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Autore: Hiram

Il coraggio di essere liberi dal passato di U.G. Krishnamurti

Se raggiungete tutti gli obiettivi che vi siete posti, il successo, il denaro, la fama, una buona posizione, il potere, allora siete felici. Nel ricercare queste cose, lottate duramente. Ci mettete una grande quantità di volontà e di sforzo. Se avete successo, non avete problemi. Ma non è possibile avere sempre successo, lo sapete, no?!
Ma, in qualche modo, c’è sempre in voi la speranza di un possibile successo futuro. Quando capite che non potete riuscire sempre in tutto, cadete nella frustrazione. Ma, nonostante ciò, vi rimane la speranza. Sia in ambito materiale, sia in quello spirituale, rimane sempre il desiderio di riuscire a raggiungere l’obiettivo che vi siete preposti.
Dovete darmi una mano. Non sono qui per tenere un discorso. Io chiedo sempre alle persone che vengono a trovarmi di essere molto chiare riguardo ciò che vogliono. “Voglio questo”, “Non voglio quello”. Va bene. Una volta che sapete esattamente ciò che volete, sarete in grado di trovare i modi e i mezzi per soddisfare i vostri desideri. Sfortunatamente la gente vuole un mucchio di cose nello stesso tempo.
Cristallizzate tutti i vostri desideri in un unico desiderio basilare, dato che tutti i vostri desideri sono una variante dello stesso desiderio. Voi rifiutate il mio avvertimento che l’uomo vuole essere sempre felice, senza neanche un raro momento di infelicità, o vuole un piacere permanente senza il dolore, ma questo come dicevo poc’anzi è fisicamente impossibile.
Il corpo non può trattenere troppo a lungo nessuna sensazione, sia piacevole sia dolorosa. Se lo fa, distrugge la sensibilità degli organi di percezione e del sistema nervoso.
Nell’attimo in cui riconoscete una particolare sensazione come piacevole, subentra subito la richiesta che questa possa durare a lungo. Ma tutte le sensazioni, la cui intensità dipende dall’importanza che vi date, hanno una durata limitata.
Quando separate voi stessi dalle sensazioni piacevoli, nasce la richiesta di estendere il limite di quelle sensazioni, o dei vostri momenti di felicità, e iniziate a pensare a come poterlo fare. Questo pensiero ha mutato in un problema quella particolare richiesta di far durare questa sensazione piacevole più a lungo. L’ha trasformata in un problema per il funzionamento del corpo e di conseguenza diventa una nevrosi. Il corpo fa l’impossibile per gestire questi problemi, ma il pensiero gli rende difficile trattare la cosa in modo naturale, perché tenta di risolverla a livello psicologico o religioso.
In realtà, questi problemi sono di tipo neurologico, e se lasciate fare al corpo farà un lavoro migliore di quanto state facendo voi cercando soluzioni a livello psicologico o religioso. Tutte le soluzioni che ci sono state offerte e le soluzioni che abbiamo adottato per secoli non hanno portato niente di buono tranne un po’ di sollievo. Sono state un palliativo per aiutarci a sopportare il dolore. Ma non ci siamo liberati affatto da questo dolore, perché speriamo ancora di risolvere il problema con lo stesso strumento che lo ha creato. Però l’unica cosa che questo strumento può fare è creare problemi. Ma non può mai, dico mai, risolverli.
Se il pensiero non è lo strumento per risolvere i problemi, c’è qualche altro strumento? Io dico di no! Esso può solo creare problemi, non può risolverli. Quando questa comprensione sorgerà in voi, allora capirete che l’energia che c’è nel corpo, che è una manifestazione di vita, un’espressione di vita, tratta ogni difficoltà in modo estremamente più semplice dell’attrito che generate con le idee per risolvere questi problemi.
[…]
D: Qual è allora il tuo consiglio quando abbiamo un problema?

U.G.: Voi non potete fare altro che creare i problemi. Prima di tutto create il problema e poi non siete per nulla interessati a guardare i problemi. Non affrontate i problemi. Siete molto più interessati alle soluzioni che ai problemi. Questo vi rende difficile osservare il problema.
Io vi suggerisco “Guardate bene, voi non avete alcun problema”. Voi asserite con tutta l’enfasi che potete, e con grande animosità “Guarda, io ho un problema”.
Va bene, avete un problema. Qualcosa vi assilla e dite “Ecco questo è il problema”. I dolori fisici sono reali. In quel caso andate dal medico, lui vi dà una medicina, che può essere più o meno buona, più o meno tossica, e questa produce qualche sollievo, anche se di breve durata. Ma le terapie che questa gente vi sta fornendo intensificano solo un problema che non esiste. State solo cercando le soluzioni. Se ci fosse qualche cosa di vero in queste soluzioni che vi vengono offerte, il problema dovrebbe essersene andato, dovrebbe scomparire. In realtà, il problema è ancora presente, ma voi non mettete mai in discussione le soluzioni che questa gente vi sta offrendo come sollievo o come qualcosa che può liberarvi dai problemi.
Se voi metteste in discussione le soluzioni che vi sono offerte da quelli che vendono queste cose nel nome della santità, dell’illuminazione, della trasformazione, trovereste che in effetti non sono le soluzioni. Se lo fossero, avrebbero dovuto produrre i risultati voluti ed avrebbero dovuto liberarvi dal problema. Ma non lo fanno.

Ma voi non mettete in discussione le soluzioni perché credete che chi vi propone queste cose non possa ingannarvi, non possa essere un mascalzone. Per voi egli è un illuminato o un dio che cammina sulla superficie della terra. Magari però quel dio può illudersi, e autodistruggersi, magari indulge nel suo auto-inganno e continua a vendervi questa robaccia, questa merce scadente.
Voi non mettete in discussione le soluzioni, perché in quel caso dovreste mettere in discussione anche coloro che vi forniscono queste soluzioni. Ma voi siete convinti che non possano essere disonesti, un santo non può essere disonesto.
Eppure, dovete mettere in discussione le soluzioni perché non stanno risolvendo il problema. Perché non le mettete in discussione e non testate la loro validità? Quando vi rendete conto che non funzionano, dovete gettarle via, buttarle nella spazzatura, fuori dalla finestra. Ma non lo fate perché c’è la speranza che in qualche modo quelle soluzioni vi daranno il sollievo che cercate. Lo strumento che state usando, cioè il pensiero, è lo stesso che ha creato questo problema, quindi non accetterà mai e poi mai la possibilità che quelle soluzioni siano una fregatura. Ma esse non sono affatto la soluzione.
La speranza vi fa andare avanti. Tutto ciò vi rende difficile osservare il problema. Se una soluzione fallisce, voi andate da qualche altra parte e adottate un’altra soluzione. Se anche questa ultima fallisce, ne cercate un’altra ancora… Continuate a comprare soluzioni e neanche per un momento vi domandate: “Qual è il problema?”.
Io non vedo nessun problema. Vedo solo che voi siete interessati alle soluzioni e venite qui e ponete la stessa richiesta: “Vogliamo un’altra soluzione”. E io vi dico: “Queste soluzioni non vi hanno aiutato per nulla, quindi perché ne cercate un’altra?”. Ne aggiungereste solo un’altra alla vostra lista, per trovarvi alla fine esattamente al punto di partenza. Se vedete l’inutilità di una, le avete viste tutte. Non dovreste provarne una dopo l’altra.
Quanto sto suggerendo è che se una di quelle fosse stata la soluzione, avrebbe dovuto liberarvi dal problema. Se quella non è la soluzione, allora non c’è nulla che possiate fare; e poi il problema non esiste nemmeno. Quindi, non avete alcun interesse a risolvere il problema, perché ciò sarebbe la vostra fine. In realtà volete che il problema rimanga. Volete che la fame rimanga perché se non aveste fame non andreste a cercare questo tipo di cibo da tutti questi santoni. Quello che loro vi danno sono solo degli scarti, pezzetti di cibo, e voi siete soddisfatti. Poniamo per un istante che questi leader spirituali, questi terapisti possano darvi tutto il pane, cosa che peraltro non possono fare perché non ce l’hanno, che ve lo promettessero, ma lo tenessero qui, nascosto da qualche parte… solo promesse. Ve lo darebbero solo pezzetto dopo pezzetto. In questo modo non trattate direttamente con il problema della fame, piuttosto che farlo siete molto più interessati ad ottenere un pezzetto in più da quel tizio che vi promette le soluzioni.
Quindi, voi non state trattando il problema della vostra fame, siete molto più interessati ad ottenere altre briciole da quel tizio, piuttosto che affrontare il vostro dilemma.

D: È come andare a vedere un film per scappare dalla realtà.

U.G.: Voi non guardate mai il problema. Qual è il problema? La rabbia per esempio. Non voglio discutere tutte queste sciocchezze che sono state dibattute per secoli. La rabbia. Dov’è quella rabbia? Potete separarla dal funzionamento di questo corpo? È come un’onda nell’oceano. Potete separare le onde dall’oceano? Potete solo sedervi ad aspettare che le onde cessino, così potrete nuotare nell’oceano, come il Re Canute che sedette per anni e anni sperando che le onde sparissero in modo da poter fare un tuffo in un mare assolutamente calmo. Ma ciò non accadrà mai. Voi potete sedervi ed imparare tutto sulle onde e sulle maree, l’alta marea e la bassa marea (gli scienziati ci hanno dato tutti i tipi di spiegazioni), ma il conoscere quelle cose non vi sarà di nessun aiuto. Voi non state assolutamente trattando con la vostra rabbia.
Prima di tutto, dove sentite quella rabbia? Dove sentite tutti i vostri cosiddetti problemi da cui volete liberarvi? …I desideri, i desideri brucianti? Il desiderio vi brucia. La fame vi brucia. Ma le vostre soluzioni e i mezzi che adottate per realizzare i desideri rendono impossibile a quei desideri e a quella rabbia di consumarsi da soli.
Dove sentite la paura? La sentite lì, alla bocca dello stomaco. È parte del vostro corpo. Il corpo non può sopportare quelle ondate di energia e voi cercate di sopprimerla per ragioni spirituali o sociali. Ma non ci riuscirete.
La rabbia è energia, un tremendo scoppio di energia. E cercando di distruggere quell’energia con ogni mezzo, state distruggendo l’espressione della vita stessa. Diventa un problema solo quando cercate di intromettervi con questa energia. Se la rabbia venisse assorbita dal sistema fisiologico, non vi comportereste come pensate che fareste se la rabbia fosse lasciata libera di agire seguendo il suo corso naturale. In realtà non siete in contatto con la vostra rabbia, ma con la vostra frustrazione. Così, per evitare quella situazione che vi ha creato problemi nelle vostre relazioni o nella comprensione di voi stessi, volete essere preparati ad affrontarla se si ripresenterà in futuro.

Lo strumento che usate è quello che avete sempre usato per ogni scoppio di rabbia. Ma non vi ha ancora aiutato a liberarvene. Voi non volete usare nient’altro, neanche di straordinario, se non questo strumento, che avete usato per tutti questi anni. E sperate che in qualche modo possa un domani aiutarvi nel liberarvi dalla rabbia. È sempre la solita vecchia speranza.

D: Ma se qualcuno è molto arrabbiato può diventare violento.

U.G.: Quella violenza viene assorbita dal corpo.

D: Ma può diventare una minaccia.

U.G.: Per chi?

D: Per le altre persone.

U.G.: Sì. E quindi? Cosa può fare?

D: Può andare in giro con un coltello…

U.G.: Che altro?

D: Uccidere qualcuno.

U.G.: Sì. Ma pensa alle guerre dove si uccidono migliaia e migliaia di persone, senza che loro ne abbiano alcuna colpa. Perché limiti la condanna ad una reazione che è naturale, e non condanni le nazioni che scagliano addosso quegli ordigni tremendi a gente indifesa? Le chiami civili? Entrambe le due azioni sono sorte dalla stessa fonte. Più a lungo cercate di sopprimere la vostra rabbia qui, più voi indulgerete in queste atrocità e le giustificherete, perché sono il solo mezzo per proteggere il vostro modo di vivere e di pensare. Queste due cose vanno assieme. Perché giustifichi una cosa del genere? È folle.
Quell’uomo arrabbiato non vi sta attaccando direttamente, ma minaccia il vostro modo di vivere. Il pericolo che rappresenta quell’uomo è quello che vi porti via le cose che considerate preziose. È per questo che cercate di fermare quest’uomo dall’agire quando è in preda ad uno scoppio di rabbia. Le religioni hanno detto che un uomo arrabbiato diventa antisociale.
Ma anche se cercherà di praticare la virtù, resterà un antisociale perché le sue azioni saranno caratterizzate dalla rabbia. Quando quella meta che la società vi ha imposto, quando quello stesso obiettivo che voi avete adottato come ideale da raggiungere verrà tolto di mezzo, voi non danneggerete più nessuno, né individualmente, né a livello di nazione.
Dovete guardare in faccia la rabbia. Ma voi state trattando con cose che non hanno nessun rapporto con la rabbia, non le permettete mai di bruciare se stessa esattamente là dove si origina e agisce. Fare le vostre terapie, prendere a calci un cuscino, colpire questo, quello o quell’altro, è soltanto una presa in giro. Non libera una volta e per tutte l’uomo dalla rabbia.

Tratto da U.G. Krishnamurti, Il coraggio di essere liberi dal passato, Jubal editore
(Trascrizione di una conversazione con U.G. Krishnamurti)

Increspature sulla superficie dell’Essere, un’intervista con Eckhart Tolle di Andrew Cohen

Eckhart Tolle è emerso come uno degli insegnanti spirituali più originali degli anni recenti. Il suo insegnamento non fa parte di alcuna religione o tradizione, ma nello stesso tempo non esclude nessun percorso. Il suo messaggio enfatizza l’essere nel momento. E’ autore del best seller “Il Potere di Adesso”, qui intervistato da Andrew Cohen. Andrew Cohen: Eckhart, com’è la tua vita? Ho sentito parlare di te un po’ come di un recluso che trascorre molto tempo in solitudine. È vero?

Eckhart Tolle: Questo era vero in passato, prima che fosse pubblicato il mio libro Il potere di adesso.. Per molti anni sono stato un recluso. Dopo l’uscita del libro, però, la mia vita è cambiata drasticamente. Ora insegno e viaggio molto. E le persone che mi conoscevano prima dicono: “È sorprendente. Eri un eremita ed ora sei nel mezzo della società”. Tuttavia, sento che niente è cambiato dentro di me. Mi sento, esattamente, lo stesso di prima. C’è ancora un senso di pace continuo, e mi sono arreso al fatto che a livello esterno c’è stato un cambiamento totale. Così, in realtà, non è più vero che sono un eremita.

Ora sono proprio l’opposto di un eremita. Può darsi che questo sia un ciclo. Può pure darsi che ad un certo punto questo finisca e che io ad essere un eremita. Al momento, però, sono arreso al fatto che sono quasi costantemente in uno stato interattivo. Ogni tanto mi prendo del tempo per stare da solo. Tra un insegnamento e l’altro, è necessario.

Andrew Cohen: Perché hai bisogno di stare da solo e cosa accade in quei momenti di solitudine?

Eckhart Tolle: Quando sono con la gente sono un maestro spirituale. Questa è la funzione, ma non è la mia identità. Dal momento che sono da solo, la mia gioia più profonda è nell’essere nessuno, nel lasciare andare la funzione dell’insegnante. È una funzione temporanea. Diciamo che incontro un gruppo di persone. Nel momento in cui se ne vanno, non sono più un maestro spirituale. Non c’è più alcun senso di un’identità esteriore. Semplicemente, entro in modo più profondo nella quiete. Il luogo che amo di più è la quiete. Non che la quiete vada perduta quando parlo o quando insegno, dato che le parole sorgono dalla quiete. Nel momento in cui le persone se ne vanno, però, quello che rimane è solo la quiete. E la amo cosi tanto.

Andrew Cohen: Potresti affermare che la preferisci?

Eckhart Tolle: Non si tratta di preferenza. Nella mia vita, ora, c’è un equilibrio, che probabilmente prima non c’era. Nel momento in cui, molti anni fa, accadde la trasformazione interiore, si sarebbe potuto dire, quasi, che l’equilibrio andò perduto. Era così appagante e così traboccante di beatitudine essere, semplicemente, che avevo perso ogni interesse nel fare o nell’interagire. Per un bel po’ d’anni mi sono perso nell’Essere. Avevo quasi completamente abbandonato il fare, solo quel tanto che bastava per tenermi in vita e perfino quello era un miracolo. Avevo perso ogni interesse nel futuro. E, poi, gradualmente, si è ristabilito un equilibrio. Non si è completamente ristabilito fino a che non ho cominciato a scrivere il libro. Il modo in cui mi sento, ora, è che nella mia vita c’è un equilibrio fra lo stare da solo e l’interagire con le persone, fra l’Essere ed il fare, mentre prima, il fare era stato abbandonato e c’era solo l’Essere. Profondamente beato, meraviglioso! Da un punto di vista esterno, però, molta gente ha pensato che fossi diventato matto o fossi squilibrato. Qualcuno ha pensato che fossi pazzo ad aver lasciato tutte le cose del mondo che avevo “raggiunto”. Non avevano capito, che io non le volevo, che non ne avevo più bisogno.

Ora, l’equilibrio, è fra la solitudine e l’incontro con le persone. E va bene così. Sto piuttosto attento che l’equilibrio non vada perduto. Al momento è presente una tendenza all’aumento del fare. Le persone mi vogliono a parlare di qui o di là, ci sono richieste continue. So che, ora, devo fare attenzione, affinché non vada perso l’equilibrio e a non perdermi nel fare. Non credo che potrebbe mai accadere, ma richiede una certa dose di vigilanza.

Andrew Cohen: Cosa significherebbe perdersi nel fare?

Eckhart Tolle: In teoria significherebbe che, continuamente, viaggerei, insegnerei e sarei in contatto con la gente. Se questo accadesse, forse, ad un certo punto il flusso, la quiete, potrebbero non esserci più. Oppure potrebbero esserci sempre, non lo so. Oppure potrebbe insorgere una spossatezza fisica. Ora, però, sento che ho bisogno di tornare periodicamente alla pura quiete. E anche quando avviene l’insegnamento, lascio proprio che sorga dalla quiete. Di conseguenza l’insegnamento e la quiete sono strettamente connessi. L’insegnamento sorge dalla quiete. Dal momento in cui sono solo, però, c’è solo la quiete e questo è il mio luogo favorito.

Andrew Cohen: Quando sei da solo, passi molto tempo stando fisicamente fermo?

Eckhart Tolle: Sì, a volte posso stare seduto per due ore in una stanza quasi senza alcun pensiero. Solo in completa quiete. A volte, quando vado a passeggiare, anche allora vi è una quiete completa, senza attribuire mentalmente dei nomi alle percezioni dei sensi. C’è semplicemente un senso di profonda maestosità o di meraviglia o di apertura, e questo è magnifico.

Andrew Cohen: Nel tuo libro Il potere di adesso affermi che “lo scopo definitivo del mondo non sta nel mondo, ma nella sua trascendenza”. Puoi spiegare, per favore, cosa significa?

Eckhart Tolle: Trascendere il mondo non vuol dire ritirarsi, non intraprendere più azioni o smettere di interagire con le persone. La trascendenza del mondo è agire ed interagire senza ricercare se stessi. In altre parole significa agire senza cercare di rafforzare il proprio senso di sé attraverso le proprie azioni o i propri contatti con le persone. Alla fin fine vuol dire non aver più bisogno del futuro per la propria realizzazione oppure per un senso del sé o dell’essere. Non c’è più un ricercare attraverso il fare, un ricercare, nel mondo, un senso di un sé più forte, più appagato o più grande. Quando non c’è più questo ricercare, allora puoi essere nel mondo, ma non del mondo. Non sei più alla ricerca di qualcosa con cui identificarti, là fuori.

Andrew Cohen: Intendi che uno ha rinunciato ad una relazione egocentrica e materialista con il mondo?

Eckhart Tolle: Sì, significa smettere di cercare per ottenere un senso del sé, un senso del sé più profondo o migliore. Dato che, nello stato normale di coscienza, quello che le persone cercano, attraverso le loro attività, è di essere più completamente se stesse. Il rapinatore di banche sta in qualche modo cercando questo. Pure la persona che si sta sforzando di raggiungere l’illuminazione, sta cercando questo, poiché sta cercando di ottenere, in un qualche momento nel futuro, uno stato di perfezione, una condizione di completamento, uno stato di completezza. C’è un tentativo di ottenere qualcosa attraverso le proprie attività. Stanno cercando la felicità ma fondamentalmente stanno cercando se stessi, o puoi dire Dio, in realtà è lo stesso. Stanno cercando se stessi e cercano Ia dove non potrà mai essere trovato, nel normale, non illuminato stato di coscienza, perché lo stato non illuminato di coscienza utilizza sempre la modalità del ricercare. Questo significa che essi sono del mondo – nel mondo e del mondo.

Andrew Cohen: Vuoi dire che stanno guardando avanti, nel tempo.

Eckhart Tolle: Sì. Il mondo ed il tempo sono intrinsecamente connessi. Quando cessa la ricerca del sé nel tempo, allora puoi essere nel mondo senza essere del mondo.

Andrew Cohen: Ma cosa intendi esattamente quando dici che lo scopo del mondo sta nel trascenderlo?

Eckhart Tolle: Il mondo, in qualche modo promette una realizzazione nel tempo, e c’è uno sforzarsi per quella realizzazione, nel tempo. Molte volte le persone percepiscono: “Sì, ora sono proprio arrivato”. E poi si rendono conto che non è vero, non sono ancora arrivati e quindi lo sforzo continua. Viene espresso in modo molto bello nel “A Course in Miracles” (Un corso in miracoli, Armenia, Milano, 1999.) quando si dice che il principio dell’ego è “cercare ma non trovare”. Le persone si rivolgono al futuro cercando la salvezza, ma il futuro non giunge mai.

Così, in effetti, la sofferenza ha origine in questo: nel non trovare. Ed è l’inizio di un risveglio, quando si profila la realizzazione che “forse questo non è il modo. Forse non arriverò mai dove mi sto sforzando di arrivare, forse non si trova nel futuro”. Dopo essersi perduti nel mondo, improvvisamente, sotto la pressione della sofferenza, si giunge alla realizzazione che le risposte è possibile che non si trovino al di fuori, nei risultati mondani e nel futuro.

Questo è, per molte persone, un punto importante da raggiungere. Questo senso di crisi profonda, nella quale il mondo ed il senso del sé che hanno conosciuto ed identificato con il mondo, perde di significato. Questo è ciò che mi accadde. Ero proprio sull’orlo del suicidio e poi successe qualcos’altro: una morte del mio senso del sé che viveva attraverso le identificazioni, le identificazioni con la mia storia, con le cose intorno a me, con il mondo.

Qualcosa nacque, in quel momento, che aveva un senso di profonda ed intensa quiete e di vitalità, un senso dell’essere. Successivamente l’ho chiamata Presenza. Ho compreso, al di là delle parole, che quello è ciò che io sono. Questa comprensione, però, non era un processo mentale. Ho compreso che questa profonda quiete viva e vibrante è ciò che io sono.

Anni dopo, ho compreso che potremmo chiamarla “pura coscienza”, mentre qualsiasi altra cosa è la coscienza condizionata. La mente umana è la coscienza condizionata che ha acquisito la forma del pensiero. La coscienza condizionata è l’intero mondo creato dalla mente condizionata. Tutto quanto è la nostra coscienza condizionata; persino gli oggetti lo sono. La coscienza condizionata nasce come forma e poi diventa il mondo. Così, perdersi nel condizionato, sembra necessario per gli esseri umani. Sembra parte del loro cammino perdersi nel mondo, perdersi nella mente, che è la coscienza condizionata.

Poi, grazie alla sofferenza, generata dall’essersi perduti, tu trovi l’incondizionato: te stesso. E questo è il motivo per cui abbiamo bisogno del mondo per trascendere il mondo. Di conseguenza sono infinitamente grato di essermi perduto.

Alla fin fine, lo scopo del mondo per te, è di perdertici dentro. Lo scopo del mondo per te è di soffrire, di creare la sofferenza che sembra essere ciò che è necessario affinché avvenga il risveglio. E poi una volta che avviene il risveglio, con quello arriva la comprensione che la sofferenza, ora, non è più necessaria. Sei giunto alla fine della sofferenza perché hai trasceso il mondo. Hai raggiunto il luogo che è libero da sofferenza.

Sembra essere il cammino di tutti. Forse non è il cammino di tutti in questa vita. Sembra essere, però, un cammino universale. Credo che alla fine ci arriveranno tutti, anche senza un insegnamento spirituale o un insegnante spirituale. In questo caso, però, potrebbe prendere del tempo.

Andrew Cohen: Molto tempo…

Eckhart Tolle: Molto di più. Un maestro spirituale è li per risparmiare tempo. Il messaggio di base dell’insegnamento è che non hai bisogno ancora di altro tempo, che non hai più bisogno di nessuna sofferenza. Lo dico alle persone che vengono da me: “Dal momento che lo stai ascoltando, sei pronto a sentirtelo dire. Ci sono ancora milioni di persone là fuori che non lo ascoltano. Hanno ancora bisogno di tempo. Ma non sto parlando a loro. Tu puoi sentirti dire che non hai più bisogno di tempo e che non hai più bisogno di soffrire. Sei andato cercando nel tempo e sei andato cercando ulteriore sofferenza”. E, improvvisamente, per qualcuno, sentirsi dire che non ha più bisogno di ciò, può essere un momento di trasformazione.

Quindi la bellezza dell’insegnamento spirituale è che ti fa risparmiare vite di…

Andrew Cohen: Sofferenza inutile.

Eckhart Tolle: Sì, così è bene che le persone siano perse nel mondo. Mi piace molto andare a New York ed a Los Angeles, dove sembra che le persone siano totalmente coinvolte. A New York stavo guardando fuori dalla finestra. Stavamo facendo un gruppo d’incontro vicino all’Empire State Building. E tutti per strada andavano di fretta, quasi correndo. Tutti sembravano essere in uno stato d’intensa tensione nervosa, d’ansietà. In realtà è uno stato di sofferenza, ma non viene riconosciuto come tale. E ho pensato: dov’è che stanno correndo tutti? E ovviamente tutti stanno correndo verso il futuro. Hanno bisogno di andare da qualche parte, che non è qui. È un punto nel tempo: non ora, nel poi. Stanno correndo verso un poi. Stanno soffrendo, ma neanche si rendono conto. Ma per me guardare a questo è stato gioioso. Non ho sentito di dire: “Dovrebbero rendersi conto meglio”. Sono sul loro percorso spirituale. Al momento, questo è il loro cammino spirituale, e funziona benissimo.

Andrew Cohen: Spesso la parola “illuminazione” è interpretata come la fine della divisione all’interno del sé e la scoperta simultanea di una prospettiva o di un modo di vedere globale, completo o libero dalla dualità. Coloro che hanno sperimentato questa prospettiva sostengono che la realizzazione definitiva è che non c’è differenza fra il mondo e Dio o l’Assoluto, fra il samsara ed il nirvana, fra il manifesto e il non-manifesto. Ma altri sostengono che, di fatto, la realizzazione definitiva è che il mondo in realtà non esiste per niente, che il mondo è solo un’illusione, senza alcun senso, significato o realtà. Nella tua esperienza, il mondo è reale? È irreale? È entrambi?

Eckhart Tolle: Anche quando interagisco con le persone o sto passeggiando in una città, sbrigando delle cose ordinarie, la maniera in cui percepisco il mondo è: piccole increspature sulla superficie dell’Essere. Al di sotto del mondo della percezione dei sensi e quello delI’attività mentale, c’è la vastità delI’Essere. C’è un’ampia spaziosità. C’è una vasta quiete e c’è una piccola attività, un’increspatura sulla superficie, che non è separata, proprio come le increspature non sono separate dall’oceano.

Il modo in cui lo percepisco, è che non c’è separazione. Non c’è separazione fra l’Essere ed il mondo manifesto, fra il manifesto ed il non-manifesto. Ma il non-manifesto è tanto più vasto, più profondo e più grande di quello che accade nel manifesto. Qualsiasi fenomeno del manifesto ha una vita così breve e così fugace che, sì, si potrebbe quasi affermare che dal punto di vista del non-manifesto – I’Essere senza tempo o Presenza – tutto quello che avviene nel regno del manifesto in realtà sembra come un gioco d’ombre. Sembra come vapore o nebbia in cui nuove forme continuamente sorgono e scompaiono, sorgono e scompaiono. Così per chi è profondamente radicato nel non-manifesto, il manifesto può essere chiamato molto facilmente irreale. Io non lo chiamo irreale, perché non lo vedo separato.

Andrew Cohen: É reale quindi?

Eckhart Tolle: Tutto ciò che è reale è l’essere stesso. La Coscienza è tutto quello che c’è. Pura Coscienza.

Andrew Cohen: Intendi che la definizione di “reale” sarebbe ciò che è libero da nascita e morte?

Eckhart Tolle: Sì, è cosi.

Andrew Cohen: Di conseguenza solo ciò che non è mai nato e che non può morire sarebbe reale. E dato che, secondo quello che dici, il mondo manifesto non è separato dal non-manifesto, alla fine uno dovrebbe dire che il mondo manifesto è reale.

Eckhart Tolle: Sì. Ed anche che dentro ogni forma che è soggetta a nascita e morte, c’è l’assenza di morte. L’essenza di ogni forma è l’assenza di morte. Perfino l’essenza di un filo d’erba è assenza di morte. Ed ecco perché il mondo delle forme è sacro. Non è che il regno del sacro sia esclusivamente l’Essere o il non-manifesto. Io vedo come sacro anche il mondo delle forme.

Andrew Cohen: Se qualcuno ti chiedesse semplicemente: “Il mondo è reale o irreale?”, risponderesti che è reale o dovresti specificare l’affermazione?

Eckhart Tolle: Probabilmente specificherei l’affermazione.

Andrew Cohen: Dicendo cosa?

Eckhart Tolle: Che è una manifestazione temporanea del reale.

Andrew Cohen: Se il mondo è una manifestazione temporanea del reale, qual è la relazione dell’illuminato con il mondo?

Eckhart Tolle: Per un non illuminato, il mondo è tutto quel che c’è. Non c’è nient’altro. Questo modo di essere della coscienza legata al tempo dipende, per la sua esistenza, dal passato e ha disperatamente bisogno del mondo per la sua felicità e soddisfazione. Di conseguenza per la coscienza non illuminata, il mondo contiene un’enorme promessa ed allo stesso tempo un’alta minaccia. Questo è il dilemma di una coscienza non illuminata, combattuta fra il cercare la realizzazione nel e attraverso il mondo, e sentirsi da quello stesso mondo, continuamente minacciata. Sperano di trovare se stessi nel mondo e nello stesso tempo sanno che il mondo li ucciderà. Questo è lo stato di continuo conflitto a cui è condannata la coscienza non illuminata, I’essere combattuta continuamente fra il desiderio e la paura. È un destino spaventoso.

La coscienza illuminata è radicata nel non-manifesto ed essenzialmente è una con questo. Sa di essere quello. Si potrebbe quasi dire che è il non-manifesto che guarda fuori. Anche con una semplice cosa, come il percepire visivamente una forma – un fiore o un albero – se lo percepisci in uno stato di totale attenzione e di profonda quiete, libero dal passato e dal futuro, in quel momento c’è già il non-manifesto. In quel momento non sei più una persona. Il non-manifesto percepisce se stesso nelle forme. E, in quella percezione c’è sempre un senso di benessere.

Allora ogni azione che si origina da quello ha una qualità completamente diversa dall’azione che invece si origina dalla coscienza non illuminata, che ha bisogno di qualcosa e cerca di proteggere se stessa. Qui è dove, realmente, compaiono quelle qualità intangibili e preziose che chiamiamo amore, gioia e pace. Esse sono un tutt’uno con il non-manifesto. Hanno origine da quello. Un essere umano che vive in connessione con questo e da questo agisce ed interagisce, diviene una benedizione sul pianeta. Mentre un essere umano non illuminato, è molto gravoso per il pianeta. C’è della pesantezza sulla coscienza non illuminata. E, il pianeta soffre per la presenza di milioni d’esseri umani non illuminati. Il carico sul pianeta è fin quasi troppo da reggere. Qualche volta ho come la sensazione che il pianeta dica: “Oh basta, per favore!”.

Andrew Cohen: Incoraggi le persone a meditare, quello che tu chiami “riposare nella Presenza dell’Adesso”, il più possibile. Credi che una pratica spirituale possa mai diventare veramente profonda ed avere il potere di liberazione a meno che uno non abbia già rinunciato al mondo, almeno fino ad un certo livello?

Eckhart Tolle: Non direi che la pratica in sé abbia il potere di liberare. È soltanto quando c’è una completa resa all’Adesso, a quello che è, che è possibile la liberazione. Non credo che una pratica possa portarti ad una completa resa. Una resa totale di solito avviene vivendo. La vita stessa è il terreno dove questo avviene. Può essere che ci sia una resa parziale e di conseguenza un’apertura, e poi puoi iniziare delle pratiche spirituali. Ma sia che la pratica spirituale abbia inizio ad un certo grado di comprensione o che la pratica spirituale avvenga di per sé, la pratica da sola non basterà.

Andrew Cohen: Qualcosa che ho potuto vedere nel mio stesso lavoro di insegnante, è che, a meno che non si sia visto il mondo fino ad un certo livello, ed a meno che non ci sia una volontà di lasciarlo andare, basata su ciò che si è visto, I’esperienza spirituale, non importa quanto sia forte, non ti porterà a nessun tipo di liberazione.

Eckhart Tolle: Sì, è vero, e la volontà di lasciar andare è l’arrendersi. La chiave resta questa. In sua assenza, non importa quanta pratica si è fatta o perfino quante esperienze spirituali si sono avute, non succederà.

Andrew Cohen: Sì, molte persone dicono di voler meditare o fare delle pratiche spirituali, ma le loro aspirazioni spirituali non sono fondate sulla volontà di lasciar andare niente di sostanziale.

Eckhart Tolle: No, in realtà può essere proprio l’opposto. La pratica spirituale può essere una maniera per cercare di trovare qualcosa di nuovo con cui identificarsi.

Andrew Cohen: Alla fine intenderesti dire che la vera pratica spirituale o la vera esperienza spirituale hanno il senso di condurci a lasciare andare il mondo, alla trascendenza del mondo, all’abbandono dell’attaccamento al mondo?

Eckhart Tolle: Sì. Qualche volta le persone chiedono: “Come si arriva a questo? Sembra meraviglioso, ma come si arriva a questo?”. In termini di concretezza, alla base, significa semplicemente dire “sì” a questo momento. Questo è lo stato dell’arrendersi: un “sì” totale a ciò che è. Non il “no” interiore a ciò che è. E il “sì” totale a ciò che è, è la trascendenza del mondo. È così semplice, una totale apertura a qualsiasi cosa si manifesti in questo momento. Lo stato usuale di coscienza è quello di resistere, di scappar via, di negare, di non guardare ciò che è.

Andrew Cohen: Quindi, quando dici: un “sì” a ciò che è, vuoi dire di non evitare niente e di affrontare ogni cosa?

Eckhart Tolle: Giusto. Il dare il benvenuto a questo momento, I’abbracciare questo momento, questo è lo stato dell’arrendersi. In verità è tutto quello che è necessario. La sola differenza fra un Maestro e un non Maestro, è che il Maestro abbraccia ciò che è, totalmente. Dal momento in cui non c’è resistenza a ciò che è, allora arriva la pace. Il portale è aperto, il non manifesto è presente. Questa è la via più potente. Non si può chiamarla pratica perché non coinvolge il tempo.

Andrew Cohen: Secondo la maggior parte della gente coinvolta nell’esplosione spirituale dell’incontro tra est e ovest, che accade sempre più rapidamente in questo periodo, sia Gautama il Buddha sia Ramana Maharshi – uno dei Vedanta più rispettati dell’era moderna – emergono come esempi impareggiabili di illuminazione piena, e nonostante ciò, è interessante notare, a proposito della domanda sulla giusta relazione con il mondo dell’aspirante spirituale, che i loro insegnamenti divergono in modo sostanziale.

Il Buddha, colui che rinuncia al mondo, incoraggiava i più onesti a lasciare il mondo e a seguirlo in modo da vivere una vita santa, liberi dagli affanni e dalle preoccupazioni della vita familiare. Ramana Maharshi sconsigliò i suoi discepoli a lasciare la vita familiare per andare in cerca di una concentrazione spirituale più grande e più intensa. Infatti sconsigliò ogni atto esteriore di rinuncia e invece incoraggiò l’aspirante a guardarsi dentro e a trovare il motivo dell’ignoranza e della sofferenza al suo interno. Infatti molti, nel crescente numero dei suoi devoti, oggi dicono che il desiderio di rinuncia è in realtà un’espressione dell’ego, quella stessa parte del sé che intendiamo abbandonare se vogliamo essere liberi. Naturalmente il Buddha dette molta importanza alla necessità della rinuncia, del distacco, della diligenza e della limitazione come le stesse fondamenta su cui può sorgere un’introspezione liberatoria.

Perciò, perché pensi che le vie di questi due luminari spirituali divergano così tanto? Perché pensi che Buddha incoraggiasse i suoi discepoli a lasciare il mondo mentre Ramana Maharshi li incoraggiava a restarvi?

Eckhart Tolle: Non c’è soltanto una via. Epoche differenti hanno determinati approcci che possono essere efficaci per una certa epoca e non esserlo più per un’altra. Il mondo in cui viviamo ha in sé una densità molto maggiore, è molto più invadente. E quando dico mondo, includo in esso la mente umana. La mente umana è cresciuta dal tempo di Buddha, da 2500 anni fa. La mente umana è più rumorosa e più invadente ad un livello profondo e gli ego sono più sviluppati. In queste migliaia d’anni, c’è stata una crescita dell’ego che sta toccando un punto di follia, e l’estrema follia è stata raggiunta nel ventesimo secolo. Basta solo leggere la storia del ventesimo secolo per vedere il culmine della follia umana, se lo si misura in termini di violenza umana inflitta ad altri esseri umani.

Così, nel mondo d’oggi, non possiamo più evitare il mondo, non possiamo neppure più evitare la mente. Abbiamo bisogno di entrare nella resa mentre siamo nel mondo. Questo sembra essere il cammino effettivo nel mondo in cui adesso viviamo. Può darsi che al tempo di Buddha ritirarsi fosse molto, ma molto più facile di quello che potrebbe essere ora. A quel tempo, la mente umana non era ancora così opprimente.

Andrew Cohen: Ma il motivo per cui il Buddha predicava di intraprendere una vita senza dimora, fu perché sentiva che quella domestica era piena di preoccupazioni, attenzioni e interessi, e che, in quel contesto, sarebbe stato difficile fare ciò che era necessario per vivere una vita santa. Quindi, riguardo a ciò che affermi sul rumore e sulla distrazione del mondo, questo era esattamente quello che lui intendeva ed il perché lui stesso ha condotto una vita senza dimora, incoraggiando anche gli altri a fare lo stesso.

Eckhart Tolle: Bene, avrà avuto le sue ragioni, ma, in definitiva, noi non sappiamo perché Buddha pose l’enfasi sul lasciare il mondo invece di dire, come ha detto Ramana Maharshi: “Fallo nel mondo”. Mi sembra, però, da quanto ho osservato, che la via più efficace ora per le persone sia quella d’arrendersi nel mondo, invece di tentare di distaccarsene, creando una struttura che renda più facile l’arrendersi. C’è già una contraddizione in questo perché stai creando una struttura per rendere più facile la resa. Perché non arrendersi ora? Non avete bisogno di creare qualcosa che renda più facile la resa, perché in questo caso non è più un vero arrendersi. Sono stato nei monasteri buddisti, e posso vedere come sia facile lasciare il nome ed adottarne uno nuovo, rasarsi la testa ed indossare tuniche.

Andrew Cohen: Vuoi dire che è stato lasciato un mondo per un altro. Un’identificazione è stata abbandonata per lasciar posto ad un’altra; un ruolo è caduto e ne è stato assunto un altro. Niente è stato realmente abbandonato.

Eckhart Tolle: Giusto. Perciò, fallo dove sei, proprio qui, proprio adesso. Non c’è bisogno di cercare qualche altro posto o qualche altra condizione o situazione e poi farlo lì. Fallo proprio qui e ora. Dovunque tu sia è il posto per arrendersi. Qualsiasi sia la situazione in cui sei, puoi dire “si” a ciò che è, e questa è poi la base per tutte le azioni che seguono.

Andrew Cohen: Ci sono oggi molti insegnanti e altrettanti insegnamenti che spiegano come il desiderio stesso di rinunciare al mondo sia un’espressione dell’ego. Qual è la tua visione?

Eckhart Tolle: Il desiderio di rinunciare al mondo è ancora una volta il desiderio di raggiungere un certo stato che, ora, non hai. C’è una proiezione mentale di uno stato desiderabile da raggiungere: lo stato di rinuncia. È una ricerca di sé nel futuro. In questo senso è ego. La vera rinuncia non è il desiderio di rinunciare, ma si manifesta come una resa. Non puoi avere il desiderio di arrenderti perché quello stesso desiderio è non-resa. Qualche volta l’arrendersi sorge spontaneamente in persone che non hanno neppure il termine per definirlo. E so che, ora, in molte persone, c’è già I’apertura. Tante persone che vengono da me, hanno una vasta apertura, che qualche volta richiede soltanto poche parole per provocare un assaggio, un barlume della resa, che può non essere duratura, ma l’apertura è presente.

Andrew Cohen: Cosa ne pensi del richiamo spontaneo del cuore a lasciare tutto ciò che è falso ed illusorio, tutto ciò che è basato sulla relazione materialistica dell’ego verso la vita? Per esempio, quando il Buddha decise: “Devo lasciare la mia casa” – sarebbe probabilmente difficile dire che fu un desiderio egoistico, osservando i risultati. E Gesù disse: “Vieni e seguimi. Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti”.

Eckhart Tolle: Questo è riconoscere il falso come falso, che è principalmente qualcosa di interiore – riconoscere le false identificazioni, riconoscere il rumore mentale, e vedere la falsità di quella che è stata l’identificazione con immagini mentali come l’entità di un “me”. Questo riconoscere è stupendo. Poi l’azione può sorgere dal riconoscimento del falso, forse puoi vedere il falso riflesso nelle circostanze della tua vita e puoi allora lasciartelo alle spalle – oppure no. Il riconoscere e l’abbandonare tutto ciò che è falso e illusorio è prima di tutto un processo interiore.

Andrew Cohen: Questi due tipi, il Buddha e Gesù, sarebbero esempi di potenti manifestazioni esteriori di quel riconoscimento interiore.

Eckhart Tolle: Giusto. Non c’è modo di prevedere ciò che accadrà come conseguenza di quel riconoscimento interiore. Nel caso del Buddha, ovviamente, accadde perché era già adulto quando all’improvviso realizzò che gli esseri umani muoiono, si ammalano ed invecchiano. Questa presa di coscienza fu così potente che si guardò dentro e affermò che niente ha significato se quello è tutto ciò che esiste.

Andrew Cohen: Poi, però, dovette lasciare, abbandonare il regno. Da un certo punto di vista avrebbe potuto dire: “Tutto è qui ora, e ciò che devo fare è arrendermi senza condizioni qui e ora”. Quindi credo che il risultato avrebbe potuto essere completamente diverso, magari avrebbe potuto essere un re illuminato!

Eckhart Tolle: Ma, a quel punto non sapeva che tutto ciò che era necessario fare era arrendersi.

Andrew Cohen: Tuttavia, quando Gesù invitò i pescatori a lasciare le loro famiglie e il loro tipo di vita per seguirlo e, in modo simile, quando il Buddha passava di città in città e invitava gli uomini a lasciare ogni cosa, il loro arrendersi si dimostrò nella partenza vera e propria, nel dire “si” a Gesù o al Buddha e abbandonare i loro affetti mondani. Ovviamente ci sarebbero stati anche i loro affetti interiori da abbandonare. In questi casi, il lasciar andare non era solo una metafora per la trascendenza interiore; significava anche, letteralmente, lasciar andare tutto.

Eckhart Tolle: Per alcuni è parte del cammino. Possono lasciare i loro posti abituali o le attività, ma ciò che cambia è chiedersi se hanno già visto dentro loro stessi il falso. Se non l’hanno visto, il lasciar andare sul piano esteriore sarebbe una forma mascherata di ricerca di sé.

Andrew Cohen: Con la mia ultima domanda vorrei chiederti a proposito della relazione tra la tua comprensione dell’illuminazione, o l’esperienza di consapevolezza non duale, e l’impegno col mondo.

Nel Giudaismo, l’impegnarsi completamente nel mondo e nella vita umana è visto come l’esaudirsi della chiamata religiosa. Dicono, infatti, che è solo vivendo totalmente i comandamenti che il potenziale spirituale della razza umana può manifestarsi sulla terra. Lo studioso ebraico David Ariel scrive: “Noi concludiamo il lavoro della creazione…Dio ha ancora bisogno del nostro aiuto perché solo noi possiamo perfezionare il mondo”.

Molti insegnamenti illuminati, o non duali, come il tuo, enfatizzano l’illuminazione dell’individuo. La trascendenza del mondo sembra essere la cosa importante. I nostri fratelli ebrei sembra ci invitino a qualcosa di molto diverso – la spiritualizzazione del mondo attraverso la partecipazione totale e devota dell’uomo e della donna nel mondo. É vero che gli insegnamenti riguardanti l’illuminazione non duale privano il mondo della nostra totale partecipazione nei suoi confronti? È la nozione stessa di trascendenza che depriva il mondo dalla realizzazione del nostro potenziale di renderlo spirito in quanto figli di Dio?

Eckhart Tolle: No, perché la giusta azione può scaturire solo da tale stato di trascendenza del mondo. Ogni altra attività è indotta dall’ego, e perfino il fare del bene, se indotto dall’ego, avrà delle conseguenze karmiche. ”Indotta dall’ego” significa che c’è un motivo conseguente. Per esempio, se il sentirti più spirituale migliora la tua propria immagine; o un altro esempio sarebbe attendersi una ricompensa futura in un’altra vita o in paradiso. Perciò se ci sono motivazioni conseguenti, non è pura. Se non c’è stata la trascendenza del mondo, nelle tue azioni non può fluire il vero amore, perché non sei connesso con il regno dal quale sorge l’amore.

Andrew Cohen: Intendi dire un’azione pura, non macchiata dall’ego?

Eckhart Tolle: Sì, in ordine d’importanza. Prima viene la realizzazione e la liberazione, poi da queste lasci fluire l’azione – e sarà pura, immacolata, priva di karma. Altrimenti, non importa quanto siano elevati i tuoi ideali, rafforzeranno l’ego attraverso le buone azioni. Sfortunamente, non puoi soddisfare i comandamenti a meno che tu sia senza ego – e molto pochi lo sono – come hanno scoperto tutti quelli che hanno cercato di praticare gli insegnamenti di Cristo. “Ama il prossimo tuo come te stesso” è uno degli insegnamenti più importanti di Gesù, e non puoi seguire quel comandamento, non importa quanto ci provi, se non sai chi sei al livello più profondo. Ama il tuo prossimo come te stesso significa che il tuo prossimo sei tu, e quel riconoscimento di unità è amore.

Copyright originale “What is Enlightenment” magazine www.wie.org
Traduzione di Nityama Masetti. Revisione di Toshan Ivo Quartiroli
Copyright per la traduzione italiana Innernet.

Un’esperienza personale di risveglio spirituale di Vajra Karuna

Comunemente, si ritiene che lo zen sia un sistema spirituale il cui obiettivo ideale sia portare i seguaci a uno stato di illuminazione. Ma se questo ideale è davvero ciò che sta alla base dello zen, la maggior parte delle persone non avrebbe interesse per esso. La realtà è che moltissimi praticanti zen probabilmente non raggiungeranno mai questo nobile ideale; nemmeno coloro, tra noi, che vi hanno dedicato gran parte della propria vita.

Ciò, tuttavia, non invalida lo Zen, in quanto il suo obiettivo ideale è largamente superato da un altro più pratico: offrire alle persone una comprensione più profonda della propria unità con se stesse, gli altri e il mondo, e soprattutto renderle in grado di affrontare creativamente, e forse persino di apprezzare, le vicissitudini della vita. Ora vorrei portare all’attenzione la mia esperienza personale a proposito di quest’ultimo, molto pratico obiettivo.
Lo zen, come tutte le tradizioni spirituali, cerca di rendere spiritualmente sani i suoi praticanti. Per i piccoli dolori e sofferenze della vita, andrà bene una medicina facile da mandare giù e dal sapore non troppo sgradevole: per questo, sono appropriate le semplici pratiche di meditazione zen. Ma per coloro che hanno sofferenze spirituali più profonde, è necessario qualcosa di più forte. Nello zen, questa medicina più potente si chiama risveglio o kensho. Il significato di quest’ultimo verrà chiarito, si spera, nelle pagine seguenti.

Come per molte altre persone, la mia ricerca spirituale cominciò con l’educazione ricevuta durante l’infanzia. Sono cresciuto in una famiglia alcolizzata e violenta, e durante i primi anni della mia vita patii alcuni gravi problemi di salute. Inoltre, a causa dell’irresponsabile condotta economica della mia famiglia, non era mai certo se avremmo mangiato o dove avremmo dormito. Tutto ciò significò che frequentai la scuola con molta irregolarità, e quindi non ebbi amici coetanei.

Inoltre, la relazione di amore-odio che avevo sviluppato verso la famiglia mi rendeva confuso e insicuro delle emozioni mie e altrui. Ciò provocò non solo una bassa stima nei miei confronti, ma anche verso gli altri. All’inizio dell’adolescenza, la consapevolezza di avere un orientamento sessuale diverso dagli altri non fece che aggravare il senso di alienazione da me stesso, gli altri e il mondo.

Il risultato di tutto ciò furono alcune tristi domande esistenziali del tipo: «Cosa c’è di sbagliato in me?» e «Cosa ho fatto per meritarmi questa infelicità?». Poiché non c’erano in vista risposte soddisfacenti, pensai più volte al suicidio. In un’occasione mi spinsi fino a incidermi i polsi con un rasoio; per fortuna, la vista del sangue mi dissuase dal proseguire.

A metà dell’adolescenza, cominciai a cercare risposte attraverso la religione. Poiché la mia famiglia non era religiosa, non avevo inclinazioni verso il cristianesimo, cosa che mi impedì di venire in contatto con l’idea del peccato. D’altra parte, la mia famiglia era profondamente interessata all’arte orientale, sicché avevo familiarità con la figura del Buddha e mi trovavo facilmente d’accordo con l’insegnamento buddista secondo cui siamo venuti in questo mondo come esseri sofferenti, non come peccatori.

Ben presto, l’università mi costrinse ad abbandonare gran parte della mia ricerca spirituale. Ma una volta finita l’università, la ricerca riprese più intensamente che mai. Andai molte volte avanti e indietro tra il buddismo e varie scuole cristiane, perché tutti avevano qualcosa che mi attraeva e allo stesso tempo mi alienava ulteriormente. Il buddismo mi permetteva di dare un senso intellettuale alla mia alienazione, ma rinforzava tale condizione insegnando che i comuni sentimenti di lussuria, rabbia e avidità trasformavano una persona in un essere umano di seconda classe, in confronto ai Buddha e agli arhata (santi).

Il cristianesimo, con tutta la sua sfiducia verso l’umanità peccatrice, almeno insegnava che eravamo tutti ugualmente sbagliati, e che quindi non esisteva un’elite spirituale che trascendeva la comune natura umana, facendo sentire inferiore il resto di noi. Alla fine, tuttavia, la realtà di un mondo sofferente era troppo in dissidio con l’idea cristiana di un Dio giusto e amorevole.

Non molto tempo dopo aver compreso profondamente questo, mi imbattei nell’International Buddhist Meditation Center (IBMC) e, grazie a esso, riscoprii lo Zen. Ho detto “riscoprii” perché da adolescente avevo guardato Alan Watts alla TV e avevo letto tutti i suoi libri; ma, a parte questo, lo zen per me era rimasto senza volto fino a quando non incontrai la Rev. Karuna Dharma. Fu lei a rendermi consapevole che lo zen accettava la mia natura umana per quello che era. Ciò, credo, fu una catarsi almeno intellettuale, anche se non ancora quella profondamente emotiva che avrei sperimentato in seguito.

Dopo alcuni anni di frequentazione dell’IBMC, il partner con cui stavo insieme da sedici anni si ammalò; per i successivi due anni, passai la maggior parte del tempo ad assisterlo, finché morì. Fu a quel punto che i miei anni di ricerca spirituale diedero tutti i loro frutti. Nei giorni immediatamente successivi alla scomparsa del mio amato, la mia esistenza era così assorbita dai dettagli pratici della sua morte che non ebbi tempo per piangere. Ma poi venne il giorno dopo il funerale, quando tutto ciò che era necessario fare era stato fatto.

Quella mattina mi risvegliai in ciò che posso solo descrivere come un attacco di panico che minacciava la mia sanità mentale. Ero convinto che i muri, il soffitto, perfino il pavimento, si stessero chiudendo e mi avrebbero schiacciato. Sentivo che dovevo scappare da tutto ciò che era familiare, e per disperazione guidai fino alla mia agenzia di viaggi, augurandomi che potessero darmi un biglietto aereo per un posto qualsiasi.

Quando arrivai all’agenzia, il panico aveva raggiunto il livello massimo. Dopo mesi di assistenza al morente di notte, e di insegnamento alla scuola elementare di giorno, ero fisicamente ed emotivamente esausto. In breve, l’ego al controllo era al collasso. Pensavo che nulla avesse importanza, nemmeno la mia stessa esistenza. Sperimentai ciò che posso solo descrivere come una morte temporanea del sé. Tale stato non durò più di tre o quattro minuti, quando improvvisamente mi accorsi che l’intero universo si stava aprendo a me, riconoscendomi come un essere dal valore puro e incondizionato.

Mai, prima di allora, avevo avvertito un tale senso di assoluta libertà e connessione totale a ogni cosa esistente. Tutti gli anni di intenso conflitto con i miei dubbi esistenziali, la mia rabbia e la mia alienazione dagli altri e dal mondo, improvvisamente svanirono. Tutto l’incessante, continuo sforzo di trovare una risposta alle mie domande perenni, così come la certezza o la fiducia che una risposta era disponibile, raggiunse il culmine. In termini zen, ciò che stavo sperimentando era la grande morte dell’ego, seguita dalla grande liberazione nell’assenza dell’ego. In breve, kensho o satori.

Non lo riconobbi subito come satori; avevo fatto troppa pratica zen per questo. Troppo spesso ai praticanti zen accadono esperienze euforiche che a un primo momento sembrano il satori, ma che si rivelano semplicemente brevi e intense esperienze “di vetta”. La prova di un satori genuino è il fatto che il precedente io-sé alienato non fa ritorno. Se lo fa, tutto ciò che si è sperimentato è una temporanea, estatica tregua. Ma poiché la mia condizione precedente, dopo 14 anni, non è riaffiorata, e poiché personalmente ho molta familiarità con la natura temporanea delle esperienze “di vetta”, ho compreso che si trattò di un risveglio autentico.

Non vorrei dare l’idea che questo risveglio fosse un’esperienza così completa da non aver bisogno di essere rifinito e rinvigorito da una pratica molto diligente. Il risveglio iniziale e i successivi, meno profondi satori, mi fecero capire chiaramente la necessità di una pratica continua e più intensa. Di fatto, questo è il motivo per cui, dopo aver impiegato molti anni per riadattarmi a una vita solitaria, alla fine ho deciso di formalizzare il mio sentimento di integrità diventando un prete zen.

Prima di chiudere, vorrei chiarire una cosa. Un’esperienza di satori, mentre da un lato crea un grande senso di libertà, integrazione e pace personali, non è uguale all’esperienza dell’illuminazione, qualunque cosa ciò significhi. Io sono un prete zen e un insegnante del dharma che ha ricevuto la trasmissione clericale, nulla di più. Ricevere la trasmissione dell’insegnante del dharma equivale a riconoscere che la comprensione e la fede negli insegnamenti sono abbastanza avanzati da qualificare colui che riceve come insegnante.

Nello zen, per essere considerati totalmente illuminati, bisogna ricevere una trasmissione da mente a mente, ovvero il riconoscimento che il ricevente ha raggiunto lo stesso livello di illuminazione o satori del proprio maestro zen, che in teoria è lo stesso conseguito dal Buddha Shakyamuni. È importante osservare che l’essere semplicemente in grado di insegnare il dharma non garantisce che l’insegnante sia completamente illuminato, così come la piena illuminazione non garantisce la capacità di insegnare il dharma. Per cui, la trasmissione da mente a mente non qualifica automaticamente una persona come insegnante zen (o del dharma).

Rev. Vajra è un insegnante di Zen Dharma all’International Buddhist Meditation Center, www.ibmc.info, per gentile concessione.
Traduzione di Gagan Daniele Pietrini.
Copyright per l’edizione italiana Innernet.

Illuminazione istantanea o graduale? di Vajra Karuna

L’illuminazione è un’esperienza singolarmente intensa, che rivela a una persona il suo posto nello schema delle cose. Essa è, molto spesso, un’esperienza definitiva grazie alla quale chi esperimenta non dubiterà mai più della propria relazione con se stesso, gli altri, il mondo e qualunque cosa si ritenga esistere al di là di quest’ultimo. L’illuminazione non è settaria: è rinvenibile nel buddismo, nel cristianesimo, nell’induismo, nell’Islam e in molte altre tradizioni religiose.

Il tema di oggi è intitolato: “Cosa è meglio: l’illuminazione graduale o quella istantanea?”. Per cominciare, voglio affermare che nessuna è meglio dell’altra, perché entrambe si basano su concezioni metafisiche del mondo e della natura umana molto diverse. Quindi, è impossibile classificarle come “superiore” o “inferiore”. Inoltre, devo specificare che, sebbene l’illuminazione istantanea è associata alle scuole Soto (in cinese: Tso-Tsung), Rinzai (Lin-Chi) e Zen (Ch’an), questo articolo tratta solo del significato attribuitole dalla scuola Rinzai, che non coincide esattamente con quello della Soto.
Prima di paragonare tra loro l’illuminazione graduale e quella istantanea, devo darvi una definizione dell’esperienza minima di illuminazione (kensho o satori). Questa definizione non è l’unica possibile e altre possono competere con essa, soprattutto perché è molto influenzata dalla tradizione Rinzai.

L’esperienza dell’illuminazione è un’esperienza singolarmente intensa, che rivela a una persona il suo posto nello schema delle cose. Essa è, molto spesso, un’esperienza definitiva grazie alla quale colui (o colei) che esperimenta non dubiterà mai più della propria relazione con se stesso/a, gli altri, il mondo e qualunque cosa si ritenga esistere al di là di quest’ultimo.

Tale esperienza conferisce un grande potere ed è enormemente convalidante; inoltre, è diversa da tutte le altre esperienze possibili. Un aspetto importante di essa è il suo essere non-settaria. Vale a dire, questa esperienza è rinvenibile nel buddismo, nel cristianesimo, nell’induismo, nell’Islam e in molte altre tradizioni religiose. Ogni tradizione può imporle la sua interpretazione dogmatica, ma l’esperienza iniziale, dal punto di vista psicologico, sembra trans-culturale. Per finire, questa esperienza può verificarsi in molte circostanze diverse, ma nella maggior parte dei casi accade come conseguenza di qualche grave crisi intellettuale, emotiva o fisica.

Se si leggono i resoconti di queste esperienze di risveglio nelle vite dei ricercatori più o meno famosi, ci si accorgerà che tali crisi possono manifestarsi come un dubbio profondo sulla giustizia divina, una malattia che mette a rischio la vita, uno stato di disperazione per la perdita di una persona amata, un’esperienza vicina alla morte o addirittura un tentativo di suicidio. Si noti che la definizione di kensho o satori non dice nulla sulla capacità di colui che esperimenta di insegnare o sostenere in qualche modo i bisogni spirituali altrui. A questo proposito, occorre fare una netta distinzione tra una persona che ha un’esperienza di illuminazione e una persona illuminata.

Quest’ultima categoria andrebbe limitata a quegli individui che possiedono la saggezza e il carattere morale per influenzare correttamente gli altri, oltre alla capacità carismatica di fare ciò senza sfruttare in alcun modo le persone. Questa è la definizione di un saggio illuminato o di un santo. Una persona simile può aver avuto un’esperienza di illuminazione, istantanea o graduale, oppure può godere di una maturità spirituale naturale, che esclude il bisogno di un’esperienza di satori. Ma se vogliamo fare affidamento sulle fonti storiche, un saggio naturale è molto più raro del saggio che ha bisogno di un’esperienza dell’illuminazione.

D’ora in poi, comunque, parlerò solo dell’esperienza dell’illuminazione in sé, senza fare ulteriori distinzioni tra i saggi e i non saggi. Avendo definito l’illuminazione per gli scopi di questa conferenza, è ora tempo di spiegare cosa significa illuminazione “istantanea” o “graduale”.

A differenza della maggior parte delle scuole buddiste, di solito definite “scuole dell’illuminazione graduale”, lo zen (parola con cui, d’ora in poi, si indicherà lo zen Rinzai) viene definito “scuola dell’illuminazione istantanea”. Tutte le scuole buddiste concordano sul fatto che l’esperienza dell’illuminazione, nel momento in cui avviene, è istantanea, ma questo non è l’unico significato di “istantanea” nel contesto dell’omonima scuola.

Fin dalle origini, nel buddismo sono esistite due interpretazioni del processo dell’illuminazione. Nella prima, il mondo viene considerato un luogo di frustrante impermanenza e inappagamento (dukkha), mentre la natura umana è il prodotto di secoli di attaccamento karmico a passioni impure. In quest’ottica, l’illuminazione indica la conquista e l’estinzione di tali impurità, oltre alla conseguente evasione dalla vita, il mondo e il dukkha. Per ottenere questa liberazione, è necessario vivere senza fissa dimora e condurre una vita ascetica nella quale i desideri e i bisogni umani vengono dissolti per trascendere le passioni e i sentimenti comuni dell’uomo, sia positivi che negativi.

L’amore, così come l’odio, tiene attaccati al mondo; solo colui che riesce a restare indifferente a entrambi può definirsi un essere illuminato o libero dalle passioni (Arahat o Buddha). Il processo di illuminazione che si accompagna a questa concezione richiede un lungo e graduale percorso di disciplina ascetica, che conduce a stadi progressivi di illuminazione. Ciascuno stadio è caratterizzato da un attaccamento, al sé e al mondo, inferiore di quello precedente. Nella maggior parte dei casi, in questa concezione l’illuminazione non è qualcosa di raggiungibile da un comune laico. Questo concetto della gradualità è giustificato se ci si attiene a un’interpretazione pluralista della realtà, come faceva il buddismo primitivo.

Ma esiste anche il secondo punto di vista buddista, che afferma che il nostro dukkha è dovuto all’illusione in un sé separato e autonomo. L’illuminazione, in tal caso, vuol dire abbandonare questo concetto irreale del sé o “senso dell’io ingrandito”, risvegliandoci alla realtà della sua illusione. Il problema insito nell’approccio dell’illuminazione graduale, per quanto riguarda questo falso io, è il fatto che l’affermazione: “Sto cercando l’illuminazione” in realtà rinforza il senso dell’io. Quindi, presumibilmente, più una persona pratica, più profonda si fa l’illusione di un sé separato e autonomo, e tanto più si allontana l’illuminazione. Il buddismo mahayana si è sviluppato estendendo a tutta la realtà questa concezione secondo cui non esiste un autentico sé indipendente.

Ciò comportò l’abbandono dell’interpretazione pluralista della realtà a favore di una non-duale. Ovvero, ogni parte della realtà è così totalmente integrata che non può essere divisa in alcun modo, soprattutto in sé separati. Poiché ogni dualità è illusoria, non può esserci dualità nemmeno tra la mente samsarica, non-illuminata o impura, e la mente nirvanica, illuminata e pura. Dal momento che la realtà non-duale non può essere divisa in parti incrementali, è impossibile comprenderla poco a poco, come richiede l’approccio graduale all’illuminazione. Il non-duale va realizzato nel suo insieme (istantaneamente) come un tutto, o non lo si realizza affatto. Comunque, poiché il mahayana primitivo conservò la diffusa idea indiana secondo cui le passioni umane sono impure, dovette ignorare l’incoerenza tra una filosofia non-duale e l’illuminazione graduale.

Quando il buddismo entrò in Cina, questa incoerenza divenne un problema. La causa di ciò fu il modo decisamente non-indiano in cui i cinesi consideravano il mondo e la natura umana. A differenza del pensiero indiano, che dava la priorità all’elemento della realtà divino o trans-umano, il pensiero cinese assegnava la priorità al mondo umano. Secondo la tradizionale concezione cinese, la gente nasce con un innato senso del bene, del vero e del puro, le comuni passioni umane sono parte di questa bontà e un saggio illuminato è colui che accetta tutto ciò.

La primitiva filosofia buddista, che considerava impuro il samsara e puro il nirvana, non poteva essere accettata fino in fondo dai cinesi senza abbandonare prima la tradizione confuciana e taoista, molto più positiva. Ma l’insegnamento mahayana secondo cui il samsara e il nirvana erano la stessa cosa s’integrò facilmente nella filosofia tradizionale cinese. Se le passioni samsariche sono contenute nel nirvana e viceversa, l’illuminazione non richiede una dissoluzione graduale dei comuni sentimenti, bisogni e desideri umani. L’illuminazione vuol dire semplicemente diventare consapevoli del fatto che si è già nello stato incondizionato del nirvana. Quindi l’illuminazione, anziché sostituire la natura umana con una natura trans-umana libera dalle passioni (come nel tradizionale buddismo indiano), non fa che aggiungere all’ordinaria condizione umana la consapevolezza non-duale della propria innata purezza nirvanica.

I cinesi, accettando la filosofia non-duale mahayana, videro con grande chiarezza l’incoerenza tra la non-dualità e l’illuminazione graduale. Questa percezione fu rinforzata dal fatto che il taoismo, la cui filosofia della realtà era a sua volta non-duale, era più incline all’approccio dell’illuminazione istantanea. Per questo, la scuola dell’illuminazione istantanea finì per dominare il pensiero cinese, sia buddista che non buddista. Poiché l’illuminazione istantanea non richiede una graduale purificazione monastica, essa può succedere in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, in ambiente monastico o normalmente domestico. Questo piacque molto ai cinesi, poco inclini all’ascetismo.

In tal modo, chiunque, persino la persona più attaccata al mondo, può sperimentare lo stato di illuminazione. Naturalmente, questa possibilità ha senso solo se l’illuminazione non dipende da alcun tipo di pratica ascetica, nemmeno dai comuni freni morali dell’individuo medio. In ultima analisi, una tale illuminazione istantanea deve essere conseguita a prescindere da qualsiasi sforzo ascetico o addirittura meditativo. In realtà, tale sforzo sarebbe appropriato solo per l’illuminazione graduale. L’illuminazione istantanea, non dipendendo dalla pratica, deve quindi essere più o meno accidentale.

La differenza tra i punti di vista “istantaneo” e “graduale” determina il modo in cui ciascuna tradizione considera non solo l’illuminazione, ma anche il Buddha. La scuola “graduale” giudica l’illuminazione come qualcosa che ci rende persone molto migliori, considerando il Buddha superiore a tutti gli altri esseri. Per la scuola “istantanea”, l’essere illuminati non rende più elevati o più importanti delle persone non illuminate. Poiché sia l’illuminato che il non illuminato hanno la stessa natura del Buddha o del nirvana dentro di sé, entrambi possiedono naturalmente lo stesso valore e le stesse virtù. Se non abbiamo bisogno dell’illuminazione per diventare migliori, secondo la scuola istantanea, il Buddha è semplicemente un primo tra uguali.

In realtà, questo punto di vista “istantaneo” della buddità afferma che il nostro dukkha, o l’attaccamento pieno di paura alla vita e alla morte, avviene perché dubitiamo del nostro valore presente e assolutamente incondizionato (la natura di Buddha). “Illuminazione” vuol dire lasciare andare completamente questo dubbio per comprendere intuitivamente la nostra parità con il Buddha. Una volta liberati dal nostro dukkha, siamo soddisfatti di noi stessi e degli altri così come siamo.

Nella scuola istantanea, una semplice comprensione intellettuale di quanto appena detto costringe ad abbandonare l’orgoglio insito nello sforzo di raggiungere l’illuminazione. Questa mancanza di orgoglio, o questa umiltà, dovuta alla caratteristica natura accidentale dell’illuminazione istantanea, è un modo di lasciare andare il sé come fonte del dukkha; quindi, di fatto, è una sorta di illuminazione prima dell’illuminazione. Per alcune persone, questa è già un’illuminazione sufficiente, mentre per altre significa maggiori possibilità di risvegliarsi a qualcosa di più grande.

Ciò diventa particolarmente vero con un’adeguata pratica preliminare. La pratica preliminare va chiaramente distinta da quella che implica l’illuminazione graduale. Nessuna forma di pre-illuminazione è un requisito dell’illuminazione istantanea, tanto meno una causa o una garanzia; ciononostante, essa svolge un’importante funzione. L’illuminazione istantanea può accadere a una persona, ma se quest’ultima non è preparata a riconoscerla e – fatto più importante – a integrarla nel suo essere psicologico di tutti i giorni, quasi sicuramente verrà solo per scivolare via.

A questo proposito, possiamo fare un’analogia con la pioggia. La pioggia, come l’illuminazione istantanea, non può essere forzata; arriva da sola. Inoltre, quando cade, lo fa indifferentemente su terreno fertile e su quello improduttivo. Se cade sul primo, le piante crescono in modo lussureggiante; sul secondo, non si avrà altro che terreno umido. Coltivare una pratica di pre-illuminazione vuol dire assicurarsi un terreno fertile quando la pioggia dell’illuminazione istantanea cadrà; non avere alcuna pratica vuol dire quasi sicuramente perdere ciò che si sperava di ottenere. Questa pratica preliminare non va considerata un avvicinamento graduale all’illuminazione, perché in essa non esistono stadi.

In altre parole, a differenza di una pratica orientata verso l’illuminazione graduale, in cui di solito è possibile scorgere dei progressi (come un distacco sempre maggiore dal mondo) nessun avanzamento è evidente in una pratica istantanea. In più, mentre una pratica a orientamento graduale di solito presuppone un lungo periodo di tempo (ci vogliono molti anni prima che siano visibili dei risultati), la stessa cosa non è vera per una pratica non graduale.

Poiché l’illuminazione istantanea non dipende da alcun tipo di pratica, e può giungere con o senza quest’ultima, l’illuminazione potrebbe irrompere dopo un solo giorno o non arrivare neppure dopo molti anni. Per questa ragione, una pratica non graduale può essere molto più frustrante di una pratica che mostri chiari progressi verso la meta.

Comunque, il vantaggio di una pratica non graduale (e di fatto una delle ragioni della sua diffusione) è che essa è effettuabile sia all’interno che all’esterno di un monastero. Questo è specialmente vero per una specifica pratica non graduale, il classico Kung-an cinese (ma non necessariamente per il koan giapponese).

Naturalmente, il paradosso di una pratica di pre-illuminazione volta all’illuminazione istantanea è che essa implica nulla di meno che la frustrante esperienza di ricercare ciò che già si ha, cioè il valore incondizionato del Buddha. Questo vuol dire chiedersi costantemente: “Perché sto facendo ciò?”, “Perché la mia mente non mi lascia sperimentare la mia vera natura? Forse tutta questa faccenda è una menzogna. Forse sto solo sprecando tempo ed energia; mi sto ancora ingannando”.

Questo dubbio è una parte naturale della preparazione all’illuminazione istantanea e richiede, affinché la pratica continui, una fede pari al dubbio. È qui che entrano in scena un’insegnante e una comunità spirituale, in quanto l’insegnante che ha attraversato queste difficoltà può infondere speranza, mentre una comunità di ricercatori può fungere da supporto.

Né l’approccio graduale né quello istantaneo possono garantire l’illuminazione, ma entrambi danno una possibilità di raggiungerla, ognuno a suo modo. Per una persona capace di impegnarsi totalmente in una vita monastica la via graduale può offrire più speranza di quella istantanea. Per chi non è in grado di prendere un impegno così grande, la via istantanea potrebbe offrire maggiori speranze. Come tutte le religioni e le filosofie, è possibile trovare molti argomenti razionali a sostegno dell’approccio graduale o di quello istantaneo, ma la realtà è che nessuna delle due può essere dimostrata o confutata logicamente. Entrambe, in ultima analisi, si basano largamente sulla fede. Di fatto, tutte le scuole del buddismo, se non addirittura tutte le tradizioni religiose, richiedono una grande fede come requisito per qualsiasi risveglio spirituale.

Nella Cina e nel Giappone medievali si sviluppò una scuola buddista chiamata della “terra pura” (in cinese: Ching-t’u; in giapponese, Jodo). Questa scuola insegnava che, a causa della corruzione del mondo e del gigantesco karma negativo accumulato dall’umanità, nessuno sforzo umano sarebbe mai stato grande abbastanza da permettere a un individuo di raggiungere la liberazione. Ma grazie al voto di salvare tutti gli esseri fatto millenni prima dal celestiale Buddha Amithaba (cinese: O-mi-to; giapponese: Amida), qualsiasi persona, buona o cattiva, che avesse chiesto la liberazione con sincera fede a questo Buddha, l’avrebbe ottenuta. Nella scuola tradizionale della terra pura, questa liberazione prende la forma della consapevolezza che, dopo la morte, si rinasce nel paradiso celestiale di Amithaba.

Tale dipendenza assoluta dal potere divino di un altro essere per raggiungere la liberazione fu chiamata “la via dell’altro potere” (giapponese: tariki). Poiché lo zen e poche altre scuole insegnavano a non aver fede nella grazia di un potere esterno per liberarsi, la loro venne chiamata “la via del proprio potere” (giapponese: jiriki) dalla scuola della terra pura. Nel corso dei secoli, questa definizione venne ripetuta così spesso che alla fine s’impose: oggi persino lo scuola zen la usa per distinguersi da quella della terra pura. Ma questa definizione è molto fuorviante. Il “proprio potere” implica che l’individuo è in totale possesso del processo di liberazione. Questo è più vero per le scuole di illuminazione graduale non-zen. In quelle scuole, l’individuo purifica il sé e lavora verso la meta unicamente grazie ai propri sforzi. Ma se nello zen l’illuminazione istantanea è accidentale, parlare del proprio potere o dei propri sforzi dovrebbe essere fuori luogo.

L’aspetto accidentale dell’illuminazione istantanea andrebbe definito in un altro modo, piuttosto che come l’influenza del proprio potere. Definire lo zen “una scuola del proprio potere” mette in ombra l’aspetto accidentale della sua illuminazione istantanea. Un altro modo di dire questo è dare una seconda definizione dell’illuminazione istantanea. Essa è l’irruzione dell’«altro» nell’ordinario, la discontinuità radicale nel flusso della vita quotidiana, una catastrofe positiva.

Rev. Vajra è un insegnante di Zen Dharma all’International Buddhist Meditation Center, www.ibmc.info, per gentile concessione.
Traduzione di Gagan Daniele Pietrini.
Copyright per l’edizione italiana: Innernet.

Non c’è scampo dal mondo di Joseph Goldstein

In questo colloquio-intervista, Andrew Cohen e Joseph Goldstein si chiedono se sia necessario rinunciare al mondo per raggiungere la liberazione. La pratica spirituale riguarda la liberazione della mente dagli attaccamenti. Questa non è né indifferenza né un tirarsi indietro. Riguarda il nostro rapporto col mondo.

Andrew Cohen intervista Joseph Goldstein

Andrew Cohen: Joseph, sembri una persona che ha voltato le spalle al mondo per dedicare la vita alla pratica della meditazione e al raggiungimento della liberazione, ma anche per fare da guida spirituale agli altri. Non sei un monaco, ma la tua vita, paragonata a quella di molta gente qui in occidente, verrebbe in realtà considerata quella di un monaco. Dal momento che hai dedicato la vita alla via del risveglio del Buddha, perché non sei diventato un monaco?

Joseph Goldstein: Non credo di condurre una vita di particolari rinunce, perché sono molto impegnato nel mondo. Sto lavorando con varie istituzioni, come la “Insight Meditation Society”, il “Barre Center for Buddhist Studies” e sto progettando un nuovo ritiro a lungo termine; inoltre, viaggio e insegno. Vivo anche in modo confortevole, quindi voglio dissipare ogni dubbio: non sto assolutamente conducendo una vita di rinuncia dedicata alla pratica intensiva della meditazione, anche se, ogni anno, mi concedo dei periodi per farlo.

AC: Ma, paragonata a quella degli altri, la tua vita è simile a quella di un monaco. Vivi lontano dal mondo, in un centro di meditazione; non hai, al momento, rapporti sessuali; e tutto ciò che ti riguarda ha a che fare con la diffusione del dharma e l’insegnamento della meditazione.

JG: Una delle ragioni per cui non sono mai diventato un monaco è che, quando iniziai a praticare, mi trovavo in India, che non è un paese buddista. La maggior parte dei miei primi insegnanti erano laici; quindi, anche se più tardi ho avuto degli insegnanti monaci, il modello laico è stata la forma con cui sono cresciuto. Ho preso i voti solo per un breve periodo, ma non sono mai stato particolarmente attratto dalla formalità della disciplina monastica.

AC: Se i tuoi primi insegnanti fossero stati dei monaci, pensi che avresti potuto prendere i voti?

JG: Avrei potuto, se avessi cominciato a praticare in Thailandia o in Birmania. Ciononostante, sento che la vita di laico mi si addice, e in qualche modo si addice a questa epoca. Penso che molto del lavoro che abbiamo fatto negli ultimi venticinque anni sia stato più facile perché l’abbiamo fatto come laici.

AC: Per diventare un buddista, devi “prendere rifugio” nella Triplice Gemma: il Buddha, il Dharma e la Sangha. Del Buddha si racconta che fu una persona che andò oltre, o che trascese il mondo. Il Dharma è l’insegnamento buddista della liberazione, un insegnamento che ci libera dall’attaccamento nei confronti del mondo, rendendoci capaci di uscire dalla ruota del divenire. La sangha è la comunità dei fratelli e sorelle con i quali condividiamo un legame di reciproco impegno verso l’illuminazione e la vita spirituale. La relazione con la sangha si pone in contrasto alle relazioni basate sui valori materialistici e mondani. E proprio come i monaci, anche coloro che vivevano in famiglia e seguivano gli insegnamenti del Buddha, (cioè i discepoli laici) dovevano prendere rifugio nella Triplice Gemma, pur rimanendo immersi nelle attività del mondo. Ma, poiché vi avevano preso rifugio, la loro fedeltà non era più rivolta al mondo o ai suoi valori materialistici, bensì all’illuminazione, ovvero alla trascendenza o al non-attaccamento al mondo.

Oggi, so che l’interpretazione della Triplice Gemma è stata resa più inclusiva da alcune persone (per esempio, il tuo antico collaboratore Jack Kornfield) in modo da poter considerare anche la vita mondana come un ottimo veicolo per la pratica spirituale, così come la vita ascetica era considerata il contesto ideale al tempo del Buddha. Nel suo libro After the Ecstasy, the Laundry, Kornfield dice: “I sacrifici di una famiglia sono assimilabili a quelli di ogni rigido monastero, poiché offrono esattamente la stessa pratica di rinuncia, pazienza, fermezza e generosità”. Ma in un’intervista che hai concesso qualche anno fa, hai detto: “Una volta fu chiesto a uno dei miei insegnanti: ‘È veramente necessario rinunciare al mondo per ottenere la liberazione?’. Egli rispose: ‘Anche il Buddha dovette rinunciare al mondo!’ E aveva alcune paramita! (qualità spirituali sviluppate precedentemente)”.

Dunque, è necessario rinunciare al mondo per raggiungere la liberazione? Penso che sia una domanda importante, perché alcune nuove visioni del dharma nate dall’incontro dell’Oriente con l’Occidente, come quelle rappresentate da Kornfield, ma anche da Elizabeth Lesser, autrice di The New American Spirituality, sembrano considerare l’esempio particolare della rinuncia del Buddha più come una metafora del non-attaccamento, che come un modello da seguire alla lettera. Era nel giusto il tuo insegnante quando ricordava che anche il Buddha dovette letteralmente abbandonare il mondo per raggiungere la liberazione? E, secondo la tua opinione, Kornfield ha ragione quando afferma che la vita familiare offre esattamente la stessa formazione di una vita monastica?

JG: Trovo difficile parlare con autorevolezza sulla vita familiare, perché non ne ho esperienza. Nel buddismo, si parla della via alla liberazione in termini di livelli di illuminazione, ognuno dei quali sradica diversi tipi di ostacoli o scappatoie della mente. E nei testi buddisti ci sono numerose storie di persone che hanno raggiunto livelli molto elevati di risveglio, pur vivendo in famiglia. Le persone di mia conoscenza con una vita coniugale soddisfacente, si sono impegnate moltissimo per fare della vita nel mondo la loro pratica. Possiamo dire: “La vita è la mia pratica”, ma che lo sia davvero o meno, è qualcosa che ognuno deve esaminare da sé, con attenzione. Da un certo punto di vista, la via della famiglia sembra più difficile del cammino della rinuncia, perché in essa ci sono molte più distrazioni.

Penso che tutti noi dobbiamo considerare onestamente quali sono le nostre autentiche aspirazioni spirituali. Non penso che si tratti di un aut-aut. La via della famiglia è possibile, ma richiede un impegno e una volontà molto forti. Ho avuto un’insegnante, una donna chiamata Dipa Ma, che era altamente illuminata e possedeva incredibili livelli di concentrazione e samadhi (assorbimento meditativo). Lo sviluppo della sua saggezza, della compassione e dei poteri della mente era straordinario; era una yogini incredibilmente completa. E viveva in famiglia. Aveva una figlia e un nipote, e conduceva una vita casalinga, ma lo faceva in un modo stupefacente.

AC: Sei d’accordo con la dichiarazione di Kornfield: “I sacrifici di una famiglia sono assimilabili a quelli di ogni rigido monastero, poiché offrono esattamente la stessa pratica di rinuncia, pazienza, fermezza e generosità”?

JG: La vita familiare ha la potenzialità di sviluppare queste qualità, ma non credo che necessariamente le sviluppi. Ovviamente, essere un genitore richiede uno straordinario sacrificio e dà l’opportunità di sviluppare l’amore, la comprensione e la pazienza, cioè molte delle paramita. Ma non sono sicuro di quanto effettivamente le sviluppi in profondità, trasformando la saggezza nella natura vuota e priva di sé delle cose. Essere un genitore non conduce necessariamente a questo. Altrimenti, la maggior parte delle persone sarebbe pienamente illuminata!

AC: Pensi che se qualcuno avesse avuto questa aspirazione a illuminarsi, molto difficilmente avrebbe scelto la vita familiare?

JG: Se l’aspirazione centrale della nostra vita è la Liberazione, persone diverse la cercheranno in modi diversi. E questo dipenderà sia dall’intensità del desiderio della liberazione, sia dal nostro condizionamento karmico, cioè dalle nostre tendenze o inclinazioni individuali. Potrei immaginare di entrare in una relazione con la speranza di non creare attaccamento. Ma, di nuovo, penso che sia necessaria molta onestà per farsi strada nell’inerzia dei nostri modelli abituali e vedere quali sono le nostre vere motivazioni. Infatti, sia al livello del dharma che a quello del mondo siamo trascinati da energie diverse ed è facile non capire quello che sta realmente succedendo.

AC: Quindi, quando il tuo insegnante diceva: “Anche il Buddha dovette rinunciare al mondo!”, cosa intendeva?

JG: Beh, per considerare la cosa da un altro punto di vista, è facile cadere nella trappola di pensare, come ho detto prima: “Oh si, la vita è la mia pratica”, senza però farlo davvero per le molte difficoltà, e così concludere sottovalutando l’importanza di prendersi davvero dei periodi nella propria vita in cui riposarsi e fare un passo indietro, se non addirittura di diventare monaco o monaca a vita. C’è un forte impulso a non farlo, così uno potrebbe lasciarsi sfuggire il potere, la forza e la chiarezza che arrivano grazie a quel tipo di rinuncia. Questa è una delle cose che la gente apprezza riguardo ai ritiri: sono un’occasione per fare un passo indietro, cosa molto rara nella nostra cultura. Penso che abbiamo bisogno di farlo, e più sono alte le nostre aspirazioni, più probabilmente avremo questa necessità.

Questo è il grande esperimento del dharma in occidente. E voglio vedere se siamo in grado di creare un modello grazie al quale la gente con una forte aspirazione per la Liberazione può realizzare quest’ultima senza necessariamente diventare un monaco o una monaca. Abbiamo appena cominciato a formulare la risposta a questa domanda: forse è possibile, forse no.

AC: La mia prossima domanda deriva proprio da questo. Non c’è dubbio che la maggioranza degli occidentali buddisti (o comunque praticanti gli insegnamenti del Buddha sull’attenzione e la meditazione) sono laici che, pur restando pienamente immersi nella vita del mondo con i suoi interessi e preoccupazioni, manifestano un sincero interesse nell’approfondire la comprensione della natura e del significato dell’esperienza umana alla luce degli insegnamenti del Buddha. Eppure, il Buddha stesso fu un’asceta che disse: “La vita familiare è una via polverosa e piena di ostacoli, mentre la vita ascetica è come il cielo aperto. Non è facile per un uomo che vive nel mondo praticare la vita santa in tutta la sua pienezza, purezza e luminosa perfezione”. Ha detto anche: “Il pavone che vola nell’aria non si avvicinerà mai alla velocità del cigno. Similmente, l’uomo che vive in famiglia non può mai assomigliare al monaco saggio, che medita in disparte nella giungla”.

JG: Prenderò i voti, prenderò i voti! Dove sono le tuniche?

AC: (ride) È vero, ovviamente, che viviamo in tempi “più illuminati” e che per molti aspetti è difficile paragonare le circostanze storiche e culturali dell’India antica con l’Occidente contemporaneo. Tuttavia, l’attaccamento resta l’attaccamento e la libertà resta la libertà; i trabocchetti e i pericoli del cammino spirituale non sono cambiati di un millimetro negli ultimi 2500 anni. Quello che volevo chiederti, quindi, è: quando sono arrivati nell’occidente contemporaneo, materialista e narcisista, gli insegnamenti del Buddha sono stati annacquati per risultare appetibili a coloro che non oserebbero mai prendere sul serio gli insegnamenti del Buddha sulla rinuncia? O il Buddha era fuori strada e troppo estremo perché le sue indicazioni possano essere valide in ogni tempo?

JG: Ci troviamo in una situazione molto interessante. Oggi gli insegnamenti sono accessibili a persone che non hanno alcuna familiarità con essi; è un processo che sta avvenendo. Ma a differenza delle culture asiatiche, dove la rinuncia – anche quando non viene praticata – conserva un suo valore, qui non è apprezzata, per cui c’è una curva dell’apprendimento spirituale. E negli ultimi venti, venticinque anni di insegnamento, ho visto un numero di persone sempre maggiore che vorrebbero fare il passo successivo verso un livello di rinuncia più completo e profondo. Penso che nella gente sta maturando la comprensione del significato della rinuncia.

AC: Stai dicendo, quindi, che dobbiamo evolverci fino al punto in cui riconosciamo tale necessità, per poi cominciare ad agire di conseguenza?

JG: Si, ed essa potrebbe prendere forme diverse, che si tratti di un laico che trascorra dei periodi di rinuncia… Oppure potrei anche immaginare la crescita di una sangha monastica. Io credo, però, che è qui che si debba ricercare la profondità.

AC: La profondità sarà raggiunta quando le persone avranno dato tutta la loro vita per il raggiungimento della liberazione: è questo che intendi?

JG: Si, e poi queste persone troveranno la forma appropriata per esprimerla. Penso che un periodo in cui praticare la rinuncia sia sempre importante. Ma c’è anche la questione su cosa sia veramente la rinuncia. Nei testi buddisti si trova un esempio famoso che paragona un eremita dentro una grotta, che ha rinunciato al mondo ma è pieno di desideri, a qualcuno che vive nel lusso, ma la cui mente è libera dai desideri. La forma esteriore di rinuncia deve sostenere quella interiore; altrimenti, l’esteriorità non ha alcun significato. Dobbiamo vedere cosa favorisce la rinuncia all’avidità, all’odio, alla delusione. Cosa favorisce la rinuncia a considerare le cose come il sé? Questi, per me, sono l’interrogativo e la rinuncia fondamentali. Ed è una cosa che può essere praticata in qualsiasi circostanza. Negli ultimi anni, la mia pratica si è fatta via via più semplice. Di base, si riassume in una frase detta dal Buddha: “Nessuna cosa deve essere assunta come ‘io’ o come ‘mia’”. Questo è tutto. Questa è la pratica; qui si trova la libertà.

Andrew Cohen: Vorrei chiederti del rapporto tra la meditazione e la trascendenza del mondo, dove per “mondo” si intende l’attaccamento e il divenire. Può, la pratica della meditazione, scendere davvero in profondità e avere il potere di liberarci, se non si è già abbandonato il mondo dell’attaccamento e del divenire, almeno in una certa misura? In altre parole, se la pratica della meditazione non ha già radici nella rinuncia al mondo, come può avere il potere di liberarci o di renderci capaci di trascendere il mondo?

JG: Se per “libertà” intendiamo una mente che non considera nulla come “io” o “mio”, penso che possiamo accostarci a essa in due modi. Un approccio è focalizzare la mente sugli oggetti dell’esperienza, penetrandone il carattere illusorio, e questo provoca il lasciarsi andare. Cominciamo a scorgere l’inconsistenza di ogni cosa. Di fronte a ciò, la mente inizia a lasciar andare la presa, perché si accorge che non c’è niente di solido cui aggrapparsi. Un altro approccio è avere effettivamente un bagliore del vuoto, della natura aperta della mente che non produce attaccamento, e avere un’immediata apertura nei confronti di tale esperienza. Penso che, tradizionalmente, le due scuole siano in contrasto l’una con l’altra: “Questa via è migliore o più veloce o più eccelsa”. Ma, almeno secondo la mia esperienza, entrambe sono valide e si intrecciano costantemente. Sono pochissime le persone che, avendo avuto un bagliore di questa natura assoluta, aperta e vuota, sono arrivate alla fine, ritrovandosi totalmente libere; infatti, i modelli abituali sono molto forti.

Andrew Cohen: Sembra che nel buddismo in generale, e specialmente nella scuola Theravada, considerata quella allineata in modo più stretto agli insegnamenti originali del Buddha, la trascendenza del mondo sia un tema fondamentale dell’insegnamento. Tuttavia, viviamo in un’epoca nella quale molte voci influenti del mondo spirituale mettono in rilievo, con vigore, quelli che considerano i pericoli di questo tipo di visione: cioè che è patriarcale, gerarchica, contro la terra, il corpo, la sessualità e la femminilità. Il noto biologo e filosofo Rupert Sheldrake ha detto in un’intervista rilasciata per “What is Enlightenment?”:

JG: “È possibile considerare l’intera creazione come un grande errore, niente altro che una serie di futili e infiniti cicli di manifestazioni, nascita, morte, rinascita e nuova morte e così via all’infinito. A quel punto, la sola risposta è una specie di caduta verticale dentro il regno senza tempo dell’essere, dove dimentichi e lasci alle spalle tutto ciò. Quando vivevo in India, ho scoperto che… alcuni buddisti Theravada avevano fatto propria questa visione. Il loro unico intento era staccarsi interamente da questo mondo del divenire e spiccare il balzo verso la salvezza individuale”.

Inoltre, l’influente scrittore spirituale e, come lui stesso si è definito, il “mistico gay” Andrew Harvey afferma nel suo libro, The Return of the Mother:

“Le tendenze contrarie alla vita, al corpo e alla donna, presenti sia nella tradizione Therevada sia (in misura minore) nella tradizione Mahayana, sono un ostacolo. Molte scuole buddiste insegnano che non si può raggiungere l’illuminazione in un corpo di donna; il meglio che una donna può fare, se è molto fortunata, è servire i monaci. Già nelle fasi iniziale del buddismo, i monaci maschi si separarono dalla società e furono considerati superiori a essa. L’unico obbiettivo dell’incarnazione fu visto come la liberazione dal samsara. In tutto questo ci sono estremismo, paura della natura e isteria repressa; il buddismo Mahayana ha cercato di mitigare queste posizioni soprattutto con la sua concezione del servizio divino e dell’ideale del bodhisattva. Ma anche nel Mahayana le donne sono decisamente sottovalutate; il termine tibetano per donna significa letteralmente ‘nascita minore’. Un’enfasi straordinaria sull’illuminazione può condurre al distacco da questa vita e dalle sue responsabilità attive, oltre che a una radicale sottovalutazione della sacra saggezza della vita quotidiana…Non possiamo più permetterci il lusso di questo volo nella trascendenza, perché anche a causa sua nessuno è intervenuto a fermare la rovina e la devastazione della natura”.

Andrew Cohen: Joseph, sei d’accordo con Sheldrake e Harvey? È vero che l’enfasi del Buddha sulla trascendenza del mondo è contraria alla vita e provoca involontariamente distruzioni e divisioni?

JG: Durante il ritiro, ho avuto esperienze di straordinaria pace, calma e unione, che però dall’esterno potevano venire scambiate per indifferenza, freddezza o disinteresse. Il rischio di proiezioni sui singoli praticanti e l’intera tradizione è molto grande. Penso, quindi, che sia molto importante non cadere in queste generalizzazioni che nulla hanno a che vedere con l’esperienza autentica dei praticanti; infatti, la loro esperienza può essere completamente diversa da ciò che appare dall’esterno. È molto facile rimanere impigliati nei giudizi sulle altre persone e le altre tradizioni, frutto delle nostre proiezioni, prevenzioni e punti di vista. Detto questo, penso che la tua domanda, in realtà, ruoti intorno al significato della trascendenza. Le persone usano questa parola in tanti modi diversi; secondo la mia prospettiva, gran parte del contenuto di questa domanda proviene – sarò netto e chiaro – da una limitata concezione della trascendenza o da un’idea di questa diversa dalla mia.

Uno dei significati della trascendenza è restare consapevoli di una dimensione “altra”, separata dalla terra, dove si è in una sorta di beatitudine. Non penso, però, che questo fosse ciò che intendesse il Buddha, né che riguardi la pratica del buddismo Theravada o di qualsiasi altra tradizione buddista da me conosciuta. La trascendenza autentica, secondo la mia comprensione, è molto più semplice. È la trascendenza del senso del sé, il quale si forma attraverso l’identificazione con i vari aspetti dell’esperienza, scambiati per il sé. È la realizzazione della vacuità del sé. Penso che la trascendenza autentica sia una funzione della saggezza, non di un qualche stato alterato o dell’essere trasportati in un’altra dimensione. La sua espressione può prendere poi molte forme. Può prendere la forma di un forte coinvolgimento nel mondo o dell’andare a vivere in una grotta sull’Himalaya; non credo che esista una gerarchia delle azioni compassionevoli.

Quando il Buddha, nelle sue innumerevoli vite passate, si ritirava in qualche caverna a praticare, una persona normale avrebbe potuto pensare che si fosse ritirato dal mondo. Ma considerando questi ritiri come un momento del suo cammino verso la buddhità e tutte le compassionevoli attività che ne derivarono (cioè l’illuminazione di tutti noi) non si può dire che il tempo trascorso nelle caverne sia stata una negazione del mondo. Però, quando consideriamo isolatamente un momento dell’esperienza o del cammino di una persona, otteniamo una visione molto distorta del quadro generale.

AC: Penso che queste citazioni evidenzino l’opinione che il mondo sia identico al samsara, il perpetuo alternarsi di nascita, morte e rinascita, e di come nella filosofia buddista (in modo specifico nel buddismo Therevada) l’unica idea sia “elevarsi”, liberare se stessi da questo infinito ciclo del divenire.

JG: Qualcuno potrebbe affermare che il Buddha, dopo la sua illuminazione, indugiò nel samsara?

AC: Di certo, non visse nel mondo.

JG: No, visse nel mondo: camminò sulla terra.

AC: Camminò sulla terra, ma il mondo in cui visse fu una sua creazione; era circondato dai suoi monaci, non visse una vita mondana.

JG: Ma questa distinzione, per me, non è il punto saliente. È possibile vivere come un monaco, un asceta, e cercare allo stesso tempo di alleviare la sofferenza del mondo, come fece il Buddha. Egli non si isolò, non si ritirò, non si staccò dal mondo. Da un certo punto di vista, era totalmente coinvolto; il punto chiave è che poté farlo da uno spazio di libertà, piuttosto che da uno di schiavitù. La pratica spirituale, anche nelle tradizioni più ortodosse, riguarda la liberazione della mente dagli attaccamenti. Questa non è né indifferenza né un tirarsi indietro. Riguarda il nostro rapporto col mondo. Ci relazioniamo da uno spazio di libertà o di non-libertà?

AC: Quindi non sei d’accordo con le critiche di Harvey?

JG: Per niente. Storicamente, esistono molte sovrapposizioni culturali, e le discussioni sui rapporti uomo-donna riguardano, io credo, più la cultura che il dharma, perché chiaramente dal tempo del Buddha fino a oggi sono esistite molte donne pienamente illuminate.

AC: Quindi, stai dicendo che sei in totale disaccordo con questa interpretazione del buddismo Therevada, secondi cui lo scopo della liberazione è “uscire” dal mondo. Si tratta di una comprensione sbagliata dell’insegnamento del Buddha?

JG: Di nuovo, dipende. Cosa si intende per “mondo”? Ti riferisci alla società americana consumista o al pianeta sul quale gli esseri umani camminano? Finché saremo vivi, non penso che ci sarà mai scampo dal mondo. L’obiettivo è la libertà dall’attaccamento, dalla sete del desiderio; non è la non-esistenza. Infatti, il Buddha ha detto che desiderare la non-esistenza è solo un’altra forma di brama insita nella nozione del sé.

AC: Ma alcune persone, da un certo punto di vista, potrebbero pensare che ciò implichi la distruzione del mondo. Infatti, se leviamo la “sete del desiderio”, potremmo provocare un disimpegno tale che l’intero mondo rischierebbe di andare in pezzi.

JG: Non vedo tutto ciò come disimpegno, ma come la differenza tra il non-attaccamento e il distacco. Il distacco implica il ritirarsi, il chiamarsi fuori, forse anche il disinteresse. Non vedo il cammino del Buddha come distacco, bensì come non-attaccamento, cioè essere completamente presenti senza produrre attaccamenti. E in questo, per me, risiede l’unione del vuoto e della compassione. C’è la possibilità, quindi, di essere totalmente impegnati, ma senza attaccarsi a niente.

AC: Questa sarebbe la miracolosa posizione dell’illuminazione.

JG: Sì. E persone diverse esprimeranno in modi diversi quell’illuminazione e il cammino per raggiungerla. Possono esserci periodi in cui è necessario ritirarsi dal mondo nel modo che è stato suggerito. Questo, però, è un tratto di un viaggio ben più lungo.

AC: Diversamente dal buddismo, nell’ebraismo e nell’islam (soprattutto nel sufismo) la rinuncia e la trascendenza del mondo (così come le ha insegnate il Buddha) non solo vengono scoraggiate, ma talvolta sono aspramente criticate come contrarie ai principi fondamentali della loro dottrina religiosa. Sheikh Tosun Bayrak dell’ordine sufi Halveti-Jerrahi ha detto in un’intervista concessa a “What is Enlightenment”:

“La rinuncia è un peccato. Essa significa che, quando sono assetato, Lui, Allah, mi offre un bicchiere d’acqua e io dico: ‘No, grazie’. Questo è un peccato, è estrema arroganza! Non si tratta solo della mia opinione, ma di quella di tutti i sufi. Dovresti accettare qualsiasi cosa ricevi e farne buon uso. Se non la vuoi, dalla a qualcuno che ne ha bisogno! Io possiedo, sia resa lode ad Allah, abbastanza soldi. Ma se oggi Lui mi desse un milione di dollari, non li rifiuterei. Li prenderei, li darei a coloro che ne hanno bisogno e ne serberei anche un po’ per me. Mi comprerei una nuova auto al posto della vecchia e forse un paio di scarpe da 150 dollari. Sarebbe un gran giorno!

Non c’è bisogno di andare nei monasteri o scalare l’Himalaya… Devi andare nel mondo e partecipare. Per esempio, il mio insegnante, Sheikh Muzzaffer, amava mangiare, gli piaceva il buon cibo. E aveva una giovane moglie che amava molto. Lui diceva spesso: i soldi dovrebbero essere tanti nelle tue tasche, ma nessuno nel tuo cuore”.

Anche per gli Ebrei, l’impegno totale nel mondo e nella vita è visto come l’adempimento della chiamata religiosa. Secondo loro, è solo vivendo con tutto il cuore i comandamenti che il potenziale spirituale della razza umana può realizzarsi. Lo studioso ebreo David Ariel scrive:

“Quando diventiamo i maestri della nostra vita e godiamo di tutto ciò che quest’ultima ci offre, abbiamo portato alla luce la divinità che è in noi. Quando aiutiamo l’evoluzione di un’altra persona, portiamo a compimento il lavoro della creazione. Quando aiutiamo lo sviluppo del potenziale umano di ciascun individuo, abbiamo portato Dio nel mondo. Dio ha bisogno del nostro aiuto, perché solo noi possiamo perfezionare il mondo”.

Io so che, anche se l’ideale del bodhisattva è di liberare tutti gli esseri senzienti prima di se stesso (soprattutto nella tradizione Mahayana), tale salvezza degli altri consiste soprattutto nella liberazione dalle catene del samsara, non nella “spiritualizzazione” del mondo, come sottolineano queste religioni mediorientali. Cosa rispondi tu, come importante insegnante buddhista, alle accuse dei nostri fratelli mediorientali secondo cui la tua religione non solo inibisce la realizzazione del potenziale spirituale del mondo attraverso l’uomo, ma di fatto ci spinge ad abbandonare ogni responsabilità nei suoi confronti?

JG: Penso che tale discussione si svolga a un livello sbagliato, perché si limita a considerare le apparenze: se uno vive nel palazzo o nella grotta, se ha una relazione o no. Non credo che queste siano le domande fondamentali. Penso che la domanda fondamentale sia: “Chi è che sta appagando il desiderio o vi sta rinunciando?”.

AC: Il punto, però, è che tu sei buddista! In quanto tale, non vuoi quindi rispondere per niente a questa domanda? Volevo soltanto che tu commentassi un poco gli insegnamenti sulla rinuncia e la trascendenza del mondo.

JG: Da un certo punto di vista, vivo più come un sufi che come un monaco buddista. Ma, di nuovo, non vedo la forma come l’essenza della realizzazione. Per esempio, se vai al cinema, vieni totalmente preso dalla trama del film. Potrebbe essere il film di un monaco nella grotta o di qualcuno che si gode pienamente la vita, ma se guardi in alto e vedi il fascio di luce che attraversa la sala e atterra sullo schermo, comprendi che non sta succedendo niente. È tutta apparenza! Penso che se ci blocchiamo nella ricerca di quale apparenza sia la più giusta o spirituale, perdiamo completamente di vista il fatto che la libertà non dipende dal tipo di film trasmesso; essa si trova nella mente priva di attaccamenti, qualunque essi siano.

AC: Certo, questa è la risposta finale a tutte le domande, e dopo di essa, naturalmente, non resta nulla da dire. Ma la ragione per la quale faccio queste domande è che anche i sufi hanno degli insegnamenti sul non-attaccamento. E se guardiamo al buddismo classico, c’è senza dubbio una grande enfasi sulla rinuncia al mondo e sul diventare monaco. Sono sicuro che i monaci buddisti tradizionali sentono fortemente il loro cammino. I sufi, però, affermano: “No, comportarsi così vuol dire fondamentalmente negare Allah o Dio”… E ne sono molto convinti! Dunque, chiarire questi interrogativi aiuta a gettare luce sull’argomento. Molti, al giorno d’oggi, usano la risposta che hai appena dato per evitare di comprendere quanto attaccamento c’è davvero in noi. E il fatto è che la maggioranza delle persone – sono certo che tu lo sai, visto che sei un insegnante – hanno profondi, radicati attaccamenti. A un livello più relativo, quindi, questi argomenti diventano davvero importanti.

JG: Alcuni anni fa, mi trovavo a una conferenza cristiano-buddista a Gethsemane sulle diverse tradizioni spirituali. Il Dalai Lama ripeteva continuamente: “Sapete, la mia via è giusta per me. La vostra via può essere giusta per voi”. Egli rispetta totalmente il fatto che le persone possono percorrere strade diverse in periodi diversi. Non vedo la necessità di fare generalizzazioni come: “Sì, la celebrazione della vita dei Sufi è la via” o: “No, la rinuncia Buddista è la via”. In realtà, bisogna considerare…

AC: …Ciò che succede effettivamente dentro l’individuo.

JG: Esattamente. E come abbiamo appena detto, qualcuno può vivere una vita di rinunce esteriori ma restare pieno di desideri; lo stesso, però, potrebbe succedere per chi ha una vita molto impegnata. Così, si ritorna sempre a ciò che realmente accade. Ed è qui che un insegnante può essere di grande aiuto, perché talvolta è difficile vedere le cose da soli. Come sappiamo, è molto facile rimanere intrappolati.

AC: OK, un ultimo tentativo…

JG: Per indurmi a esprimere un’opinione?

AC: Sì, giusto!

JG: “Quei tipi non vanno bene!”

AC: (ride) Ho un’ultima domanda. Penso si possa dire che, per la maggior parte delle persone coinvolte nell’esplosione spirituale provocata dall’incontro tra Oriente e Occidente (esplosione che oggi si manifesta con sempre maggiore velocità), Gautama il Buddha e Ramana Maharshi (uno degli studiosi del Vedanta più rispettati dell’era moderna) emergono come esempi impareggiabili di illuminazione piena. Tuttavia, è interessante notare come, a proposito della relazione che il ricercatore deve tenere con il mondo, i loro insegnamenti divergano moltissimo. Il Buddha, colui che rinuncia al mondo, incoraggiava i ricercatori più sinceri a lasciare il mondo per seguirlo in una vita santa, liberi dagli affanni e dalle preoccupazioni della vita famigliare.

Ma Ramana Maharshi sconsigliò ai suoi discepoli di lasciare la vita famigliare per cercare una concentrazione spirituale più grande e intensa. Di fatto, sconsigliò ogni atto esteriore di rinuncia e, invece, incoraggiò il ricercatore a cercare dentro di sé la causa dell’ignoranza e della sofferenza. Infatti, oggi molti dei suoi devoti (il cui numero è in costante crescita) affermano che il desiderio di rinuncia è in realtà un’espressione dell’ego, di quella stessa parte di sé che intendiamo abbandonare se vogliamo essere liberi. Naturalmente, il Buddha sottolineava molto la necessità della rinuncia, del distacco, della disciplina e delle regole, considerandole le fondamenta stesse da cui può nascere la liberazione. Perciò, perché pensi che le vie di questi due luminari dello spirito divergano tanto? E perché, secondo te, il Buddha incoraggiava i discepoli a lasciare il mondo mentre Ramana Maharshi li spingeva a restarvi?

JG: Da un certo punto di vista, c’è una risposta molto semplice a questa domanda: “Non ne ho proprio idea!”.

AC: Molto sincero.

JG: Di nuovo, però, si ritorna al significato della rinuncia. Mentre riassumevi l’insegnamento di Ramana – che incoraggia i discepoli a guardare dentro, vedendo dove sono gli attaccamenti e lasciandoli andare – non mi sembravano molto diversi da quelli del Buddha. Quest’ultimo vedeva la rinuncia come un modo per creare quelle condizioni affinché fosse possibile fare le stesse cose che diceva Ramana. Ancora una volta, quindi, non creerei questa grande divisione.

AC: È una domanda importante, tuttavia, perché molte persone si fanno facilmente delle idee fisse su ciò che sia l’illuminazione. Almeno con questi due uomini, i più ammettono che, qualunque cosa abbiano detto, sono degli esempi in buona fede. Il Buddha, anche se ebbe dei discepoli laici illuminati, senza dubbio pose una particolare enfasi nel lasciare il mondo, mentre Ramana non lo fece affatto. E il Buddha ebbe un sacco di guai perché molti ragazzi abbandonarono la famiglia fuggendo dalle responsabilità sociali per condurre una vita di santità. Creò un bel subbuglio e molte persone ne furono turbate. Questo, quindi, solleva la domanda: perché lo fece?

JG: Si tratta di abbandonare la vita laica per una vita di maggiore semplicità. Non si abbandona la vita laica per qualche motivo egoistico, ma (nella maggior parte dei casi) per sviluppare una saggezza e una compassione maggiori che possono essere di grande aiuto al mondo. Penso che nella nostra cultura la semplicità e il distacco dal lavoro (anche per brevi periodi) vengano sempre più apprezzati. Nell’India di Ramana (lo so perché io stesso vi ho trascorso un periodo di tempo) la vita era davvero semplice e tranquilla. E, sebbene ora non viva completamente in quel modo, quella via conserva per me un grande fascino. Quindi, quando penso alla vita semplice dei monaci e delle monache, come l’ha insegnata il Buddha, mi sembra deliziosa.

Copyright originale “What is Enlightenment” magazine www.wie.org
Traduzione di Nityama Masetti. Revisione di Gagan Daniele Pietrini.
Copyright per la traduzione italiana: Innernet.

Autorità e sfruttamento, terapisti e maestri di Redazione Tricycle

Autorità e sfruttamento: tre voci

Il maestro zen Robert Aitken Roshi e il monaco benedettino fratello David Steindl-rast sono figure di primo piano nel dialogo tra buddismo e cristianesimo.
Autorità e sfruttamento: tre voci

Il maestro zen Robert Aitken Roshi e il monaco benedettino fratello David Steindl-rast sono figure di primo piano nel dialogo tra buddismo e cristianesimo.

Robert Aitken è il direttore della Diamond Sangha, una comunità zen con base nelle isole Hawaii e centri affiliati in altri Paesi. Avendo conosciuto lo zen in un campo di prigionia giapponese nel 1945, egli viene considerato oggi, all’età di 73 anni, il decano dei praticanti zen americani. Tra i suoi libri, ricordiamo Taking the Path of Zen e The Mind of Clover.

Fratello David Steindl-rast si è laureato in Psicologia sperimentale all’Università di Vienna. Studioso dello zen da molti anni e conferenziere noto in tutto il mondo, trascorre la maggior parte del tempo all’Immaculate Heart Autorita e sfruttamento Robert Aitken.jpgHermitage (L’Eremo del Cuore Immacolato) di Big Sur, in California.

Nel gennaio 1991 questi due vecchi amici hanno svolto insieme un ritiro di cinque giorni in una capanna isolata nell’Isola Grande delle Hawaii, sedendo in meditazione e discutendo su una lista di interrogativi stilata da fratello David. Le loro riflessioni sono state registrate dal monaco Kieran O’Malley.

“Tricycle” ha chiesto alla dottoressa Diane Shainberg di approfondire la discussione tra Fratello David e Aitken Roshi sull’autorità e lo sfruttamento. Psicoterapeuta che vive e lavora a New York, la dottoressa Shainberg è autrice di Healing in Psychotherapy: The Process of Holistic Change. È stata l’insegnante di molti terapisti e nel suo lavoro di psicoterapeuta integra gli insegnamenti buddisti. Esperta studiosa dello zen e delle tradizioni tibetane, Shainberg attualmente è allieva di Tilak Fernando, un maestro buddista dello Sri Lanka.

Il brano seguente era preceduto, nell’originale, da una discussione sul conflitto tra l’aspirazione all’egualitarismo e la necessità di un’autorità che trasmetta gli insegnamenti spirituali. Da tale discussione è emerso che questo conflitto non rappresenta un problema soltanto nelle comunità buddiste dell’America settentrionale che stanno cercando di assimilare gli insegnamenti orientali, ma anche nelle comunità cristiane. Fratello David, a questo punto, ha chiesto ad Aitken Roshi di dire qualcosa sull’importanza della figura dell’autorità nella pratica spirituale:

Robert Aitken Roshi: Una volta qualcuno ha suggerito un modello radicale di ritiro per Koko An (il nostro centro zen a Autorita e sfruttamento David Steindl-rast.jpgHonolulu): in esso la gente assumeva a turno la funzione del “roshi”, il maestro. Lo ritengo un suggerimento sbagliato. L’apprendimento, in un contesto di profonda ricerca in cui l’autoinganno è facilissimo, richiede transfert e fiducia. Uno studente può non comprendere la necessità di un’idea o un’azione particolari, ma se a consigliarla è un maestro di cui lo studente si fida, quest’ultimo è in grado di accettarla momentaneamente, lasciando che essa scenda in profondità dentro di lui.

Qualcuno deve reggere lo specchio e dire: “Guarda, questo è ciò che stai facendo, questo è ciò che stai dicendo”; oppure, semplicemente: “No, questo non può essere giusto”. La ragione alla base di ciò è che sia l’insegnante che lo studente sanno cosa è vero, ma lo studente non ne è ancora consapevole. Tuttavia, le persone che provano ancora risentimento verso i genitori o i nonni si trovano in difficoltà; appiccicano il volto del padre sull’insegnante e reagiscono di conseguenza. D’altro canto, se l’insegnante non è fedele al suo insegnamento e alla sua realizzazione, e approfitta del transfert per motivi egoistici, l’intera “sangha” o comunità è avvelenata.

Fratello David: So molto bene che ognuno di noi esercita un’autorità. Se dici: “Io non sono un’autorità”, devi stare attento a chiederti quante persone ti ritengono un’autorità, nonostante tutto.

Mi sto chiedendo se oggi la nostra nozione di autorità non è pericolosamente distorta. Il primo significato di autorità in un dizionario inglese è qualcosa come “Avere il potere di comandare”. Esercitare un potere sugli altri è di certo uno dei significati di autorità, ma il fatto che questo sia diventato il suo primo significato la dice lunga sulla nostra civiltà.

Il significato originario di autorità (e non sto parlando dal punto di vista etimologico) è il fornire, o l’essere, un esempio saldo per la conoscenza e l’azione. Usiamo il termine in questo senso quando diciamo: “Voglio un’opinione autorevole. Devo fare questa operazione o no?”. Allora, in un caso del genere, ci rivolgiamo all’autorità medica.

Chi fornisce frequentemente un esempio autorevole per la conoscenza e l’azione diventa un’autorità: quando ti ammali, la zia Emily ha sempre il rimedio giusto. Quando sei raffreddato, vai dalla zia Emily. In un paese, questo ruolo viene svolto dalla persona più anziana, dal portavoce o dal capo. Tutto va bene finché l’autorità costituisce un fondamento sicuro per la conoscenza e l’azione. Il problema sorge quando l’autorità non dà o non giustifica più questa fiducia, conservando però il potere: a questo punto, diventa autoritaria.

Come distinguiamo l’autorità legittima da quella autoritaria? A lungo mi sono arrovellato per questo dilemma, ma la risposta, una volta trovata, mi è sembrata ovvia: la persona autoritaria ti sottomette. Questo è l’unico modo in cui coloro che non occupano una posizione superiore possono stare sopra gli altri: sottomettendo questi ultimi.

L’autorità autentica e legittima ti eleva, innalzando la tua conoscenza e la tua capacità di agire correttamente. Essa ti porta verso l’alto, aumentando la tua sicurezza in te stesso e conferendoti più potere. Per cui, la grande responsabilità di ognuno è mettere in dubbio l’autorità. Sto parlando di una critica rispettosa, onesta e franca dell’autorità. Questo è un nostro dovere, non solo un nostro privilegio. È questo che tiene l’autorità sulla strada giusta. Chiunque abbia esercitato un’autorità sa quanto è difficile evitare atteggiamenti autoritari. Dobbiamo essere molto grati a coloro che mettono in dubbio la nostra autorità, permettendoci così di restare sulla retta via.

Aitken Roshi: Naturalmente, oltre a tutto ciò, c’è la questione dell’abuso, compreso lo sfruttamento degli studenti da parte dei maestri. Negli ultimi venti anni, questo è stato un grande problema nei centri buddisti – zen, theravada e tibetani – degli Stati Uniti. Negli ultimi otto anni, non c’è stato praticamente alcun centro immune dagli scandali. Chiaramente, qualcosa è andato storto, qualcosa che per molto tempo non sono riuscito a identificare. In questi recenti casi di abusi sessuali e di sfruttamento della fiducia degli studenti sono coinvolti amici e colleghi con cui ho lavorato nel passato. Ma la questione per me era difficile, perché personalmente non ero in grado di affrontarla. Non avevo mai avuto queste tentazioni. Ovviamente, c’erano state delle studentesse che ritenevo sessualmente attraenti, ma semplicemente non ho mai fatto il primo passo.

A ogni modo, il fatto che non potessi affrontare l’argomento mi ha spinto al silenzio, anche perché non riuscivo a condannare e ad avere un atteggiamento distaccato verso questi amici. Allo stesso tempo non riuscivo davvero a capire cosa stesse succedendo loro. Sapevo per certo che avevano provato la stessa attrazione sessuale che avevo provato anche io, ma non riuscivo a capire come avessero potuto spingersi più in là. Per cui io, e la Diamond Sangha in generale, abbiamo accolto le persone che scappavano da questi centri, ferite dal comportamento dei loro maestri.

Di recente, in un articolo che ho scritto per “Blind Donkey”, ho preso spunto dalla metafisica e l’esperienza buddiste per chiarire quali devono essere le basi della fiducia, nel contesto del transfert, tra insegnanti e discepoli. Ho anche tratto spunto da ciò che ho visto nei miei maestri, che erano al di sopra non solo dell’abuso sessuale, ma anche di qualsiasi tradimento in generale. Non riesco a ricordare alcun caso in cui sono stato “sottomesso” da qualcuno di questi quattro maestri: Senzaki, Nakagawa, Yasutani e Yamada. Ovviamente, la relazione maestro-studente è delicata, e talvolta i sentimenti vengono feriti. Ma un “tradimento” potrebbe anche essere semplicemente un fraintendimento di scarsa importanza o una sorta di incomprensione tra culture.

Concludevo l’articolo dicendo che i veri maestri hanno quasi sempre riconosciuto che la sangha è una famiglia e che il maestro occupa la posizione archetipica del padre o della madre, e che quindi il tradimento sessuale, la seduzione di uno studente da parte del maestro, equivale a un incesto. Ho scritto tutto ciò in questo articolo, cercando di evitare la posizione tipo “io sono più santo di te”, ammettendo che per me è difficilissimo tenere fede ai precetti. Inoltre, riconoscevo che, mentre criticavo questi gravi errori altrui, ero consapevole dei miei, in altri campi. Il mio primo amico zen, R. H. Blythe, una volta mi ha detto: “Quando vengo accusato di qualcosa che non ho commesso, mi inchino riconoscendo tutto ciò che ho commesso davvero”.

Fratello David: La gran parte di ciò che hai detto su questo argomento sembra ruotare intorno al tema dell’incesto. Ma qualcuno potrebbe chiedere: “Cosa c’è di sbagliato nell’incesto?”, senza dare per scontata la risposta.

Aitken Roshi: In una rivista letteraria ho visto un annuncio, probabilmente inserito da qualche studioso, che invitava coloro che avessero avuto esperienze sessuali positive con i genitori o i parenti a raccontare la propria storia. Questo ci fa capire che qualcuno può anche ritenere positive tali esperienze.

Non è una questione di bianco o nero. La seduzione deliberata di una donna – approfittando della sua fiducia – nel contesto del transfert è sicuramente un errore. Ma tutti conosciamo matrimoni felici cominciati come relazioni tra un insegnante e una studentessa in un college, o tra psicologo e cliente. In questo caso, se la parte dominante (l’insegnante o lo psicologo) pensa che il cliente o lo studente sia qualcuno con cui vuole trascorrere il resto della propria vita, può mettere da parte il transfert.

Fratello David: Non è un processo facile.

Aitken Roshi: Non è affatto un processo facile. Ma è stato fatto con successo. Ciò di cui sto parlando qui, e che è la causa di tanti dolori e lamentele, è lo spietato sfruttamento sessuale dei clienti o degli studenti.

Fratello David: Sfruttamento è la parola chiave. Ho posto la domanda sull’incesto perché (come anche la tua risposta ha messo in evidenza) ciò che rende un incesto un incesto non è l’intimità sessuale tra figli e genitori, ma il contesto all’interno del quale essa avviene. Non sto parlando di rapporti sessuali completi tra figli e genitori, ma di ciò che alcuni amici mi hanno descritto e che conosco dalla mia esperienza di psicologo. Io affermo senza esitazioni che alcune forme di intimità tra figli e genitori, che a certe persone potrebbero apparire incestuose, possono essere estremamente utili. Ho tirato in ballo questo argomento non solo perché hai dato tanta importanza all’incesto (e questa è una parola fondamentale in tale contesto), ma anche perché ritengo tutta la nostra società sessualmente perversa. Tale perversione si manifesta non solo nelle aberrazioni e nello sfruttamento sessuale, ma anche nel loro opposto, nell’aberrazione ugualmente folle di un pudore eccessivo.

Non sono certo un sostenitore delle violenze sui bambini, ma non lo sono nemmeno della campagna stampa in atto contro tali violenze. Capisci di cosa sto parlando?

Aitken Roshi: Quelli che dobbiamo riconoscere sono gli archetipi profondi insiti in una relazione incestuosa.

Fratello David: I genitori di cui sto parlando hanno relazioni sane con i loro bambini, ma allo stesso tempo sono molto rispettosi. Tuttavia, la nostra società è diventata tanto sensibile a qualsiasi intimità fisica tra genitori e bambini che oggi tantissimi nonni non vogliono più nemmeno vedere i nipoti. Qualsiasi carezza può essere interpretata, dai genitori o dai vicini, come violenza sui bambini. I nonni non riescono più ad abbracciare o accarezzare i nipoti; non possono mostrarsi affettuosi, teneri e delicati. L’intero business della pornografia ha fatto meno danno alla nostra società di questa isteria scandalistica. Di questo sono fermissimamente convinto.

Aitken Roshi: Naturalmente, i genitori e i nonni che si sentono liberi di avere intimità fisica con i propri bambini rispettano una certa linea oltre la quale non si spingono.

Fratello David: Assolutamente. Ma vorrei ancora approfondire i motivi per cui definisci sbagliata la relazione tra studente e insegnante spirituale usando questa nozione dell’incesto. Suggerirei che una delle importanti funzioni psicologiche delle relazioni sessuali è l’accertare il grado di appartenenza. In che misura mi appartieni davvero? Le avance sessuali sono un modo inconscio per verificare ciò. Quando l’appartenenza reciproca è certa al di là di ogni dubbio – cioè è data a un livello molto più elevato o profondo – la verifica a livello fisico diventa inappropriata.

Questo è il motivo per cui definirei totalmente inappropriata la relazione sessuale tra genitori e figli o tra fratelli: perché l’appartenenza accertata in questo modo è di gran lunga superata dalla relazione già esistente all’interno della famiglia.

In una famiglia sana, l’appartenenza reciproca che potrebbe essere accertata sessualmente è già data al di là di ogni dubbio. Ciò spiega, fino a un certo punto, la diffusa regola sociale secondo cui bisogna sposarsi al di fuori del proprio clan e del proprio paese.

Questo si applica anche alla relazione maestro-studente. Di nuovo, l’appartenenza che viene verificata sessualmente è superata di molto da quella già esistente. Tra l’altro, in questo modo si comprende anche perché sono inappropriate le relazioni sessuali in una comunità in cui vige il voto di castità: non perché c’è qualcosa di sbagliato nel sesso, ma perché verificare quanto strettamente “mi appartieni” è totalmente inappropriato in questa intima comunità. Non faremmo parte di questa comunità se non appartenessimo gli uni agli altri in un senso molto più profondo di quello che può essere accertato per via sessuale.

Aitken Roshi: Ciò che stai dicendo è che il sesso nei suoi aspetti spirituali (ma anche nel suo aspetto fisico) è un’unità con l’altro, e un membro della famiglia non è un altro. La figura paterna dello psichiatra o del maestro zen non è l’altro. Nemmeno il fratello è l’altro. E quindi ciò che stiamo facendo qui è temperarci a un livello fondamentale, con i modelli più profondi dell’uomo.

“Tricycle” chiede alla dottoressa Diane Shainberg: Il fratello David Steindl-rast ci invita a chiederci onestamente “cosa c’è di sbagliato nell’incesto?”. La risposta più comune ruota intorno allo sfruttamento. Conosci qualche caso in cui l’incesto può essere salutare, reciprocamente benefico o avvenire senza sfruttamento?

Diane Shainberg: No. Il padre è una figura idealizzata, qualcuno che la figlia guarda alzando gli occhi, e i cui valori e ambizioni possono essere da lei usati come modelli. È impossibile spezzare tutte le convenzioni e fare ancora in modo che la figlia si senta supportata.

Tricycle: Perché hai dato per scontato che stavamo parlando di padre e figlia, come se questo fosse l’unico incesto possibile?

Diane Shainberg: Non lo è, ma in terapia ci sono più donne che uomini. E più donne tirano fuori questo argomento. Gli uomini che hanno sofferto sono molti, ma il rapporto tra uomini e donne che vanno in terapia è probabilmente di uno a tre. Per cui, questo è ciò che il terapista si sente dire. E questo è ciò di cui Aitken Roshi e fratello David hanno parlato.

Tricycle: Esistono esempi di relazioni studente-maestro che si sono dimostrate benefiche per lo studente?

Diane Shainberg: Non ho mai visto nulla che definirei nemmeno lontanamente benefico. Nulla. Ipoteticamente, se una donna è già in contatto con le sue sensazioni corporee ed ha realizzato i suoi desideri e bisogni, allora forse può trattarsi di una scelta. In tale situazione, la persona non è alla ricerca di un oggetto trasformazionale, né sta cercando di trasformarsi attraverso una relazione umana. Sta invece cercando di giocare, amare, creare, divertirsi con un maestro spirituale. Io, però, non ho mai incontrato una persona del genere. La pratica spirituale offre un accesso allo spazio interiore. Il semplice sedersi a meditare permette alla gente di creare uno spazio tranquillo, dando a essa una volta ancora una possibilità di guarigione che consiste nell’accesso ai propri pensieri, sensazioni, immaginazioni, fantasie e sentimenti.

Tricycle: È possibile che il terapista senta parlare di una dinamica psicologica che in realtà non è più o meno complessa, o piena di ambivalenza di una qualsiasi dinamica tra amanti?

Diane Shainberg: Sì e, paradossalmente, no. Tutte le persone che vanno dalla psicoterapeuta parlano della propria esperienza. Per le donne che hanno avuto relazioni sessuali con un insegnante spirituale, l’esperienza consiste in un senso di tradimento, confusione e perdita di contatto con i propri sogni. Queste donne sentono di non avere il coraggio di entrare in se stesse o di comprendere ciò che è avvenuto.

Devo chiedermi – e qualche volta lo faccio anche per me stessa – cosa porta molte persone alla pratica spirituale. Voglio dire: perché scelgono questo cammino? E quindi, una volta che stai parlando di un’altra possibile figura trasformazionale, ecco comparire una sorta di magica aspettativa su quella persona. In chi è stato ferito o trascurato, la speranza di una trasformazione è molto grande. È improbabile che le persone comincino una pratica spirituale senza un motivo psicologico. Quindi, non sono sicura che ciò che ho visto accade solo nell’ufficio del terapista. La pratica spirituale è un mezzo – come tutte le cose – per trovare ciò di cui abbiamo bisogno per guarire e anche per rivivere le antiche ferite. La cosa interessante è il modo in cui lo studente o la studentessa rivive con il maestro le proprie vecchie ferite. È esattamente la stessa cosa del transfert; non ci sono differenze. Tuttavia, nel paradigma terapeutico, quelle ferite, quella danza viene guidata, contenuta, valutata, osservata e permessa dal terapista, mentre nella pratica spirituale quelle stesse ricostruzioni prendono il posto delle antiche ferite, e la funzione del maestro è (secondo me) quella di aiutare la persona a trascendere l’intero processo psicologico.

Tricycle: Non metto in dubbio la tua esperienza di terapista, e posso capire una coerente presa di posizione etica riguardo il rapporto maestro/studente, ma trovo difficile credere che qualsiasi dinamica sessuale venga sperimentata con la stessa concordanza che suggerisci, o sia del tutto priva di ambivalenza.

Diane Shainberg: È difficile vedere il sesso fuori dalla dimensione dei propri bisogni personali. In quel caso, non so nemmeno se lo definirei sesso. Potrei chiamarla comunione, comunione sessuale. Ma i casi di rapporti sessuali tra maestro e studente che conosciamo non sembrano esperienze trascendenti.

Tricycle: Nessuno può essere descritto come una comunione sessuale?

Diane Shainberg: Mai. In tutti i casi, la donna non è riuscita a capire ciò che stava avvenendo, né era in contatto con i propri bisogni e desideri. Si era rivolta all’autorità per trovare una convalida di sé, ma questo non è successo. È stata trasformata in un oggetto sessuale e alla fine ha avuto la sensazione di essere stata abbandonata, non solo dall’autorità (il maestro spirituale), ma anche dalla sangha e, alla fine, da se stessa. I suoi bisogni, desideri, pensieri e sentimenti sono stati negati dal maestro, dal padre, da se stessa, per cui era diventato impossibile trovare conforto in se stessa. Le donne che hanno avuto rapporti sessuali con il maestro spirituale non riuscivano a essere in pace con se stesse prima di tale esperienza, né ci riescono dopo. E ciò vuol dire che la notte non riescono a dormire, non sono in grado di sognare e non riescono ad avere fiducia negli altri.

Tricycle: Data la concordanza delle tue esperienze, su cosa basi la tua affermazione sulla possibile esistenza di una comunione sessuale? Qual è la fonte di questa unione idealizzata?

Diane Shainberg: L’evoluzione della consapevolezza umana. Da ciò che sappiamo della nostra intima, personale esperienza spirituale, la fonte della sofferenza non si esaurisce praticamente mai. Non cesseremo mai di respirare e non smetteremo mai di arrabbiarci. È solo una questione di gradazioni. Alla fine, dovremo trascendere tutti i nostri tipi di dolore psicologico. Nella pratica spirituale, possiamo imparare a farlo. Quindi, potrei dire che una volta che riesco a praticare la trascendenza, ad accettare il dolore, la sofferenza, le aspirazioni, la confusione; una volta che riesco ad accettarmi psicologicamente e a capire di cosa ho bisogno e cosa desidero; una volta che riesco ad accettare il mio mondo interiore con tutte le sue vicissitudini, allora sono pronta a fare qualcosa che si chiama trascendenza; allora non mi aspetto di guarire completamente dal mio dolore, dalla mia rabbia o dai miei sentimenti interiori. In altre parole, ricaviamo questa idea della comunione spirituale da persone che hanno conosciuto a fondo la propria realtà psicologica, accettandola. E quelle sono le persone in grado di fare la pratica della trascendenza. Questi individui esistono, non ne ho alcun dubbio; è solo che le donne di cui stiamo parlando, e che ho conosciuto, non si trovano in quello spazio.

Krishnamurti: la paura, il tempo e il pensiero

Stiamo parlando della paura in se stessa e non delle diverse forme in cui essa si esprime: paura della vecchiaia, paura della morte, paura della solitudine, paura di non arrivare a ottenere quello che vogliamo, paura di non realizzarsi spiritualmente… Che cos’è la paura?

Quando c’è paura, la si riconosce come paura proprio in quel momento? Nel momento in cui ha luogo la reazione di panico, posso descriverla? O è solo più tardi che sono in grado di parlarne? “Più tardi” significa tempo.

Supponiamo che io abbia paura. Ho paura di qualcosa, ho paura che si scopra qualcosa che ho fatto in passato e che non voglio si venga a sapere. Oppure, tempo fa, è successo un fatto che mi spaventa ancora adesso. Esiste una paura in se stessa, senza l’oggetto che la provoca? Nell’istante in cui c’è paura, è in quel momento che la chiamate paura? Oppure potete farlo solo dopo, più tardi?

Certamente potete farlo solo dopo il momento in cui la reazione si verifica. E questo che cosa significa? Il cervello ha conservato il ricordo di altri momenti di paura, e nell’istante in cui ha luogo questa reazione, il pensiero la riconosce e dice: “Questa è paura”.

Mi rendo conto che nell’istante in cui affiora una sensazione di paura, non ho il tempo di riconoscerla e di chiamarla paura. È solo più tardi, dopo che si è manifestata, che le do il nome di paura. Questo significa che l’ho riconosciuta in base ai ricordi di altre situazioni che in me hanno provocato paura. Mi ricordo di quelle sensazioni provate in passato e, quando sorgono nuove sensazioni simili, immediatamente le identifico con il termine “paura”. È abbastanza semplice, no? Così il ricordo del passato esercita una continua interferenza sul presente.

Ora ci chiediamo: che cos’è la paura? La paura è tempo? È successo qualcosa la settimana scorsa che ha provocato in me quella sensazione che chiamo paura; e ora temo che potrebbe succedere un’altra volta, oppure spero che non si ripeta. Così mi chiedo: “È il tempo la radice della paura?”.

Allora, che cos’è il tempo? Il tempo segnato dall’orologio è molto semplice. Il sole sorge ad una certa ora e tramonta ad un’altra. C’è l’ieri, l’oggi, il domani. C’è una naturale sequenza del tempo. Ma in noi c’è anche un tempo psicologico. L’avvenimento accaduto la settimana scorsa, che mi ha dato piacere o che ha risvegliato in me il senso della paura, me lo ricordo e lo proietto nel futuro.

Potrei rimanere senza lavoro, potrei perdere la mia posizione, potrei perdere il mio denaro, potrei perdere mia moglie: questo è tempo. Ma allora, la paura è parte del tempo psicologico? Sembra che sia così.

E che cosa significa tempo psicologico? Tempo implica spazio. Non è soltanto il tempo fisico a richiedere spazio, ma anche il tempo psicologico richiede spazio: ieri, la settimana scorsa, oggi, domani. Ci sono spazio e tempo. È semplice.

E la paura è un movimento del tempo? Ma il movimento del tempo, psicologicamente, non è il movimento del pensiero? Così pensiero è tempo, e tempo è paura. È ovvio.

Sono andato dal dentista, e mi ha fatto male. Me ne ricordo, proietto questo fatto nel futuro e spero di non dover provare ancora quel dolore. Il pensiero è in movimento. Così la paura è un movimento nello spazio e nel tempo psicologico.

Per vedere tutto ciò come un fatto, e non per farcene solamente un’idea, si deve stare molto attenti a questa sensazione di paura legata a quello che è successo in passato. Si deve dare a questa paura un’attenzione completa nel momento in cui sorge; allora essa non si imprimerà nella memoria.

Fatelo, e lo scoprirete per conto vostro. Quando qualcuno vi offende, se voi siete completamente attenti, non c’è offesa, non c’è insulto. E quando qualcuno viene a dirvi: “Che persona meravigliosa sei!”, se siete completamente attenti questo apprezzamento scivola via come l’acqua sulle penne di un’anatra.

Così, per favore, rendetevi conto da soli di questa verità: che spazio, tempo, pensiero significano paura. È un fatto. E se non vi fermate alla descrizione che è stata data da chi vi parla, ma vi mettete ad osservare per conto vostro, non potete evitare di percepire questo fatto, non potete ignorarlo.

Un fatto non potete sfuggirlo. È sempre lì. Anche se tentate di evitarlo, di sopprimerlo, di sfuggirlo, il fatto rimane sempre lì. Ma se dedicate un’attenzione completa al fatto che la paura è pensiero in movimento, allora la paura, a livello psicologico, scompare.

Estratto da:
J. Krishnamurti – La rete del pensiero – Ed. Aequilibrium
© 1982 Krishnamurti Foundation Trust LTD
© 1987 Aequilibrium – Ing. G. Turchi, Milano

Krishnamurti: la morte

E’ importante capire la natura del desiderio; capire perché il desiderio abbia assunto un ruolo così straordinario nella nostra vita. Dobbiamo vedere come il desiderio ci tolga chiarezza e come impedisca di fiorire a quella qualità straordinaria che appartiene all’amore. E importante capire che cos’è il desiderio invece di sopprimerlo, di controllarlo, di dargli un orientamento particolare che forse potrebbe concedervi un po’ di pace.

(…)

Cos’è la morte? E’ esattamente la fine di tutto ciò che abbiamo conosciuto. Ecco la realtà.

Non affrontiamo mai il problema della morte in sé e per sé, perché l’idea stessa di arrivare a una fine è talmente orripilante da risvegliare la paura. Avendo paura, facciamo ricorso a varie forme di credo religioso, che sono semplicemente vie di fuga. Per poter liberare la mente dalla paura dobbiamo assolutamente conoscere cosa voglia dire morire mentre siamo ancora nel pieno delle nostre facoltà fisiche e mentali. Dobbiamo penetrare la natura della morte da vivi.

Ora, in che modo può la mente sperimentare da vivi quella cessazione che chiamiamo “morte”? La morte è la cessazione. Posso sperimentare questa cessazione mentre sono ancora in vita?

La mia mente, che ha edificato un senso di continuità, può cessare ora, invece che all’ultimo respiro? Voglio dire, è davvero impossibile liberare la mente da tutto ciò che la sua memoria ha accumulato?

Siete attaccati a ciò che possedete, a vostra moglie, alle vostre opinioni, al vostro modo di pensare. Ora siete capaci di porre fine a tale attaccamento?

Perché siete attaccati a qualcosa? Perché avete paura che senza questo attaccamento non sareste nulla; quindi voi siete la vostra casa, siete vostra moglie, siete il vostro conto in banca, siete il vostro lavoro. Siete tutte queste cose. Se riuscirete a mettere fine a tale senso di continuità, generato dall’attaccamento, facendolo cessare completamente saprete cos’è la morte.

Possiamo lasciare andare nello stesso modo l’odio, l’invidia, l’orgoglio del possesso, l’attaccamento al credo, alle opinioni, alle idee, a un certo modo di pensare? Possiamo abbandonare tutto ciò all’istante?

Abbandonare credo, opinioni, attaccamenti, avidità o invidia vuol dire morire, morire ogni giorno, in ogni momento. Se giungiamo alla cessazione di ogni ambizione, istante dopo istante, conosceremo quella condizione straordinaria che consiste nel non essere nulla, nel raggiungere, per così dire, l’abisso dell’eterno movimento, e oltrepassare il confine, che è la morte. Voglio sapere tutto della morte, perché la morte potrebbe essere la realtà, potrebbe essere ciò che chiamiamo “dio”, quel qualcosa di assolutamente straordinario che vive e si muove, eppure non ha inizio né fine. Ecco perché voglio conoscere la morte completamente. Perciò devo morire a tutto ciò che già conosco.

Per me la vita non è separata dalla morte perché nella vita c’è la morte. Non c’è separazione tra la morte e la vita.

Mi chiedo se abbiate mai conosciuto veramente l’amore. Penso che in realtà morte e amore vadano di pari passo. Morte, amore e vita sono la stessa identica cosa.

L’amore è senza dubbio una sensazione totale che non è sentimentale, nella quale non c’è alcun senso di separazione. E’ la completa purezza della sensazione senza le caratteristiche divisorie e frammentanti dell’intelletto. L’amore non ha un senso di continuità. Laddove c’è un senso di continuità l’amore è già morto, ha il retaggio dello ieri, con i suoi tristi ricordi, le liti e le brutalità. Per amare bisogna morire.

La mente è libera solo quando è stata abbandonata l’accumulazione della memoria. La creazione è nella cessazione, non nella continuità. E’ l’unica via per giungere a quell’azione totale che è vita, amore e morte. (Madras, 9 dicembre 1959).

Estratto dal libro:
J. Krishnamurti – Sul vivere e sul morire – Ed. Astrolabio
© 1992 Krishnamurti Foundation of America
© 1998 Casa Editrice Astrolabio – Ubaldini Editore, Roma

Krishnamurti: il desiderio

E’ importante capire la natura del desiderio; capire perché il desiderio abbia assunto un ruolo così straordinario nella nostra vita. Dobbiamo vedere come il desiderio ci tolga chiarezza e come impedisca di fiorire a quella qualità straordinaria che appartiene all’amore. È importante capire che cos’è il desiderio invece di sopprimerlo, di controllarlo, di dargli un orientamento particolare che forse potrebbe concedervi un po’ di pace.

(…)

Quando osservate il desiderio, lo state osservando come se foste al di fuori di esso? Oppure lo osservate nel momento in cui sorge, non come se fosse qualcosa di separato da voi? Voi siete desiderio. Capite la differenza? Posso osservare il desiderio sorgere in me quando guardo in una vetrina qualcosa che mi piace e che desidero comprare. L’oggetto che desidero è diverso da me. L’oggetto è diverso. Ma il desiderio sono io stesso.

Così c’è una percezione del desiderio senza che ci sia un osservatore separato dal desiderio. Guardo un albero. “Albero” è la parola mediante la quale riconosco quella cosa laggiù nel campo. E so anche che la parola “albero” non è l’albero. Mia moglie non è una parola. Ma ho fatto diventare la parola mia moglie! Non so se riuscite a cogliere tutte le sottigliezze di questa faccenda.

Fin dall’inizio devo capire con estrema chiarezza che la parola non è la cosa. La parola “desiderio” non è la percezione del desiderio, non è quell’energia straordinaria che sta dietro a questa reazione. Così devo stare molto attento a non farmi intrappolare dalle parole.

E anche il cervello deve stare molto all’erta per accorgersi che un oggetto può creare il desiderio. Ma il desiderio è separato dall’oggetto. Ci rendiamo conto che la parola non è la cosa? E che il desiderio non è separato dall’osservatore che lo sta guardando? Ci rendiamo conto che l’oggetto può creare il desiderio ma che c’è un desiderio indipendente dall’oggetto?

Come fiorisce il desiderio? Perché dietro il desiderio c’è un’energia così straordinariamente potente? Se non capiamo a fondo la natura del desiderio, saremo sempre in conflitto tra noi. Io posso desiderare una cosa, mia moglie ne può desiderare un’altra, e i miei figli ne possono desiderare altre ancora completamente diverse. Così stiamo sempre bisticciando. E questo continuo litigio, questa battaglia, li chiamiamo relazione, li chiamiamo amore.

Chiediamoci: qual è la sorgente del desiderio? Il desiderio, a meno che non se ne capisca la radice, è straordinariamente sottile e ingannevole; quindi dobbiamo essere molto chiari e onesti nella nostra indagine.

Per tutti noi le sensazioni, le risposte dei sensi, sono importanti: il tatto, il gusto, l’olfatto, l’udito, la vista. E per la maggior parte di noi una particolare risposta dei sensi è più importante delle altre. Se abbiamo un temperamento artistico, abbiamo un nostro modo di vedere le cose. Se siamo ingegneri i nostri sensi risponderanno in un modo diverso. Così non osserviamo mai in modo completo, con tutti i nostri sensi.

I nostri sensi reagiscono, ma queste reazioni sono in qualche modo diverse tra loro. Ma è possibile rispondere completamente, con tutti i nostri sensi in azione? Capite l’importanza di questo punto? Nel momento in cui rispondiamo completamente con tutti i nostri sensi, scompare l’osservatore separato. Ma quando reagiamo a qualcosa di particolare, separandolo da tutto il resto, allora ha inizio la divisione.

Scopritelo. Quando uscite da questa tenda, quando guardate il fiume, il rapido scorrere delle sue acque, la luce sull’acqua. Scoprite se potete guardare con la totalità dei vostri sensi. Non chiedetemi come si fa, altrimenti tutto diventerebbe meccanico. Ma se dite a voi stessi: “Guardiamo, scopriamo…”, allora educate voi stessi a capire come reagiscono i vostri sensi.

Quando guardate qualcosa, l’atto di vedere produce una reazione. Vedete una camicia verde, o un vestito verde, l’atto di vedere risveglia la reazione. Così ha luogo il contatto; e da quel contatto il pensiero crea l’immagine di voi che state indossando quella camicia o quel vestito. Oppure vedete una macchina per strada; ha una bella linea, è splendente, si vede che ha un motore potente. Allora le girate intorno, la esaminate e a quel punto il pensiero crea l’immagine di voi che salite su quella macchina, accendete il motore, schiacciate l’acceleratore e partite.

Così comincia il desiderio: il sorgere del desiderio è nel momento in cui il pensiero crea l’immagine. Fino a quel momento non c’è desiderio. C’è la risposta dei sensi, che è del tutto normale: ma quando il pensiero crea l’immagine, da quell’istante comincia il desiderio.

Ora, è possibile che il pensiero non crei alcuna immagine? Questo significa imparare come funziona il desiderio, e questo imparare è disciplina in se stesso. Capire come funziona il desiderio è disciplina, e non l’imporsi di controllare il desiderio. Imparare come funziona il desiderio, o imparare a proposito di qualunque altra cosa, è tutto quello che serve.

Ma se dite: “Devo controllare il desiderio”, allora entrate in un campo completamente diverso. Quando vedrete tutto questo movimento nel suo insieme, capirete che il pensiero non interverrà con le sue immagini. Allora vedrete, avrete sensazioni e basta.

Che c’è che non va in questo? Vedete, noi siamo tutti così presi dal desiderio! Vogliamo realizzarci dando soddisfazione ai nostri desideri. Ma non vediamo quale spaventosa rovina il desiderio ha provocato nel mondo: il desiderio di una sicurezza individuale, il desiderio di un successo, di un potere, di un prestigio individuale.

Non ci rendiamo conto che siamo completamente responsabili di qualsiasi cosa facciamo. Dove va a collocarsi il desiderio, quando ne comprendiamo la natura? Ha un posto dove c’è amore? E l’amore è qualcosa di così completamente estraneo all’umana esistenza, da non avere in realtà per noi alcun valore?

O è perché non vediamo la bellezza, la profondità, la grandezza, la santità di quello che sta dietro questa parola, che ci manca l’energia, il tempo, la passione per studiare, per educare noi stessi a capire di cosa si tratta?

Se ci mancano l’amore, la compassione e la loro intelligenza, allora la meditazione avrà ben poco significato. Senza quel profumo, quello che è eterno non potrà mai essere trovato.

Per questo è tanto importante mettere completamente in ordine la nostra casa, non solo la casa in cui abitiamo, ma la casa della nostra vita, del nostro essere, delle nostre lotte.

Estratto da:
J. Krishnamurti – La rete del pensiero – Ed. Aequilibrium
© 1982 Krishnamurti Foundation Trust LTD
© 1987 Aequilibrium – Ing. G. Turchi, Milano

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