affluisce alla superficie, gli occhi brillano, il tono muscolare migliora, i movimenti sono più spontanei, le mani più calde, il cervello più attivo e il cuore può battere più velocemente.” (4)
Per concludere, ricordiamo che il fuoco della vita, che brucia nell’acqua, ha bisogno di appoggiarsi sulla terra, ovvero, di radicarsi attraverso le gambe e i piedi, nonchè di essere alimentato dall’aria, attraverso la respirazione, anche su questo l’Analisi Bioenergetica lavora fornendo esperienze e modelli cognitivi allo scopo di permettere alla personalità umana di esprimersi nel modo più pieno, maturo e creativo.
(1) A. Lowen, “Amore, sesso e cuore”, Astrolabio, 1988, p.12.
(2) A. Lowen, “Bioenergetica”, Feltrinelli, 1991, p. 297.
(3) A. Lowen, “Il Piacere”, Astrolabio, 1984, p. 19.
(4) A. Lowen, “Amore, sesso e cuore”, p. 13.

Mahamudra e il Respiro dell’Illuminazione di Jim Leonard

Il Respiro dell’Illuminazione è un respiro continuo, senza pause, e così anche la tua consapevolezza è continua. Esso enfatizza l’inspirazione portando dentro la perfezione del momento. L’espirazione è completamente rilassata – assolutamente non controllata – così l’intero essere può rilassarsi…

Il concetto Buddista di Mahamudra (che in Sanscrito significa “il grande simbolo“) è un’idea brillante. Alcune persone passano tutta la vita a studiarlo, e per questa ragione ovviamente c’è da dire più di quanto io possa condividere in questo breve articolo, ma l’idea di base è semplice.

In base al Buddismo tutti sono illuminati, ma la maggior parte delle persone si comporta come se non sapesse di esserlo. Mahamudra significa semplicemente che mentre aspetti di renderti conto di essere illuminato agisci come se già lo sapessi.

Può essere difficile comportarsi da illuminati tutto il tempo, ma non è così difficile comportarsi da illuminati per un solo momento. Ecco come:

  • Focalizzati sul momento presente. Dai al momento presente la massima attenzione ed esplorane i dettagli. Per non lasciar vagare la mente porta l’attenzione alle sensazioni del tuo corpo.
  • Considera perfetto il momento presente. Il momento presente è come è, che lo si critichi o no. L’atteggiamento illuminato è lasciar andare il giudizio negativo, smetterla di paragonare le cose al modo in cui si pensa che dovrebbero essere, e lasciare che il momento presente sia perfetto – dato che lo è.
  • Rilassati a suo proposito. Non ha senso essere tesi per ciò che è perfetto.
  • Riconosci che anche se non puoi fare nulla riguardo al momento presente, stai sempre comunque facendo qualcosa. Il momento presente è semplicemente com’è e non puoi fare nulla al riguardo. Ovviamente puoi fare tutto ciò che vuoi, ma da quando hai fatto qualcosa non è più lo stesso momento. E comunque, parte del momento presente sei tu, e tu stai facendo qualcosa. Sei venuto in questo mondo con energia, con un “momentuum” (concetto fisico di “quantità di moto”, ndt), e questo “momentuum” ti sta portando avanti ancora adesso.
  • Respira il respiro dell’Illuminazione. Devi respirare e ci sono molti modi diversi per respirare. Il respiro dell’Illuminazione significa respirare nel modo che sostiene meglio tutti gli Elementi dell’Illuminazione.

Il Respiro dell’Illuminazione è un respiro continuo, senza pause, e così anche la tua consapevolezza è continua. Esso enfatizza l’inspirazione portando dentro la perfezione del momento. L’espirazione è completamente rilassata – assolutamente non controllata – così l’intero essere può rilassarsi.

Per concentrarti meglio sulle sensazioni del corpo, immagina che ogni inspirazione entri nel corpo attraverso la sensazione che in quel momento è più forte. Questo ti permette di fare entrare la sensazione nella consapevolezza nello stesso momento in cui fai entrare il respiro nel corpo.

Questi cinque elementi dell’illuminazione corrispondono ai Cinque Elementi di Vivation, che ho sviluppato nel 1979. I Cinque Elementi di Vivation sono:

  1. Respiro Circolare
  2. Rilassamento Completo
  3. Consapevolezza nei dettagli
  4. Integrazione nell’Estasi
  5. Lo stai facendo perfettamente – è sufficiente la disponibilità

Ognuno dei Cinque Elementi è una abilità. Applicando tutti i Cinque Elementi simultaneamente, permetti al corpo di offrirti a livello di sensazioni la consapevolezza di tutto ciò su cui non ti sei comportato in modo illuminato. Applicando i Cinque Elementi ottieni un’esperienza di mini-illuminazione, definita una “integrazione“, che abbraccia un qualche aspetto della vita cui hai precedentemente fatto resistenza, che fa cadere un comportamento problematico, e che fa sperimentare l’emergere di una soluzione creativa. Attraverso degli esercizi esperienziali, gli insegnanti di Vivation portano i loro studenti a sviluppare la loro abilità con ognuno dei Cinque Elementi. Poi li conducono attraverso sedute complete di Vivation, che si concludono con molte integrazioni e divengono un muoversi attraverso la vita più armonioso, creativo e sperimentato a livello del cuore.

Per sperimentare il respiro, devi renderti conto che non è il respiro in sè a provocare il risultato in Vivation; ciò che provoca il risultato è l’applicazione di tutti e cinque gli Elementi. Il respiro, quando è usato in modo ottimale, non cambia il modo in cui senti; ti permette di sentire in maggiori dettagli ciò che già senti. Il respiro non ti dà una sensazione migliore di quella che hai già, ti connette più consciamente con l’Estasi che è naturalmente all’interno di te in ogni momento. Quando passi attraverso tristezza, rabbia, paura o dolore, sperimenti l’Illuminazione in mezzo a tutte queste sensazioni – sperimenti l’Estasi, incondizionatamente.

Perchè il respiro è così importante? Il corpo non è solo un insieme di ossa, sangue e materia. Il corpo è un dinamico sistema di energia. L’energia nel corpo si muove per mezzo di onde, come tutto in natura.
Molte cose influenzano il flusso dell’energia nel corpo: ciò che si mangia, ciò che si pensa, il proprio ambiente. Ma il fattore maggiore è di gran lunga il respiro.

Il Respiro Circolare ha lo scopo di unire la mente conscia all’inconscio, portando lo spirito nel corpo, rendendoti consapevole del gioco di creatività che avviene tutto il tempo attraverso il tuo intero essere. Equilibra l’energia nel corpo e mette in luce le aree in cui una resistenza può essere abbracciata.

Il Respiro Circolare fa questo inviando attraverso il corpo onde di energia di alta ampiezza e bassa frequenza. Dopo pochi minuti che si è iniziato il Respiro Circolare, si diviene consapevoli del corpo come sistema di energia. Il Respiro Circolare lavora insieme agli altri Elementi per darti il potere di abbracciare le emozioni cui hai resistito, che hanno limitato il godimento della vita e un’efficace azione creativa.

Le onde di energia create dal Respiro Circolare producono un pulsare piacevole attraverso il corpo che calma e rilassa lo spirito nello stesso tempo in cui eleva la consapevolezza. Il respiro è a volte lento, a volte veloce; a volte pieno, a volte superficiale; puoi applicarlo nella parte superiore dei polmoni o in quella inferiore, respirando attraverso il naso o la bocca. La continuità e la connessione del respiro sono essenziali, come lo è il rilassamento completo della respirazione. La regolazione degli altri fattori dipende da ciò che sta succedendo al momento durante la seduta di Vivation.

Il respiro più pieno invia attraverso il corpo onde di maggiore ampiezza, che comportano una maggiore intensità di sensazioni. Se le sensazioni non sono abbastanza vivide da attrarre l’attenzione, una cosa da fare è respirare più intensamente. Ma l’obiettivo è avere consapevolezza nei dettagli, non l’intensità – se le sensazioni sono troppo intense hai meno consapevolezza nei dettagli. Quando le sensazioni sono più intense di quanto vuoi, prendi dei respiri più superficiali.

Il respiro più veloce accelera le pulsazioni massaggianti dell’energia che si muovono attraverso il corpo, aumentando la consapevolezza della danza dinamica della vitalità all’interno della sensazione che si sta esplorando. E’ più facile abbracciare alcune sensazioni piuttosto che altre. Quando affiorano sensazioni che sembrano provocare disagio si accelera il respiro. Quando si sente l’energia danzare all’interno dell’angoscia o del dolore, si sarà in grado di abbracciarla facilmente. Quando stanno affiorando felicità ed altre sensazioni piacevoli, si respira lentamente per assorbire i deliziosi dettagli della sensazione. Questo è quanto le persone fanno naturalmente. Quando godono il panorama dalla cima di un monte le persone respirano naturalmente in un modo lento e pieno. Quando sbattono l’alluce contro un divano respirano velocemente ed in modo superficiale.

E’ più facile focalizzare l’attenzione nella parte superiore del corpo quando si respira nella parte superiore dei polmoni. Quando la sensazione più forte è nella parte inferiore del corpo è più facile esplorarla respirando nella parte bassa dei polmoni. Se ci si ricorda semplicemente di respirare attraverso la sensazione più forte, si pone il respiro correttamente.

La decisione di inspirare ed espirare attraverso il naso o attraverso la bocca dipende dalle preferenze individuali – ciò che il corpo sente meglio, è meglio. Nel Respiro Circolare non inspiriamo mai attraverso uno per espirare attraverso l’altro, perchè questo spezza il movimento focalizzato dell’energia attraverso il corpo e svia l’attenzione dalla sensazione che sta affiorando.

Con la pratica si può imparare a modulare il respiro come uno strumento, facendo un bel concerto musicale con le sensazioni che il corpo offre. Vivation è una bella esperienza guaritrice di riscoperta della Divinità all’interno di Sè. Dopo poche lezioni sarai in grado di giocare a Vivation da solo, quando e dove vuoi, anche se sei impegnato in altre attività.

(copyright by Jim Leonard)

L’abilità di Vivation è una forma di meditazione ideata da Jim Leonard nel 1979.
Vivation è un marchio registrato.
Solo gli Associated Vivation Professionals (AVP) in possesso della licenza sono autorizzati ad usare il termine Vivation nella propria pubblicità.

Che cos’è Vivation

Vivaton è l’evoluzione di una tecnica nata in America agli inizi degli anni ’70 chiamata Rebirthing (rinascita). Prende vita nel 1979 da una illuminazione di Jim Leonard; l’origine del nome si riconduce alla radice latina “Viv” che significa vita.
Che cos’è Vivation:
è un approccio olistico di crescita personale, molto semplice, potente e di facile apprendimento che si serve delle sensazioni fisiche per arrivare alla mente. Attraverso una speciale tecnica respiratoria, il rilassamento profondo ed una presenza mentale (consapevolezza) via via sempre più accresciuta, porta a fare la pace con le nostre emozioni.
Vivation non è:
non è una psicoterapia, non è una religione, non è medicina, non è ipnosi e non sostituisce nessuna di queste metodologie.
Vivation è:
un metodo di sviluppo del potenziale umano che una volta appreso può essere utilizzato autonomamente non creando così dipendenza da altri. È un metodo innovativo nell’ambito delle metodologie di lavoro sul respiro. Fonda i principi delle antiche tradizioni orientali con le più recenti scoperte scientifiche dell’occidente.
Come agisce Vivation:
elemento fondamentale del metodo è la disponibilità da parte dell’individuo a rinunciare alla lotta interiore causata dai conflitti emozionali. La lotta viene quando una situazione non corrisponde allo Standard immaginario che ci siamo prefissi. Tutte le sensazioni fisiche corrispondono alle emozioni provate vengono represse o perchè troppo scomode, imbarazzanti o dolorose per permetterci di sentirle.
Questa disponibilità ci porta a risolvere i conflitti emozionali, ci rende aperti verso i contenuti delle esperienze vedendone i lati positivi.
Come si apprende:
si apprende in corsi individuali o di gruppo, condotti da trainer specializzati e certificati.
A chi si rivolge Vivation:
– A coloro che vogliono approfondire la conoscenze di sè e la loro crescita;
– A che vuole migliorare il rapporto con il proprio corpo;
– A chi non riesce ad accettarsi;
– A chi vuole rompere le vecchie abitudini;
– A chi ha dipendenze (alcool, cibo, ecc…);
– A chi vuole aumentare la propria autostima;
– A chi vuole aumentare la propria creatività;
– A chi ha bisogno di migliorare le proprie relazioni e la professionalità;
– A chi ha bisogno di lenire il dolore fisico;
– A coloro che lavorano con professioni terapeutiche;
– A coloro che lavorano con gli altri come insegnanti, sportivi, ecc…;
– A chi sta bene e vuole stare meglio.
Vivation è utile a tutti, perchè senza affrontare specificamente il problema, fa venire alla luce i meccanismi di comportamento che si continua a perpetuare creando una realtà insoddisfacente. Vivation dà la possibilità di cambiare consapevolmente la propria realtà.
Vivation è un marchio registrato.
Sedute individuali
Le sedute individuali sono un percorso personalizzato, tagliato “su misura”.
Ogni incontro comprende una sessione di respirazione completa, una fase di elaborazione.
Oltre all’apprendimento della tecnica base di respirazione (respiro circolare), sono insegnate anche alcune varianti studiate sulle singole esigenze.
Un ciclo di incontri consente di apprendere le basi del metodo, imparare ad utilizzarlo autonomamente, raggiungere gli obiettivi personali che hanno portato ad intraprendere questa esperienza, dare impulso alle proprie capacità, rieducare fisiologicamente la respirazione, acquisire scioltezza e vitalità nel corpo e nella mente, potenziare la fiducia in se stessi.

Gli stati di coscienza a cura di Maurizio D’Agostino

“Genericamente i vari fenomeni psichici, da quelli elementari, come le sensazioni, a quelli più complessi, come il ragionamento o il giudizio, sono stati denominati stati di coscienza” (Bini e Bazzi, Trattato di Psichiatria, pag.45).

“La nostra normale coscienza in stato di veglia, la coscienza razionale, come la chiamiamo, non è altro che un tipo speciale di coscienza, mentre tutto attorno ad essa, separate dal più trasparente degli schermi, vi sono forme potenziali di coscienza del tutto diverse. Possiamo attraversare tutta la vita senza sospettarne l’esistenza; ma, presentandosi lo stimolo adeguato, alla minima pressione appaiono in tutta la loro completezza vari tipi di strutture spirituali, che probabilmente hanno in qualche luogo il loro campo d’applicazione e d’adattamento. Nessuna visione dell’universo nella sua totalità può essere definitiva, quando lascia fuori queste altre forme di coscienza” (W. James)

L’attività della coscienza sembra essere sottoposta a continui mutamenti e modificazioni e il passaggio da uno stato di coscienza ad un altro avviene più spesso di quanto pensiamo. L’attività psichica prende le sembianze di un continuo fluttuare, pensieri, sensazioni ed emozioni si susseguono senza sosta.

Genericamente i vari fenomeni psichici, da quelli elementari, come le sensazioni, a quelli più complessi, come il ragionamento o il giudizio, sono stati denominati stati di coscienza” (Bini e Bazzi, Trattato di Psichiatria)

La nostra normale coscienza è definito stato di veglia, la coscienza razionale, come la chiamiamo, non è altro che un tipo speciale di coscienza, mentre tutto attorno ad essa, separate dal più trasparente degli schermi, vi sono forme potenziali di coscienza del tutto diverse.

Gli stati di coscienza vanno da:

  • la veglia
  • il sonno
  • il coma
  • trance ipnotica (auto ed etero indotta)
  • trance indotta da farmaco (alcool, stupefacenti, psicofarmaci, ecc.)

“Possiamo attraversare tutta la vita senza sospettarne l’esistenza; ma, presentandosi lo stimolo adeguato, alla minima pressione appaiono in tutta la loro completezza vari tipi di strutture spirituali, che probabilmente hanno in qualche luogo il loro campo d’applicazione e d’adattamento. Nessuna visione dell’universo nella sua totalità può essere definitiva, quando lascia fuori queste altre forme di coscienza” W. James

L’attività della coscienza sembra essere sottoposta a continui mutamenti e modificazioni e il passaggio da uno stato di coscienza ad un altro avviene più spesso di quanto pensiamo o siamo consapevoli.

L’attività psichica prende le sembianze di un continuo fluttuare, pensieri, sensazioni ed emozioni si susseguono senza sosta.

Lo stato di veglia

Nello stato di veglia, la coscienza permette di prestare attenzione spontaneamente a quanto ci circonda, di riflettere su se stessi, di distinguere la fantasia dalla realtà.

Il sonno e il sogno, la trance ipnotica e tutti gli altri Stati Alterati di Coscienza (come: l’ubriachezza, l’uso di sostanze psicoattive, l’estasi amorosa, la meditazione ecc.), mostrano come il nostro stato ordinario di coscienza, la veglia, possa andare incontro a facili modificazioni.

Non solo, ma possono esserci delle continue perdite temporanee d’attenzione, oppure lievi oscillazioni della coscienza, che mettono in luce l’enorme variabilità e mutabilità dello stato di coscienza.

Lo stato ordinario di coscienza, cioè la veglia, è rappresentato da un equilibrio ottimale tra le informazioni che il cervello riceve e quelle che elabora, così, se tale equilibrio viene a mancare, ecco che si possono manifestare stati non ordinari (alterati) di coscienza.

La coscienza, inoltre, nel corso della giornata, può subire sensibili oscillazioni di intensità, oscillazioni qualitative, pur rimanendo sempre una coscienza di veglia.

 

Il sonno

Il sonno è definito come uno stato di riposo contrapposto alla veglia.

In realtà questa definizione, come altre definizioni che si possono trovare su vari dizionari (periodica sospensione dello stato di coscienza durante la quale l’organismo recupera energia; stato di riposo fisico e psichico, caratterizzato dalla sospensione, completa o parziale, della coscienza e della volontà, dal rallentamento delle funzioni neurovegetative e dall’interruzione parziale dei rapporti sensomotori del soggetto con l’ambiente, indispensabile per il ristoro dell’organismo) non è completamente vera.

Come la veglia, infatti, il sonno è un processo fisiologico attivo che coinvolge l’interazione di componenti multiple del sistema nervoso centrale ed autonomo.

Infatti, benché il sonno sia rappresentato da un apparente stato di quiete, durante questo stato avvengono complessi cambiamenti a livello cerebrale che non possono essere spiegati solo come un semplice stato di riposo fisico e psichico.

Ad esempio, ci sono alcune cellule cerebrali che in alcune fasi del sonno hanno una attività 5-10 volte maggiore rispetto alla veglia.

Due caratteristiche fondamentali distinguono il sonno dallo stato di veglia:

  1. il sonno erige una barriera percettiva fra mondo cosciente e mondo esterno,
  2.  uno stimolo sensoriale (ad es. un rumore forte) può superare questa barriera e svegliare chi dorme.

Un adeguato sonno è biologicamente imperativo ed appare necessario per sostenere la vita.

È difficile dare una definizione precisa del sonno ma è più vicino ad “uno stato dell’organismo caratterizzato da una ridotta reattività agli stimoli ambientali che comporta una sospensione dell’attività relazionale (rapporti con l’ambiente) e modificazioni dello stato di coscienza: esso si instaura autonomamente e periodicamente, si autolimita nel tempo ed è reversibile“.

L’aspetto di “reversibilità” non è invece associare al coma o all’anestesia che, rispettivamente, sono una patologia e uno stato di quiete (trance) indotto farmacologicamente.

Il coma

E’ definito come un profondo stato di incoscienza che può essere provocato da intossicazioni (stupefacenti, alcool, tossine), alterazioni del metabolismo (ipoglicemia, iperglicemia, chetoacidosi) o danni e malattie del sistema nervoso centrale (ictus, traumi cranici, ipossia): fra tutte, le più comuni cause di coma sono le alterazioni del metabolismo.

La differenza fondamentale fra il coma e lo stato stuporoso (shock) è che un paziente in stato comatoso non è capace di rispondere né agli stimoli verbali né a quelli dolorosi, mentre un paziente in stato di shock riesce a dare una risposta a tali stimoli, almeno istintiva (gridare in risposta a un pizzicotto, per esempio).

Il coma è anche diverso dallo stato vegetativo che a volte può susseguire ad esso: un paziente in stato vegetativo ha perso le funzioni neurologiche cognitive e la consapevolezza dell’ambiente intorno a sé, ma mantiene quelle non-cognitive e il ciclo sonno/veglia; può avere movimenti spontanei e apre gli occhi se stimolato, ma non parla e non obbedisce ai comandi. I pazienti in stato vegetativo possono apparire in qualche modo normali: di tanto in tanto possono fare smorfie, ridere o piangere.

Il coma non è nemmeno indice di morte cerebrale, cioè di cessazione irreversibile di tutte le funzioni del cervello: può accadere che un paziente in coma sia in grado di respirare da solo.

È inoltre diverso anche dal sonno, perché il sonno è sempre interrompibile, mentre non è possibile “svegliare” a piacere una persona in stato di coma.

Trance Ipnotica

Altrettanto spesso l’ipnosi è legata ad una attività immaginativa, creativa, interessante o comunque emotivamente intensa proprio perché queste esperienze catturano la nostra attenzione (essere assorti nella lettura di un libro, dipingere, fare un lavoro che ci “prende”, ballare, ecc) mettendo in secondo piano tutte le altre esperienze (il tempo che passa, l’appetito, una persona che ci parla, ecc).

La trance ipnotica è quindi un fenomeno normale, che viviamo più volte ogni giorno (mediamente una volta ogni 90 minuti circa), e di cui conosciamo le varie sfumature e intensità: ognuno di noi sa cosa vuol dire “essere completamente assorto in una attività”, così come ognuno conosce l’esperienza del “sogno ad occhi aperti” o dell’immaginazione vivida, in cui il “confine” tra la realtà esterna e mondo interno non è nettamente marcato.

La trance è uno stato psicofisiologico che può essere indotto mediante ipnosi autoipnosi. Alcune persone – sensitivi, sciamani, medium ecc. – riescono ad ottenerlo spontaneamente. È caratterizzato da fenomeni quali insensibilità agli stimoli esterni, perdita o attenuazione della coscienza, dissociazione psichica.

Si usa definire “trance” in senso figurato anche lo stato di esaltazione o estasi per stimoli esterni quali la musica e la danza; tali stimoli, tuttavia – da soli o associati ad altri – possono produrre la trance vera e propria e tutti i fenomeni pertinenti a tale stato.
In diagnosi medica viene chiamato trance alcoolica, lo stato di dissociazione mentale causato da abuso di alcolici o di farmaci diversi.

Distinguiamo nei fenomeni della trance i sintomi e i comportamenti.

I principali sintomi della trance sono: tremito incontrollato, brividi, emotività incongrua, svenimento, disturbi dell’equilibrio, sonnolenza e letargia, convulsioni, incontinenza, paralisi di uno o più arti, disturbi della sensibilità al calore o al dolore, agitazione motoria, tic, respiro affannoso, fissità oculare.
Tra i comportamenti caratteristici si osserva l’aquiescenza acritica al comando con agiti consapevolmente o inconsapevolmente indipendenti dalla volontà con o senza perdita della memoria di circostanza.

Fenomeni e comportamenti attribuiti a stato di trance sono anche: camminare sulle braci senza bruciarsi, subire trafitture senza sanguinare, atti dei quali si è normalmente incapace, correre rischi anche gravi senza emozioni, parlare una lingua che non si conosce.

La trance indotta viene fatta da un terapeuta facilitando nel soggetto l’evocazione di esperienze di rilassamento ma anche evocando normali esperienze dissociative, o quotidiane esperienze di discontinuità della coscienza.

L’ipnoterapia si fonda su due caratteristiche poco conosciute dell’ipnosi:

  1. la persona in trance, lungi dall’eseguire “come un robot” gli ordini dell’ipnotista, in realtà sospende il proprio modo usuale e problematico di “ragionare sulle cose” e mostra una maggiore creatività ed elasticità. L’emergere di nuovi punti di vista, di nuove soluzioni e di nuovi comportamenti, emozioni e sensazioni è alla base della rottura della rigidità del sintomo lamentato.
  2. il soggetto ipnotico, lungi dal “dormire”, entra con l’ipnoterapeuta in una relazione molto intensa, all’interno della quale avvengono modificazioni tipiche delle vere relazioni di cura e/o di collaborazione.

La trance ipnotica è suddivisa in 4 livelli di profondità:

  • Trance Vigile
  • Trance Lieve
  • Trance Media
  • Trance Profonda

L’ipnoterapia serve a curare sintomi psicologici quali ansia, depressione, problemi alimentari, problemi sessuali, tabagismo e altri mentre l’ipnosi clinica è utilizzata in vari ambiti specialistici medici e odontoiatrici.

Stato Alterato di Coscienza

Per stato di coscienza alterato s’intende uno stato di coscienza diverso dallo stato ordinario, o di base, caratterizzato dalla veglia lucida.

Uno stato di coscienza alterato è caratterizzato da uno spostamento qualitativo nel modo di funzionare della mente, senza implicare il concetto di patologia.

Le alterazioni della coscienza sono di genere molto diverso, ma esse tutte rappresentano una deviazione dallo stato normale di lucidità, continuità e connessione. I vari modi per indurre uno stato alterato di coscienza, mettono in luce il fatto che il nostro ordinario stato di coscienza è solo una delle tante possibili strutturazioni della mente. Tra gli stati alterati di coscienza i più comunemente noti sono:

  • Trance Ipnotica
  • Ubriachezza
  • Reazione a droghe
  • Reazione a psicofarmaci
  • L’innamoramento e altri stati psicologici

L’aggettivo “alterato” non deve assumere una tonalità negativa o patologica.
Quello che per una persona è uno stato di coscienza alterato può essere per un’altra un’esperienza quotidiana. In definitiva, forse, non esiste uno stato di coscienza che possa essere definito normale. Possiamo solo affermare che uno stato di coscienza alterato consiste in un’alterazione radicale della modalità globale della coscienza, dove alcune specifiche funzioni psicologiche possono svolgersi in maniera più lenta o più veloce, più o meno efficiente.

La memoria, il ragionamento, il senso d’identità, le facoltà motorie ecc… sono tutte investite da dei cambiamenti improvvisi. Si tratta di un modo diverso d’elaborare le informazioni, incamerando selettivamente e scartando, attribuendo valori secondo scale diverse.

Stati modificati di coscienza

Il concetto di transe dei reclusi è stato utilizzato soprattutto da A. Ludwig. Il suo modello ruota intorno ad una regola generale che può essere sintetizzata così: quando muta il livello normale di stimolazione o attività percettiva, si altera conseguentemente anche la coscienza. L’esposizione di questo modello con un commento si trova nel saggio Antropologia psicologica di Erika Bourguignon.
L’etnologia, la psicologia e l’antropologia si sono spesso interessate agli stati modificati di coscienza.
Charles T. Tart ne ha proposto un’esplorazione prevalentemente psicologica in Stati di coscienza.
Georges Lapassade ha recentemente presentato una rassegna critica delle principali teorie nelle varie discipline, in Gli stati modificati di coscienza.
Sul rapporto tra stati modificati di coscienza e transe restano comunque aperti alcuni problemi. In particolare il fatto che alcuni ricercatori hanno la tendenza a considerare i primi “esperienze psicologiche” e le seconde “esperienze culturalmente codificate e ritualizzate”. La transe, in altri termini, sarebbe uno stato modificato di coscienza specifico collettivizzato, socializzato e ritualizzato, mentre lo stato di coscienza modificato costituirebbe semplicemente la base psicologica della transe.
Il rischio di questa impostazione sta nella riproposizione dell’opposizione natura/cultura: naturali sarebbero gli stati modificati di coscienza (SMC), culturali le transe.
Noi crediamo, invece, che gli SMC siano culturalizzati non meno delle transe. Se una differenza può essere colta essa riguarda il carattere fluido degli SMC rispetto al carattere rigido (codificato e ritualizzato) della transe; il carattere singolare dell’esperienza negli SMC, di contro al carattere collettivo dell’esperienza delle transe rituali; la familiarità degli SMC con la vita quotidiana, di contro all’eccezionalità delle transe rituali.

Che gli SMC siano modellati culturalmente si evince, secondo noi, dal fatto che la modificazione si produce per rapporto con il cosiddetto stato ordinario di coscienza, vale a dire con il codice culturale che lo informa. Quale sia la mappa, l’estensione e la struttura dello stato ordinario di coscienza, può dircelo solo il contesto culturale di cui esso è un’interiorizzazione, un oggetto interiorizzato, un introietto. Ancora, sarà questo stesso contesto culturale a dirci cosa esso consideri incongruo rispetto alla coscienza ordinaria. E, dunque, cosa sia territorio privilegiato degli stati modificati di coscienza. In tal senso, SMC e transe spontanea hanno per noi un significato equivalente e, quindi, indifferentemente li abbiamo utilizzati nel corso del lavoro. Va detto ancora che non c’è transe spontanea o SMC che possa prescindere da una correlativa definizione neuro-psico-fisiologica.

Ci sembra perciò che in un modello generale, transe spontanea, transe rituali, stati modificati di coscienza e stato ordinario, debbano essere riguardati anche come stati del corpo: stati culturalizzati del corpo in relazione. L’esclusione dal nostro lessico della parola alterati, che altri impiegano come sinonimo di modificati, vuol essere una presa di distanza esplicita dalla terminologia psichiatrica e dalla connotazione patologica che ad essa si connette. Lo SMC non è uno stato deficitario; la transe spontanea non è uno stato patologico. Al contrario, SMC e transe spontanea sono risorse vitali alle quali ogni corpo in difficoltà a vivere può attingere.
Due riflessioni conclusive. La prima riguarda la nozione di cogito di stati di transe che Lapassade pone a fondamento del suo saggio sugli stati modificati di coscienza; la seconda è relativa alla funzione degli induttori chimici.

Bisogna dire, anzitutto, che nella sua qualità di stato modificato di coscienza, la transe, per Lapassade, non è mai uno stato d’incoscienza. Qualcosa, al fondo dell’esperienza, resta comunque lucido, come un lumicino che rischiara la scena. Ed è appunto la presenza instancabile di questo Osservatore – già segnalato da Hilgard e da Tart – che egli chiama cogito di transe. Nella transe, osserva Lapassade, si produce uno sdoppiamento, una “tensione tra due dimensioni fondamentali della coscienza modificata: una dimensione apparentemente passiva – il soggetto subisce ciò che gli avviene – e una dimensione di osservazione attiva, mediante la quale, questo stesso soggetto conserva la sua lucidità”. Nello stesso tempo tutto avviene come se l’originalità degli stati modificati di coscienza “attenesse alla relazione complessa tra queste due dimensioni della coscienza quando essa è, insieme, pervasa dalle immagini e conservata nello stato di veglia”.
Dicendo ciò Lapassade intende rimarcare, in polemica esplicita con la tradizione teologica – si pensi al modo in cui questa ha affrontato la questione della possessione demoniaca – la permanenza dell’unità del soggetto nella transe. All’origine della modificazione di coscienza vi sarebbe, in altri termini, un solo soggetto istituente “capace di dare a se stesso l’impressione, l’illusione della duplicità”.

Ecco: “L’unità della transe dovrebbe essere ricercata proprio in questa relazione sconcertante, in questa sorta di connivenza mediante la quale il soggetto che cambia e si vede cambiare, sembra osservare questo cambiamento da un punto che resta fisso, vigile, attaccato alla terra ferma, mentre un’altra parte di se stesso (ma non un altro io) gioca a lasciarsi andare sregolatamente”.
La coscienza della modificazione del proprio stato di coscienza: questo, in definitiva, sarebbe l’aspetto costitutivo della transe. Non un raptus, uno stato alienato, uno stato schiavo. Ma piuttosto, una complicità nel sollievo che questa schiavitù arreca. Ciò detto a noi preme rimarcare il carattere passivo che Lapassade, sulla scia di Hilgard e Tart, attribuisce all’Osservatore nascosto: pur restando sempre vigile e presente sulla scena, esso, infatti, nulla potrebbe fare per modificare il comportamento del soggetto in transe.

Ebbene, negli stati modificati relativi alla torsione reclusiva – come quelli osservati nel corso dei colloqui in carcere di cui abbiamo riferito nel capitolo Fate & Fantasmi -questo carattere passivo del Testimone nascosto non appare confermato. Qui, anzi, l’Osservatore nascosto non pare volersi adattare alla funzione passiva di testimone. Al contrario, se le circostanze lo richiedono, esso entra in azione senza che lo sdoppiamento venga meno. Succede allora che lo stato modificato manifesti una dinamica interna del tutto peculiare, e che due programmi specifici di stato agiscano simultaneamente, cooperino e si completino come fossero schiena contro schiena.
Può darsi che la differenza tra le nostre osservazioni e quelle di Hilgard, Tart e Lapassade, derivi dal fatto che questi ultimi hanno concentrato i loro lavori principalmente sull’ipnosi, sugli effetti delle droghe psichedeliche e sugli stati di meditazione oppure sulle transe rituali etnologiche; tutti luoghi in cui, essendo volontaria la partecipazione alla transe, non è in atto una torsione del sé-relazionale. A questa supposizione ci spinge anche il fatto di aver trovato conferme alla nostra esperienza in un altro caso specifico di torsione relazionale: la tortura.

Nel racconto “Un viaggio del tutto particolare” e nel “Commento” successivo l’esule cileno Sergio Vuskovic Rojo descrive l’esperienza dei suoi stati modificati durante la tortura.
In particolare Rojo rivela che mentre una parte di sé era impegnata in un viaggio di estraneamento dal dolore e si aggirava tra i ricordi di esperienze vissute, un’altra parte restava lì, con il corpo sotto tortura, mantenendosi ipervigile ad ogni sia pur minimo mutamento del lavoro del torturatore. Quando poi il decorso della tortura eccedeva una certa soglia, ecco allora “che una lampadina rossa si accendeva per segnalare l’allarme” e le due parti sdoppiate si ricoordinavano in un nuovo equilibrio per reggere la prova. La certezza che questa “lampadina rossa” si sarebbe accesa qualora la situazione si fosse fatta particolarmente allarmante, ci dice Rojo, consentiva una certa tranquillità al suo viaggio lenitivo nel mondo dei ricordi sensoriali.

Quanto sopra c’invita ad una considerazione generale: è possibile che la fenomenologia del cogito di transe esposta da Hilgart, Tart e Lapassade riferisca, dopo tutto, una condizione di transe particolare, anche se più studiata: quella in cui il Testimone nascosto non ha necessità di attivarsi poiché i soggetti impegnati nello sdoppiamento non subiscono alcuna torsione relazionale diretta.
Al contrario, la fenomenologia descritta da Rojo, e da noi, riguarda una condizione più ampia e generale. Nella torsione del sé-relazionale, infatti, lo sdoppiamento della transe manifesta tutte le sue potenzialità. Ed allora si può osservare che le due parti in cui si sdoppia il soggetto sono in realtà entrambe attive: entrano in azione simultaneamente e cooperano tra loro al fine di realizzare gli scopi benefici perseguiti dallo stato modificato.

Per quanto riguarda il secondo punto, vale a dire gli induttori chimici di stati modificati, l’intera ricerca ci porta ad osservare che, nelle condizioni di reclusione, essi non sono in grado di apportare un reale beneficio; non sono idonei, in altri termini, a contrastare il controllo dei linguaggi rituali, generatori di sofferenza – i linguaggi dello stato del corpo-con-testa.
Viceversa, i linguaggi dell’Altro – quei linguaggi che toccano il sé-relazionale torto ed amputato -promuovendo una modificazione di stato profonda e radicale, aiutano efficacemente il recluso a dislocarsi in uno stato modificato per lui in qualche modo salutare.

Aspetti storici e psicologici del fenomeno della trance

Aspetti storici e psicologici del fenomeno della trance di Christian Poggiolesi

Che cos’è la trance? Essa consiste essenzialmente in uno stato di coscienza diverso da quello ordinario in cui trascorriamo la maggior parte della nostra vita. Uno stato tutto sommato poco studiato e conosciuto, verso il quale molti manifestano diffidenza, perplessità, paura. Questo studio cerca di fare un po’ di luce su alcuni degli innumerevoli fenomeni psicologici connessi agli stati di trance perché questi possano essere conosciuti, rivalutati e presi in seria considerazione in campo sperimentale e clinico, offrendone al tempo stesso un’interpretazione. Questa si fonda su due principali approcci esplicativi: uno è costituito da certe teorie etno-antroplogiche sufficientemente emancipate da una visione esclusivamente centrata sulle esperienze e sui parametri forniti dalla civiltà occidentale (ad es. gli studi di De Martino, Rouget, Lapassade), l’altro dalla teoria della dissociazione psicologica derivante dagli studi sulla coscienza e le sue alterazioni (il filone che dal magnetismo e lo spiritismo conduce agli studi di Janet sulla disaggregazione psicologica).

La trance costituisce in effetti un fenomeno caratterizzato da una componente psicologia e da una componente socio-culturale; si manifesta con un particolare comportamento del corpo, determinato e modellato dalla cultura di appartenenza, e con un’alterazione dello stato di coscienza del soggetto che la sperimenta.
Ripercorrendo la genesi del termine trance, vediamo come questo sia stato per parecchi secoli legato ad un’idea di transizione, di passaggio (dal latino transir = passare, trapassare) e dunque di cambiamento e di rottura con la coscienza abituale. Questa rottura può essere provocata da un’ampia varietà di stimoli: dall’uso di sostanze psicotrope all’ingestione di bevande alcoliche, dalla suggestione ipnotica a certe tecniche di respirazione, dall’iperstimolazione sensoriale (musica, danza) alla ripetizione ossessiva di comportamenti corporei.

Ipotizziamo che la sperimentazione di stati di trance risalga pressoché alle origini dell’uomo, collocando nel Paleolitico superiore la comparsa delle prime società tribali; all’interno di queste culture primordiali si compivano periodicamente rituali di natura religiosa in cui lo sciamano, una figura di mistico guaritore e protettore delle anime della tribù, cadeva in trance.

I primi cenni storici sufficientemente documentati di questo fenomeno li abbiamo individuati nelle descrizioni dei rituali collettivi in onore di Diòniso ed altre divinità mediterranee o medio-orientali che si svolsero negli ultimi secoli a.C. e nel cosiddetto profetismo estatico ebreo e greco (la Pizia, la Sibilla). Queste manifestazioni religiose comportavano la sperimentazione di stati di trance, di cui parla anche Platone in termini di mania.

Un altro periodo storico in cui si assistette al fermento ed allo sviluppo, a tratti epidemico, di trance individuali e collettive, fu l’alto Medioevo; tra il 1200 e il 1600 circa si possono trovare molti esempi di epidemie di danze convulsive nell’Europa centro-settentrionale (il ballo di San Vito), tra cui l’interessantissimo caso del tarantismo pugliese, nonché del fenomeno della possessione demoniaca, diffusa in quasi ogni angolo del continente europeo.

La trance costituisce dunque uno stato di coscienza definito “alterato”, differente sia dalla veglia che dal sonno, simile per certi versi allo stato di sogno oppure a certe manifestazioni psicopatologiche di natura isterica o affine.

Per quanto riguarda quest’ultima affermazione, vorremmo evitare di inquadrare gli stati di trance in una definizione strettamente psicopatologica, prendendo decisamente le distanze da una tradizione che etichetta come isterica, o addirittura schizofrenica, ogni fenomeno di dissociazione psicologica e ampliando i nostri orizzonti con l’apporto dell’indagine antropologica.

Perveniamo così alla formulazione di un’ipotesi di lavoro per cui la trance costituisce un dispositivo psicobiologico, naturale ed universale, che si manifesta in maniera estremamente diversificata a seconda del contesto storico, culturale, sociale e situazionale. Chiariamo quest’ultimo concetto con degli esempi.

Possiamo associare la trance ipnotica ad un movimento di psicologia sperimentale che prese le mosse dalle trance convulsive indotte da Mesmer, passò per la scoperta del sonnambulismo artificiale (che nel 1851 prenderà il nome di ipnotismo) e dal suo uso applicato alla clinica ad opera di più d’una generazione tra magnetisti ed ipnotisti, attraversò così tutto il XIX° secolo, per arrivare agli studi di Pierre Janet ed alla sua teoria della disaggregazione psicologica; quest’ultima venne elaborata dallo psicologo francese sulla base delle proprie ricerche ed esperienze, delle speculazioni di Moreau (de Tours) sulla fenomenologia psicologica risultante dagli effetti dissociativi dell’hashish e del patrimonio teorico accumulato nel corso del secolo riguardo ai fenomeni ipnotici. Vediamo come, nel passaggio tra il XIX° e il XX° secolo, Freud operò una parziale ma netta rottura con questa tradizione e con lo sterminato bagaglio di conoscenze teoriche e pratiche sviluppate nel corso del secolo passato; sostituì la trance ipnotica e la teoria della dissociazione psicologica con la semi-trance dell’apparato psicoanalitico.

Il movimento appena descritto passò, nella seconda metà del XIX° secolo, attraverso lo studio dei fenomeni spiritici e dell’evocativa figura del medium, un individuo capace di sperimentare stati dissociativi (la trance medianica) che lo mettono in condizione, secondo la tradizione spiritista, di entrare in contatto con gli spiriti di persone defunte.

La trance medianica si riferisce al concetto pi generale di trance da possessione, che si manifesta in diversi contesti: nei rituali di numerose culture primitive di ceppo africano, in cui si assiste alla possessione dell’adepto da parte degli spiriti e/o dalle divinità locali (dal vodu haitiano al bori nigeriano), nel caso a noi più familiare della possessione demoniaca, che richiede l’intervento del rituale esorcistico, e in certe forme di profetismo estatico e veggenza (caso della Pizia dell’oracolo di Delfi, che si auto-induce uno stato di trance per essere posseduta dal dio Apollo).

Lo studio della trance ipnotica ebbe inizio, già con Mesmer e i primi magnetizzatori, nel segno dell’isteria e procedette in questa direzione fino alla fine del XIX° secolo. Fu Charcot il primo a proporre una teoria sull’isteria che prendeva in considerazione gli innegabili elementi in comune che intercorrono tra lo stato dissociativo che si accompagna alla crisi isterica e la trance ipnotica; quest’ultima costituì per il neurologo francese il principale strumento d’esplorazione del fenomeno della trance isterica. Dopo di lui, Janet sviluppò ulteriormente ed in maniera originale il potenziale sperimentale e terapeutico dell’ipnosi, allargando il campo dei suoi studi sulla dissociazione psicologica fino a comprendere la possessione demoniaca e il medianismo spiritista.

Si iniziò così a delineare la possibilità di riunire sotto un denominatore comune tutta una serie di fenomeni che, seppur con manifestazioni in parte differenti tra loro, hanno in comune il fatto di presupporre tutti il meccanismo della dissociazione psichica. Questo orientamento ci porta a rivalutare, seppur parzialmente, la posizione dell’isteria e di tutte quelle nevrosi considerate fino a circa un secolo fa di natura isterica, come le fughe o le personalità multiple, interpretandone le manifestazioni e i sintomi come espressioni culturalmente determinate del meccanismo dissociativo in atto.

L’interesse per la trance in campo antropologico non si è forse mai spento, mentre in ambito psicologico, o più specificatamente psicoterapeutico, dalla svolta freudiana in poi l’utilizzo del paradigma della dissociazione e delle tecniche ipnotiche si è eclissato per un lungo periodo.

Negli ultimi dieci-venti anni si è assistito invece ad una rinnovata attenzione, sia in ambito sperimentale che clinico, per l’ipnosi; qualcuno parla di “movimento neo-dissociativo”.

Hilgard cerca di recuperare un modello della coscienza che era stato abbandonato con l’adozione del modello freudiano; stiamo parlando del modello janettiano della doppia coscienza, che utilizza l’ipnosi come strumento di ricerca sperimentale della struttura e del funzionamento della mente. Giovanni Miti riesuma ed adopera le tecniche ipnotiche per la terapia del disturbo da personalità multiple (DPM), che compare oggi all’interno della nosografia del DSM IV all’interno dello spettro dei disturbi dissociativi. Milton Erickson adotta un approccio ed uno stile comunicativo molto originali, tramite i quali accede al potenziale subconscio del paziente, depotenziando al tempo stesso i pregiudizi, gli schemi e le convinzioni limitanti che attribuisce all’Io cosciente.

Per concludere, proporrei una breve riflessione: noi tutti viviamo in una realtà consensuale, all’interno della quale il nostro stato ordinario di coscienza è considerato l’unico naturale o normale, mentre abbiamo visto come in ogni individuo vi siano le potenzialità psico-fisiologiche per sperimentare un’ampia gamma di stati di coscienza, definiti alterati per convenzione culturale; invece di incapsulare questi stati secondi in definizioni strettamente patologiche o di relegarli in realtà marginali ed equivoche, come le sottoculture dedite all’uso di sostanze stupefacenti o certi sedicenti movimenti neo-mistici che perseguono lo sviluppo di una spiritualità grossolana e dozzinale, possiamo utilizzare alcuni stati dissociativi, come la trance ipnotica, per accedere a delle risorse interiori che altrimenti resterebbero imprigionate nella nostra limitata e limitante coscienza ordinaria.

Lo studio delle culture tradizionali nell’ambito dell’antropologia psicologica e dell’etnopsichiatria ci ha permesso di giungere alla nozione di trance come risorsa e come modalità di dialogo tra la nostra abituale consapevolezza e il continente sommerso del nostro subconscio. Possiamo dunque supporre, a ragione, che questo rappresenti un serbatoio pressoché infinito in cui vengono conservati i nostri desideri più autentici, le passioni più intense e le potenzialità umane e creative che non hanno avuto la possibilità di esprimersi pienamente.

Proponiamo dunque la trance come un incontro con noi stessi, come un’esplorazione di una regione della psiche altrimenti inaccessibile alla ricerca di possibili traumi emotivi che limitino le nostre potenzialità interiori, ma soprattutto, ripetiamolo, di risorse affettive, immaginative e relazionali, in una prospettiva veramente evolutiva per la nostra specie.

Forme e tecniche di attenzione rivolta alla morte

Forme e tecniche di attenzione rivolta alla morte di Vito Ferri

L’attenzione nelle pratiche psicoterapeutiche

Le pratiche fondate sul controllo e sulla disciplina dell’attenzione, con lo scopo di liberare la persona da stati penosi e patologici, non nascono con le psicoterapie moderne, ma vengono elaborate e strutturate nel corso dei secoli, sia nella cultura occidentale, sia in quella orientale. L’attenzione rivolta ai sogni, alle fantasie, al proprio corpo, al futuro, alle proprie emozioni e a quelle degli altri, ecc., è presente in gran parte, se non in tutti gli approcci psicoterapeutici: cambia la struttura di sostegno teorico, cambia la focalizzazione su questo o quell’oggetto, ma l’uso dell’attenzione in psicoterapia è comunque imprescindibile; non riguarda solo il paziente, ma anche il terapeuta (si pensi all’attenzione fluttuante descritta da Freud). La teoria che orienta una psicoterapia, addita l’oggetto, il target, il focus, l’obiettivo significativo da porre al centro dell’attenzione, mentre la pratica “gestisce” e guida l’attenzione con varie tecniche, fissandola su quello che abbiamo genericamente chiamato oggetto, oppure, a seconda dei casi, allontanandola da esso.

Uno dei più frequenti, ma al tempo stesso elusivi oggetti dell’attenzione, è da sempre e in tutte le culture la morte.

La morte come oggetto dell’attenzione

La morte come oggetto dell’attenzione viene condotta al centro della riflessione umana attraverso tre canali, già evidenziati da S. Freud (1915): la morte dell’altro (estraneo o nemico), la morte delle persone care e la morte propria. Per quanto riguarda quest’ultima, se è vero che non è pienamente pensabile o “credibile”, è però possibile dirigere l’attenzione verso la sua possibilità più che sulla sua ineluttabilità o irreversibilità, se non addirittura “essenza”. In altre parole, si può pensare, e quindi farne oggetto dell’attenzione, non tanto alla propria morte in senso lato, ma alla sua possibilità, concepita e concepibile attraverso la morte dell’estraneo, il dolore per il lutto, la malattia, la carestia, la sofferenza, la vecchiaia, gli incidenti, il suicidio, l’aldilà, la rottura di legami, la perdita di ciò che si possiede, le grandi questioni bioetiche, il rapporto col divino, ecc. Uno o più d’uno di questi “fuochi” possono diventare oggetti privilegiati di attenzione entro un sistema strutturalmente coerente (es. una religione; un approccio psicoterapeutico ecc.) e culturalmente (o sub-culturalmente) legittimato a tale scopo. Pertanto, la morte (in senso lato), o un suo oggetto (in senso stretto), diventa di volta in volta tema di meditazione, di riflessione filosofica, di pensiero focalizzato, di preghiera, di rappresentazione artistica, ecc. Queste pratiche, disciplinando l’altrimenti morbosa, irrelata e “selvaggia” attenzione alla morte, aiutano a “pensarla”; suscitano il vissuto che “qualcosa di sensato si può fare” di fronte alla morte; limitano al massimo le forme di disagio e patologia che essa indurrebbe: ansia, ruminazione del pensiero, macerazione interiore, pensiero ossessivo, fobie, aggressività, ecc. Se è vero che ci sono forme patologiche legate all’attenzione morbosamente rivolta alla morte, è anche vero il contrario, ossia esistono patologie indotte da un incessante e rigido allontanamento dell’attenzione da tutto ciò che ricorda, anche vagamente, la possibilità della propria morte (Becker, 1982; Bauman, 1992). Molte difese psicologiche sono messe in atto per soffocare l’urlo sordo dell’angoscia, e con esso il pensiero della possibilità della morte, dando origine a nevrosi (Meyer, 1973) o a condotte quali: l’eroismo esaltato, la ricerca del piacere fine a se stesso, l’esposizione a pericoli, il “giocare” con la vita degli altri, o, paradossalmente, alcune forme di suicidio.

Esaminiamo quindi alcune delle più significative discipline, pratiche, rituali o “tecnologie” dell’attenzione rivolta alla morte, cercando di inserire ognuna di esse entro un orizzonte di significato o struttura simbolica dinamica, culturalmente determinata, e identificando gli oggetti specifici dell’attenzione e lo scopo della pratica. Limiteremo la nostra analisi alla cultura occidentale, anche se esempi di tecniche sofisticate di gestione e focalizzazione dell’attenzione sulla morte, ci provengono dalle millenarie tradizioni delle religioni orientali (due esempi tra i tanti sono la Marana-Sati: ossia contemplazione e consapevolezza della morte e il Bardo Thödol: “La Grande Liberazione nell’Udire nel Bardo” detto anche “Libro tibetano dei morti”).

La riflessione filosofica sulla morte

“Né il sole né la morte si possono guardar fissamente”, ammoniva La Rouchefoucauld (Maximes, 26), ma forse non c’è nulla da guardare, la morte in sé è un nulla, sosteneva Epicuro. Se restiamo sul piano della metafora di La Rouchefoucauld, possiamo affermare che l’uomo ha escogitato dei sistemi per guardare il sole fissamente usando cioè dei filtri e ha potuto anche guardarlo “indirettamente”, fissando lo sguardo sui suoi confini (il cielo circostante) e i suoi effetti (luce, calore, colori, ecc.). L’uomo ha escogitato filtri filosofici attraverso cui fissare la morte (intesa come non-esserci-più, come nulla) e inoltre ha potuto esplorare ciò che le sta attorno: i processi della vita, la malattia, i pericoli, e così via fino ad includere tutti quelli che abbiamo già definito come “oggetti dell’attenzione alla morte”. Nell’età classica latina, la speculazione filosofica degli stoici sulla morte, viene tradotta in “pratica” da Lucio Anneo Seneca (4-65 d.C.). Questo filosofo sostiene che la paura della morte sarebbe più o meno diretta responsabile di tutte le altre paure, liberandoci da essa otterremmo la liberazione da ogni altra paura. L’attenzione alla propria morte è dunque una via di liberazione e Seneca traccia i sentieri che tale pensiero deve percorrere: “non solo non c’è da temere la morte, ma la sua meditazione ci consente di non temere più niente” (Epist. III, 24, 1-26). Bisogna pensare spesso alla propria morte, consiglia Seneca, tenendo “l’anima sempre pronta a partire […]. Non è incerta la morte: incerto è solo il tempo della morte. Andiamo incontro ad essa senza pregare né temere né indietreggiare. Armiamoci contro questo timore che ci rende vili e c’intossica e ci rovina la vita” (1980, p.95). Oggetto di attenzione può essere una malattia acuta o cronica che il saggio utilizzerà come un’occasione per allenarsi a morire, in modo da essere pronto nel momento in cui giungerà la morte (Epist., VI, 54, 1-7). La tecnica di Seneca mira a minimizzare la carica di emozioni negative indotte dal pensiero della morte, rendendola familiare. Seneca suggerisce di pensare che la morte non è davanti a noi, ma dietro, è il nostro passato, “moriamo ogni giorno: ogni giorno, infatti, ci è tolta una parte della vita; anche quando il nostro organismo cresce, la vita decresce” (ivi). Un’altra tecnica suggerita da Seneca, ma molto diffusa alla sua epoca e, come vedremo, recuperata dal cristianesimo attraverso l’attenzione rivolta alla morte di Cristo, dei martiri e dei santi, è quella di ricordare e prestare attenzione a “casi esemplari”. Modelli preferiti da Seneca sono ad esempio Catone l’Uticense e Cecilio Metello Scipione, morti suicidi con grande coraggio e dignità.

La tecnica dei casi esemplari da rievocare e imitare, era preferita anche da Michel de Montaigne (1533-1592) il quale però prestava attenzione alle modalità bizzarre e inconsuete in cui la morte poteva accadere: “Eschilo, minacciato dal crollo di una casa ha un bello stare all’erta: eccolo accoppato dal guscio di una tartaruga sfuggita dagli artigli di un’aquila in volo. Un altro morì per un acino d’uva; […] Emilio Lepido per aver inciampato nella soglia dell’uscio di casa sua; […] e fra le gambe delle donne, il pretore Cornelio Gallo, Tigellino; […] Caio Giulio, medico, mentre unge gli occhi di un paziente, ecco che la morte gli chiude i suoi. […]” (Essais, I, 20). Per Montaigne il nostro morire o la morte dei cari ci intossica la vita perché lo pensiamo come se si trattasse di un incidente, di un eccezione, di un evento che non ci toccherà mai. Quando poi accade, per noi o per i nostri cari e ci sorprende “all’improvviso e alla sprovvista, che tormenti, che grida, che dolore e che disperazione […]!” (ivi), dunque bisogna rendere incessante il pensiero della morte: “Togliamogli il suo aspetto di fatto straordinario, pratichiamolo, rendiamolo consueto, cerchiamo di non aver niente così spesso in testa come la morte. Ad ogni istante rappresentiamola alla nostra immaginazione, e in tutti i suoi aspetti. All’inciampar di un cavallo, al cader d’una tegola, alla minima puntura di spilla, mettiamoci immediatamente a rimuginare: “Ebbene, quand’anche fosse la morte medesima?”; e a questo pensiero teniamoci saldi e facciamoci forza. In mezzo alle feste e alla gioia, abbiamo sempre in mente questo ritornello del ricordo della nostra condizione, […] così facevano gli Egizi che, nel bel mezzo dei loro festini e delle loro gozzoviglie, facevano portare lo scheletro d’un morto, perché servisse di ammonimento ai convitati” (ivi). Quest’ultimo riferimento di Montaigne all’oggetto di attenzione utilizzato dagli Egizi, ci permette di introdurre un’altra tecnica di incanalamento dell’attenzione sul tema della morte, si tratta dell’uso di raffigurazioni pittoriche, perlopiù di età barocca, riguardanti la caducità di tutto ciò che riteniamo solido e durevole: dalla gioventù, al fiore; dalla gioia, all’abito di lusso. Gli oggetti dell’attenzione questa volta sono teschio e tibie, clessidra, armatura arrugginita e libro ingiallito. I simboli delle Vanità escono dai dipinti per diventare monili e gioielli: “Savonarola raccomandava di portare su di sé una testina di morto in osso da guardare spesso” (Ariès, 1977, p.382), oppure frasi da incidere o dipingere ben in vista sulle travi o sulle pareti domestiche, del tipo: Memento mori; Respice finem; Dubia omnibus [hora] ultima; Per omnia vanitas.

In tempi recenti, la penna velenosa e spudorata del pensatore rumeno Emile Cioran (1911-1995), ha più volte scritto, in forma aforistica, della necessità di pensare alla propria morte utilizzando immagini concrete e “crude” (com’è nello stile dello stesso Cioran); citiamo un esempio: “Per vincere il panico o una inquietudine tenace non c’è nulla di meglio che immaginare la propria sepoltura. Metodo efficace, alla portata di tutti. Per non dovervi ricorrere troppo spesso durante la giornata, la cosa migliore sarebbe provarne il beneficio fin dal risveglio. Oppure farne uso solo in momenti eccezionali, come il papa Innocenzo IX, il quale, avendo ordinato un quadro che lo raffigurava sul letto di morte, vi gettava uno sguardo ogni volta che doveva prendere una decisione importante” (1973, p.110). Non meno diretto e nichilista è Miguel De Unamuno (1864-1932) il cui terrore del nulla non gli impedisce di praticare e consigliare la meditazione sulla morte: “Per quanto, sul principio, ci sia angosciosa questa meditazione sulla nostra mortalità, ci risulta infine corroborante. Raccogliti in te stesso, lettore, pensa al lento disfacimento di te stesso: la luce ti si spegne, le cose si fanno mute e non danno più suono fasciandoti nel silenzio, ti si struggono tra le mani gli oggetti, ti scivola via il terreno da sotto i piedi, svaniscono come in un deliquio i ricordi, tutto si va dissolvendo nel nulla e tu stesso ti dissolvi e non ti rimane neppure la coscienza del nulla, sia pure come fantastico appiglio ad un’ombra. […] Il rimedio è confrontarsi faccia a faccia, fissando lo sguardo nello sguardo della sfinge; è così che si spezza il suo incantesimo” (1913, pp.46-47).

La meditazione cristiana sulla morte e l’ars moriendi

Il pensiero della morte è stato da sempre additato dal Cristianesimo come una via da seguire con perseveranza e per tutto il corso della vita. Già nella Bibbia echeggia ripetutamente l’ingiunzione: “Ricordati che sei cenere e che cenere diventerai” (Giobbe, 34,15) e Gesù invita alla vigilanza serena e attiva, a tenersi sempre pronti alla morte: “Vigilate, dunque, poiché non sapete né il giorno né l’ora” (Mt, 25,13). La letteratura cristiana antica è un intrecciarsi di insegnamenti, preghiere e tecniche di meditazione sulla morte; per Giovanni Crisostomo (IV sec. d.C.) le parole di Qohelet, Vanità immensa: tutto è vanità (Qo 1,2) “andrebbero incise da ogni parte, sulle mura, sugli abiti, in piazza, nelle case, nelle strade, sulle porte, negl’ingressi, e prima di tutto nella coscienza di ciascuno, oggetto di riflessione. Gl’inganni, le finzioni e l’ipocrisia sembrano a molti verità; perciò ogni giorno, a pranzo e a cena, nelle conversazioni, bisogna che ognuno di noi ricordi a chi gli sta vicino, e da lui ascolti a sua volta, che “vanità delle vanità, tutto è vanità”” (pp.71-72). Potremmo continuare con citazioni di Sant’Agostino, Sant’Ambrogio di Milano, Origene e altri Padri della Chiesa, alla fine ci accorgeremmo che c’è un filo comune che attraversava i loro scritti, una preoccupazione più o meno esplicita, è come se l’attenzione portata continuamente sulla propria condizione di “essere morente”, di “vanità tra le vanità”, mitigasse le pulsioni sfrenate dell’”essere vivente”, moderasse la cieca esplosione delle passioni e di ogni vizio, in una parola, limitasse le spinte verso il peccato: “Ricorda la tua fine e cessa di odiare, pensa alla morte e alla corruzione e persevera nei precetti”, ammonisce l’Ecclesiastico (28, 6). Il peccato, insieme all’attenzione attratta da ciò che è caduco, porterebbero l’uomo a illudersi di vivere eternamente, quando invece tutto è vano nel mondo, tutto è impermanente. Il pensiero rischia di perdersi nella selva del peccato e quindi va salvato “addomesticandolo”, va reso docile e moderato attraverso il pensiero della morte. A tale proposito, frate Heitor Pinto (?-1584), uno dei più importanti autori della letteratura religiosa portoghese, scrive nel suo Dialogo sul pensiero della morte: “Il pensiero […] devi tenerlo imprigionato come schiavo fuggitivo e tenerlo occupato in santi esercizi. Quando ti sfugga, un buon rimedio per riprenderlo e metterlo a posto è precisamente il ricordo della morte […]. Devi riflettere e dire a te stesso: “Io cammino verso la morte, vado al giudizio, dovrò render conto della mia vita […]”. Su queste cose devi spesso meditare e devi ogni giorno comportarti come se sapessi che debba essere l’ultimo della tua vita: devi tenere sempre la tua fine innanzi agli occhi. Insomma, se vuoi essere chi devi essere, ricordati di ciò che devi essere, perché il pensiero della morte ti farà considerare chi sei […]. Conoscendo la natura delle cose del mondo, viviamo senza conoscere noi stessi: ma, prendendo in mano lo specchio del pensiero della morte, guardandolo, vediamo in esso noi stessi” (1572, pp.999-1000).

L’importanza della attenzione alla morte in ambito cristiano, trova la sua forma disciplinata e popolare nella pratica codificata dell’Ars moriendi.

L’Ars moriendi è un genere letterario diffuso in Europa tra il basso Medioevo e il Rinascimento (con qualche esempio più tardo anche nel ’600 e ‘700). Si contano circa trecento opere, “[…] opuscoli ascetico-spirituali, originariamente in latino, contenenti esortazioni e preghiere, talvolta corredati anche di illustrazioni e didascalie, per la preparazione alla morte” (Autiero, 1984, p.12). Tali “manuali” erano destinati sia al popolo che ai letterati.

Si conoscono tre forme di Ars Moriendi: la prima riguarda le “cinque tentazioni” contro altrettante virtù (fede, speranza, pazienza, umiltà e generosità). Se il morente fosse riuscito a superarle, si pensava che la sua anima sarebbe stata portata in cielo dagli angeli.

La seconda forma è un insieme di preghiere e meditazioni sulla morte che devono recitare coloro che assistono il morente.

La terza forma infine, è una serie di citazioni bibliche con commenti e considerazioni sulla morte.

Possiamo meglio comprendere l’importanza della diffusione di queste opere, se le collochiamo all’interno di una più ampia moda letteraria in voga a quei tempi. Infatti allora si stampavano veri e propri manuali pratico-didascalici (da cui il nome “ars“) su modi di comportarsi in varie situazioni e vicende della vita: sul galateo, sul corteggiamento, sull’istruzione, ecc. Quindi la morte diveniva oggetto di attenzione in quanto argomento da manuale, e non è una battuta umoristica se si pensano i testi di Ars moriendi come veri e propri vademecum per i morenti e per chi li assiste (non mancano a tale proposito esempi anche più recenti, come un libricino tascabile del 1841, intitolato: Il sacerdote provveduto per l’assistenza dei moribondi). Dunque, può essere di sollievo non tanto il fatto che si possono evitare le pene dell’inferno morendo bene, ma il fatto stesso che anche il morire può divenire oggetto di apprendimento come il ben parlare e scrivere o il ben servire a tavola.

Tra i più importanti trattati italiani di Ars Moriendi ricordiamo: De modo bene moriendi (P. Barozzi, 1531), Dottrina del bene morire (Pietro di Lucca, 1520), De arte bene moriendi (S. Roberto Bellarmino, 1621), Peregrino della terra ovvero apparecchio per la buona morte, (V. Caraffa, 1645) e Apparecchio alla morte (S. Alfonso M. De Liguori, 1762). Uno dei più autorevoli autori stranieri è Erasmo da Rotterdam (1466-1536). Nella sua famosa opera di Ars Moriendi: De praeparatione ad mortem, del 1534, egli cita due “rimedi” contro la paura della morte. Il primo invita il lettore a percorrere mentalmente le tappe della vita per rendersi conto della sua caducità e di quanto essa sia piena di preoccupazioni e dolori. “L’infanzia innocente, la fuggevole adolescenza, la gioventù bruciata, la precoce vecchiaia: cos’è tutto ciò se non un punto rispetto a quell’eternità verso la quale andremo se saremo vissuti pienamente, o che ci sarà negata se saremo vissuti empiamente? La seria riflessione su tutte queste cose è un gran rimedio contro la paura della morte” (p.51).

Il secondo rimedio si basa maggiormente sulla fede in Dio che “[…] ha trasformato la morte, che prima era passaggio agli inferi, […] ora è ingresso a celesti delizie. […] Cristo ha reso certissima la speranza che i nostri corpi risorgeranno nell’ultimo giorno e che, glorificati, riceveranno ognuno la propria anima, per il loro eterno gaudio” (ibidem).

L’Ars Moriendi propone anche rimedi per liberarsi dalla paura della “seconda morte”, la morte spirituale, che conduce alle pene eterne dell’inferno. Per superare questa paura bisognerebbe vivere seguendo i comandamenti divini, e ciò rende chiara la finalità dell’Ars moriendi come educazione alla vita: Ars vivendi.

Considerazioni psicologiche

Le tecniche fin qui descritte, rappresentano un minuscolo frammento della varietà di strategie per “pensare la morte” che la nostra cultura ha saputo realizzare; non è escluso che in futuro ne crei di nuove o modifichi quelle esistenti in funzione delle sempre più magmatiche riconfigurazioni a cui va incontro la cultura occidentale post-moderna. Rileggendo le tecniche tradizionali di attenzione alla morte, possiamo formulare alcune considerazioni di carattere psicologico o psicodinamico.

Possiamo iniziare osservando la presenza del processo del modellamento alla base di molte tecniche di spostamento dell’attenzione sulla morte: si tratta di modelli positivi da imitare (es. meditare sulla morte di Gesù) o negativi da evitare (es. un criminale giustiziato pubblicamente). Appare altresì chiaro il processo di desensibilizzazione: a lungo andare il reiterato pensiero circa la possibilità della propria morte, diventa familiare, emotivamente neutro, e quindi accettabile e meno ansiogeno; cioè accettando il “pensiero” si finisce per accettare la “morte” o comunque, la si crede effettivamente pensabile o affrontabile. La familiarizzazione si può raggiungere anche attraverso la visione prolungata e culturalmente “disciplinata” di cadaveri (come avviene in alcune meditazioni del Buddhismo tibetano) o attraverso continui pellegrinaggi alle tombe di santi le cui spoglie a volte sono visibili attraverso un cristallo o partecipando a riti funebri o a feste tradizionali (carnevale, Halloween, ecc.). Non è escluso che una progressiva familiarizzazione con morte, possa essere raggiunta da molti narratori o saggisti proprio scrivendo opere sulla morte e il morire. In questo caso la scrittura sarebbe una tecnica per tener ferma l’attenzione sul tema della morte. Scrivere sulla morte, anche se si scrive un trattato per dimostrare che essa è impensabile e che non può essere oggetto di attenzione, è esso stesso un esercizio di attenzione alla morte! A rigore di logica, chi è fermamente convinto che la morte sia impensabile o comunque che sia un aspetto della vita a cui è meglio non pensare, non scriverà mai un libro su di essa.

La riflessione sulla morte consente di riconoscerla come costitutiva della vita e non solo come l’evento finale, di cui non faremo mai pienamente esperienza. La morte mette in primo piano la temporalità della vita. Riflettere sulla morte è riflettere sul tempo e sulla natura temporale dell’essere umano. L’attenzione alla morte è attenzione al proprio futuro, e il futuro è una dimensione fondamentale per la propria vita, per ogni condotta, per ogni motivazione. La morte come evento biologico è la fine di ogni futuro, tracciandone i confini, la morte lo rende visibile, lo rende figura, lo feconda e impreziosisce. La dimensione futura diventa dimensione escatologica in chi crede in una vita dopo l’evento morte, e anche in questo caso, ma in un contesto di fede religiosa, la vita diventa la preparazione al futuro che la seguirà.

Minore è la possibilità di condividere socialmente tematiche relative alla morte, maggiore è l’angoscia; più il singolo si sente solo di fronte alla morte, più è angosciato; il pensiero della possibilità della propria morte rischia sempre di arenarsi sulle secche del solipsismo, perché la propria morte non è esperienza condivisibile: “sono io che muoio”, ed ogni uomo è solo di fronte alla propria morte. Pensare alla possibilità della propria morte o al processo del morire proprio o altrui è molto più semplice se avviene in un contesto di gruppo o di comunità: dagli aderenti a un culto religioso, agli spiritisti in seduta medianica; dagli studenti di medicina attorno al cadavere sezionato, alla folla che assiste a una decapitazione in piazza. Pensiamo all’usanza di costruire tombe di famiglia o alla volontà espressa da molti di farsi seppellire accanto al proprio coniuge e ci convinceremo ulteriormente della forza del gruppo, della necessità di un mit-Dasein, esserci-con-qualcuno per affrontare la crisi della morte. Persino chi, in seguito a un grave pericolo per la propria vita, ha vissuto la cosiddetta “esperienza di pre-morte”, dopo aver vissuto il “distacco” dal proprio corpo viene colto da stupore e lacerante solitudine, incontra degli “esseri di luce” irradianti amore.

La forza dei miti e dei rituali collettivi sulla morte, socialmente condivisi e culturalmente legittimati, sta nella loro natura profondamente sociale e nella loro capacità di disciplinare e guidare l’attenzione alla morte, offrendole oggetti, reti simboliche e orizzonti di significato socialmente condivisi e “negoziati”.

In psicoterapia di gruppo o in gruppi di auto-aiuto o d’incontro, è nota l’efficacia “terapeutica” dell’attenzione gruppale rivolta a tematiche ed emozioni riguardanti la morte propria o altrui. In questo caso è presente un contesto (il setting terapeutico) e una tecnica (legata ad un approccio teorico) in grado di contenere e controllare l’altrimenti “selvaggia” e ansiogena attenzione alla morte. A tale proposito sono state ideate e sviluppate svariate tecniche, come ad esempio: scrivere le proprie ultime volontà o il testamento; simulare la comunicazione di una diagnosi infausta; visualizzare il proprio funerale; meditare sulle pause del ciclo di respirazione; esercitare il silenzio; esplorare emozioni e vissuti legati all’”assenza”, al pensiero del non-esserci-ancora che precedeva la nascita; disegnare la lapide della propria tomba completa di epitaffio; visitare in gruppo il cimitero; drammatizzare un dialogo con una persona cara defunta; visualizzare il momento della propria morte ecc. Questi esercizi di attenzione alla morte, possono essere preceduti e/o seguiti da una seduta di rilassamento e inoltre sarebbe consigliabile procedere per gradi, da un minimo a un massimo di coinvolgimento, secondo la tecnica psicoterapeutica di desensibilizzazione sistematica (Tausch e Conte, 1988; Kuiken e Madison, 1987-88). Lo scopo di questi esercizi non necessariamente è quello di abbassare il vissuto di paura nei confronti della morte o di ciò che ad essa si riferisce, ma quello di offrire la possibilità di acquisire maggiore consapevolezza circa la vita e circa i bisogni che spesso si nascondono dietro l’atteggiamento verso la morte. La stessa paura della morte, quando è intesa in senso biologico come cessazione dei processi vitali, è adattiva. La paura in generale è una reazione di allerta dell’organismo che si sente minacciato. Non va eliminata, ma circoscritta e controllata. Sapere ciò che si teme quando si dice di avere la generica, panica e quindi elusiva “paura della morte”, aiuta a vivere meglio la vita, a riconoscere i pericoli concreti o solo immaginati e a farvi fronte. Ecco dunque che l’attenzione alla morte può essere considerata come una delle espressioni del bisogno di sicurezza: “se sto attento, se vigilo, mi salvo”. Non si tratta però solo di semplice e istintivo pre-occuparsi della morte al fine di preservare la vita, nell’uomo accade qualcosa di più complesso. Le millenarie tecniche di attenzione e meditazione sulla morte stanno ad indicare un bisogno umano di mantenere l’ordine mentale e sociale, di controllare e contenere l’angoscia, di “sentirsi” e riscoprirsi quotidianamente vivi e alla ricerca continua di un senso. Una cultura che nega la morte, frustra un bisogno, non lo riconosce, lo confonde con altri bisogni o lo tabuizza e ciò può contribuire all’insorgere di uno stato di disagio esistenziale, di inquietudine del pensiero, di ricerca di illusorie certezze, fino alla nevrosi. La “psicologia esistenziale” ha ben compreso l’importanza della attenzione alla propria morte: “solo l’integrazione del concetto della morte nel proprio sé -scrive Herman Feifel- rende possibile un’esistenza autentica e genuina. Negando la morte si paga con un’angoscia indefinita e con l’autoalienazione. Per capire completamente se stesso l’uomo deve affrontare la morte, deve essere consapevole della propria morte” (Feifel, 1969).

L’attenzione indisciplinata fugge dal pensiero della morte, non lo tollera, ma non può liberarsene totalmente, la morte è il tarlo che rode dentro, direbbe William James. La fuga è impossibile e si finisce per oscillare tra i due poli della tanatofobia e della “pornografia della morte”, disperato tentativo, quest’ultimo, di inflazionarla, di spettacolarizzarla, di sfidarla, di “esportarla” verso gli altri esseri viventi, di abbracciarla come un pugile in difficoltà abbraccia il suo invincibile avversario con la speranza di non finire K.O. L’intolleranza verso il pensiero della morte può essere strumentalizzata da chi detiene il potere, per dirigere l’attenzione delle masse dove ha interesse che questa si focalizzi. L’attenzione disciplinata alla morte è una via possibile per vivere autenticamente, accrescere la consapevolezza e la libertà “nella” vita: “Tu muori proprio perché sei un essere pensante, cosciente, libero”, sostiene Feuerbach (1830) collegandosi al pensiero di Hegel (1817), per il quale l’uomo, proprio in virtù del suo essere mortale, diventa creatore di storia e dialetticamente rivoluzionario, ciò non è invece vero per l’animale: l’uomo muore, l’animale finisce!

BIBLIOGRAFIA

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Tratto da INformazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria, n° 32-33, pagg.78-85, settembre 1997 – aprile1998, Roma

Sogni Lucidi. Il paradosso della coscienza

Sogni Lucidi. Il paradosso della coscienza di Michele Cavallo e Flavio Leone

I sogni, sappiamo, sono davvero strani:
qualcosa magari ci appare straordinariamente chiara, minuziosa come la cesellatura di un orafo,
su altre cose invece si passa sopra senza notarle neppure come ad esempio lo spazio ed il tempo.
Credo che i sogni nascano non dalla ragione, ma dal desiderio, non dalla testa, ma dal cuore,
anche se la mia ragione in sogno si è esibita qualche volta in ingegnosi voli non da poco.
Certo è che in sogno accadono cose del tutto incomprensibili.
Mio fratello, ad esempio, è morto cinque anni fa, qualche volta lo sogno:
egli prende parte alle cose della mia vita, siamo molto interessati l’uno all’altro,
ma intanto, durante tutto lo svolgimento del sogno, io sono pienamente cosciente
che mio fratello è morto e sepolto. […]
E va bene, ammettiamolo pure, è un sogno, ma questa vita che viene tanto esaltata,
io volevo finirla suicidandomi, invece il mio sogno, oh! Esso mi ha indicato una vita nuova.
“Il sogno di un uomo ridicolo” F. Dostoevskij

 

INTRODUZIONE

Sognare ed essere svegli, nella nostra cultura, sono considerate due dimensioni assolutamente separate, due condizioni discrete di esperienza dove l’una esclude l’altra. Sognare ed essere svegli si configurano quindi come stati incompatibili e lontani, dove il primo viene a rappresentare la dimensione immaginativa ed irreale dell’esistenza, ed il secondo invece viene esperito come effettivamente reale e soprattutto come la base sulla quale tentare di spiegare tutti i fenomeni incomprensibili o “strani”.
Noi pensiamo che essere svegli e sognare sono due momenti della nostra esperienza, perfettamente compatibili fra loro, e possono persino essere presenti nel medesimo istante.
Esiste una letteratura molto vasta che si sta sviluppando attualmente negli Stati Uniti, oltre a una letteratura molto antica, in cui viene presa in esame la possibilità che si possa sognare ed essere svegli e presenti a sé stessi nello stesso momento (Walsh e Vaughan, 1992). Sono anche state approntate tecniche adatte a sviluppare questo singolare stato di coscienza che nella letteratura scientifica viene chiamato Sogno Lucido.
Dobbiamo a Frederik Willems van Eeden, psichiatra olandese e noto scrittore, il termine “sogni lucidi” e la prima seria ricerca in questo campo. Già nel 1913 van Eeden si proponeva di compiere uno studio sistematico della fenomenologia dei sogni consapevoli (LaBerge, 1985). Prima di passare ad esaminare la letteratura più moderna sul sogno lucido, ci sembra opportuno chiarire ciò che si intende per “sogno lucido”: un sogno è definito lucido quando il sognatore sa che sta sognando.
Attualmente la ricerca si sta orientando verso una conoscenza sperimentale di questa dimensione, esplorando: processi induttivi, correlati psicofisiologici, vissuti soggettivi; cercando anche di costruire ponti concettuali con le tecniche antiche, come lo yoga tibetano del sogno.

1. SOGNO-VEGLIA: REALTÀ VIRTUALI?

Come facciamo ad essere sicuri che lo stato di veglia non sia anch’esso un sogno? Aveva forse ragione Shakespeare quando nella Tempesta scriveva:

Siamo fatti della stessa materia
Con la quale son fatti i sogni;
E la nostra piccola vita
E’ avvolta nel sonno.

Se è vero che siamo creatori (nella veglia e nel sogno) e non passivi elaboratori di esperienze, allora la veglia e il sogno non si contrappongono così nettamente, entrambi sono “fatti della stessa materia”.
Quando ci svegliamo, noi diciamo “Era solo un sogno” intendendo che non era reale. Cioè, noi gli riconosciamo minor validità o status ontologico alla luce della nostra coscienza di veglia. Ciò a dispetto del fatto che ad ogni risveglio, notte dopo notte, sogno dopo sogno, noi prendiamo i sogni come “reali” e quindi all’interno di essi fuggiamo e combattiamo, ridiamo e piangiamo, imprechiamo e ci rallegriamo (Walsh e Vaughan, 1992).
Eppure questo universo apparentemente oggettivo è una creazione delle nostre menti, una soggettiva, transitoria produzione che noi creiamo.
Per il grande filosofo taoista Chuang-Tzu il sognatore «mentre sta sognando non sa che si tratta di un sogno, e nell’ambito del sogno stesso egli potrebbe persino cercare di interpretare il sogno. Solo dopo che si sarà svegliato saprà che si trattava di un sogno. Un giorno egli avrà un grande risveglio e si accorgerà che tutto ciò è un grande sogno» (in Walsh e Vaughan, 1992, p. 196).

2. LA STORIA DEL SOGNO LUCIDO

Abbiamo accennato come, in anni recenti, Frederik van Eeden lasciò dettagliate descrizioni dei suoi sogni lucidi. Nel Buddhismo tibetano c’è un tipo di letteratura chiamata milamgyi terdzod, letteralmente “tesori dei sogni“. Secondo la tradizione tibetana dello Dzogchen, la chiave del lavoro sul sogno è lo sviluppo di una maggiore consapevolezza nello stato onirico. In questa cultura, il sogno lucido non è come per i Senoi lo strumento diretto per la trasformazione, ma è un epifenomeno dello sviluppo della consapevolezza. Questi versi buddhisti danno una idea di ciò:

Quando albeggia lo stato del sogno,
Non giacere nell’ignoranza come un cadavere.
Entra nella sfera naturale della stabile presenza.
Riconosci i sogni e trasforma l’illusione in luminosità.
Non dormire come un animale.
Pratica in modo da unificare il sonno e la realtà

Lo yoga tibetano del sogno persegue la chiarezza mentale e non l’esperienza in se stessa. Grandi maestri hanno affermato che nel momento in cui la consapevolezza diviene assoluta i sogni cessano del tutto, e che al loro posto si manifesta una chiarezza indescrivibile (Norbu, 1993). L’idea che l’attività onirica possa addirittura cessare una volta raggiunto uno stato di consapevolezza assoluta, è perfettamente in linea con ciò che viene affermato nel primo sutra degli aforismi di Patanjali “Yogas citta-vrtti-nirodhah”, lo yoga è la soppressione delle modificazioni della mente.
Per decadi, i ricercatori occidentali hanno respinto tali resoconti perché impossibili. Comunque, negli anni settanta, attraverso un varco nella storia della ricerca sul sogno, due ricercatori hanno fornito prove sperimentali del sogno lucido.

Lavorando indipendentemente e piuttosto sconosciuti l’uno all’altro, Alan Worsley in Gran Bretagna e Stephen LaBerge in California, hanno imparato a sognare lucidamente (LaBerge, 1985). Mentre venivano monitorati elettrofisiologicamente in un laboratorio del sonno, segnalavano, attraverso i movimenti oculari, che stavano sognando consapevolmente. I loro elettroencefalogrammi mostravano il tracciato caratteristico del sonno REM (rapidi movimenti oculari), durante il quale usualmente si svolgono i sogni. Per la prima volta nella storia qualcuno aveva mandato un segnale dal mondo dei sogni mentre stava ancora sognando. Da allora la ricerca sul sogno non è stata più la stessa. E’ interessante notare che per un pò di tempo LaBerge non riuscì a pubblicare i suoi resoconti perché gli incaricati delle riviste semplicemente rifiutavano di credere che il sogno lucido fosse possibile.

Da allora si è andata sviluppando una intensa attività di ricerca tesa ad identificare la natura di questo fenomeno e i fattori che lo differenziano dal sogno comunemente inteso. Queste ricerche mostrano come il sognatore, durante un sogno lucido, elicita a livello elettroencefalografico un tracciato REM, ed è in grado di segnalare all’esterno, attraverso i movimenti oculari, che sta sognando; egli è in grado di sognare e di comunicare con il ricercatore nel medesimo tempo (LaBerge, 1985). Sulla base di queste fondamentali ricerche, compiute in contesti sperimentali, molti altri aspetti sono stati esplorati: la frequenza e la durata dei sogni lucidi, i correlati psicofisiologici, le caratteristiche psicologiche di coloro che sognano lucidamente, i mezzi più affidabili per la loro induzione, il loro potenziale risanatore e di autoconoscenza (Hearne, 1983; Moss, 1989; Wolpin et al., 1992).

3. LE IMPLICAZIONI DELLA LUCIDITA’: IL VISSUTO

3.1 Il sogno lucido come evento psicofisiologico

Il sogno lucido è un’esperienza che sembra caratterizzarsi come esclusivamente mentale. Ma come può un vissuto soggettivo essere solo mentale o solo fisico? Cosa fa il corpo mentre il sognatore esperisce il suo sogno? Attraverso un approccio psicofisiologico possiamo collocare il fenomeno del sogno lucido nell’interfaccia tra il soma e la psiche, eliminando così ogni possibile idea di separazione e di autonomia tra le due aree.

Infatti se – come suggerisce R. Venturini – punto di partenza della psicofisiologia è una situazione o modificazione psicologica, il vissuto, di cui la psicofisiologia clinica specificamente si occupa, è da identificare in quello che tradizionalmente viene denominato vissuto corporeo o che, forse più appropriatamente, potremmo chiamare vissuto psicofisiologico (1995, p. 21).

La psicofisiologia, quindi, si viene a configurare come quella metodologia di studio che può aiutarci a scoprire l’esistenza di un sistema corpo-mente-corpo-mente…, caratterizzato da un continuo mutamento e aggiustamento dei due termini, entità non più contrapposte, ma unificate in quell’interfaccia (appunto il vissuto psicofisiologico) in cui si esprime la loro inscindibile e “riposata” unità (ivi, pp. 21-22).

E’ importante che l’approccio allo studio del sogno lucido venga effettuato in termini psicofisiologici, valorizzando l’osservazione del corpo e confidando che sarà possibile un giorno arrivare a stabilire con sufficiente precisione la possibilità per i sognatori lucidi di intervenire, dalla situazione di sogno, sul proprio corpo allo scopo di ottenere guarigioni o modificazioni.

3. 2 Il vissuto del corpo

Come abbiamo già visto dalla descrizione di F. Van Eeden, nel sogno cosciente si ha la consapevolezza di possedere due corpi: il corpo fisico, addormentato e il corpo del sogno, attivo:

Nel sogno lucido, la sensazione di avere un corpo con occhi, mani, una bocca che parla e agisce, è perfettamente chiara; ciò nondimeno, nello stesso tempo, noi sappiamo che il corpo fisico sta dormendo in una postura affatto differente. Il sogno lucido dunque mostra lo sdoppiamento del soggetto che vive un’esperienza particolare, profondamente assorbito in essa e allo stesso tempo la vive come una sorta di gioco dal quale sa che potrà risvegliarsi.

3. 3 Il tempo

Gli studi di LaBerge si sono occupati di verificare se i sogni avvengono in tempo reale oppure se essi avvengono nel breve lasso di un istante, come alcuni ricercatori erano propensi a credere, ma i risultati degli esperimenti ci portano a ritenere che sebbene i sogni, qualche volta, avvengano indubbiamente in questo modo, le prove suggeriscono che normalmente durano lo stesso tempo che durerebbero nella vita reale. In uno studio, Dement e Kleitman svegliarono cinque soggetti ogni cinque o quindici minuti dopo l’inizio dei loro periodi REM, e chiesero loro di dire quanto tempo era passato. Quattro su cinque soggetti riuscirono sempre ad indicare il tempo giusto. Lo stesso studio mostrò che i sogni riferiti dopo quindici minuti di sonno REM erano più lunghi di quelli avvenuti dopo cinque minuti. Queste relazioni sembrano contraddire la nozione di sogni istantanei. Tuttavia non provano che il tempo del sogno sia identico al “tempo reale”, ma indicano solo che in genere i due tempi sono reciprocamente proporzionali (in LaBerge, 1985, p. 77).

3.4 Lo spazio: le qualità del mondo fisico

Il mondo della vita di veglia ci appare composto di oggetti stabili e definiti, collocati in una dimensione spazio-temporale. Se l’esperienza del tempo durante un sogno lucido è assimilabile a quella della veglia, così non si può dire per l’esperienza dello spazio. Molti sognatori lucidi riferiscono che la modalità di spostamento che prevale nei loro sogni è il volo: nei sogni lucidi generalmente non si cammina, si può volare ad alte velocità, oppure strisciare sul terreno. I paesaggi vengono creati dal sognatore, che può realizzare i propri desideri e nello stesso tempo essere consapevole del proprio atto creativo. Riportiamo un sogno lucido di uno di noi, che illustra bene il vissuto dello spazio.

Solitamente dopo l’osservazione ravvicinata delle figure mi trovo in uno scenario in cui non vedo il mio corpo, non posso osservarmi mentre compio delle azioni nell’ambiente di sogno, ma ho la consapevolezza di volare, compio delle ricognizioni sull’ambiente di sogno osservando da vicino gli oggetti che lo compongono; è come se fossi diventato solo occhi e consapevolezza.

Oggi però il sogno si è svolto in maniera diversa, anziché volare, mi sono trovato in uno scenario che mi vedeva fermo e immobile, anche se pur sempre consapevole di sognare. Invece di essere io a volare era il paesaggio che scorreva davanti a me come una pellicola, cambiando continuamente.

3.5 L’identità

In tale stato i soggetti non si sentono spaventati, non provano sgomento o paura; conservano un senso molto forte di auto-consapevolezza per tutto il tempo ma questa consapevolezza appare diversa da quella diurna. Il pensiero è chiaro e le immagini sono parzialmente sotto il controllo volontario, si può decidere cosa pensare o immaginare; al risveglio il ricordo è vivido e stabile e il senso dell’io ne risulta integrato e stabilizzato.

4. TECNICHE DI INDUZIONE

Per la maggior parte di noi i sogni lucidi sono rari ed al di là della nostra possibilità di induzione. Esiste qualche metodo per coltivare la nostra abilità di “svegliarci” volontariamente durante i sogni? Una varietà di tradizioni contemplative e di esploratori del sogno dicono di sì.
Saggi come Aurobindo, Ramakrishna, e Steiner, al pari di studiosi occidentali di meditazione, in situazione di ritiro, hanno descritto la loro capacità di mantenere continuamente la lucidità per buona parte della notte sia durante i sogni che nel sonno senza sogni. Anche praticanti avanzati di Meditazione Trascendentale (TM) riferiscono questa esperienza e alcuni persino affermano di essere testimoni ininterrotti dei loro sogni (Walsh & Vaughan, 1992). Con ciò essi intendono che durante i sogni o anche nel sonno senza sogni, rimangono identificati con la coscienza e quindi semplicemente osservano le figure e i drammi nei loro sogni senza venirne perturbati.

Inoltre, questo “testimoniare equanime” può venire protratto alla vita di veglia durante il giorno. In accordo con la tradizione Vedica della Meditazione Trascendentale, il primo stadio dell’illuminazione si considera raggiunto quando la testimonianza diventa ininterrotta e imperturbabile (Taimni, 1970).
E’ molto importante sottolineare che la possibilità di sognare lucidamente è legata al livello di consapevolezza presente nell’individuo.

Esamineremo tre tipi di processi che favoriscono l’insorgenza della lucidità in sogno: a) processi spontanei, ossia creati dalla storia personale e dalla costituzione peculiare del sognatore; b) processi di induzione favoriti da tecniche che richiedono una disciplina; c) processi che richiedono l’intervento “esterno”. In quest’ultimo caso il sogno può essere prodotto in una situazione sperimentale in cui sono controllati i processi che favoriscono lo sviluppo della lucidità e i correlati psicofisiologici.

4.1. Processi spontanei

Tra i fattori interni al sognatore che possono determinare l’inizio di un episodio di lucidità durante un sogno il più comune è forse la percezione delle incongruenze. Come sottolinea LaBerge, uno dei modi in cui ciò accade tipicamente riguarda la percezione delle incongruenze nel contenuto del sogno, avvertite come anomale, seguita dal riconoscimento critico che la spiegazione per l’evento bizzarro è che è solo un sogno (1986, p. 161).

Come farebbe però il sognatore ad accorgersi delle incongruenze se egli fosse assorbito completamente dal sogno e vivesse il sogno come una realtà? Evidentemente egli può percepire le contraddizioni della scena di sogno perché lungo il continuum del grado di consapevolezza, la sua capacità critica è rilevante.

Tra i fattori che possono innescare spontaneamente un sogno lucido troviamo i sogni ansiosi e gli incubi. Il panico, l’ansia e lo spavento possono dare luogo a reazioni di attivazione generale, una sorta di allarme che può (se non produce il risveglio completo del sognatore), indurre il fenomeno della lucidità.

In generale emozioni molto intense si associano all’emergere della lucidità.

Un terzo modo di iniziare il sogno lucido è il riconoscimento dello scenario del sogno per la sua oniricità, ossia per la sua forte somiglianza con un ambiente di sogno. In accordo a quanto riferito da Gackenbach (1985), la ragione più spesso riportata dai soggetti come causa della lucidità, era un senso di “dreamlikeness“, che possiamo tradurre con il termine “oniricità“.

4.2. L’ induzione attraverso la tecnica e l’impegno

Secondo la tradizione tibetana dello Yoga del Sogno, è possibile, attraverso l’esercizio di tecniche appropriate e la disciplina, arrivare ad un punto in cui la nostra presenza consapevole permane costante, durante la veglia e durante il sonno. E’ possibile quindi sviluppare un atteggiamento vigile, distaccato, e soprattutto consapevole anche in sogno.

A) Diversi autori affermano che la pratica della meditazione può facilitare l’emergenza del sognare lucidamente. Tra questi, Sparrow (1976) afferma che meditare nelle prime ore del mattino sovente porta a sognare con lucidità durante il sonno immediatamente successivo alla meditazione, a condizione però che non si mediti con il fine di esperire sogni lucidi. Altri autori hanno suggerito che la meditazione favorisce il sogno lucido (Glicksohn, 1989; Hearne, 1983; Norbu, 1993; Walsh e Vaughan, 1992). Michael Katz, nell’introduzione al libro Lo Yoga del Sogno, riferendosi ad un sogno lucido che aveva lasciato in lui una profonda impressione afferma:

L’intera esperienza era stata affascinante. La considero ancora una delle esperienze più significative della mia vita. Il Lama che sovrintendeva al ritiro la paragonò all’aver passato un esame di guida. Da quella volta ho avuto parecchie esperienze di lucidità durante il sogno. Non posso dire che mi capitino ogni notte, ma avvengono con regolarità. La loro frequenza aumenta nei periodi in cui pratico intensamente la meditazione, ad esempio durante i ritiri. Inoltre ho constatato che se di notte mi sveglio e pratico la meditazione, quando mi riaddormento faccio frequentemente sogni lucidi (Norbu, p. 12).

Sembra fondata dunque l’ipotesi che la pratica della meditazione favorisca il sognare lucidamente, ma ci sembra opportuno precisare che in questo caso, il sogno lucido costituisce un epifenomeno dovuto alla trasformazione della coscienza prodotta dalla pratica costante della meditazione. Lo scopo del meditante non è quello di sognare lucidamente ma di evolvere sul sentiero spirituale. Le tecniche meditative si basano sulla possibilità di invertire il processo dell’attenzione dall’esterno (direzione verso la quale l’attenzione è costantemente rivolta), all’interno di noi stessi, sviluppando la capacità di eludere i sensi, di contemplare il vuoto mentale e infine di permettere alla consapevolezza di osservare se stessa. E’ evidente a questo punto che l’aumento della possibilità di diventare lucidi in sogno è strettamente connesso con la crescita del livello generale della consapevolezza che risulta inevitabilmente dalla pratica costante di una tecnica. In questo senso, ci sembra che la meditazione si possa definire come la via regia per il raggiungimento della veglia perenne.

Per riassumere il punto di vista dello Yoga tibetano sulla relazione tra il sogno lucido e l’illuminazione vengono a proposito le parole di Namkahai Norbu per il quale

Quando inizia il bardo dell’esistenza riprende il funzionamento o l’attività della mente, insieme al cosiddetto “corpo mentale”. Ciò equivale al sorgere dello stato del sogno. Nella pratica, dobbiamo avere la consapevolezza o la padronanza dello stato della luce naturale. Quando si è coscienti della presenza di questo stato di luce naturale, nel momento in cui inizia lo stato del sogno si diventa spontaneamente lucidi e consapevoli di sognare durante il sogno stesso, e automaticamente si ottiene il controllo sui propri sogni. Ciò significa che il sogno non condiziona più il sognatore, ma al contrario è l’individuo a governare il sogno. Per questa ragione la pratica del sogno è secondaria, mentre non mi stancherò mai di ripetere quanto sia importante la pratica della Luce Naturale (ivi, p. 44).

B) Un’altra tecnica in grado di sviluppare la capacità di sognare lucidamente, come abbiamo già accennato sopra, è la MILD (Induzione Mnemonica del Sogno Lucido). Essa è descritta da LaBerge nel suo libro Lucid Dreaming, ed è basata su niente di più complesso o esoterico della nostra capacità di ricordare che vi sono azioni che desideriamo compiere nel futuro. Oltre a scrivere dei promemoria, noi riusciamo a farlo formando una connessione mentale fra ciò che vogliamo fare e le circostanze future in cui vogliamo farlo. Questa connessione è molto facilitata dall’accorgimento mnemonico di visualizzarci nell’atto di fare quello che intendiamo ricordare. E’ anche utile verbalizzare l’intenzione: “Quando accadrà questo e questo, voglio ricordarmi di fare questo e questo.” Per esempio: “Quando passerò davanti alla banca, voglio ricordarmi di ritirare del denaro.”

La frase che io uso per organizzare lo sforzo che mi sono proposto è: “La prossima volta che sognerò voglio ricordarmi di accorgermi che sto sognando.” Il “quando” e il “che cosa” dell’azione progettata devono essere chiaramente specificati. Io esprimo questa intenzione o immediatamente dopo essermi svegliato da un periodo REM, o dopo un periodo di piena coscienza come verrà specificato. Un punto importante è che, per ottenere l’effetto desiderato, è necessario fare qualcosa di più che recitare distrattamente la frase. Bisogna davvero voler fare un sogno lucido. Ecco il procedimento consigliato passo per passo:

1) Alle prime ore del mattino, quando vi svegliate spontaneamente da un sogno, ripensatelo varie volte, finché lo avete memorizzato.

2) Poi, mentre siete a letto e tornate a dormire, ditevi: “La prossima volta che sognerò voglio ricordarmi di accorgermi che sto sognando.”

3) Visualizzatevi nuovamente nel sogno che avete appena fatto e che ricordate; ma questa volta vedetevi nell’atto di essere consapevoli di sognare.

4) Ripetete i numeri 2 e 3 finché sentite che vi siete fissati bene in mente la vostra intenzione o finché vi addormentate.

Se tutto va bene, in breve tempo vi troverete lucido in un altro sogno. Il complesso mentale implicito in questo procedimento è molto simile a quello che adottiamo quando decidiamo di svegliarci a una certa ora e andiamo a letto dopo aver messo a punto la nostra sveglia mentale. La capacità di svegliarci nei nostri sogni può essere considerata come una sorta di perfezionamento della capacità di svegliarci dai nostri sogni. Il motivo per cui questi esperimenti vanno fatti nel primo mattino è che i sognatori lucidi, da van Eeden alla Garfield, hanno riferito che tali sogni avvengono quasi esclusivamente durante le prime ore del mattino. La nostra ricerca allo Stanford indica che il sogno lucido avviene durante i periodi REM, e, poiché il sonno REM si verifica nell’ultima parte della notte, sembra essere questo il momento più favorevole per il sogno lucido. Sebbene alcuni sognatori abbiano indotto con successo sogni lucidi usando la MILD durante il primo periodo REM, la tecnica sembra essere più efficace se praticata nel primo mattino dopo essersi svegliati da un sogno (1985, pp. 137-139).

Interessante quanto macchinosa la tecnica escogitata da LaBerge, basata su una forte motivazione, una buona memoria e soprattutto la pratica della visualizzazione che consiste nello sviluppo della tecnica immaginativa di visualizzarsi nella situazione. E’ probabile che la tecnica se praticata regolarmente e con impegno possa dare dei buoni risultati. Il sogno lucido così raggiunto non sarebbe però il risultato di un più ampio sviluppo della personalità e della coscienza; tuttavia, anche se questa esperienza fosse soltanto il risultato occasionale di una tecnica, potrebbe comunque favorire l’acquisizione di una maggiore integrazione psicologica.

4.3. Induzione del sogno lucido attraverso stimolazioni esterne

Un’altra tecnica di induzione del sogno lucido è basata sull’idea di fornire un segnale esterno per ricordare al sognatore che sta sognando. Sono stati effettuati numerosi tentativi per mettere in pratica questa idea, con vari esiti. La maggior parte degli studi ha utilizzato segnali acustici, mentre in altri sono stati usati stimoli tattili. La maggior parte dei dati a disposizione riguarda gli studi che hanno adottato un approccio diretto: suggerimento verbale del tipo “questo è un sogno”, rivolto a soggetti preparati, durante il sonno REM, usato per indurre la lucidità. Uno studio compiuto da LaBerge (1985) ha prodotto risultati promettenti, suggerendo l’attuabilità di questa tecnica.

Incoraggiati da tale studio, LaBerge, Owens, Nagel e Dement (in LaBerge, 1986) hanno registrato quattro soggetti (due sognatori lucidi esperti e due inesperti) da una a due notti ciascuno. Un nastro registrato ripeteva la frase “questo è un sogno” ad un volume che aumentava progressivamente cinque o dieci minuti dopo l’inizio di ciascun periodo REM. I soggetti avevano ricevuto l’istruzione di segnalare con un paio di movimenti oculari intenzionali, sia a destra che a sinistra, ogni qualvolta avessero udito il nastro oppure avessero realizzato di sognare. I tecnici spegnevano il nastro immediatamente appena osservavano i segnali dei movimenti oculari sul poligrafo. LaBerge et al. (1986) hanno rilevato che lo stimolo del nastro applicato quindici volte ha prodotto la lucidità nel 33% dei casi, anche se tutti questi sogni lucidi non sono durati più di qualche secondo.

In una variazione, in cui lo stimolo che doveva ricordare ai sognatori che stavano sognando, era di tipo tattile, Hearne (1983) ha verificato l’efficacia di scosse elettriche al polso. Tra quindici soggetti di sesso femminile che hanno passato una notte ciascuno nel laboratorio del sonno, sei hanno sperimentato un sogno lucido stimolato con questo metodo. Hearne non riferisce il numero totale di scosse applicate, rendendo così difficile effettuare una valutazione. Altri studi riportano la relativa inefficacia di questo metodo.

Dei processi di induzione che abbiamo appena descritto, quest’ultimo ci sembra senz’altro il più grossolano, in quanto meccanico, poco spontaneo, e soprattutto non abbinato allo sviluppo parallelo della consapevolezza.

5. LA PSICOFISIOLOGIA DEL SOGNO LUCIDO

5.1 La verifica fisiologica del sogno lucido

Una volta restituita la debita rilevanza al corpo, nel trattare la fenomenologia oggetto di studio, la domanda che si impone alla nostra attenzione è: sotto quali condizioni fisiologiche si verificano i sogni lucidi? La maggior parte dei ricercatori hanno accettato l’ipotesi di Hartmann, secondo la quale i sogni lucidi non sono “parti tipiche del pensiero di sogno, ma brevi risvegli” (Hall, 1981; Moss, 1989). Stewart (1989) e Zadra (1992) hanno rilevato che durante il sonno REM si verificano frequenti risvegli transitori e hanno proposto questi “micro-risvegli” come base fisiologica del sogno lucido. Evidenze empiriche a conferma che i sogni lucidi avvenivano durante la fase REM, erano apparse già verso la fine degli anni settanta. Ogilvie et al. (1978) offrirono alcune osservazioni preliminari sulla fisiologia del sogno lucido. Si basarono su comuni registrazioni del sonno di due soggetti che riferirono un totale di tre sogni lucidi in seguito al risveglio dal sonno REM. In ogni caso, nessuna prova era stata fornita che i sogni lucidi erano avvenuti durante la fase REM immediatamente precedente ai risvegli e ai resoconti. Ciò che era necessario per stabilire senza ambiguità lo stato fisiologico del sogno lucido era una sorta di resoconto fornito dalla scena di sogno. LaBerge e i suoi collaboratori all’Università di Stanford si occuparono di fornire non solo la prova che i sogni lucidi si verificano prevalentemente durante la fase REM del sonno, ma anche la prova dell’esistenza della lucidità in sogno. Essi architettarono un esperimento che prevedeva la segnalazione, attraverso i movimenti oculari, del momento in cui i sognatori si accorgevano che stavano sognando, ossia del momento in cui diventavano lucidi. Più precisamente, i sognatori, nel momento in cui diventavano consapevoli che di fronte a loro si dispiegava uno scenario onirico, dovevano compiere un certo numero di movimenti oculari, a destra e a sinistra, stabiliti in precedenza con gli sperimentatori. Questo tipo di esperimento, ripetuto più volte e da diversi autori, doveva condurre alla convinzione, fondata su basi sperimentali, che i sogni lucidi sono una realtà esperienziale e che avvengono prevalentemente durante la fase REM del sonno.

5.2 La respirazione di sogno e il corpo

Un’attività fisiologica indagata da LaBerge e il suo gruppo è stata quella respiratoria. Hanno allestito un esperimento per determinare in quale misura i modi di respirare dei sognatori lucidi concordassero con quelli del loro respiro da svegli. Essi erano interessati a verificare se nei soggetti che all’interno del sogno trattengono il respiro, questo si ferma anche fisicamente. A questo scopo concordarono con i soggetti onironauti una forma di respiro da attuare poi ogni volta che si accorgevano che stavano sognando. Dall’esperimento conclusero che il controllo volontario dell’immagine mentale del respiro durante il sogno lucido si riflette in cambiamenti corrispondenti della nostra effettiva respirazione.
Tuttavia non dobbiamo sorprenderci troppo di questi risultati in quanto potrebbero verificarsi anche per altre attività, se non ci fossero dei meccanismi biologici specifici che lo impediscono; conclude infatti LaBerge

Tutto quello che abbiamo dimostrato con la nostra ricerca è che il contenuto respiratorio nella coscienza di un sognatore sembra influire sull’effettivo modello di respiro di chi sogna. La stessa relazione si presenterebbe probabilmente vera per il camminare, il parlare o qualsiasi altra forma di comportamento, se non per il fatto che la maggior parte dei nostri muscoli sono paralizzati durante il sonno REM (1985, p. 81).

5. 3 L’attività sessuale e il corpo

Un’attività onirica che sarebbe interessante studiare nelle sue relazioni con i processi fisiologici è l’eccitazione sessuale e l’orgasmo. La ricerca di LaBerge è proseguita in questo senso cercando di accertare, attraverso molteplici rilevazioni elettrofisiologiche, se durante una attività sessuale onirica, si verificano modificazioni nel corpo paragonabili a quelle dello stato di veglia. Egli istruì alcuni soggetti a segnalare le varie fasi di eccitazione e di orgasmo durante il sogno lucido, con segnali messi in atto dai movimenti oculari.

I risultati delle rilevazioni elettrofisiologiche abbinate ai segnali forniti dal soggetto sono così riferiti e commentati da LaBerge

Come nel caso di Miranda, la registrazione poligrafica di Randy rivelò una precisa corrispondenza con la relazione del suo sogno lucido. Durante i trenta secondi di attività sessuale indicati dal suo secondo e terzo segnale, la frequenza del suo respiro raggiunse il massimo dei periodi REM, esattamente come per Miranda. L’estensimetro indicò che la sua erezione, dopo essere cominciata poco prima dell’inizio del periodo REM, aveva raggiunto il suo massimo livello tra il secondo e terzo stadio. Una lenta detumescenza era cominciata quasi immediatamente dopo l’orgasmo sognato.

Il cuore di Randy, come quello di Miranda, mostrò solo un moderato aumento di frequenza durante l’orgasmo nel sogno lucido. In generale questi orgasmi sembrarono innescare risposte fisiologiche molto simili nei loro corpi addormentati. Questo in particolare, per l’aumento della frequenza del respiro in entrambi. Un’importante implicazione è che, sotto certi aspetti, il sogno lucido sessuale ha un potente impatto sul corpo del sognatore come nella realtà (ivi, pp. 86-87, c. n.).

Questi esperimenti sono molto interessanti, non pretendono di rivelare verità assolute e indiscutibili, ma sicuramente scuotono alla base tutte le concezioni culturali sul sogno che vedono quest’ultimo come un processo semplicemente immaginativo. L’impressione che abbiamo nel leggere i resoconti degli esperimenti di LaBerge è che il sogno, soprattutto se lucido, assomigli decisamente ad uno scorcio di vita reale vissuta, con le implicazioni di espansione e di crescita che la vita ci accorda. Confinare il sogno a fenomeno immaginativo significa negare una parte della vita. LaBerge e i suoi colleghi ci hanno dimostrato che quando sogniamo, e in special modo quando sognamo lucidamente, non è coinvolta solo la nostra mente, ma anche il nostro corpo è implicato fortemente.

In conclusione gli studi compiuti da LaBerge e il suo gruppo all’università di Stanford hanno evidenziato come l’attività fisiologica che si correla con il fenomeno onirico assomiglia maggiormente all’attività percettiva che a quella immaginativa, e ciò è stato dimostrato in modo abbastanza preciso. Come egli stesso scrive

I nostri studi allo Stanford coprono una vasta area mostrando la relazione tra cambiamenti fisiologici nel corpo dei sognatori lucidi e una varietà di operazioni compiute dal loro corpo “onirico” nei loro sogni (1985, p. 76).

6. FENOMENI ASSOCIATI ALL’ESPERIENZA DEL SOGNO LUCIDO

6.1 Il senso di realtà

Nel corso di un sogno lucido, i soggetti ritengono che lo stato di coscienza sia chiaro e preciso e che le cose appaiano “come esse sono realmente”.

L’impressione che ne deriva è che il nostro stato ordinario di coscienza sia distorto e parziale, e che viviamo in uno stato di illusione (trance consensuale).

Così si evidenzia che: (a) il senso di realtà rappresenta una funzione distinta rispetto al giudizio di realtà, anche se essi spesso operano in sincronia; (b) la percezione del senso di realtà non è inerente alla sensazione, in quanto nel sogno lucido le sensazioni non sono evocate da stimoli esterni.

Gli stimoli del mondo interno divengono investiti del senso di realtà ordinariamente concesso agli oggetti. Attraverso ciò che può essere definito “spostamento di realtà” i pensieri e le immagini diventano reali (Deikman, 1966).

Sognare lucidamente conferisce al sognatore la possibilità di esperire stati “altri” di coscienza e la possibilità di esplorare l’area dell’ignoto con il conseguente arricchimento che tutta la personalità può trarre dalla conoscenza diretta. L’esperienza del sogno lucido è vissuta dal sognatore come estremamente reale a causa della disidentificazione che egli vive rispetto ai contenuti dei suoi sogni. Egli è pura consapevolezza che osserva il film onirico proiettato dalla sua stessa mente.

6.2 Unità

Da una parte la percezione di unitarietà può rappresentare la percezione della propria struttura psichica, dall’altra l’esperienza può essere la percezione della reale struttura del mondo.

Come suggerisce Deikman «L’unità potrebbe essere, infatti, una proprietà del “mondo reale” che diventa percepibile attraverso le tecniche della meditazione del sogno lucido, della rinuncia, o sotto speciali condizioni che creano una spontanea e breve esperienza» (p. 112).

6.3 Ineffabilità

Anche se a volte i sognatori lucidi scrivono lunghi resoconti, essi sostengono che quest’esperienza non può venire comunicata tramite la parola o facendo riferimento ad esperienze simili che avvengono durante la vita di veglia. Essi sentono che non ci sono parole per comunicare l’intensa realtà e le sensazioni sconosciute.

6.4 Fenomeni trans-sensoriali

Molti sognatori lucidi sottolineano che l’esperienza va al di là degli usuali canali sensoriali, ideativi e mnestici. Essi descrivono questo stato come pieno di profonde e vivide percezioni.

6.5 Trascendenza dello Spazio e del Tempo

Questa categoria si riferisce da una parte alla perdita dell’usuale senso dell’orientamento, in termini di percezione tridimensionale consueta della vita di veglia, dall’altra ad un radicale cambiamento della prospettiva nel quale ci si trova improvvisamente come se si fosse fuori dal tempo, al di là del passato e del futuro. In questo stato di coscienza, spazio e tempo sono generalmente concetti senza significato. I concetti di spazio e tempo sono prodotti dal modo di essere della mente che divide e classifica; lo spazio del sogno è uno spazio di creazione, le immagini vengono create anche in funzione dei desideri consapevoli, e il corpo di sogno non sottostà alle leggi della gravità, infatti, molti sognatori lucidi si descrivono come delle consapevolezze volanti. Il concetto di tempo è legato al carattere consequenziale degli eventi, nel sogno lucido l’unica consequenzialità riscontrabile è quella tra desiderio e creazione, il tempo (come noi lo intendiamo) per il sognatore non esiste, la sua esperienza è quella di un tempo unico, un eterno presente, un tempo senza tempo.

6.6 Senso del Sacro

La sacralità viene qui definita come una risposta irrazionale, intuitiva, palpitante alla presenza di realtà ispiratrici. E’ ciò che le persone percepiscono come qualcosa che ha uno speciale valore. I sognatori lucidi spesso provano questa sensazione quando si risvegliano dal sogno; la loro esperienza assume per essi un valore del tutto speciale, che, per quanto possa venire raccontata e condivisa a livello intellettuale, rimane per i sognatori una realtà esperita in uno stato “altro” di coscienza, per il quale essi provano attrazione, rispetto e devozione, e anche un sano desiderio.

6.7 Profondi Sentimenti Positivi

Questa categoria mette a fuoco sentimenti come la gioia, l’amore, e la pace inerenti alla coscienza mistica. Ci sembra possibile assimilare i vissuti dell’esperienza del sogno lucido a questa categoria di sentimenti, in quanto se l’esperienza diretta del sognare lucidamente non sempre è associata a tali sentimenti, il risveglio dal sogno lucido è caratterizzato generalmente dalla presenza di sentimenti di intensa gioia, la sensazione di conoscere un pò più sé stessi, una migliore disposizione nei confronti del proprio ambiente di relazione.

6.8 Paradossalità

Questa categoria riflette la maniera nella quale aspetti significativi della coscienza onirica sono percepiti dal sognatore come reali, a dispetto del fatto che essi violano le leggi della logica aristotelica. L’esperienza del sogno lucido, è paradossale per chi ascolta il resoconto del sognatore ma non per il sognatore stesso. E’ proprio l’esperienza della paradossalità e dell’assurdo che permette l’insorgenza di profondi sentimenti positivi.

Il sapere linguistico è differente dal sapere esperienziale, e quest’ultimo è traducibile nel primo solo a costo di profonde distorsioni. Il sognatore lucido conosce qualcosa in più delle possibilità umane, proprio come il mistico, ma il compito di comunicare l’esperienza ad altri appare impossibile.

6.9 Transitorietà

La speciale ed inusuale forma di coscienza di sogno può durare da una manciata di secondi fino a qualche minuto. Tuttavia la durata della lucidità in sogno è strettamente connessa con il livello di consapevolezza raggiunto dal sognatore. Sviluppando la consapevolezza attraverso le tecniche più adatte a ciascuno è possibile aumentare il tempo di lucidità fino a rendere tale stato relativamente stabile, ma si può andare anche oltre (per esempio praticando lo Yoga Tibetano del sogno) ed arrivare a testimoniare stabilmente il proprio sonno senza sogni.

6.10 Cambiamenti positivi nell’atteggiamento e nel comportamento

Le persone che hanno sperimentato il contenuto delle categorie sopra discusse concordano nel riferire cambiamenti nelle attitudini (1) verso se stessi, (2) verso gli altri, (3) verso la vita. Viene descritto un aumento nell’integrazione della personalità, un rinnovato senso dei valori personali in aggiunta al rilassamento degli abituali meccanismi di difesa dell’Io. La sensazione comune a queste persone è che i loro problemi possono finalmente essere affrontati, ridotti o definitivamente eliminati. La pratica costante del sogno lucido e delle tecniche che lo possono indurre porta generalmente alla trasformazione radicale della personalità e alla nascita di nuove qualità adattative sul piano del sé e delle relazioni con gli altri. I sognatori lucidi riferiscono di vivere le loro vite ad un nuovo livello di integrazione psicologica, di sperimentare sensazioni di soddisfazione e di compimento unite a sensazioni di potere (inteso come capacità di contribuire allo sviluppo della convivenza nel proprio ambiente) che si contrappongono fortemente col vissuto che caratterizza lo stallo dell’impotenza nevrotica. E’ implicito, in queste affermazioni, il tentativo di sottolineare come l’apprendimento di questo tipo di esperienze possa costituire un importante fattore terapeutico nella cura delle nevrosi e delle depressioni.

6.11 Fenomeni Estetici

L’esperienza del sogno lucido assomiglia molto a quella prodotta da una dose di LSD. La persona che viaggia in acido sa che tutto ciò che vede è il prodotto dell’incontro tra la droga e alcune potenzialità del sistema nervoso umano. Egli gode meravigliato delle immagini estetiche create dalla sua stessa mente, egli sa che sta viaggiando in una dimensione trasformativa dai ritmi vertiginosi, e difficilmente egli scambia ciò che vede per realtà. Analogamente, i sognatori lucidi creano i fantasmagorici ambienti di sogno rimanendo consapevoli che si tratta di una creazione delle loro menti. Possono esprimere desideri e realizzarli direttamente nel sogno, possono creare immagini fantastiche, giochi di colori e ogni tipo di rappresentazione inimmaginabile. Ci sembra, per concludere, di poter sottolineare la posizione attiva e costruttiva dei sognatori lucidi che applicano la propria volontà alla direzione dell’esperienza. Molti sognatori riferiscono di provare intuizioni molto profonde e illuminanti di talune idee o problemi e di avere molte immagini visive vivide e tridimensionali.

7. SOGNO LUCIDO E “RISVEGLIO”

La possibilità di sperimentare uno stato di lucidità durante l’attività onirica comporta una serie di implicazioni e di interrogativi di tipo filosofico, volti al tentativo di comprendere i meccanismi della coscienza che operano durante il sonno, ma anche quei meccanismi che regolano la nostra coscienza di veglia.
Infatti, quando sognamo esperiamo i nostri sogni come realtà; tutto il nostro essere percettivo ed emotivo si identifica con il contenuto degli stessi, a tal punto che possiamo provare forti angosce oppure gioie e piaceri. Quando la lucidità sopraggiunge ad illuminare la scena di sogno, l’esperienza muta completamente: sappiamo che stiamo sognando, sappiamo quindi che il sogno non è reale ed emerge la consapevolezza del fatto che esso è una costruzione della nostra mente.
Questo processo porta alla configurazione di un continuum del grado di consapevolezza che va da un minimo nei sogni non-lucidi ad un massimo nei sogni lucidi; può sorgere di conseguenza l’ipotesi che esista la possibilità di estendere anche allo stato di veglia ciò che abbiamo visto accadere nello stato di sogno: anche durante lo stato di veglia la consapevolezza può essere presente in grado maggiore oppure minore, dando origine nel primo caso ad una sorta di illusione di realtà caratteristica del sogno non-lucido, e nel secondo ad uno stato di veglia lucida . Se l’ipotesi è percorribile, dovrebbe esistere uno stato di coscienza proprio dello stato di veglia, paragonabile all’insorgenza della lucidità in sogno e che potremmo chiamare veglia “Risvegliata”.

La consapevolezza aumenta proporzionalmente nello stato di sogno e nello stato di veglia, portando al sogno lucido da una parte e al Risveglio dall’altra.

Queste implicazioni sono state valutate da Judith R. Malamud:

Nel presentare la ricerca sul sogno lucido, in un contesto esteso alla filosofia, spero di chiarire come diventare lucidi in sogno possa costituire una spinta verso la promozione di una parallela evoluzione della coscienza nella vita di veglia.

Come la lucidità di sogno è la conoscenza che siamo addormentati e che stiamo sognando, così la Lucidità di Veglia, può essere definita come conoscenza, durante lo stato di veglia, che siamo addormentati e che stiamo Sognando in relazione ad una realtà possibilmente più obiettiva, e cioè, “La Vita Risvegliata”. Così la lucidità come è stata qui definita, non è ristretta e limitata ad uno specifico stato di coscienza. Il tentativo di capire le potenzialità della lucidità in sogno ci potrà condurre ad intravedere possibilità parallele per la lucidità nella vita di veglia (1986, p. 590).

Alla luce di quanto abbiamo detto fino a questo punto sembra prendere forma la possibilità che quello stato che noi riteniamo abitualmente di veglia possa venire considerato come uno stato di sonno da svegli. A questo proposito C. Tart titolava un suo recente lavoro dedicato all’argomento: “La struttura e la dinamica della veglia addormentata”. L’analisi compiuta da Tart è di tipo psicologico, egli mira a mostrare come l’uomo sia del tutto inconsapevole del processo di costruzione che porta all’esistenza di quella dimensione che conosciamo come “reale”. Alla domanda “che cosa significa trovarsi in uno stato di veglia addormentata?” così risponde:

Possiamo dire che “L’uomo è addormentato” nel senso generale che un individuo in uno stato di coscienza ordinario, culturalmente “normale” è:

(a) inconsapevole o solo parzialmente consapevole di importanti oggetti, persone e processi nel suo ambiente circostante.

(b) inconsapevole o solo parzialmente consapevole di importanti, a volte vitali capacità, processi, ed eventi all’interno del suo essere.

Se ciò fosse tutto, riguardo alla nostra definizione iniziale dell’essere addormentati, potremmo molto più semplicemente definirla “ignoranza”, e in questo caso il rimedio sarebbe la produzione dello sforzo mirato verso l’educazione. Di conseguenza dobbiamo aggiungere:

(c) l’uomo abitualmente e automaticamente passa una grande quantità del suo tempo nel fantasticare e in illusori sistemi di credenze su se stesso e sul mondo; vale a dire, l’uomo si aggira in una sorta di veglia(di giorno)sognante;

(d) l’uomo è fortemente ed emozionalmente coinvolto con molti dei suoi sogni (di veglia) e con i suoi illusori sistemi di credenze e per di più li difende; e

(e) l’uomo distorce significativamente la percezione che ha di sé e del suo mondo, usualmente in una maniera che convalida soggettivamente i suoi sogni (di veglia) e gli illusori sistemi di credenze.

Come conseguenza dell’essere addormentato in questo senso, che consiste in ciò che ho definito altrove trance consensuale noi proviamo molta sofferenza. Dal punto di vista di coloro che sono più consapevoli di se stessi e del mondo della natura, la maggior parte di questa sofferenza è inutile e non necessaria. E’ come una persona matura che osserva le traversie di un adolescente, e sa come esse potrebbero essere gestite più facilmente. Per dirla in un altro modo, le nostre vite sono vissute ad un livello mentale inferiore piuttosto che pienamente, con la conseguenza che la percezione, il pensiero, il sentimento e l’azione risultano disadattivi. Risvegliarsi da questo stato di veglia addormentata, acquisire la pienezza mentale, richiede considerevolmente di più che la semplice esposizione a “fatti” educativi. (Tart, 1993, pp. 142-143).

Dunque, se per vincere l’angoscia e il terrore che a volte proviamo nei sogni, è necessario diventare lucidi e coscienti del processo, così per eliminare la sofferenza e l’ignoranza dallo stato di veglia addormentata è necessario “Risvegliarsi”. Dato che lo stato di veglia e quello di sonno sono modulazioni psicofisiologiche di un essere sempre integrato, è verosimile ritenere che la pratica del sogno lucido, che implica un aumento della consapevolezza in sogno, possa contribuire a vincere l’illusione dello stato di veglia e condurre al “Risveglio”. Per concludere ci sembrano opportune le parole con le quali J. R. Malamud conclude il suo articolo:

Forse, anche il “Risveglio” comporta una sparizione del nostro concetto di sé e del mondo come lo percepiamo ordinariamente. Questa analogia è coerente con gli insegnamenti mistici sul bisogno di lasciar cadere la realtà come viene percepita dai sensi, e “morire” in qualità di ego per poter conoscere la Realtà. Così, Risvegliarsi potrebbe significare diventare esperienzialmente consapevoli di una realtà apparentemente più obiettiva e del Sé che sogna le nostre vite di veglia. Forse, dopo il Risveglio, ci potremo meravigliare per la bizzarria e creatività, ansietà e dolcezza dei nostri sogni della vita di veglia (1986, p. 609).

*,** Psicologi

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1 R. Bastide (1976) nel tentativo di costruire una antropologia del sogno sottolinea come nelle società tradizionali il sogno orienta, dirige e dà forma alla vita diurna; mentre nelle culture occidentali il sogno «cessa di avere una esistenza obiettiva, un posto istituzionalizzato. E’ respinto nell’immaginario» (p. 48).
2 In uno di questi resoconti l’autore descrive come sognò di essere consapevole del sogno e di star sognando: «sapevo con assoluta certezza di star sognando e che in realtà riposavo supino nel mio letto. Decisi di svegliarmi dolcemente e di osservare attentamente come la mia sensazione di riposare bocconi si sarebbe trasformata in sensazione di riposare supino: ciò che feci lentamente e deliberatamente. La transizione fu assolutamente straordinaria. Provai come l’impressione di scivolare da un corpo ad un altro: ed avvertii molto distintamente il doppio ricordo dei due corpi» (in Lapassade, p. 31).
3 La popolazione dei Senoi (Malesia) costituisce un esempio eccellente di cultura che attribuisce un valore particolare al lavoro sul sogno. La Garfield (1974) ha così riassunto gli aspetti fondamentali del lavoro sul sogno dei Senoi: in sogno si deve affrontare e superare il pericolo, andare incontro ad esperienze piacevoli, fare in modo che i sogni diano un risultato positivo o creativo. E’ ovvio che questo lavoro direttivo sul e nel sogno presuppone una “educazione” alla lucidità in sogno.
4 Yoga significa unione, intesa come unione con l’Assoluto, la ricomposizione di tutti gli opposti; quando questa unione viene raggiunta la mente si dissolve come ghiaccio al sole, e scompare così la possibilità di “sognare” sia quando siamo svegli che quando dormiamo.
5 Si può essere semplicemente consapevoli che qualche fenomeno sta avendo luogo, e si può essere consapevoli di essere consapevoli. Questa autoconsapevolezza ci consente a diversi livelli di separarci dai contenuti della nostra coscienza, e il suo sviluppo coincide con l’aumento della separazione tra la coscienza e i suoi contenuti. In linea generale, quindi, coltivare un atteggiamento che miri alla disidentificazione tra la coscienza e l’oggetto dell’esperienza, favorisce l’apparizione della lucidità sia nello stato di sonno che nello stato di veglia (cfr. Tart, 1977).
6 Cfr. alcuni concetti psicofisiologici: livelli di vigilanza, sostanza reticolare ascendente, correlati EEG del sogno.

Tratto da “Informazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria”, n° 30

La psichedelia e il percorso interiore

Il ruolo della psichedelia nel percorso di conoscenza interiore, in particolare nel buddismo, è l’oggetto di questa discussione a quattro voci tra i maestri zen Aitken Roshi e Richard Baker Roshi, l’insegnante buddista Joan Halifax e Ram Dass, guidata da Allan Hunt Badiner.

Robert Aitken Roshi è uno dei più anziani e rispettati maestri zen dell’America. Vive alle Hawaii. Richard Baker Roshi dirige una fiorente comunità zen nel Colorado, con diramazioni non ufficiali in tutta Europa.

Ram Dass, noto per aver scritto Be Here Now (“Sii qui e ora”) all’inizio degli anni ‘70, ha scritto un nuovo libro sugli effetti della pratica sull’invecchiamento, Still Here: Embracing Aging, Changing, and Dying, (“Ancora qui: abbracciare l’invecchiamento, il cambiamento e la morte”) ed è un serio studioso sia del buddismo sia delle sostanze psichedeliche. Joan Halifax è insegnante buddista “anziana” della scuola del maestro Thich Nhat Hanh, e direttrice di Upaya nel New Mexico.

Allan Hunt Badiner: Le sostanze psichedeliche sono un argomento molto vasto. Qui ci occupiamo soprattutto di estratti vegetali che, ingeriti in dosi e modi appropriati, possono contribuire a espandere la consapevolezza. È possibile che tale uso delle sostanze psichedeliche conduca all’illuminazione?

Joan Halifax: Nei primi tempi consideravamo la psichedelia “la mente che si manifesta”. L’opinione prevalente, soprattutto in un ricercatore dell’LSD come Stan Grof e in altre persone, era che assumendo certe sostanze si evocavano determinati domini mentali. Piante-insegnanti diverse erano chiavi che aprivano porte diverse all’interno della mente. Per esempio, la mescalina produce un tipo di visione diversa da quella della psilocibina, della yagé ecc.

Ram Dass: Dal mio punto di vista, il buddismo è ciò che più si avvicina all’esperienza psichedelica, almeno a quella dell’LSD. L’LSD ti catapulta al di là delle tue strutture concettuali. Ti libera. Passa sopra alla tua abitudinaria identificazione con i pensieri, portandoti molto velocemente in una dimensione non concettuale.

Allan Hunt Badiner: Cosa pensi della cosiddetta pillola buddista, l’MDMA, anche nota come ecstasy?

Ram Dass: Non la ritengo una pillola buddista. Penso che l’MDMA sia ottima per la terapia delle relazioni. Aumenta la capacità di essere compassionevoli, amorevoli, di scorgere la bellezza delle persone e tutto il resto, ma non facilita l’esperienza del vuoto o dell’assenza di forma. Di essa non mi piace la componente della velocità, la mascella serrata e quelle cose lì. Ho fatto quasi cinquanta trip con l’MDMA, e ho deciso che potevano bastare. Il mio guru, Neem Karoli Baba, una volta ha detto sulle sostanze psichedeliche: “Sono utili, ma non costituiscono il samadhi autentico. Ti permettono di andare dentro di te e avere il «darshan» con Cristo, ma puoi stare lì solo due ore. Dopo, devi andartene”. Inoltre, ha detto: “Non puoi diventare Cristo attraverso la tua medicina”. La distinzione tra vedere e diventare: qui è dove il buddismo entra in gioco.

Allan Hunt Badiner: Due ore di Cristo non sembrano niente male!

Ram Dass: No, infatti! Ma puoi anche restare intrappolato in un certo tipo di esperienza. E l’esperienza non è la non-esperienza. È simile, ma non uguale. È come l’esperienza del vuoto, piuttosto che il vuoto stesso.

Allan Hunt Badiner: Ram Dass, hai detto che le sostanze psichedeliche possono passare sopra le nostre abitudini. Ma è una cosa che dura poco, vero?

Robert Aitken: Va benissimo avere una piacevole esperienza di oblio di sé, ma dopo? La cartina di tornasole è vedere come queste cose funzionano nella vita quotidiana, in cui bisogna lavorare per sopravvivere, pagare le tasse, crescere i figli e così via.

Ram Dass: Tutti sono un po’ avidi di avere l’illuminazione subito. Ciò che ho osservato nella mia vita, ora che sono passati trentacinque anni dalla mia prima assunzione di droghe, è che quando torno indietro, le abitudini mi seguono. Ma quello che ho in più, ora, è il ricordo dell’esperienza, la consapevolezza che essa è possibile. Questo cambia tutta la pratica spirituale seguente, perché adesso il tuo punto di vista non è solo da qui, ma anche da lì.

Robert Aitken: Penso che le sostanze psichedeliche rendano possibili esperienze sia negative che positive, ma credo che se vuoi affrontare seriamente la pratica buddista, te le devi lasciare alle spalle. Molta gente è arrivata alla pratica buddista grazie ad esperienze con sostanze psichedeliche. Oggi non incontro più nessuno che viene da quell’esperienza.

Allan Hunt Badiner: Come si comportano i “profughi” dalla psichedelia?

Robert Aitken: Le droghe gli hanno fatto intravedere un’esperienza religiosa, ma poi si sono accorti che il potenziale di quelle sostanze era finito e hanno cercato una pratica che li conducesse alla conoscenza religiosa. In quel periodo c’erano persone che cercavano di fare zazen e prendere droghe allo stesso tempo. In realtà, questo non funzionava affatto, perché nell’assunzione di droghe c’è una componente di assorbimento nell’io che è antitetica allo scopo della pratica.

Richard Baker: Eravamo a San Francisco, nel bel mezzo della “scene”, dal ’61 in poi. Quello che Suzuki Roshi e io vedevamo era che le persone che prendevano l’LSD – e una larga percentuale di studenti lo faceva – entravano nella pratica più velocemente degli altri. Non sempre, ma di solito l’LSD li apriva più velocemente alla pratica. Notavamo anche che nella maggior parte dei casi quelle persone si fermavano dopo un paio di anni e non progredivano più nella pratica zen; questo valeva soprattutto per coloro che avevano usato molto l’LSD. La mia sensazione è che le sostanze psichedeliche creano una propensione per un certo tipo di esperienza. Sembra che, poiché il loro spazio mentale è stato energicamente aperto e condizionato dall’LSD, la pratica zen dia frutti solo in relazione a questo spazio mentale. Le persone che ne avevano fatto uso massiccio, per esempio cinquanta trip, duecento trip, non andavano molto al di là di ciò che un buon praticante avrebbe raggiunto dopo due anni. Inoltre, poiché avevano familiarità con un linguaggio interiore tanto energico, quegli studenti avevano difficoltà maggiori con il linguaggio interiore più sottile della pratica zen.

Allan Hunt Badiner: Con lo zen non si sentivano abbastanza “fatti”?

Richard Baker: Si erano abituati a un certo tipo di ebbrezza spirituale e mentale, e se essa non era presente, e la mente si trovava per lo più in stati neutri, il loro interesse verso la pratica diminuiva. Gran parte dell’esperienza buddista avviene in uno spazio al di là del piacere e dell’avversione: il cosiddetto territorio neutro. La neutralità, come il non-attaccamento, è il sentimento più profondo, ma non puoi definirlo né buono né cattivo. L’esperienza psichedelica tende a essere così forte ed emozionante che può inibire il linguaggio interiore più sottile.

Allan Hunt Badiner: Quindi era facile distinguere chi usava sostanze psichedeliche e chi no.

Robert Aitken: Facilissimo. C’erano persone che in certi giorni della settimana facevano pratica nel nostro zendo, e negli altri fumavano o si facevano. Quando tornavano, avvertivo subito la differenza nei loro modi e nella qualità della loro pratica. Invece di tornare rinfrescati, erano agitati e instabili. All’epoca non ero un insegnante, ma certo ero un fratello più anziano nel dharma, e avevamo discussioni molto accese. Però loro non erano disposti ad ascoltare alcun consiglio.

Joan Halifax: È come un odore: puoi dire a naso chi si fa e chi no. Il mio criterio è questo: considerando la mente come un’orditura, chi usa sostanze psichedeliche non ha una trama compatta come gli altri. Io ho impiegato molto tempo per sentirmi a mio agio sul cuscino. Dopo aver smesso di prendere sostanze psichedeliche, la mia tendenza alla dispersione è definitivamente cessata, e la mia reattività è molto diminuita. Mi sento sollevata per aver scelto il cammino della meditazione.

Allan Hunt Badiner: Anche se per un certo tempo devi aver trovato sollievo nelle sostanze psichedeliche.

Joan Halifax: Su questo non ci sono dubbi. Le sostanze psichedeliche sono uno strumento estremamente potente per aprire la mente. Le considero una fase di passaggio quando stiamo cercando di diventare più autentici, genuini e sinceri. Ho come la sensazione che, rispetto alle sostanze psichedeliche, sono stata “promossa”. Tuttavia, esse sono state indubbiamente parte della mia evoluzione verso la maturità psicologica e caratteriale. Nella meditazione, però, si coltiva un tipo di mente molto diverso, le cui qualità fondamentali sono la stabilità, la gentilezza amorevole, la chiarezza e l’umiltà. La psichedelia non coltiva necessariamente queste qualità.

Allan Hunt Badiner: Hai mai mischiato pratica e sostanze psichedeliche?

Joan Halifax: Sì, naturalmente. È accaduto alla fine degli anni sessanta e negli anni settanta, quando ho cominciato a prendere l’LSD. Ma dopo un po’, francamente, non mi sembrava un esperimento di grande successo. Almeno per me.

Richard Baker: C’erano pochi studenti, al centro zen, che cercavano di fumare marijuana e praticare. Uno studente andò su tutte le furie e abbandonò la pratica perché gli dissi che non poteva essere mio studente se fumava marijuana.

Ram Dass: Molte persone sostengono che fumare l’erba aiuta la loro meditazione, ma secondo me non è vero.

Joan Halifax: Penso che ognuno reagisce a modo suo alle sostanze psichedeliche. La mia sensazione è che queste ultime non operano sullo stesso tipo di mente che affiora in meditazione. Col passare del tempo, lo stato mentale provocato dalle sostanze psichedeliche mi ha interessato sempre di meno. Non conosco molte persone che sono riuscite a far convivere una pratica psichedelica e una matura pratica buddista, eccetto forse Ram Dass.

Ram Dass: Secondo me, le sostanze psichedeliche non sono un veicolo per l’illuminazione, ma per il risveglio. Le vedo come il punto di partenza di un processo che risveglia la possibilità dell’illuminazione. Ecco perché uso la parola “risveglio”. Esse ti liberano, allo stesso modo di un trauma, un’esperienza di quasi morte e forse anni di meditazione intensiva.

Allan Hunt Badiner: Se hai il ricordo di un’esperienza psichedelica e cominci a usare tecniche forse più soddisfacenti a lungo termine, il tuo lavoro comincia a colmare il divario tra il ricordo della libertà e la tua esperienza concreta. Giusto?

Ram Dass: Sì.

Allan Hunt Badiner: Quindi, tu prendi ancora droghe.

Ram Dass: Le ho prese.

Allan Hunt Badiner: E le hai trovate utili?

Ram Dass: Sì, e ti dirò perché: ho visto che potevo rendere “sociale” qualsiasi tecnica. Potevo usare tutte le tecniche per tenere in vita il mio ego. Quando qualcuno comincia a meditare in modo davvero profondo o partecipa a un ritiro, pensa: “Oh, Dio! Sta per accadere! Ecco l’illuminazione”. A quel punto, ti metti alla ricerca di tutti gli angoli della mente dove puoi nasconderti. Quindi, uso una tecnica contro l’altra in continuazione, per portare equilibrio e per vedere dove sto ingannando me stesso.

Allan Hunt Badiner: Ma non puoi controllare o dirigere sempre l’esperienza, no?

Ram Dass: Faccio parte del club degli esploratori psichedelici fin dagli anni sessanta, e so che la natura dell’esperienza dipende dal “set and setting”, cioè dall’atteggiamento e dal contesto, e che quando faccio le mie pratiche spirituali, il mio atteggiamento muta. Quindi, prima farò due anni di pratica profonda, dopo sono curioso di vedere dove mi trovo in relazione alle sostanze psichedeliche. Oggi sono al punto che se non assumerò mai più queste ultime è OK, ma se le prenderò ancora è splendido. Non lo so e non mi interessa. Questo è un atteggiamento diverso rispetto a “Ho bisogno di esse per trovare la realtà”.

Robert Aitken: Tutto ciò che devi fare è prendere un buon testo buddista, e lì c’è la realtà. Non hai bisogno di prendere droghe per risvegliarti a essa. La maggior parte delle persone che vengono da me, oggi, sono risvegliate da qualche lettura. Pensano: “Oh, ci può essere qualcosa di più nella mia vita”. Ma bisogna dire che la società materialista è molto seducente e ci attira a sé. La coppia media lavora molto duramente e poi, quando torna a casa, naturalmente vuole rilassarsi. Prende un drink, guarda la TV. È una sorta di circolo vizioso. Il buddismo zen ha un bel da fare per questo. Dobbiamo trovare un modo per fare andare via la gente da casa, senza che lascino la casa.

Richard Baker: Anche io penso che una cultura mira a essere irresistibilmente seducente e a non lasciare alternative. Ma questo è ciò che il buddismo si trova a dover affrontare in ogni cultura: penetrare in questa cappa di pensiero comune culturale e sociale.

Allan Hunt Badiner: Quando si tratta della psichedelia, sembra che molti insegnanti buddisti affermino: “Fai quello che dico, non quello che ho fatto”. I giovani oggi sembrano molti sinceri nella loro ricerca, ma non paiono disposti ad accettare sulla fiducia che una tecnica è utile o no, in particolare se è controversa.

Robert Aitken: Non penso che le droghe abbiano aiutato qualcuno ad arrivare al punto in cui si trova. Piuttosto, è successo che per le circostanze culturali dell’epoca (anni sessanta, primi anni settanta) molte persone sono arrivate allo zen grazie all’esperienza delle droghe. In precedenza, si arrivava allo zen attraverso l’esperienza della teosofia o di altri cammini occulti; in seguito, si è arrivati allo zen attraverso la lettura o l’esperienza dello yoga, l’aikido, la pratica Theravada o cose simili. Fu singolare che l’LSD venne scoperto e si diffuse proprio in quell’epoca. La sua scoperta coincise con la disillusione per la guerra nel Vietnam, i diritti civili ecc. La gente non aveva più fiducia nella tradizione; era pronta a sperimentare. Ma questo accadde allora. Quando sento questi discorsi, mi sento tornare indietro di trenta anni. Mi pare di rivangare il passato.

Allan Hunt Badiner: Robert Aitken, qual è la tua esperienza con le sostanze psichedeliche?

Robert Aitken: Ho sperimentato l’LSD, e più di una volta la marijuana.

Allan Hunt Badiner: Cosa hai imparato?

Robert Aitken: Nessuna di queste esperienze è stata davvero soddisfacente. Le esperienze con la marijuana mi hanno dato una falsa sensazione di solidarietà con le persone con cui stavo fumando (che erano molto più giovani di me). Anne Aitken e io avevamo comprato una piccola casa alle isole Maui, che più tardi sarebbe diventata il primo zendo delle Maui. Ma prima di trasferirci, l’avevamo affittata a un gruppo di giovani che ogni tanto andavamo a trovare. Tutti fumavano la marijuana. Una volta stavamo seduti in cerchio e ci stavamo passando la sigaretta della marijuana. Provai una meravigliosa sensazione di solidarietà con il cerchio di persone. Le donne erano in cucina a preparare il cibo, e una di loro aveva un piccolo bambino molto rumoroso. Anne uscì e mi chiese se potevo badare al bambino mentre le donne cucinavano. Dissi di no. Ma poi mi chiesi: cosa mi succede? Amo i bambini e sono in grado di calmarli tutti. Che razza di solidarietà è la mia se sto escludendo il resto del mondo, per così dire? Fu così che capii i limiti della marijuana.

Allan Hunt Badiner: Ma questo l’hai capito mentre stavi là seduto, “fatto”?

Robert Aitken: Sì.

Allan Hunt Badiner: Hai fatto qualcosa, poi?

Robert Aitken: Oh, certo. Mi sono alzato, ho lasciato il gruppo e ho preso in braccio il bambino.

Allan Hunt Badiner: Un’illusione ragionevolmente breve. E il trip di LSD?

Robert Aitken: L’unico trip di LSD fu un’esperienza di illusioni. Ero sdraiato sulla schiena in mezzo all’erba alta, osservavo le nuvole e vedevo in esse legioni romane e così via.

Allan Hunt Badiner: Ti è piaciuto?

Robert Aitken: Beh, sul momento mi è quasi piaciuto, ma i postumi furono terribili: tutto sembrava brutto e fastidioso, e ogni ruga sul volto delle persone risaltava con grande chiarezza. Suppongo che sia questa esperienza che spinge la gente a riprovare le illusioni dell’LSD. Fu una sola esperienza, quindi in realtà non posso dare un giudizio su una base così limitata.

Allan Hunt Badiner: Richard Baker, hai avuto qualche esperienza importante in questo campo?

Richard Baker: Non uso sostanze psichedeliche. Né consiglierei alle mie due figlie di usarle. E anche se negli anni sessanta ho organizzato una conferenza sull’LSD a Berkeley, non ho mai preso l’LSD. Sul finire degli anni cinquanta, ho preso qualche volta alcuni germogli di peyote e di mescalina, e forse un po’ di psilocibina. Non mi piaceva la mancanza di fluidità e il modo in cui i miei stati mentali venivano, per così dire, comandati a bacchetta. Preferivo la fluidità che riuscivo a sviluppare nella concentrazione meditativa. Una volta stavo in Cile con due nativi sciamani e un amico che insegna sciamanesimo. Facevo parte del gruppo, quindi ho bevuto tutti gli infusi che preparavano. Credo che volessero mettere alla prova l’insegnante zen, per cui mi imbottirono all’eccesso. Finii che dovetti restare alzato tutta la notte e prendermi cura degli altri. Non fu granché.

Allan Hunt Badiner: Joan, come è stato immergersi in culture indigene più antiche, prendendo sostanze psichedeliche secondo i loro costumi?

Joan Halifax: Nelle cosiddette culture psichedeliche – culture dove si usano gli allucinogeni e la tecnologia psicologica è altamente sviluppata – ho osservato che l’atteggiamento religioso è molto articolato ed elaborato. E naturalmente l’assunzione di allucinogeni è culturalmente accettabile, e non ai margini della società come qui. Nel caso degli Huichol, dei Mazatechi o dei Kayapò dell’Ecuador, potevi osservare un mondo davvero in armonia con l’uso degli allucinogeni e le visioni provocate da questi ultimi.

Allan Hunt Badiner: Cosa pensi dell’ayahuasca, o yagè? L’ayahuasca, in particolare, sembra aver sedotto il mondo buddista, ultimamente.

Joan Halifax: L’ayahuasca è semplicemente una straordinaria pianta-insegnante.

Ram Dass: È il rito che attualmente va per la maggiore. Ma io penso che i riti tendono a mantenerti nel dualismo. I viaggi sciamanici, nella maggior parte dei casi, mi annoiano, perché di solito riguardano il bene, il male e il potere.

Allan Hunt Badiner: Le sostanze psichedeliche sono un ostacolo, Joan?

Joan Halifax: Anche porre questa domanda è un ostacolo. Capisci cosa sto dicendo? Anche il buddismo è un ostacolo. Quello che chiedo io è: che tipo di mente vuoi creare? Quali qualità pensi siano davvero di aiuto per te e per gli altri esseri nel mondo? Cosa pensi che ti servirà davvero? Cosa potrà guarirti meglio? Cerco di porre queste domande in modo da non condannare nessuna possibile scelta fatta dagli altri. In ogni caso, molti di noi non si sentirebbero a proprio agio su un cuscino se in passato non avessero assunto sostanze psichedeliche.

Robert Aitken: Quando ripenso alla mia prima introduzione allo zen, scritta per Zen in English Literature di R. H. Blyth, mi accorgo che in quel libro ci sono molti errori. Ma all’epoca per me era molto importante. Non per questo oggi suggerirei alla gente di cominciare leggendo Zen in English Literature. Semplicemente, è successo che quella è stata la mia esperienza nel 1943.

Allan Hunt Badiner: Il ven. dr. Ratanasara, monaco singalese che presiede il Congresso buddista americano, tiene a sottolineare che quando le nostre azioni sono scorrette, il danno maggiore non è fuori di noi (sotto forma di scontento divino, effetti karmici o anche delle conseguenze logiche), ma è la sensazione di disagio o squilibrio che resta nella nostra mente. È possibile che l’uso di droghe psichedeliche, a un certo livello, sia un ostacolo per il semplice fatto che sono illegali, o perché alcuni studi le ritengono nocive dal punto di vista fisico?

Ram Dass: La maggior parte delle informazioni negative sulle sostanze psichedeliche, come quelle sui danni cerebrali o sul fatto che condurrebbero a droghe più pesanti ecc., vengono da ricerche motivate da fini politici, e non reggono a un’analisi indipendente. Per quanto riguarda l’infrazione delle leggi, in realtà stiamo parlando della politica della consapevolezza e del controllo. Chi detiene il potere teme la destabilizzazione della società provocata da forze che non è in grado di controllare. Il desiderio di droghe non può essere posto sotto controllo. Distrugge tutte le strutture della società, sommerge i tribunali e le prigioni. La politica sulle droghe è stata un fallimento totale.

Allan Hunt Badiner: Cosa pensi dei “bad trip”, le esperienze negative sotto l’effetto di una droga?

Ram Dass: Nella maggior parte dei casi, si possono prevenire i bad trip facendo attenzione all’atteggiamento e al contesto. Naturalmente, l’illegalità dell’intera faccenda è essa stessa parte del contesto. Ma in genere i bad trip si possono dividere in quelli che chiamo gli “out” (che si hanno “uscendo”) e gli “in” (“rientrando”). Negli out, ciò che accade è che anche la più piccola struttura dell’io viene percepita in pericolo. Alcune persone che non sono preparate a questo fanno resistenza, e quando fai resistenza comincia l’intero processo della paranoia. L’energia viene distratta dalla sostanza psichedelica e si crea un inferno.

Allan Hunt Badiner: E nei bad trip di tipo“in”?

Ram Dass: Riposi nella pace, nell’equanimità, nella consapevolezza e nella beatitudine senza forma. Quando l’effetto chimico svanisce, hai la sensazione di stare ritornando in una prigione, in un mondo corrotto, e questo non ti piace, fai resistenza al rientro. Quando torni indietro e tutto è uno schifo, anche questo è un bad trip. La gente non ti piace, sembrano tutti falsi e di plastica.

Allan Hunt Badiner: Non è sempre bello.

Ram Dass: Pensare che stai facendo qualcosa contro la morale comune, che può davvero portare a brutte conseguenze per te o gli altri (prigione ecc.), non è la cosa migliore quando stai cercando di diventare più vulnerabile e sereno. Sono molto contento di aver fatto delle esperienze in altre culture. Infatti, per quanto cerchiamo di essere autentici rispetto alla nostra cultura, per quanto cerchiamo di creare il contesto migliore (in mezzo alla natura o con immagini particolari, musica, incenso, candele ecc.), c’è sempre qualcosa di insostituibile: la visione spirituale che fa parte del continuum di una società.

Allan Hunt Badiner: Gli occidentali potranno mai evadere dal loro condizionamento? Possono davvero partecipare e trarre beneficio da questi rituali?

Joan Halifax: Se vado in Giappone, in Corea o in Vietnam, mi siedo in un tempio e ho un’esperienza autentica di “samadhi” mentre faccio zazen in quel contesto, c’è qualcosa di diverso rispetto all’andare, per esempio, in Sud America o in America Centrale e avere un’epifania psichedelica in un particolare contesto culturale? Penso che le due cose siano paragonabili. La mia opinione è che possiamo attraversare questi confini. La meditazione e queste sostanze sono entrambi strumenti potenti per spostare il nostro “punto di assemblaggio” fuori dalla mentalità comune della nostra cultura in una nuova cornice di riferimento.

Allan Hunt Badiner: A differenza della nostra formazione psichedelica, la nuova generazione rende indistinto il confine tra le droghe cosiddette psichedeliche e pesanti. Assistiamo a molti passaggi da un campo all’altro: un po’ di LSD, un po’ di eroina, un po’ di erba, qualche pillola…

Ram Dass: Ma la distinzione c’è. Penso che loro sanno dire le differenze tra queste sostanze. La mia opinione è che ci troviamo di fronte, in generale, all’attrazione verso gli stati alterati, sia per l’intensità dell’esperienza sia per il brivido del rischio.

Allan Hunt Badiner: Ram Dass, in qualche modo tu sei responsabile di questo, non è vero? Tutti ricordiamo il grande entusiasmo con cui parlavi dell’uso di droghe.

Ram Dass: Sai, le droghe di evasione e quelle sacre sono davvero diverse. Oggi al mondo c’è un uso delle droghe così eccessivo che chiaramente nessuno desidera appoggiarlo. I bambini e le droghe non devono entrare in contatto, per esempio. Ho sempre detto: “Diventa qualcuno, prima di diventare un nessuno”. Ma oggi i consumatori di droghe sono psuedo-automi figli della cultura e, nel caso del crack e della cocaina, rappresentano un chiaro attestato di fallimento della mitologia culturale. Il crack è una risposta alla mancanza di opportunità nei quartieri degradati, mentre nelle classi agiate la cocaina è la risposta al fallimento del mito secondo cui il successo porta la felicità. Cioè, sei un vincitore, ma resti un perdente. Le persone che possiedono milioni di dollari si sentono in qualche modo imbrogliate. Penso che la filosofia materialista e il tentativo di mantenere la società stabile stiano creando un’atmosfera opprimente. Non mi turba il far parte di qualcosa che scuote il sistema.

Allan Hunt Badiner: Che dici della marijuana? Ram Dass, la fumi ancora?

Ram Dass: Sono un consumatore leggero di marijuana. La vedo come una sorta di ascensore per cambiare piano di consapevolezza. Questo è il modo tecnico per descrivere l’uso che ne faccio. Mi piace osservare il modo in cui funziona la mia mente – a tutti i piani, e allo stesso momento in nessuno di essi – sotto l’effetto della marijuana.

Allan Hunt Badiner: Uno studente buddista alle prime armi ha bisogno delle sostanze psichedeliche per progredire realmente e velocemente?

Ram Dass: No. Non vedo alcun motivo per farlo. Oggi le sostanze psichedeliche sono solo un’altra tecnica. Sembrano anche un anacronismo, a causa delle nostre politiche culturali sulla droga. La paranoia collegata a esse le rende molto meno utili.

Allan Hunt Badiner: Occorre avere un contesto spirituale per progredire sul cammino psichedelico?

Ram Dass: La tua vita deve avere dei contenuti, al di fuori delle droghe, che creino l’ambiente adatto. Il buddismo è un buon contesto per l’esperienza psichedelica.

Allan Hunt Badiner: C’è qualcosa che le sostanze psichedeliche possono insegnarci sulla morte? Esse possono aiutarci a vincere la paura della morte, imparando ad accettare quest’ultima?

Ram Dass: Sì, senza dubbio. I primi studi cominciano negli anni sessanta, con il lavoro di Erik Kast nell’Università di Chicago. Della sua opera mi resta in mente una citazione. È una frase pronunciata da un’infermiera che stava morendo di cancro e aveva appena preso l’LSD: “So che sto morendo di questo male incurabile, ma guardate quanto è meraviglioso l’universo”.

Allan Hunt Badiner: Joan, da molto tempo lavori sulla morte e il morire. Torneresti a usare sostanze psichedeliche in questo lavoro, o incoraggeresti altri a farlo?

Joan Halifax: Non più. Ho scoperto che l’atteggiamento interiore, la qualità della presenza che si riesce a portare a una persona morente o che si riesce ad avere per se stessi, è un conforto e un sollievo sufficiente e profondo. Ho appena avuto delle esperienze incredibili con delle persone morenti, senza la mediazione delle droghe. Nelle ultime fasi del processo della morte la gente è di solito in uno stato di consapevolezza così alterato che strafare non sembra necessario. Quella che funziona davvero è una sorta di trasmissione da cuore a cuore, un flusso d’amore, un amore e una pazienza assoluti davanti alla morte. La magia di questo essere allo stesso tempo vuoti e pieni di compassione ha un effetto incredibile, sia su chi assiste sia su chi sta morendo.

Allan Hunt Badiner: Richard Baker, dunque nella ciotola del Buddha della medicina non ci sono erbe o piante, ma solo sutra?

Richard Baker: Il buddismo è una religione e non una filosofia, perché prendi rifugio solo nel Buddha, nel Dharma, nella Sangha e in nient’altro. In questo c’è un’alchimia che non esiste se talvolta si prende rifugio nel Buddha, il Dharma e la Sangha, e talvolta in qualcos’altro. Per me, la chimica o l’alchimia del buddismo, della pratica seria, funziona davvero quando non ti concedi altre possibilità.

Una definizione di persona illuminata è: colui che ha sempre ciò di cui ha bisogno. A ogni istante è presente ciò che gli occorre. Egli non è alla ricerca di niente. Se stai praticando seriamente per raggiungere la libertà e la comprensione dell’illuminazione, non cercherai mai di evadere dalla situazione presente, per quanto possa essere brutta. La trasformi in ciò di cui hai bisogno. Immagini che sentire di aver bisogno di qualcosa è esattamente ciò di cui hai bisogno. Per esempio, se per una mattina non ho fatto zazen, più tardi nella giornata potrei pensare: “Dio, sarebbe stato meglio se avessi fatto zazen questa mattina”. In quel momento attribuisco a tale frase due significati: non ho fatto zazen al mattino, e ciò di cui ho bisogno dallo zazen in questo momento è il pensiero di non aver fatto lo zazen. Non cerchi di cambiare il tuo stato mentale, ma di trovare esattamente ciò di cui hai bisogno adesso. Quindi, per me, questa è una sorta di alchimia che possiede delle qualità psichedeliche. Ma la pillola è composta dagli ingredienti della tua situazione presente. Non si tratta di cambiare il tuo stato mentale, ma di cambiare attraverso il non-cambiamento.

Robert Aitken: Vorrei aggiungere che esiste una differenza qualitativa tra l’estasi che alcune persone sostengono di sperimentare nell’esperienza della droga e la comprensione, la realizzazione che nascono dalla pratica zen. Noi cerchiamo la comprensione, non l’estasi.

Ram Dass: Mi sento triste quando la società rifiuta qualcosa che può aiutarla a comprendere se stessa e a rendere più profondi i suoi valori e la sua saggezza. È come la Chiesa che non riconosce l’esperienza mistica. Non è una purificazione del buddismo; è cercare di aggrapparsi a ciò che hai, piuttosto che crescere.

Originalmente pubblicato su Tricycle magazine, per gentile concessione.
Traduzione di Gagan Daniele Pietrini
Copyright per l’edizione Italiana: Innernet.

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