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Autore: Hiram

Il Koan

Nella tradizione Zen c’ è la pratica del Koan. Il koan dovrebbe essere qualcosa in cui sei profondamente interessato, la tua più profonda “preoccupazione”. Vuoi davvero comprendere, vuoi trasformare. È come quando sei colpito da una freccia, e porti la freccia con te nella tua carne, in piedi o seduto, sveglio o addormentato, la freccia è con te. Il Koan dovrebbe essere una cosa così. La tua vita quotidiana è completamente focalizzata su di essa. Qualcosa che richiama tutta la tua energia, il tuo interesse, la tua consapevolezza, e l’abbracci giorno e notte, guardando in profondità, e un giorno arriva la visione, e allora vedi e ti liberi.

Perciò il koan è qualcosa che dovrebbe riuscire a richiamare tutta la tua concentrazione, tutta l’ energia, altrimenti non può esserci una trasformazione. Per esempio, la sofferenza nel medio Oriente è un koan per l’intera umanità, non soltanto per gli Israeliani e i Palestinesi. Ma noi esseri umani siamo così indaffarati, non siamo un sangha, non abbiamo abbastanza consapevolezza, concentrazione, non riusciamo a vedere il koan.

Diamo un po’ di attenzione, poi la distogliamo, ci interessiamo di altre cose. Perciò non è ancora un koan per la famiglia umana. Quando il maestro comprende le difficoltà e la sofferenza del discepolo, offrirà un koan, come: “dimmi, qual è il suono fatto da una sola mano?”. Di solito abbiamo bisogno di due mani per produrre un suono. “Qual è il suono prodotto da una sola mano?”. Questo è un espediente abile, per aiutare il discepolo a scoprire, comprendere la propria situazione, e il discepolo non può adoperare soltanto l’intelletto per arrivare alla comprensione.

L’intelletto è soltanto una parte, più in profondità c’è l’inconscio, il subconscio, c’è il corpo, tutte le tue formazioni mentali, la coscienza deposito. Per questo motivo, il koan che viene offerto dal maestro non dovrebbe essere esaminato soltanto dall’intelletto, dovrebbe essere deposto nella profondità del tuo essere, e durante la vita quotidiana lo porti con te giorno e notte, mangiando, camminando, facendo qualsiasi cosa, lo abbracci, a tempo pieno, che si tratti della tua sofferenza, o di una situazione critica. Questo è il koan.

Dovresti riuscire a mobilitare tutta la tua forza, tutta la tua energia, tutta la tua consapevolezza e concentrazione, allo scopo di abbracciare in profondità quella difficoltà, quella situazione, e giorno e notte, in ogni momento fai soltanto questo, lo abbracci teneramente, e un giorno, con il sostegno del sangha, ci sarà la rivelazione.

La visione può venire da te, può venire dal sangha, oppure la tua visione è stata aiutata dal sangha, può essere l’espressione della visione collettiva del sangha, perché vivi con il sangha e il sangha lavora con te e ti sostiene nel tentativo di comprendere la situazione.

Quando la pratica raggiunge il livello del sangha, diventa molto potente, se l’intero sangha abbraccia il tuo dolore, giorno e notte, e guarda in profondità nel tuo dolore con l’energia della consapevolezza e della concentrazione. Allora ci sarà un rapido sollievo e ci sarà la comprensione che ti aiuterà a superare la sofferenza, a vedere il sentiero e a trasformarti, liberarti.

È così che funziona, per te e per il sangha.

 

Parte del discorso di dharma dell’ 8 giugno 2002 durante il ritiro dei 21 giorni: “le mani del Buddha”

Costruire il Sangha di Thich Nhat Hanh

Ogni volta che vedo una persona senza radici, mi appare come uno spirito affamato. Nella mitologia buddhista, il termine ‘spirito affamato’ è usato per descrivere un’anima vagabonda che soffre tremendamente per la fame e la sete, ma la cui gola è troppo stretta perché cibo e bevande possano passarci. In occasione della luna piena del settimo mese lunare, in Vietnam, siamo soliti offrire cibo e bevande agli spiriti affamati. Sappiamo che è molto difficile che possano ricevere le nostre offerte, e quindi cantiamo il Mantra per Espandere la Gola degli Spiriti Affamati. Ci sono tantissimi spiriti affamati, e le nostre case sono piccole, perciò disponiamo tutte le offerte nel cortile.

Gli spiriti affamati desiderano ardentemente di essere amati, eppure è possibile che non riescano a ricevere il nostro amore e le nostre premure, nonostante tutti i nostri sforzi. È probabile che si rendano conto che la vita è magnifica, ma non sono in grado di toccare questa bellezza. Sembra che ci sia qualcosa che impedisca loro di toccare gli elementi benefici e salutari della vita. Non riescono a fare altro che dimenticare la vita, e si dedicano all’alcol, alle droghe o al sesso per riuscirci meglio. Se diciamo: “Non fate così”, non reagiscono. Ne hanno abbastanza delle ammonizioni. Hanno bisogno di qualcosa in cui credere, qualcosa che possa dimostrare che la vita ha un senso. Tutti noi ne abbiamo bisogno. Per aiutare uno spirito affamato, dobbiamo ascoltarlo in consapevolezza, creare un’atmosfera famigliare e fraterna, e quindi permettergli di sperimentare qualcosa di buono, bello e vero, in cui possa credere.

Un pomeriggio al Plum Village ho visto una donna che sembrava proprio uno spirito affamato. Il Plum Village era stupendo in quella stagione: i fiori sbocciavano e tutti sorridevano, ma quella donna non poteva entrare in contatto con niente. Potevo percepire il suo dolore, la sua sofferenza. Camminava per conto suo, e sembrava morire di solitudine a ogni passo. Era venuta al Plum Village per stare con gli altri, ma da quando era arrivata non era riuscita ad aggregarsi a nessuno.

La nostra società produce milioni di spiriti affamati, persone di ogni età che sono completamente prive di radici: ho visto degli spiriti affamati che non avevano nemmeno dieci anni. Non si sono mai sentiti felici a casa propria, e non hanno niente in cui credere o a cui appartenere. Questa è la peggiore malattia della nostra epoca. Come puoi sopravvivere se non hai niente in cui credere? Come puoi trovare l’energia per sorridere o toccare un bel tiglio o il cielo splendido? Sei perduto, e vivi senza alcun senso di responsabilità. L’alcol e le droghe completano la distruzione del tuo corpo.

Il governo crede che per risolvere il problema della droga si debba impedire che queste sostanze vengano contrabbandate nel paese, e arrestare chi le vende o ne fa uso. Però la disponibilità delle sostanze stupefacenti è solo una causa secondaria del problema. La causa principale è la mancanza di un senso, un significato, nella vita di un gran numero di persone: la mancanza di qualcosa in cui credere. Se siete dediti alle droghe o all’alcol, è perché non siete felici, non accettate voi stessi, la vostra famiglia, la vostra società e tradizione, e volete fare a meno di tutto ciò.

Dobbiamo trovare il modo di ricostruire le fondamenta delle nostre comunità e offrire agli altri qualcosa in cui credere. Quanto vi è stato offerto in passato forse era troppo astratto, e magari vi è stato imposto con violenza. Forse eravate certi che la scienza avrebbe portato il benessere e il marxismo avrebbe prodotto giustizia sociale, e le vostre ideologie sono andate in frantumi. Era troppo piccolo persino il Dio a cui vi rivolgevate nelle vostre preghiere, lo stesso Dio invocato dal presidente Bush per aiutare gli Stati Uniti a sconfiggere l’Iraq. Molti tra quanti rappresentavano la vostra tradizione non l’avevano approfondita a sufficienza per sperimentarne gli aspetti più profondi: non potevano fare altro che parlare in suo nome e spingervi a credere, e vi siete sentiti soffocare.

La consapevolezza è qualcosa in cui si può credere. È la nostra capacità di essere attenti a ciò che sta accadendo nel momento presente. Credere nella consapevolezza è sicuro, e nient’affatto astratto. Quando beviamo un bicchier d’acqua sapendo che stiamo bevendo un bicchier d’acqua, ecco la presenza della consapevolezza. Quando sediamo, camminiamo, stiamo in piedi o respiriamo e siamo consapevoli di quello che stiamo facendo, tocchiamo i semi della consapevolezza in noi e, dopo qualche giorno, la consapevolezza sarà già diventata molto forte. La consapevolezza è quella luce interiore che ci rivela il sentiero. È il Buddha vivente in ognuno di noi. La consapevolezza dà origine alla comprensione, al risveglio, alla compassione e all’amore.

Non solo i buddhisti, ma anche i cristiani, gli ebrei, i musulmani e i marxisti possono accettare che in ognuno di noi ci sia la capacità di essere consapevoli, che in ogni essere sia presente il seme della consapevolezza. Se sappiamo come innaffiare questo seme, tornerà a vivere e crescerà e ci consentirà di godere di tutte le meraviglie della vita. So di molte famiglie che stavano per spaccarsi e nelle quali la pratica della consapevolezza ha permesso di recuperare l’armonia. Per questo, se mi chiedeste in che cosa io creda, risponderei che credo nella consapevolezza. La fede è il primo dei cinque poteri insegnati dal Buddha. Il secondo è l’energia, il terzo la consapevolezza, il quarto la concentrazione e il quinto la comprensione. Se non avete fiducia, se non credete in niente, siete privi di energia. Per questo la fede produce energia. Un buon amico è qualcuno in grado di ispirare fiducia.

Toccando il terreno, possiamo percepire la stabilità della Terra. Possiamo anche sentire la stabilità della luce del sole, dell’aria, degli alberi: possiamo essere certi che il sole domattina sorgerà e che gli alberi saranno qui, per noi. Dobbiamo riporre la nostra fiducia in qualcosa di stabile. Se intendiamo costruire una casa, cerchiamo un terreno solido su cui edificarla. Pronunciando la frase: “Prendo rifugio nel Sangha”, intendiamo che riponiamo la nostra fiducia in una comunità di amici praticanti che possiedono la qualità della solidità. Un insegnante può essere importante e così l’insegnamento, ma gli amici sono l’elemento più importante della pratica. Senza un Sangha praticare diventa difficile, quasi impossibile.

Guardando in profondità per poter scoprire il nostro vero sé, ci rendiamo conto che ciò che chiamiamo ‘io’ è costituito interamente di elementi di non-io. Il nostro corpo e la nostra mente hanno le loro radici nella società, nella natura e in coloro che amiamo. Tra noi c’è qualcuno che forse non ama parlare o pensare riguardo alle proprie radici, perché ha sofferto molto a causa della violenza presente nella famiglia e nella società. Vorrebbe lasciarsi tutto ciò alle spalle e cercare qualcosa di nuovo. È facile comprendere perché si senta così, ma, praticando il guardare in profondità, può rendersi conto che gli antenati e le tradizioni sono ancora presenti. Possiamo provare rabbia nei loro confronti, ma le radici sono sempre là, e ci chiedono di tornare indietro e di condividere le loro gioie e i loro dolori. Non abbiamo scelta: dobbiamo entrare in contatto con le radici presenti in noi stessi. Nell’istante stesso in cui le ritroviamo, avviene in noi una trasformazione, e i nostri dolori cominciano a sciogliersi e scomparire. Ci rendiamo conto di essere un elemento di continuazione dei nostri antenati e anche il sentiero per le future generazioni.

Non è possibile gettare via qualcosa e correre appresso a qualcos’altro. Che la nostra tradizione sia cristiana, giudaica, islamica o altro ancora, siamo comunque tenuti a studiare la cultura degli antenati e a trarne il meglio per noi stessi e per i nostri bambini. Dobbiamo vivere in modo tale da permettere agli antenati presenti in noi di essere liberati. Nel momento in cui riusciamo a offrire gioia, pace, libertà e armonia ai nostri antenati, offriamo contemporaneamente gioia, pace, libertà e armonia a noi stessi, ai nostri figli e alle future generazioni.

Molte persone hanno subito ferite e violenze dai loro genitori, e molti di più sono coloro che sono stati duramente criticati e persino ripudiati. Ora nella coscienza deposito di queste persone c’è un numero tale di semi di infelicità che non vogliono nemmeno sentir nominare il nome del padre o della madre. Quando incontro un essere umano in queste condizioni, gli offro sempre la meditazione del bambino di cinque anni, che è un massaggio di consapevolezza. “Inspirando, io mi vedo come un bambino di cinque anni. Espirando, sorrido al bambino di cinque anni che è in me”. Durante questa meditazione, cercate di vedervi come un bambino di cinque anni. Se guardate in profondità in quel bambino, scoprite che siete vulnerabili e che potete essere feriti molto facilmente. Un’occhiata severa o un urlo possono creare delle formazioni psichiche nella vostra coscienza deposito. Se i genitori litigano e sbraitano uno contro l’altro, il vostro bambino di cinque anni riceve un bel po’ di semi di sofferenza. Molti giovani mi hanno detto: “Il miglior regalo che i miei genitori possono farmi è la loro stessa felicità”. Vivendo nell’infelicità, vostro padre vi ha causato molta sofferenza. Ora vi state visualizzando come un bambino di cinque anni. Quando sorridete a quel bambino, sorridete con compassione: “Ero così giovane e fragile, e ho ricevuto molto dolore”.

Per il giorno dopo consiglierei quest’altra pratica: “Inspirando, vedo mio padre come un bambino di cinque anni. Espirando, sorrido a quel bambino con compassione”. Non siamo abituati a vedere nostro padre come un bambino di cinque anni. Pensiamo che sia sempre stato un adulto, austero e autoritario. Non ci siamo presi la briga di vederlo come un giovane fragile che poteva anche lui essere facilmente ferito dagli altri. Quindi la pratica consiste nel visualizzare vostro padre come un bambino di cinque anni che può essere facilmente ferito, fragile e vulnerabile. Potete cercare nell’album di famiglia una foto di vostro padre da piccolo e studiarla, se ciò può esservi d’aiuto. Quando sarete in grado di vederlo come un essere vulnerabile, comprenderete che può essere stato vittima di suo padre. Se ha ricevuto troppi semi di sofferenza dal proprio padre, è ovvio che non abbia saputo quale fosse il modo migliore di comportarsi col proprio figlio. Quindi a sua volta vi ha fatto soffrire, e il ciclo del samsara continua. Se non praticate la consapevolezza siete pronti a ripetere gli stessi errori con i vostri figli. Nel momento in cui vedete vostro padre come una vittima, nel vostro cuore nasce la compassione. Sorridendogli con compassione, iniziate ad abbracciare il vostro dolore con consapevolezza e comprensione. Praticate in questo modo per più ore, o giorni, e la rabbia nei suoi confronti si dissolverà. Un giorno, gli sorriderete di persona e lo abbraccerete, dicendogli: “Ti capisco, papà. Hai sofferto molto durante la tua infanzia”.

Attraverso la meditazione, riscopriamo il valore delle nostre famiglie e delle nostre radici, compresi quei tesori che sono stati sepolti da anni di sofferenza. Ogni tradizione possiede delle gemme, il frutto di migliaia di anni di pratica. Ora ci sono state trasmesse, e non possiamo ignorarle o negarle. Anche il cibo di cui ci nutriamo ha in sé i nostri antenati e i nostri valori culturali. Come possiamo affermare che non abbiamo niente a che vedere con la nostra cultura? Possiamo invece trovare delle forme per onorare la nostra tradizione, così come tutte le altre. La meditazione ci insegna a rimuovere le barriere, i limiti e le discriminazioni che ci impediscono di vedere gli elementi di non-sé contenuti nel sé. Con la pratica, riusciamo a superare il pericolo della disgregazione e quindi a creare un mondo di pace per i nostri figli. Le divisioni tra i popoli, le nazioni e le religioni hanno contribuito molto alla nostra sofferenza durante i secoli. Siamo tenuti a praticare in modo da sciogliere le tensioni in noi e tra i popoli, così che si produca quell’apertura necessaria per potere godere della presenza reciproca come fratelli e sorelle. Quale che sia la vostra tradizione di pratica, se arrivate a comprendere la natura dell’inter-essere, questa è vera meditazione.

Qualcuno, qualche spirito affamato, è così sradicato che non è più possibile chiedergli di ritornare alle proprie radici, almeno non subito. Dobbiamo aiutarlo offrendogli un’alternativa, una seconda possibilità. Le persone di questo tipo vivono ai margini della società e, come alberi senza radici, non possono assorbire il nutrimento. Ho incontrato dei praticanti che meditano da vent’anni, eppure non sono ancora capaci di trasformarsi perché sono così sradicati. La nostra pratica consiste nell’aiutarli a produrre qualche radice, a creare un ambiente in cui ciò possa accadere.

In Asia ci siamo sforzati di modellare le comunità di pratica sulla base delle famiglie. Tra di noi ci chiamiamo fratelli e sorelle nel Dharma, zii e zie nel Dharma, inoltre chiamiamo il nostro maestro padre o madre nel Dharma. I bambini del Plum Village mi chiamano ‘Nonno Maestro’. Mi comporto con loro come un nonno, non come qualcuno estraneo alla famiglia. In un centro di pratica dovrebbe esserci questo tipo di calore, questa specie di atmosfera famigliare che potrà continuare a nutrirci. Nel contesto di una famiglia spirituale abbiamo una reale opportunità, una seconda possibilità di radicarci. I membri del Sangha sanno che siamo in cerca di amore e ci trattano nel modo migliore per aiutarci a stabilirci in questa seconda famiglia. Fanno del loro meglio per prendersi cura di noi, comportandosi come se fossero nostra sorella o nostro fratello. Dopo tre, forse sei mesi, nel momento in cui può essere percepita e riconosciuta una vera amicizia tra noi e un altro membro del Sangha, nasce un sorriso sulle nostre labbra: tutti sanno allora che stiamo cominciando a fare dei progressi e che la trasformazione ora è possibile. Stiamo iniziando a produrre nuove radici.

Le relazioni interpersonali sono una chiave per il successo nella pratica. La trasformazione è improbabile senza una relazione intima e profonda con almeno una persona. Dall’aiuto di una persona ricevete stabilità e sostegno, e in seguito potrete stabilire una relazione con una terza persona, fino a diventare fratello o sorella di ogni membro del Sangha. Dimostrate la vostra volontà e capacità di vivere in pace e armonia con tutto il Sangha.

È un mio desiderio profondo che le comunità di pratica in Occidente siano organizzate in questo modo, costruite come famiglie in un’atmosfera amichevole e calda, tale da permettere alle persone il successo nella pratica. Un Sangha in cui ogni persona è un’isola, priva di comunicazioni con gli altri, non è di nessun aiuto. Non è che una serie di alberi senza radici. In quest’atmosfera non è possibile produrre la trasformazione e la guarigione. Dobbiamo essere radicati se vogliamo avere la possibilità di imparare a praticare la meditazione.

La famiglia nucleare è un’invenzione piuttosto recente. Oltre al padre e alla madre ci sono solo uno o due bambini. Talvolta, in una famiglia così piccola, non c’è abbastanza aria per respirare. Quando ci sono dei problemi tra il padre e la madre, tutta la famiglia ne subisce le conseguenze. L’atmosfera in casa diventa pesante e non ci sono vie di scampo. Qualche volta il figlio può chiudersi in bagno per starsene in pace, ma questa non è una soluzione: l’atmosfera pesante permea anche il bagno. In questo modo il bambino cresce accumulando molti semi di sofferenza che poi trasmetterà ai suoi figli.

Una volta zii e zie, nonni e cugini vivevano tutti insieme. Le case erano circondate da alberi ai quali si potevano appendere le amache, c’era lo spazio per organizzare qualche picnic, e le persone non avevano tutti quei problemi di cui soffrono oggi. Quando sorgeva qualche problema tra i genitori, i bambini potevano sempre sfuggire alla situazione rifugiandosi da una zia o uno zio. C’era sempre qualcuno in grado di occuparsi di loro e l’ambiente non era mai così minaccioso. Credo che una comunità che pratica un vivere consapevole possa sostituire le grandi famiglie di una volta, perché quando ci trasferiamo in queste comunità vediamo molti zii, zie e cugini disposti ad aiutarci.

È davvero meraviglioso avere una comunità dove le persone si riuniscono come fratelli e sorelle nel Dharma e dove i bambini hanno molti zii e zie. Dobbiamo imparare a creare questa specie di famiglia. Dobbiamo considerare nostri fratelli e sorelle tutti i membri della comunità. Questo fa già parte della tradizione orientale, e può essere appreso dagli occidentali. Possiamo prendere il meglio dalle due culture.

Qui in Occidente ci sono molti genitori single. Anche un genitore single può trarre beneficio da una comunità di pratica. Potrebbe forse pensare che per avere più stabilità sia necessario risposarsi, ma io non sono d’accordo. Può darsi che abbiate più stabilità ora, per conto vostro, che non quando stavate con il vostro partner. L’irrompere di un’altra persona nella vostra vita potrebbe distruggere il vostro equilibrio attuale. È estremamente importante che vi rifugiate in voi stessi e che riconosciate la stabilità che già possedete. Così facendo, acquisite maggiore stabilità, e vi trasformate in un rifugio per vostro figlio e per i vostri amici. Quindi, per prima cosa rendetevi stabili e abbandonate l’idea di non poter essere voi stessi se non state con qualcuno. Bastate a voi stessi. Trasformandovi in un eremitaggio confortevole, con aria, luce e ordine, cominciate a sperimentare pace, gioia e felicità; diventate inoltre qualcuno su cui gli altri possono fare affidamento. Vostro figlio e i vostri amici possono contare su di voi.

Quindi, per prima cosa, tornate al vostro eremitaggio e mettetelo tutto in ordine all’interno. Potete trarre beneficio dalla luce del sole, dagli alberi e dalla Terra. Aprite le finestre in modo che questi elementi salutari e stabili possano entrare, e fondetevi col vostro ambiente. Quando elementi di instabilità provano a entrare nel vostro eremitaggio, chiudete le finestre e non lasciate che si intrufolino. Se tuoni, venti impetuosi o un gran calore vogliono disturbarvi, sbarrategli l’accesso. Essere un rifugio per se stessi è una pratica fondamentale. Non fate affidamento su persone che non conoscete abbastanza, su chi potrebbe essere instabile. Tornate a voi stessi e rifugiatevi nel vostro stesso eremitaggio.

Se sei una madre che sta allevando il proprio figlio da sola, devi imparare come farlo. Devi saper essere anche un padre, altrimenti continuerai ad aver bisogno di qualcuno che ricopra questo ruolo per tuo figlio, e perderai la tua sovranità, il tuo eremitaggio. È un buon segno se puoi dire: “Posso imparare a essere sia il padre sia la madre di mio figlio. Posso riuscirci da sola, con il sostegno degli amici e della comunità”.

L’amore del padre è diverso da quello della madre. L’amore di una madre in un certo senso è incondizionato. Siete il figlio di vostra madre, e lei vi ama per questo. Non c’è nessun’altra ragione. Una madre si sforza di usare il proprio corpo e la propria mente per proteggere quella parte delicata e vulnerabile di se stessa. Tende a considerare il proprio figlio un’estensione di se stessa, uguale a se stessa. Ciò è positivo, ma può creare problemi nel futuro. Gradualmente, una madre deve imparare che suo figlio o sua figlia sono individui separati.

L’amore di un padre è un po’ diverso. Il padre sembra dire: “Se fai così, riceverai il mio amore. Se non lo fai, non lo avrai”. È una specie di accordo. È qualcosa che ho dentro anch’io. Sono capace di disciplinare i miei studenti, e sono anche capace di amarli come una madre. So che per una madre non è facile essere un padre, ma se avete un buon Sangha e buone relazioni con i membri del Sangha, questi saranno uno zio o una zia per vostro figlio. Un solo genitore può essere sufficiente nell’ambito di una comunità di pratica. Può essere in grado di svolgere entrambi i ruoli del padre e della madre, e può inoltre beneficiare dell’aiuto di qualcuno degli altri adulti.

I genitori single sono molto comuni in Occidente. Abbiamo bisogno di ritiri e seminari per stabilire i migliori metodi per educare i nostri bambini. Non accettiamo il modo tradizionale di essere genitori, ma allo stesso tempo non è ancora stato pienamente elaborato un nuovo modello. Dobbiamo attingere alle nostre esperienze e alla pratica, per poter delineare un’altra dimensione della vita del nucleo famigliare. Può essere davvero positivo mescolare la vita del nucleo famigliare alla vita della comunità di pratica, e cioè del Sangha. Potete portare spesso vostro figlio al centro di pratica, e beneficiare entrambi di quell’atmosfera positiva. Anche il centro di pratica trarrà vantaggio dalla vostra presenza. I bambini sono gioielli che ci aiutano a praticare. Se i bambini sono felici, tutti i genitori e i non genitori gioiranno nella pratica.

Trovarsi in un Sangha nel quale le persone praticano bene insieme è meraviglioso. Il modo nel quale ogni individuo cammina, mangia e sorride può essere veramente un sostegno per gli altri. Lei sta camminando per me, io sto sorridendo per lei, e lo facciamo insieme, come Sangha. Praticando insieme così, possiamo aspettarci una reale trasformazione interiore. Non c’è bisogno di praticare intensivamente o di sforzarci. Semplicemente, ci concediamo di stare in un buon Sangha, una comunità nella quale le persone sono felici e vivono profondamente ogni istante; così facendo la trasformazione si compirà naturalmente, senza troppa fatica.

Credo che l’arte più importante che possiamo apprendere sia quella del costruire il Sangha. Possiamo essere meditatori abili, esperti nei sutra, ma se non sappiamo come costruire un Sangha non siamo in grado di aiutare gli altri. Dobbiamo costruire un Sangha che sia felice, nel quale la comunicazione sia aperta. Dobbiamo prenderci cura di ogni persona, prestare attenzione al suo dolore, alle sue difficoltà, alle sue aspirazioni, alle sue paure e speranze, in modo da permetterle di sentirsi a proprio agio e felice. Per fare questo ci vuole tempo, energia e concentrazione.

Tutti noi abbiamo bisogno di un Sangha. Se non possiamo fruire della presenza di un buon Sangha, dovremmo impiegare il nostro tempo e la nostra energia per crearne uno. Che tu sia uno psicoterapeuta, un medico, un assistente sociale, un pacifista o un ambientalista, hai bisogno di un Sangha. Senza un Sangha non potrai trovare l’aiuto di cui hai bisogno, e molto presto le tue energie saranno esaurite. Uno psicoterapeuta può scegliere tra i suoi pazienti che hanno superato le loro difficoltà, e che riconoscono in lui un amico, un fratello o una sorella con il quale formare un gruppo di persone che possa praticare insieme come un Sangha, che possa stare insieme in pace e gioia, creando un’atmosfera famigliare. Avete bisogno di fratelli e sorelle nella pratica per poter ricevere nutrimento e sostegno. Un Sangha può aiutarvi nei momenti difficili. La vostra capacità di aiutare gli altri può essere misurata osservando chi vi sta intorno.

Ho incontrato alcuni psicoterapeuti che non sono felici nelle loro famiglie, e dubito seriamente che questi terapeuti possano esserci d’aiuto in caso di bisogno. Ho proposto che formino un Sangha. Tra i membri del Sangha ci sono persone che hanno tratto profitto dalla terapia, che sono guarite e sono diventate amiche del terapeuta. Sangha è incontrarsi e praticare insieme: respirare, vivere in consapevolezza, in pace, gioia e gentilezza amorevole. Questa potrebbe essere una sorgente di energia e di conforto per il terapeuta. Ognuno di noi deve imparare l’arte del costruire il Sangha, non solo i meditatori e i terapeuti. Non credo che possiate fare molta strada senza un Sangha. Io ricevo nutrimento dal mio Sangha. Ogni conquista del mio Sangha mi sostiene e mi da più forza.

Per costruire il Sangha, iniziate col trovare un amico che sia disposto a unirsi a voi nella meditazione seduta o camminata, nel recitare i precetti, nel praticare la meditazione del tè oppure nel discutere un argomento di dharma. Alla fine altri chiederanno di aggregarsi, e il vostro piccolo gruppo potrà incontrarsi una volta alla settimana o al mese in casa di qualcuno. Alcuni Sangha finiscono per trovare un terreno e trasferirsi in campagna per avviare un centro di ritiri. Naturalmente il vostro Sangha comprende anche gli alberi, gli uccelli, il cuscino di meditazione, la campana e persino l’aria che respirate: tutte cose che vi sostengono nella pratica. Trovarsi con persone che praticano profondamente insieme è un’opportunità rara. Il Sangha è un gioiello.

Si parte dall’idea di organizzare le cose nel miglior modo possibile per tutti. Non troverete mai un Sangha perfetto. È sufficiente un Sangha imperfetto. Invece di lamentarvi troppo del vostro Sangha, fate del vostro meglio per trasformarvi in un buon elemento del Sangha. Accettate il Sangha e costruite su queste fondamenta. Quando praticate insieme alla vostra famiglia cercando di vivere in consapevolezza, siete già un Sangha. Se vicino a casa c’è un parco nel quale potete portare i bambini per la meditazione camminata, quel parco fa parte del Sangha.

Un Sangha è anche una comunità che pratica la resistenza: resistenza alla fretta, alla violenza e ai modi malsani di vita che prevalgono nella nostra società. La consapevolezza è protezione di noi stessi e degli altri. Un buon Sangha può guidarci nella direzione dell’armonia e della consapevolezza.

L’essenza della pratica è di estrema importanza. La forma può essere adattata. Durante un ritiro al Plum Village, un sacerdote cattolico mi ha chiesto: “Thay, comprendo il valore della pratica della consapevolezza. Ho assaporato la gioia, la pace e la felicità che scaturiscono dalla pratica. Mi piacciono le campane, la meditazione del tè, il pranzo in silenzio e la camminata. La mia domanda è: come posso continuare a praticare una volta tornato alla mia chiesa?”.
Gli ho risposto: “C’è una campana nella tua chiesa?”.
Ha detto: “Sì”.
“Suoni quella campana?”.
“Sì”.
“Allora suona la campana nello stesso modo nel quale la suoniamo qui. Fate un pranzo in comune nella tua parrocchia? Prendete il tè con i biscotti?”.
“Sì”.
“Allora, fatelo come lo facciamo qui, in consapevolezza. Non c’è nessun problema”.

Tornando alla vostra tradizione, tornando al vostro Sangha, oppure anche iniziando con un nuovo Sangha, potete godervi qualsiasi cosa stiate facendo in consapevolezza. Non è necessario che rinneghiate la vostra tradizione o la vostra famiglia. Mantenete ogni cosa e introducetevi la consapevolezza, la pace e la gioia. I vostri amici capiranno il valore della pratica grazie a voi, non attraverso le vostre parole, ma attraverso il vostro essere.

 

Tratto da: Thich Nhat Hanh, Toccare la pace, Ed. Ubaldini

Vivere Consapevoli. Imparare a vivere nel momento presente

La consapevolezza è il tipo di energia che ci aiuta a riconoscere e ad apprezzare le cose che ci circondano. Molto spesso nelle nostre vite siamocosì assorti nelle nostre preoccupazioni e nelle nostre difficoltà, che non ci accorgiamo nemmeno che la primavera sta arrivando e che gli alberi fioriscono sulla strada che percorriamo ogni giorno. La consapevolezza è la pratica della meditazione nella nostra vita quotidiana. Quando ci accorgiamo che la nostra mente divaga e che abbiamo perso il contatto con il nostro corpo e con il momento presente possiamo semplicemente arrestarci per qualche istante e fare tre respirazioni con calma e agio. Fermarsi è il primo passo per tornare ad essere felici. Mentre respiriamo in consapevolezza possiamo guardarci attorno e se pratichiamo correttamente scopriremo che nel momento presente ci sono tutte le condizioni necessarie perché noi possiamo essere felici. Forse i nostri colleghi, insegnanti , genitori o amici sono stati sgarbati con noi e ci hanno fatto soffrire, o forse la nostra vita troppo occupata non ci lascia lo spazio per fermarci, ma i fiori e gli alberi sulla strada che percorriamo ogni giorno continuano ad offrirci la loro freschezza. L’unica cosa che può privarci della gioia di poter apprezzare gli alberi e i  fiori è la nostra mente. Tre respiri sono sufficienti per ritornare a noi stessi e riconoscere che sia dentro che fuori di noi ci sono innumerevoli condizioni per poter essere felici. Il sole continua a brillare sopra le nostre teste! Se il sole non fosse più in cielo ogni persona sulla terra soffrirebbe molto, eppure non ci capita spesso di fermarci qualche istante per apprezzare il calore dei suoi raggi che ci accarezzano il viso.

Se abbiamo il desiderio di migliorare la nostra vita e di vivere felici possiamo riprometterci , ad esempio, di fermarci a respirare per qualche istante ogni volta che stiamo per salire in macchina. Questo è il primo passo e de siamo in grado di fare questo il secondo passo accadrà in modo naturale. Possiamo scrivere su un piccolo foglietto di carta la parola “Respira!” e possiamo mettere questo foglietto nella tasca della nostra giacca. Durante la nostra giornata, ogni volta che metteremo la mano in tasca, ci ricorderemo di ritornare a noi stessi e tranquillamente possiamo riprendere a seguire il respiro. Se siamo in grado di adestrarci in questo modo piano piano potremo vedere dei cambiamenti nella nostra vita quotidiana. Quando l’energia della consapevolezza ci accompagna diventiamo più stabili, rilassati, e non rischiamo di lasciarci trasportare da emozioni negative come la rabbia, la frustrazione o lo stress. In momenti difficili riusciremo a ritornare a noi stessi e ad apprezzare le meraviglie della vita che ci circondano, e piano piano riusciremo a vedere il modo migliore per superare ogni ostacolo. Man mano che l’energia della consapevolezza entra a far parte delle nostre vite diventiamo più felici e più sereni e le persone che ci vivono accanto trarranno grandi benefici dalla nostra freschezza.

La cosapevolezza è la pratica concreta della meditazione e ci aiuta ad avere una visione più chiara su noi stessi e sulle cose o le persone che ci circondano. All’inizio può sembrarci difficile ricordarci di ritornare al momento presente ma se sperimentiamo diversi metodi e se siamo perseveranti piano piano impareremo a vivere ogni istante della nostra vita quotidiana nel momento presente. Possiamo trovare qui sotto una lista di semplici metodi che possiamo utilizzare nella nostra vita quotidiana per ritornare a noi stessi. Anche se possono sembrare troppo semplici questi piccoli accorgimenti sono ciò che farà la differenza nel rendere la nostra vita e la nostra pratica più felice e distesa.

La campana – Possiamo installare sul nostro computer un programma che ci faccia ascoltare un suono di campana ogni 15 o 30 minuti. Mentre ascoltiamo la campana possiamo smettere di lavorare e ritornare al nostro respiro e alla consapevolezza del nostro corpo… Leggi di Più

Un sassolino di consapevolezza – Possiamo mettere un sassolino (o un foglietto di carta) nella nostra tasca ed impegnarci a ritornare al respiro consapevole ogni volta che toccheremo o ci ricorderemo questo sassolino.

Un pasto in presenza mentale – Possiamo organizzarci in modo da avere il tempo di mangiare il nostro pranzo o la nostra cena con calma. Prima di iniziare a mangiare possiamo fermarci qualche istante per contemplare il nostro cibo.

Meditazione del semaforo – Ogni volta che ci troviamo im macchina e dobbiamo fermarci a causa di un semaforo rosso, possiamo cogliere l’occasione di repirare in consapevolezza e di sorridere. Possiamo incollare un piccolo adesivo sul parabrezza della nostra macchina in modo da non dimenticarci.

Rispondere al telefono – Ogni volta che il nostro telefono squilla possiamo lasciarlo suonare per tre volte in modo da poter ritornare a noi stessi e ritrovare la nostra freschezza. Dobbiamo essere consapevoli che la persona che ci sta chiamando potrebbe soffrire molto e fermandoci per respirare tre volte possiamo creare lo spazio dentro di noi per potr abbracciare la sua sofferenza.

Cullare la rabbia – Ogni volta che qualcuno si arrabbia con noi, o ogni volta che sentiamo l’energia della rabbia crescere dentro di noi, dobbiamo essere accorti e trovare al più presto un posto isolato dove poter respirare per uno o due minuti. Respirando con l’addome ritroveremo presto la nostra stabilità e potremo trovare anche la forza di non reagire e di non lasciarci contagiare dalla rabbia o dalla sofferenza altrui.

Poesie di consapevolezza – Le poesie di consapevolezza, o Gatha, sono dei brevi versi che possiamo imparare a memoria e recitare mentre compiamo azioni quotidiane come lavare i piatti, o guidare la macchina… Leggi di più

Una strada per meditare – Possiamo scegliere una strada che percorriamo tutti i giorni per recarci al lavoro o per andare a scuola e trasformarla nel lostro sentiero di meditazione. Ad esempio possiamo decidere di praticare la meditazione camminata dal parcheggio al nostro ufficio, ed impegnarci a fare questo ogni giorno.

Lavarsi i denti – Ogni volta che ci laviamo i denti possiamo cogliere l’occasione di ritornare al momento presente e di apprezzare la presenza dei nostri denti. Spazzolarsi i denti consapevolmente in questo modo può portarci un sacco di gioia e felicità.

Svegliarsi al mattino –Ogni volta che ci svegliamo al mattino possiamo riprometterci di non iniziare a pensare al nostro lavoro o ai nostri progetti. Possiamo addestrarci a sorridere e a salutare il nuovo giorno con calma e agio. 10 minuti di meditazione prima di cominciare la giornata possono avere un effetto molto forte sulla nostra pratica e possono portarci molta solidità nelle nostre difficoltà quotidiane.

Sorridere – Quando abbiamo il tempo dobbiamo imparare a sorridere. Un sorriso può rilassare i muscoli del nostro viso, aiutarci a ritornare  noi stessi e a lasciare andare ogni tensione o preoccupazione.

Fonte:  http://it.wkup.org

Costruire un Sangha

Il Sangha è la nostra forza e la nostra sicurezza. Quando abbiamo un Sangha e siamo in grado di vivere in armonia con tutti siamo sicuri che la nostra aspirazione non verrà erosa dalle difficoltà della nostra vita quotidiana. Quando pratichiamo con un gruppo di amici dobbiamo imparare a diventare come una goccia d’acqua che scorre lungo un fiume. Se la goccia decidesse di farsi strada da sola verrebbe asciugata dal sole in pochi istanti, ma dal momento che si unisce al fiume non c’è alcun dubbio che prima o poi arriverà al mare. Il Sangha protegge e nutre la nostra aspirazione a vivere una vita felice ed in accordo con i nostri ideali. In un vero Sangha possiamo sempre trovare sostegno, fratellanza e sorellanza e questa atmosfera di calma ed amicizia ci sostiene e ci aiuta a scorrere lontano.

Per creare un Sangha basta un gruppo di due o tre amici. Possiamo riunirci per una o due ore semplicemente per andare a fare una camminata all’aperto, o per bere una tazza di tè assieme in tranquillità e consapevolezza. Tutto quello di cui abbiamo bisogno per costruire un Sangha è il desiderio di migliorare la nostra vita, di trasformare le nostre difficoltà, e di trovare sostegno in un gruppo di amici. Magari le prime volte non parteciperanno un gran numero di persone, nonostante questo man mano che la nostra pratica diventa più solida e più gioiosa, scopriremo che nel mondo ci sono più persone interessate di quante non avremmo mai immaginato. Tutti amano la pace e la felicità, ma purtroppo molto spesso confondiamo queste due cose con tipi di svaghi divertimenti che ci portano a distruggere il nostro corpo e la nostra mente. Quando pratichiamo con un gruppo di amici, scopriamo che per vivere felici non abbiamo bisogno di bere alcohol o di assumere alcun tipo di droga perché la felicità non è semplicemente un’insieme di sostanze chimiche nel nostro sangue. La felicità è una capacità che possiamo addestrarci a produrre ad ogni istante della nostra vita quotidiana. Mentre beviamo un tè con il nostro Sangha, o mentre camminiamo assieme nel parco, non stiamo facendo nulla di speciale. Eppure grazie all’energia della consapevolezza ogni cosa che facciamo ci può portare gioia e pace. L’energia collettiva del Sangha ci aiuta a compiere ogni azione in consapevolezza. Quando delle persone sono determinate a vivere nel momento presente, grazie alla loro aspirazione collettiva si sostengono gli uni gli altri.

I Sangha nella tradizione di Thich Nhat Hanh si basano dulle linee guida dei Cinque Addetramenti alla Consapevolezza. Questi cinque addestramenti non sono un credo o una dottrina, sono solo uno strumento per creare pace ed armonia e per difendere la nostra vita e il nostro Sangha da azioni che potrebbero creare molta sofferenza. Se siamo Buddhisti i Cinque addestramenti ci renderanno dei Buddhisti migliori. Se siamo cristiani, musulmani o comunisti, i cinque addestramenti ci renderanno dei cristiani, musulmani o dei comunisti migliori. Lo spirito della pratica di Plum Village e di Thich Nhat Hanh è la non discriminazione e l’accettazione delle differenze di ognuno.

Se vorrete creare un Sangha nella vostra città potrete usare le pratiche che sono presentate su questo sito internet come un’ispirazione e come una guida. Ad esempio prima di praticare la meditazione seduta o camminata potrete leggere ad alta voce il testo che troverete sotto la sezione insegnamenti. Quando vi sentirete più sicuri potrete smettere di leggere questi testi e semplicemente domandare a qualcuno di condividere qualche parola d’ispirazione prima di iniziare a praticare assieme.
Fonte: http://it.wkup.org

Il Carattere Orale di Cosimo Aruta

Durante l’allattamento. Il fatto di aprirsi e di protendersi comincia con un’ondata di eccitazione al centro del corpo che fluisce verso l’alto attraverso il torace e all’infuori attraverso le braccia, la gola, la bocca e gli occhi. Il sentimento che accompagna questo movimento può essere descritto come un protendersi dal profondo del cuore o un aprirsi che si estende ad includere il cuore. Il neonato si apre e si protende con amore e così può prendere nel suo corpo l’amore che gli è offerto.

(Alexander Lowen, La depressione e il corpo,Astrolabio, Roma,1980, cap. I° – pag. 176).

 

Il carattere orale torva la sua genesi nel periodo in cui la bocca e gli occhi sono il principale organo di relazione con il mondo, dove le attività principali del bambino interessano la nutrizione, l’amore, il sostegno e l’eccitazione. La fase orale comprende la fascia di età dai 6 mesi a circa due anni di vita, dove il neonato vive cicli di sonno e di veglia, alternati a poppate. Il bambino, progressivamente, sperimenta esplorazioni dell’ambiente, in un graduale processo verso un primo abbozzo di indipendenza, significativo per le future esperienze, verso una autonomia corporea. Il fanciullo comunica, soprattutto nel primo anno di vita, attraverso il pianto, il sorriso, le espressioni facciali e il movimento; in funzione di quello che desidera comunicare al mondo degli adulti. Il piantomal di pancia, mal di orecchi, etc), oppure dal bisogno di cure e attenzione in sintonia con i suoi bisogni (non indifferenza e non invasione). E’ fondamentale la capacità dell’adulto di sintonizzarsi sui veri bisogni del bambino. Se questa importantissima sintonizzazione e la conseguente relazione empatica tra adulto e bambino, avviene solo parzialmente o non avviene del tutto,  il naturale percorso verso l’autonomia e l’individuazione si arresta o rallenta notevolmente. si riferisce a sensazioni sgradevoli provenienti dall’insoddisfazione di un suo bisogno, da una sofferenza corporea (

Il diritto del bambino di essere nutrito adeguatamente di cibo e di amore, nel rispetto dei suoi ritmi personalissimi, viene così negato, assolutamente o parzialmente. In particolare, al bambino non viene riconosciuto il suo legittimo diritto di avere bisogno. L’allattamento rappresenta per il piccolo non solo un approvvigionamento energetico e plastico di tutti gli elementi che gli necessitano per la crescita, ma anche amore, sostegno ed eccitazione. Alexander Lowen ci insegna come la gioia di questi momenti unici di reciprocità tra la mamma e il bambino vede il lattante aprirsi e protendersi per ricevere il seno della madre, al pari degli uccellini di una nidiata, quando il becco del piccolo, all’arrivo della madre con in cibo, si spalanca a dismisura (aprendosi addirittura più del sacco del suo corpo), allungandosi verso il becco materno. Per il cucciolo umano non si apre solo la bocca, ma anche la gola, per far scorrere queste sensazioni sublimi, diffondendole per tutto il suo corpicino. Dall’esterno, osserviamo e ci fanno tenerezza, le labbra e le mani del piccolo, nella realtà egli si avvicina con tutto il suo essere al seno della mamma.  Il fatto di aprirsi e di protendersi comincia con un’ondata di eccitazione al centro del corpo che fluisce verso l’alto attraverso il torace e all’infuori attraverso le braccia, la gola, la bocca e gli occhi. Il sentimento che accompagna questo movimento può essere descritto come un protendersi dal profondo del cuore o un aprirsi che si estende ad includere il cuore. Il neonato si apre e si protende con amore e così può prendere nel suo corpo l’amore che gli è offerto. (Alexander Lowen, La depressione e il corpo,Astrolabio, Roma,1980, cap. I° – pag. 176).

Quando un bambino nel suo spontaneo protendersi incontrerà una madre con atteggiamento ostile, oppure ambivalente (compresenza degli opposti: amore/odio, accudimento/indifferenza, ostilità/rimorso e soccorso, etc), oppure depressivo, sarà destinato a strutturare un tratto orale nel suo carattere. La madre del bambino orale non lo nutre adeguatamente attraverso lo sguardo, ma solo materialmente, e così facendo il bambino reagisce con rabbia, una rabbia mordace. Egli non sente il suo bisogno soddisfatto, ma unicamente riconosciuto dalla mamma e questo stato di deprivazione struttura in lui una frustrazione insopportabile. Il bambino ha bisogno di un contatto corporeo caldo e piacevole, indispensabile affinché possa percepire la propria superficie del corpo ed imparare a differenziarla dall’ambiente esterno, come rassicurante confine tra il suo senso di sé e tutto ciò che si trova esterno a sé. Solo in questo modo riuscirà ad iniziare ad affermare spontaneamente e armonicamente il proprio senso di identità.

L’allattamento al seno con la partecipazione dell’amore autentico della mamma, soddisfa tutti i bisogni orali del bambino, compreso il bisogno fisiologico di succhiare. Succhiare il seno favorisce movimenti respiratori indispensabili per imparare ad approfondire ed espandere la respirazione, con forti e salutari conseguenze sul metabolismo e sulla vitalità del piccolo. Quando l’allattamento avviene mediante il biberon il bambino è privato del contatto stimolante tra la sua bocca e il seno della mamma. In alcuni casi con l’uso del biberon i piccoli non sono nemmeno tenuti in braccio, privandoli del contatto corporeo con la madre. Quando i bisogni orali non sono stati soddisfatti il bambino non è mai pienamente appagato. Questa condizione di sofferenza è comunicata con il pianto e, se ancora la risposta materna ai suoi bisogni dovesse dimostrarsi insufficiente o addirittura negata, il piccolo esaurirà tutta l’energia di cui dispone disperandosi, urlando e piangendo fino al collasso. L’unica difesa di cui dispone il bambino, a questo punto, è la negazione del suo bisogno. Questa estrema manovra difensiva, per il fanciullo, ha lo scopo di risparmiargli in futuro tale profonda sofferenza, che proviene dal chiedere lecitamente la soddisfazione del bisogno con tutte le sue energie, senza ottenerla e per questo disperarsi e straziarsi. Tale terrificante esperienza nella fase pre-verbale, porterà il bambino alla strutturazione del pensiero reattivo:Non avrò più bisogno di chiedere, non chiederò mai più“. Da grande, non avendo vissuto l’esperienza di amore incondizionato, tenderà ad utilizzare l’empatia per tentare di ricevere nutrimento affettivo, tratto tipico del carattere orale: una grande sensibilità a “sentire” gli altri nel tentativo di ottenere amore. Così facendo rivive da grande l’esperienza infantile con la madre, di dare senza prendere sufficiente affetto per poter soddisfare pienamente i suoi bisogni. La persona adulta con tratti marcati orali del carattere, sente che chiedere è pericoloso e cercherà in tutti i modo di essere autonoma, di non avere bisogno degli altri, perché il bisogno per gli altri evocherà continuamente l’esperienza di dolore sofferta nelle prime fasi della vita. Un sintomo tipico delle strutture orali è l’ipocondria, dove la malattia rappresenta l’unico estremo modo per chiedere e forse ottenere attenzione e nutrimento affettivo. Il conflitto inconscio è rappresentato dalla necessità di ricevere amore e la profonda paura di soffrire e di sperimentare nuovamente la delusione. Per essere accettato a suo tempo dalla madre ha costruito la sua struttura caratteriale sulla necessità di non mostrare alcun bisogno. Questa situazione crea un bambino prematuramente indipendente. I bambini deprivati, abitualmente, parlano presto, si evolvono precocemente e dimostrano un intelligenza impropria per la loro età; abitualmente i genitori sentono per questa situazione un motivo di orgoglio, senza riflettere sulla deprivazione patita dal fanciullo. Sono bambini che mparano a camminare presto, oppure in ritardo, tuttavia non sono mai veramente sicuri sulle loro gambe, presentano uno scarso senso dell’equilibrio. Sono fanciulli impegnati in una incessante lotta per l’indipendenza, ma senza possedere le potenzialità e le qualità indispensabili per questo obiettivo. Per questo motivo si forma una struttura caratteriale apparentemente indipendente e nella realtà fortemente dipendente. Il vuoto affettivo sofferto dal bambino ha generato un bisogno insaziabile, infinito e lui teme inconsciamente che se cederà al bisogno incontrerà nuovamente il terrore conosciuto. Occorre sottolineare che nessun individuo possiede un carattere puro. Il progetto di autoregolazione, auto-espansione segue tutte le esperienze di vita. Come l’individuo reagisce agli “impatti”, rappresenta la sua modalità difensiva (conflitto tra i diritti/bisogni ed il sistema difensivo). Come l’ambiente esterno (genitori, famiglia, asilo, scuola, etc.) accoglie o nega i diritti dei bambini, condiziona il sistema difensivo (formazione del carattere) dell’individuo. Non ricevere un riconoscimento al diritto/bisogno di un bambino rappresenta sempre un trauma per il piccolo. Le domande da porci sono:

 

  • Quanto è stata grande l’esposizione all’esperienza traumatica?
  • Cosa è successo al corpo del bambino?
  • Cosa è mancato e cosa ci doveva essere?
  • Quanto contatto è mancato? (Esempio: bambini trasportati con il marsupio, in contatto con il genitore e bambini in carrozzina e staccati dal genitore)
  • Come è stata l’esperienza della madre con la sua famiglia di origine?
  • Quale qualità è presente nella attuale relazione con il suo compagno/marito?
  • Quanto è forte il desiderio di maternità della madre, anche come spinta riparatrice ai propri problemi patiti nella fanciullezza? (quest’ultima domanda condiziona anche l’esperienza intrauterina del piccolo: utero rilassato e pulsante che comunica accettazione, o utero contratto e rigidamente rifiutante).

 

La nostra vita è scritta nel nostro corpo, nessuno ha una sola dimensione che lo caratterizza. Conoscere il carattere offre utili chiavi di lettura per toccare la finestra di tolleranza di un individuo (empatia), ad esempio: se “sfondo” la finestra di tolleranza posso invadere l’altro. Occorre superare le parole, non soffermarsi a quello che le persone dicono, ma a “come” lo dicono, esplorando quanta energia c’é. Le persone possono percepire una forza diversa da quella che il corpo veramente ha. La persona orale percepisce una bassa carica energetica, davanti ai problemi della vita dice: non ce la faccio! Ma l’energia ci sarebbe. Quando da bambino si è disperato, ha comunicato alla madre: “Fammi sopravvivere, ho bisogno”. Purtroppo per lui, non è arrivata una risposta adeguata e lui, sfinito, straziato, è collassato dopo aver espresso tutta la sua disperazione. In seguito, non proverà più ad urlare e a disperarsi nella medesima situazione, perché cercherà, da solo, di autoregolarsi, si chiude in se stesso nel tentativo di auto-proteggersi. La struttura orale è segnata nel corpo dalla esperienza traumatica del collasso. Soprattutto perché si tratta di una struttura pre-verbale (il bambino non ha ancora imparato ad esprimersi parlando), la prima scrittura/incisione reattiva al trauma la realizza proprio con il suo corpicino. In seguito, bambini così traumatizzati, si adattano a chiedere molto poco, per fuggire da quella esperienza tremenda che a suo tempo ha portato a sperimentare l’annientamento. Si crea l’illusione orale: è pericoloso avere bisogno e mi salvo se sarò “falsamente” autonomo. L’illusione orale continua: è importante non chiedere e avere un ideale di autosufficienza di sé. Da adulto, l’orale non potrà godere di ciò che l’altro fa per lui, perché gli ricorda il fallimento originario della sua richiesta. Sarà portato a costruire rapporti ambivalenti in costante scarsa autostima di se stesso.

La persona orale crede che il mondo lo deve risarcire (siccome non ho avuto, ora il mondo mi deve dare). L’orale si pone come quello che vuole dare perché in realtà vuole ricevere molto di più, è un esperto della richiesta indiretta e pretende che il mondo sappia cogliere i propri movimenti interni. Quando sente il mondo “cattivo” che non lo capisce, sopraggiunge il collassamento e precipita in depressione. Vede il mondo diviso in buono e cattivo, come da piccolissimo sentiva il seno buono e il seno cattivo della madre (Melanie Klein). L’orale è colmo di amarezza e sfiducia, difficilmente si affida all’altro, chiede indirettamente per mantenere il controllo della situazione e teme di poter perdere l’indipendenza. Il suo modo di chiedere è con gli occhi e con la bocca protesa. Dentro il suo dilemma, l’orale sente che quando qualcuno gli da, lui si ritira, perché emerge la paura di rivivere l’amarezza e la disperazione (annientamento) primario. Fisicamente, si presenta con una chiusura per deprivazione, evidente nel torace accasciato, collassato, non vuole ammettere di poter avere bisogno degli altri, la disponibilità diretta lo spaventa, è abituato a chiedere solo indirettamente, spesso facendo finta di occuparsi lui dell’altro. Gli occhi di sua madre gli hanno trasmesso ostilità mentre lo allattava, attraverso l’ambivalenza (ti nutro e non ti guardo o ti guardo male). Il nutrimento oculare è anche un nutrimento neuronale per il bambino ed un contatto oculare ostile provoca l’esperienza della deprivazione nel piccolo. La respirazione dell’orale è bloccata nel torace e non può scendere nell’addome, è una respirazione che non offre nutrimento. L’esperienza correttiva consente una retro-posizione dei monconi delle spalle, l’elevazione dello sterno e un approfondimento dell’onda respiratoria, sbloccando il diaframma cronicamente contratto. I piedi si presentano spesso collassati (piatti) e così gli arti inferiori, sembrano comunicare: io non ce la faccio, non posso realizzare un buon appoggio per terra. Per l’orale la terra non è vita, non è l’appoggio sano; per lui la terra è sofferenza e fugge nell’illusione del corpo. Dal punto di vista comportamentale, l’orale è una persona snervante per gli altri, non gli basta mai quello che ha. Nella forma narcisistica (narcisismo orale), si osserva la compresenza della pretesa narcisistica e del bisogno orale, sente il suo bisogno come un pozzo che non ha fine. La sensazione del mondo mitico e non disponibile lo riporta al seno cattivo. Cerca la perfezione nelle relazione; in questo quadro clinico, dargli amore significa non farsi risucchiare dalla sua componente aggressiva, rappresentata da una richiesta senza fine. Chi si fa risucchiare, quando non ce la fa più, inevitabilmente lo respinge, lo lascia, lo evita, confermandogli che il mondo è cattivo e riportandolo all’esperienza primaria.

In terapia la persona orale dovrebbe sentire il suo terapeuta come colui capace di trarlo fuori da quel pozzo; quando questo non avviene, nelle sedute continua a lamentarsi incessantemente. La tendenza orale è di chiedere “male”, quasi con arroganza (in modo provocatorio); indossa una maschera per non aprirsi, allo scopo di non vivere la sua paura. L’illusione che crea e alimenta questa paura è dettata dalla convinzione: “se mi apro e mi metto nelle mani dell’altro, l’altro non ci sarà più“. La sua ansia prende la forma di un soffocamento alla gola (cavità orale) e la sua modalità difensiva rappresenta anche un modo di organizzare l’ansia.

La donna con problematiche orali può scambiare il padre per la madre. La bambina che ha patito la deprivazione nella fase orale, quando raggiunge quella edipica (dopo i 3 anni di età), frequentemente, cercherà di sedurre il padre per ottenere quello che non ha ricevuto dalla madre nel periodo precedente. Se il padre interpreta il ruolo (si lascia sedurre e mostra compiacenza inadeguata, oppure respinge con forza la bambina e reprime il suo protendersi verso di lui), emerge una struttura isterica nella bambina, da adulta ricercherà un uomo che si prenda cura di lei, piuttosto che comportarsi da compagno d’amore in modo maturo. La tristezza degli aspetti orali può trasformarsi in dolcezza, tuttavia, se respinti, questi aspetti tornano in contatto con l’amarezza originaria. Emerge la vergogna di non essere accolti nel momento della vulnerabilità e di sentirsi nuovamente “piccoli e umiliati”.

Nel ruolo di madre, la donna orale vede suo figlio come mezzo per soddisfare i suoi bisogni antichi. Accade che il figlio diventa una parte di nutrimento per la madre. Quella che viene negata al figlio è la LIBERTA’ DI ALLONTANARSI. Il bambino sente la sua energia come risucchiata dalla madre, che prende e basta, senza dare nulla nella realtà, ma solo in apparenza. In questa situazione, la depressione della madre è anche una rabbia che sfoga verso il bambino che “annienta tutto“. Il bambino si adatta spesso a queste condizioni con una accondiscendenza incondizionata, scambiata per bontà dal genitore. Quando un bambino è “troppo” buono” vuol dire che ha compresso molti aspetti di sé. Segue una scissione che non gli consentirà da adulto di ricordare nulla della sua infanzia. L’orale si chiude per auto-proteggersi, ma anche per proteggersi dalla sua rabbia, infatti, quando contatta il vuoto, contatta anche la sua rabbia. Una insidia per il terapeuta nel corso delle sedute con una persona dai tratti orali del carattere è quella di “dare” per paura della rabbia. Il contatto con la rabbia, tuttavia, è l’unica modalità per guarire. La parte genitoriale che ci ha dominato di più è il “diavolo” con il quale dobbiamo fare pace (in terapia si intende), passando dalla rabbia. Solo in questo modo sarà possibile riappropriarci della vitalità/forza del demone interno, senza temere il suo potere e le sue strategie. Occorre integrare dentro la parte ombra del genitore che ha condizionato a suo tempo il trauma; e che ci rende difficile vivere con gioia e allegria.

Dr. Cosimo Aruta
Psicologo – studente del XIX° corso di formazione in analisi bioenergetica (SIAB Milano)

Il carattere masochista di Cosimo Aruta

Dalla genesi della psicoanalisi freudiana il masochismo indica due tipologie di comportamento nelle relazioni sociali. La prima è il masochismo sessuale, una parafilia dove il dolore e l’umiliazione sono desiderati perché consentono di sciogliere le tensioni del corpo che impediscono il fluire dell’energia ai genitali e ottenere l’eccitazione, sia psichica, sia fisica. La seconda situazione indica una più pervasiva tendenza a esprimere un’ampia gamma di comportamenti auto frustranti nella vita sociale, emotiva e lavorativa. Nel 1924 Freud lo ha definito masochismo morale e Reich nel 1941 lo ha ribattezzato masochismo sociale.

Il masochismo sessuale
Il masochismo sessuale secondo Edmund Bergler trova la sua origine nella megalomania infantile. Il bambino si considera al centro dell’universo reagisce energicamente alle frustrazioni. Tuttavia, il suo sistema muscolare non è ancora sufficientemente sviluppato per consentirgli di esprimere tanta furia attraverso la sua aggressività; la sua reazione si manifesta con il pianto, con grida di rabbia, a volte sputando o pestando i piedi per terra. La reazione dei genitori è spesso intrisa di rabbia e raggiunge il bambino con punizioni e frustrazioni. In questo conflitto il bambino non è in grado di vincere, la sua aggressività, non potendo esprimersi all’esterno, si rivolge all’interno, creando una condizione di masochismo psichico. Il masochista è una persona che sembra provare piacere nell’essere percosso o umiliato durante l’attività sessuale. Wilhelm Reich dimostrò che il masochista non cerca il dolore e l’umiliazione, ma l’eccitazione sessuale. Il piacere nel masochista non trae origine dalle percosse e dalle umiliazioni, ma dall’eccitazione sessuale, che succede alle percosse e/o alle umiliazioni.
Il meccanismo psichico classico che crea questa strana associazione fra piacere e dolore può essere semplicemente espresso in questi termini: “Se mi percuoti, riconosci la mia natura sessualmente perversa e per punirmi non mi castri ma ti limiti a picchiarmi”.
La punizione che il masochista cerca è sempre intesa in sostituzione del castigo più temuto: la castrazione.

MASOCHISTA CLASSICO E MASOCHISTA PSICHICO.
La differenza tra il masochista classico dal masochista psichico riguarda la modalità per ottenere le sofferenze. Nel masochista psichico è l’umiliazione , non il dolore delle percosse, a procurare lo stimolo necessario per lo sfogo dell’eccitazione sessuale. Il meccanismo, tuttavia è lo stesso: “Se tu mi umili e mi degradi, riconosci il mio tipo di sessualità e mi punisci per essa senza castrarmi”.
In entrambi i casi, l’essenza del problema masochistico è l’incapacità di esprimere l’impulso sessuale fuorché in condizioni di umiliazione, degradazione e dolore, condizioni in cui l’individuo perde il rispetto di se stesso. Il masochismo può essere definito come la condizione psichica in cui l’individuo ha perso il rispetto di sé. Esso è quindi legato a forti sentimenti d’inferiorità compensati da un atteggiamento interiore di superiorità. Infatti, il masochista non prova attraverso le percosse o/le umiliazioni un dispiacere, ma prova il piacere della distensione che, per paura, può provare solo in quelle forme. Ogni caso di masochismo, la situazione ha radici nel disprezzo mostrato dai genitori per la personalità del bambino. Il masochista non ha orgoglio semplicemente perché non ha mai avuto la possibilità di sviluppare un senso d’orgoglio di sé e del proprio corpo. La sessualità non può essere disgiunta dal corpo, né il corpo dalla personalità. Il masochismo infantile è evitabile se i genitori sono capaci di risolvere i propri problemi salvaguardando reciprocamente rispetto e dignità. Le liti feroci tra i genitori esondanti dal conflitto di coppia per investire l’intero universo familiare, agite in modo aperto, oppure in modo sotterraneo, o con entrambe le modalità alternatamente, e le conseguenti svalutazioni, umiliazioni che la coppia genitoriale si reca l’un l’altro, costituiscono un modello che il bambino oggettualizza come sua dinamica relazionale espressiva, ma anche protettiva nei confronti della temuta castrazione, tipica del suo comportamento sessuale.

Il rispetto di sé è l’unica qualità che distingue la sessualità matura dalla sofisticazione sessuale. (Alexander Lowen, Amore e Orgasmo, Feltrinelli, Milano, 1997, cap. VI° – pag. 112).

Il masochismo sociale
Il masochismo sociale è una pervasiva tendenza ad esprimere un’ampia gamma di comportamenti auto-frustranti nella vita sociale, emotiva e lavorativa. Uno stile di vita. Un problema esistenziale di base in rapporto all’autodeterminazione e all’autocontrollo. Può coesistere o meno con il masochismo sessuale.
Il masochista percepisce come piacere ciò che dall’individuo normale viene percepito come dispiacere. Freud aveva scoperto che sadismo e masochismo formavano una coppia antitetica. Poi, aveva scoperto che esisteva il sadismo orale, anale, fallico, che si esprimeva come mordere, calpestare, perforare. Il sadismo quindi, nasceva come reazione distruttiva contro la frustrazione della pulsione.
In questa concezione il masochismo è una formazione secondaria che consiste nel volgere contro se stesso la distruttività sadica. Ma Freud, abbandona poi tutto questo ribaltando la sua prima concettualizzazione teorica e affermando l’esistenza di una tendenza biologica primaria all’autodistruzione, ossia la pulsione di morte (thanatos) antagonista dell’eros.
Reich, con lo studio e le ricerche sul carattere masochista, trova una risposta diversa, che confuta la teoria della pulsione di morte. Non esiste una pulsione primaria autodistruttiva. Il masochista segue, anche se in modo apparentemente distruttivo, e quindi incomprensibile, il principio del piacere.

Il masochismo e i suoi modelli di autodifesa

Il masochismo può essere considerato un carattere trasversale come il narcisismo, sono entrambe strutture caratteriali che hanno rinunciato al proprio sé per modellarsi alle esigenze degli altri.
Tuttavia, il narcisismo ed il masochismo presentano profonde differenze tra loro:
Nel narcisismo si osserva un iper-adattamento allo scopo di modellarsi e fondersi alle aspettative degli altri. Quando la “fusione” porta a termine il suo obiettivo: “ora sono come tu mi vuoi”, il narcisista perde il proprio sé corporeo e smette di sentire la sua autenticità e, di conseguenza, non percepisce il profondo dolore per questa perdita. Nel masochismo, struttura caratteriale più evoluta rispetto il narcisismo, tutto il “pantano” è autenticamente sofferto ed il corpo sente il conflitto, ma senza riuscire a trovare una via d’uscita. Molti comportamenti conseguenti sono orientati nel tentativo di uscire da questa situazione.

Il masochista cerca il dolore per il piacere; l’unica via d’uscita dal suo pantano è la liberazione esplosiva della sua rabbia e della sua aggressività ingabbiata. Dal punto di vista energetico il carattere masochista possiede una enorme carica energetica che non nasce dalla deprivazione. Al contrario, nel masochista è il troppo che diventa problematico: troppo contatto, troppo nutrimento, troppo amore.
Successivamente, per lui diventa difficile ribellarsi a chi lo ha così ben nutrito, non può opporsi al seno buono che lo ha allattato. Questa situazione genera il pantano masochistico.
IL MASOCHISTA CREA IL SUO PANTANO PERCHE’ E’ IMPRIGIONATO DALLA GRATITUDINE.

Eziologia (ricerca delle cause del masochismo)
Anche se episodi di volizione nel bambino siano riscontrabili nel primo anno di vita, solo quando la locomozione eretta è automatizzata e le prime capacità di parola si associano ad un pensiero, nel fanciullo emerge con chiarezza il bisogno di determinare la sua specifica espressione del sé e di opporsi alla volontà degli adulti.
Con lo sviluppo della locomozione, della manipolazione degli oggetti, della memoria e del linguaggio, il bambino acquisisce una crescente opportunità di azione libera e indipendente dagli adulti. Questa evoluzione incrementa il potenziale di conflitto tra i suoi desideri di indipendenza, collegati soprattutto alla sua naturale curiosità e i desideri delle figure accuditrici, specialmente quando esse confondono il desiderio di esplorazione con una sorta di perversa tendenza ad esporsi ai pericoli, che spesso suscita nell’adulto ansia e livore. L’adulto si convince che ogni azione repressiva sarà attuata per il bene del bambino e questa giustificazione autorizzerà ogni eccesso orientato verso la repressione.
I genitori sono autoritari e inclini a controllare eccessivamente il bambino. Sono piuttosto invadenti e non rispettano i dovuti confini. Questa costante situazione di sopraffazione induce il fanciullo ad adattarsi, sopraffacendo i suoi stessi impulsi aggressivi, ostili e vendicativi. Allo scopo di non perdere il contatto e ricevere il sostegno indispensabile per la sua crescita, il bambino sviluppa una personalità compiacente e servile, con frequenti tratti passivo-aggressivi che sfuggono alla sua consapevolezza.
Per comprendere il masochista occorre ricordare tutte le volte in cui siamo stati picchiati o sgridati ingiustamente, senza la minima possibilità di opposizione.
La rabbia impotente e introiettata, sperimentata in quelle situazioni, ha molto in comune con la rabbia inconscia che l’individuo masochista cova: “reprimo la rabbia, ma mi vendicherò!”. E’ l’imperativo che descrive il sentimento del demone masochista. All’origine, la disparità di potere fu gigantesca, non c’è stata altra via di fuga se non l’auto-frustrazione, a difesa dell’orgoglio con una modalità perversa. L’auto-sabotaggio, agito senza coscienza, rappresenta nel masochista l’atto di aggressione che potrà in seguito negare con facilità. Ricorrendo ai rimproveri e alle punizioni, facendo appello all’amore del bambino per la madre e minacciandolo di privarlo dell’amore materno se non obbedisce, si determina uno stato di confusione:
I suoi sentimenti di tenerezza sono collegati al blocco della sua aggressività, l’aggressività bloccata impedisce la tenerezza.

 

  • DIRITTO NEGATO: di affermazione e di indipendenza.
  • IDEALE DELL’IO: io sono un bravo bambino, sarò come tu mi vuoi.
  • ILLUSIONE DELL’IO: Se sarò bravo sarò amato, se oserò ribellarmi o impormi tu mi umilierai e mi allontanerai (negazione dell’assertività).

 

Gli studi di Stern (1985) affermano che a 24 mesi di età il bambino inizia a pensare, rappresentare per simboli e articolare il linguaggio in modo diverso, più evoluto dalla precedente semplice capacità d’uso di alcune parole. Diversi ricercatori hanno osservato che, sempre a due anni, il bambino inizia ad evidenziare la tendenza a soddisfare le richieste degli altri ed una significativa tendenza alla condiscendenza. (Stephen M. Johnson, Stili Caratteriali, Edizioni Crisalide, Spigno Saturnia (LT), 2004, pag. 228). E’ possibile affermare che l’adattamento masochistico non avviene che dopo i due anni, condizionato da un forte conflitto di volontà perché il bambino accetti il doloroso compromesso del modello auto frustrante rappresentato da questo tipo di carattere.
Alice Miller (1987) ha reso un utilissimo servizio fornendoci una antologia storiografica dei moltissimi saggi e manuali ipocriti sull’educazione dei figli che insegnano ai genitori metodi fondati sull’abuso per stabilire un inflessibile controllo e spezzare la volontà del bambino. Questi includono un continuo e gravissimo uso della forza, inganni, raggiri, manipolazioni, umiliazioni e una degradazione palesemente crudele. E’ l’ovvia motivazione per tutto ciò è il “bene del bambino”. Questi metodi raccomandati per stabilire un controllo assoluto iniziano già dai primissimi mesi di vita, con un sempre maggiore grado di sofisticatezza delle tecniche autoritarie. Ad esempio, Fay Sulzer (1748, citato in Miller, 1987) scriveva nel suo Saggio sull’educazione de l’istruzione dei bambini:
Questi primi anni presentano, tra l’altro, anche il vantaggio che si può far uso delle violenza e dei mezzi di costrizione. Con il passare del tempo i bambini dimenticano tutto ciò che è loro occorso nella prima infanzia. Se si riesce a privarli della volontà in quel periodo, essi non ricorderanno mai più di averne avuto una. (Ivi, pag. 231).
Anche se questi agghiaccianti manuali per genitori si riferiscono ad un’epoca ormai lontana, l’obbedienza dei bambini rappresenta un problema anche contemporaneo; esiste un atteggiamento genitoriale autoritario giustificato considerato “a fin di bene” che allontana i genitori dai sentimenti, dal sé corporeo e, di conseguenza, dal radicamento/aderenza con la realtà.
Non è raro che questi genitori agiscano, in modo inconscio, il desiderio di esercitare sui figli l’autoritarismo che essi stessi hanno subito dai loro genitori.
In tali condizioni, abusi fisici, sessuali e psicologici sono somministrati con forme invasive, come frequenti clisteri, alimentazione forzata ed esperienze continue di svalutazione e umiliazione, che sottolineano sadicamente la debolezza e l’impotenza del bambino. I fanciulli così trattati non possono che interiorizzare questi modelli cattivi, questi legami disfunzionali per una vita serena, che condizionano una posizione di sottomissione, ma al tempo stesso di sotterranea resistenza, ribellione e rivalsa.
In questa condizione, la devastazione prodotta dall’intrusione dell’adulto obbliga il bambino a chiudersi per tentare di costruire un confine al pressante e incessante assedio del genitore. L’assedio colpisce costantemente l’espressione più libera dell’elemento psicocorporeo: (controllo degli sfinteri, libertà di movimento, libertà di mangiare secondo appetito, di espressione, etc.).

IL MASOCHISMO PRIMARIO E IL MASOCHISMO SECONDARIO.

MASOCHISMO PRIMARIO. Questa drammatica riduzione della libertà, in un periodo particolare della vita del fanciullo (fase anale, due anni di età circa), è la più devastante. Il bambino sarà costretto a chiudersi per non essere invaso da un genitore che controlla costantemente l’espressione più libera dell’elemento psicocorporeo. Soprattutto il controllo degli sfinteri anali precocemente, prima dei ventiquattro mesi (prima dei due anni il bambino non è fisiologicamente in grado di controllare la muscolatura sfinterica e quindi trattenere le feci), che costringe il piccolo ad agire sulla muscolatura dei glutei e dei vicini muscoli sinergici. Si aggiunge una invadente e costante limitazione della libertà di muoversi.
Nell’adulto, quando il masochismo è più primario emerge la parte anale, si sente nella sua pancia, trattiene tutto, l’effetto psicosomatico più frequente è la stipsi.
MASOCHISMO SECONDARIO. Il masochismo secondario è pre-edipico, si struttura più tardi, intorno ai tre, quattro anni di età attraverso stadi evolutivi. E’ raro che la stessa madre, incline ad invadere e sottomettere i figli, non presenti un comportamento “castrante” durante tutto il percorso evolutivo del bambino, è altrettanto raro osservare il masochismo secondario privo di tracce risalenti a quello primario.
L’infelicità dell’uomo dipende semplicemente da quello che facciamo subire ai bambini: tutti i sistemi educativi inventati dal super-Io finiscono per frantumare la personalità del bambino, rendendo poi impossibile la spontaneità nell’adulto. Il bambino è obbligato dalla repressione esercitata dagli adulti a maltrattare il suo essere più profondo, diventando così infelice. Durante la terapia, quando riaffiora e si scarica tutta questa sofferenza, la persona può tornare a essere felice e a riprovare l’onda oceanica. (Gerda Boyesen, Tra psiche e soma, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1999, capitolo III, pag. 96).
3.3. Stadi evolutivi

Per comprendere nel concreto la situazione che condiziona nel bambino la posizione masochistica, facciamo un esempio: immaginiamo un bambino che mentre gioca allegramente sulla spiaggia, in una assolata giornata di agosto, si allontana dalla sua mamma. In questa atmosfera serena, le onde del mare scivolano sul bagnasciuga, alcuni bambini scavano buche e si divertono plasmando la sabbia, gli adulti sono sorridenti. All’improvviso, l’urlo di una mamma che pronuncia il nome del figlio con tono alto e vibrato, blocca il bimbo e pone fine alla sua interessante esplorazione. La mamma lo raggiunge velocemente: “come mai, proprio tu, mi fai questo? Quando non ti vedo perché ti allontani, mi si spezza il cuore!” Il bambino si sente in colpa per essersi allontanato. Segue una sottomissione masochistica per adattamento alla relazione con una madre ansiosa e colpevolizzante. Molto diversa invece, è la situazione del bambino costretto a stare fermo sul lettino e prendere il sole per abbronzarsi, in quest’ultimo caso non c’è relazione con la madre. In quest’ultimo caso la costrizione imposta è più vicina agli elementi strutturanti della posizione narcisistica.

Gli stadi evolutivi del masochismo sono quattro:

  1. Il bambino naturale si trova a suo agio ed ha fiducia nell’ambiente esterno, è un bambino vibrante.
  2. Le condizioni ambientali creano la ferita primaria, emerge la dimensione della difesa dal suo sé naturale. In questo modo il bambino inizia a rinunciare alla sua autenticità.
  3. Stadio della dimensione masochistica: paura e terrore. Distrutto e tradito, comincia a tradire se stesso e ad adottare comportamenti autodistruttivi. Sogna la libertà ma ha paura di impazzire, entra nel pantano masochistico.
  4. Il quarto stadio è la dimensione narcisistica del masochismo di paura e terrore. Il bambino comincia a pretendere di essere ciò che altri si aspettano che lui sia, invece che seguire gli impulsi naturali. Nega il suo sé naturale per paura di impazzire e si identifica con il suo falso sé. Perde la coscienza del conflitto e si dissocia. In questa ultima fase è importante sottolineare le differenze sostanziali degli imperativi del masochista e del narcisista:

NARCISISMO: devo superare la vergogna; se non sento più nulla, posso fare quello che voglio
MASOCHISMO: devo superare l’umiliazione; sento la frustrazione e mi carico il peso della situazione

Il corpo e la situazione del masochista
Il corpo di un individuo è modellato dalla sua condizione bioenergetica. Nella struttura masochista, a differenza di quella orale, la carica energetica interessa tutto il corpo. Ma questa carica è tutta costretta verso l’interno, anche se non “congelata”. Per questa intensa ritenzione energetica, gli organi più periferici presentano una carica debole, insufficiente per scarica e liberazione; di conseguenza ogni azione espressiva è limitata. La ritenzione è talmente forte da causare una compressione e un crollo dell’organismo. Il crollo avviene alla vita, quando il corpo si piega sotto il peso delle tensioni. Gli impulsi diretti verso il basso e verso l’alto sono soffocati nel collo e alla vita; si spiega così la forte tendenza all’ansia, tipica di questa personalità. E’ fortemente limitata l’estensione del corpo che non riesce a tendersi o protendersi verso l’esterno. Il masochista sembra soffrire nei movimenti di estensione e non manca di sottolinearlo con smorfie e tensioni facciali che accompagnano l’allungamento, soprattutto degli arti superiori. La minore estensione è causa dell’accorciamento della struttura. Inoltre, nei momenti di sofferenza (esercizi fisici di resistenza), difficilmente si concede di interrompere l’attività, tende a resistere stoicamente.

Caratteristiche fisiche
Un corpo basso, tarchiato e muscoloso è tipico della struttura masochistica. Non è raro osservare un’abbondante crescita del pelo corporeo, come se i suoi confini rivendicassero una estensione, per controbilanciare le difficoltà di allungamento verso l’esterno. Il collo si presenta corto e grosso, perché il masochista tende a tenere il capo incassato. Come se fosse messo giù dalla testa da una potente mano che lo comprime per impedirgli di sognare, mentre una voce scandisce i suoi doveri: sarai il bastone della mia vecchiaia, posso contare solo su te, tu non mi tradirai mai, etc.” Questa situazione crea una forte tensione al collo che impedisce alla voce di esprimersi liberamente. Possiamo osservare frequentemente occhiaie che circondano gli occhi e offuscano la luminosità dello sguardo, come per annunciare che in quella zona qualcosa non circola bene.
La vita è corta e grossa e presenta un avanzamento della pelvi che condiziona una cronica contrazione dei glutei, tale da fare apparire il sedere appiattito. Una postura che ricorda l’immagine di un cane con la coda tra le gambe. In questo modo il corpo si piega a livello della vita e si accascia. E’ presente un enorme punto di tensione nell’ano che diffonde circondando la cerniera lombo-sacrale e includendo la pancia. Una situazione posturale che ricorda un bozzolo chiuso e difeso, dove non è possibile entrare.
La testa è molto carica energeticamente, si trova come “incassata” nelle spalle; il collo taurino è come stretto in una morsa. Il viso comunica ingenuità ed innocenza, con l’aumentare dello stress può contrarsi esprimendo una smorfia di dolore; la gola, la bocca e le mascelle si presentano spesso serrate.
Dallo sguardo traspaiono occhi sospettosi. Il torace e la sua muscolatura sono ipertrofici, presentano una forza straordinaria. Gli arti inferiori presentano femori corti, una grande quantità di cellule adipose che fasciano i muscoli quadricipiti e bicipiti femorali, comunque forti e tonici, le fanno apparire grosse; i polpacci sono grossi per ipertrofia muscolare.
La deambulazione in una permanente situazione di pressione dall’alto, (come se fosse messo giù dalla testa da una potente mano che lo comprime per impedirgli di sognare e un avanzamento della pelvi che condiziona una cronica contrazione dei glutei, tale da fare apparire il sedere appiattito), imprime una particolare condizione delle articolazioni della catena estensoria degli arti inferiori:
I. Anca retroversa,
II. Rotula avanzata rispetto all’asse del tronco, come conseguenza dello squilibrio della cerniera lombo-sacrale
III. Aumento della escursione articolare della tibio-tarsica (caviglia) per controbilanciare la proiezione in avanti e mantenere una buona condizione di equilibrio all’interno di una situazione articolare generale fuori armonia dinamica.
IV. L’escursione articolare amplificata della caviglia condiziona un maggiore lavoro (massa x accelerazione x spostamento), dove l’escursione articolare interviene sullo spostamento, la massa è costituita dal peso del soggetto e l’accelerazione dallo stile di camminata.
V. Il lavoro (resistenza locale) di un distretto muscolare condiziona la stimolazione, il cui fisiologico processo di adattamento è l’incremento del patrimonio proteico (aumento numerico delle miofibrille nella fibra muscolare = ipertrofia muscolare).
Per questi motivi i muscoli polpacci del carattere masochista sono particolarmente sviluppati e possono essere considerati con caratteristiche opposte a quelli del carattere schizoide, proprio per i diversi adattamenti alle opposte situazioni posturali: il primo “pressato” verso il basso, il secondo “sospeso” in alto. I piedi presentano una caratteristica simile a quella riscontrabile nel carattere orale, hanno l’arco plantare collassato. Si differenziano dal carattere orale per la sottigliezza delle caviglie e per la scarsa definizione dei dettagli plantari: dita, dorso talloni appaiono tozzi e privi di una netta separazione.
La pelle dei caratteri masochisti tende ad avere una sfumatura bruna, dovuta al ristagno energetico.

Situazione psicologica

Il masochismo, unitamente al narcisismo, sono strutture caratteriali che hanno rinunciato al proprio sé per rimodellarsi alle esigenze degli altri. Nel narcisismo agisce un iper-adattamento per modellarsi e fondersi alle aspettative degli altri. Come reazione il narcisista ha inibito fortemente il sentire il proprio conflitto interiore (non sento più nulla e posso fare quello che voglio). Il genitore non possiede una parte buona che innesca la gratitudine. Il narcisista nega il suo sé per ché è stato ingannato. La dimensione del narcisista è la vergogna.
Nel masochismo, carattere più evoluto, tutto il pantano è sofferto e il corpo sente il conflitto, ma sta nel conflitto senza trovare una via d’uscita (sento la frustrazione e mi carico il peso). Molti comportamenti sono volti ad uscire dalla situazione stagnante. Il genitore possiede quella parte buona che innesca la gratitudine (più energia, anche muscolare). Il masochista nega il suo sé per amore, legame, attaccamento. La dimensione del masochista è l’umiliazione.
Per effetto del suo forte controllo, nel masochista l’aggressività è molto limitata, così come la sua autoaffermazione. L’autoaffermazione è sostituita dal continuo lamentoe dalle lagnanze, anche sotto forma di piagnisteo. Il gemito è la sola espressione vocale che si libera facilmente dalla gola, contratta e soffocata. La sua carica energetica è stagnante per via del suo forte controllo che crea in lui la sensazione di essere impantanato, incapace di muoversi liberamente. E’ caratteristico l’atteggiamento di sottomissione e di compiacenza. A livello cosciente il masochista si identifica con il tentativo di compiacere, ma a livello inconscio questo atteggiamento è contraddetto dalla presenza di astio, negatività e ostilità. (Alexander Lowen, Bioenergetica, Feltrinelli, Milano, 2004, cap. V° – pag. 144).
Il masochista cerca il dolore per il piacere, l’esplosione è la sua unica via d’uscita dal pantano. La sua struttura presenta una grande carica energetica, infatti non nasce dalla deprivazione. Al contrario, nel masochismo è il troppo che diventa problematico (troppo contatto, nutrimento, amore, nelle prime fasi della vita). Successivamente, diventa assai difficile ribellarsi a chi lo ha ben nutrito, al seno che lo ha allattato. E’ proprio questa situazione che crea il pantano,è imprigionato dalla gratitudine.
Il masochista è assolutamente solido e porta avanti gli obiettivi dati per costrizione, senza piacere e con dolore. Al contrario, per il carattere rigido raggiungere gli obiettivi provoca piacere, riesce in questo modo a sedurre gli altri, il masochista non è seducente e fa tutto per dovere, se lo impone. Prigioniero di questa modalità, gli è difficilissimo dire di no. Riguardo agli obiettivi, nel masochista è presente un sabotatore interno che lo trascina nel fallimento. E’ attirato a seguire l’autorità, ma è portato a fare del sabotaggio. Sabota la sua autorità interna (sé ideale) e non fa movimenti adeguati per raggiungere gli obiettivi, in costante conflitto con l’autorità stessa.
Sottomissione e sabotaggio si fondono in un “liquame” nel quale si impantana senza riuscire mai ad uscirne completamente. Il masochista usa l’energia (lavoro) per obbedienza, non per un obiettivo. Nelle relazioni con gli altri solleva complicazioni, è dispettoso, sabotante. E’ presente una forte rabbia, ma può permettersi di essere cattivo solo se l’altro è cattivo; così ha affinato col tempo una peculiare abilità: porta l’altro ad esplodere, così può esplodere anche lui. Essere maldestro è una tattica e non uno stato, potrà dimostrare in futuro di non averlo fatto apposta.

In sintesi, l’aggressività è sostituita da un comportamento provocatorio, agito con lo scopo di ottenere una reazione dell’altra persona abbastanza forte da permettere a lui di sentirsi nella posizione di avere ragione. La sensazione di essere nel giusto e la reazione forte dell’altro sono gli ingredienti necessari per consentire al masochista di reagire in modo violento ed esplosivo. Nel masochista è sempre presente un senso di colpa.

Per rispondere liberamente alle situazioni della vita, il masochista deve riuscire a liberarsi del suo fardello, questo è un importante obiettivo della sua terapia.

 

Dr. Cosimo Aruta
Psicologo – studente del XIX° corso di formazione in analisi bioenergetica (SIAB Milano)

Tratto da www.mediazionefamiliaremilano.it

Il carattere psicopatico di Cosimo Aruta

Nella nostra cultura, in genere è la madre che stabilisce narcisisticamente e saccentemente quale tipo di accadimento sia più idoneo al suo bambino; in tal modo vengono ignorati, disattesi e manipolati i veri , naturali bisogni bioenergetici di quel bambino. Essi vengono infatti sacrificati sull’altare della libertà dei genitori di trasmettere ai figli i valori di cui quella famiglia è depositaria, calpestando il diritto del bambino a sviluppare e ad esprimere valori diversi, quelli del suo potenziale innato, del suo Emerging Self (intenzionalità tesa all’esperienza ed alla conoscenza). Se questo conflitto sul diritto di espressione si esaspera, una madre può reagire nevroticamente alle richieste del suo bambino, e può divenire ansiosa nei confronti di quelli che sono i bisogni evolutivi e la psicomotricità; allora il bambino sviluppa la sensazione dell’ostilità e dell’aggressione materna, e nello stesso tempo si determina in lui l’ansia di accontentare la madre, così premurosa ed ansiosa per certe funzioni, e così indifferente e negativa per tutti gli altri canali relazionali. Allora il bambino comincia ad avere dubbi sulle proprie funzioni naturali che preoccupano tanto la madre, comincia a perdere fiducia nelle proprie sensazioni corporee, in se stesso, inizia a strutturare le tensioni muscolari croniche ed a scambiare le sensazioni corporee in funzione dei desideri materni. Solo così riesce ad assopire il conflitto con la madre e ad illudersi che la mamma lo accetti e lo ami al di là delle sole cure materne.
(Ezio Zucconi Mazzini, La malattia del potere, Alpes Italia, Roma, 2010, cap. VIII° – pag. 70).

L’esperienza dello psicopatico nella sua vita infantile è densa di manipolazioni attuate dalla madre nei suoi confronti. Non è infrequente osservare un bambino che, attratto da oggetti, colori e attività motorie nuove per lui, viene prontamente bloccato e indirizzato diversamente da una mamma che osserva l’ineludibile imperativo: “è per il tuo bene”. Per comprendere in concreto quali potrebbero essere le esperienze vissute dal piccolo in quella specifica situazione, immaginiamo un bimbo nella fase oggettuale della differenziazione (da uno a due anni circa) che, attratto dal tappeto di casa inizia a giocare tirandolo e ridendo con gioia per la sua nuova scoperta. Sopraggiunge immediatamente la madre che lo distoglie da quello che stava facendo: “No! No, Lo sai che un bravo bambino non fa questi giochi pericolosi, non si sporca le manine toccando il pavimento e il tappeto, no no”. Poi lo prende per mano, lo accompagna in un altro ambiente, lo fa sedere sulla sediolina della sua piccola scrivania, gli porge un libro illustrato per bambini e tenta di convincerlo che la lettura è l’attività che va bene e fa bene a lui: “vedi che bello il coniglietto in questa pagina, indicandolo con il dito, in alto c’è una lettere, la lettera C, Coniglietto! Vedi come ti diverti, è questo che ti fa piacere e che ti fa divertire e la mamma è contenta che impari qualcosa di utile. Tu sei unico, sei il più intelligente, sei il migliore di tutti i bambini, per questo ti voglio così tanto bene“. Il bambino comincia a dubitare delle sue sensazioni corporee, soprattutto perché la madre, nella sua modalità di relazione (vezzeggiandolo e manipolandolo), lo convince di sentire quello che lei stessa vuole che lui senta.
La madre del bambino psicopatico è molto seduttiva e, nello stesso tempo, manipolativa. Al bambino non sono mancate le cure materne, tuttavia, la sensazione che lui ha provato è che non fossero rivolte veramente a lui, la sua percezione sensoriale tende a confondersi. Occorre ricordare che alla nascita, il bambino vive il rapporto con la madre esclusivamente attraverso l’apparato sensoriale, non essendo quello motorio, del linguaggio e intellettivo, ancora formato. Per questo motivo il sensorio è fondamentale nella sua funzionalità o disfunzionalità. Il rapporto calmo, sereno, sicuro che lo accompagna nelle sue esperienze, anche di contatto, si alterna in una altalena imprevedibile, in relazione agli umori e alle sensazioni emotive mutevoli della madre.
Le reazioni che si sviluppano nel bambino possono procedere con due modalità:

  • Con la tendenza alla passività, nell’attesa che la situazione cambi e che le promesse, le lusinghe, vengano mantenute; oppure, al contrario,
  • Con l’indipendenza narcisistica che rifiuta l’idea dell’attesa, in quanto l’enfasi del genitore seduttivo che lo fa sentire il migliore, l’unico, fa si che il bambino esiga che i suoi bisogni vengano soddisfatti subito, perché tutto gli è dovuto.

Alexander Lowen nel suo prezioso volume: “Il linguaggio del corpo, Feltrinelli Editore, Milano 1978”, scrive che il caos che può determinarsi nella vita di un bambino è dovuto a forze esterne che ne hanno turbato la naturale, armoniosa autoregolazione.
Lo sforzo ad essere buono, limitando l’espressione emotiva, induce nel bambino la ribellione che, però, temendo di perdere l’amore, finirà per utilizzare le stesse armi della madre: nella situazione descritta, la seduzione e la manipolazione. Così al piacere di “sentire quello che prova” si sostituisce quello di “dover sentire quello che agli altri piace ce si senta”. Quale è il risultato? Nega ciò che sente.

Identificandosi col genitore che con la sua seduzione, di fatto gli usa violenza, il bambino nega la violenza subita e, bloccando i sentimenti di ostilità ed i propositi di ribellione, diventa psicopatico, imparando a sedurre a sua volta. Nella sua dipendenza assoluta dalla madre, nel suo bisogno di essere comunque da lei amato, il bambino si convincerà che “non è vero quello che sente”, ma è vero quello che dice la mamma, per cui, per sopire il caos che si può creare tra impulso e repressione dell’impulso, imparerà a rimuovere le sensazioni, negando la falsità delle promesse materne. Le promesse sono l’unica cosa che veramente ha, l’equivalente per lui dell’amore materno, dell’attenzione che può ricevere. Negare la veridicità delle promesse fatte dalla madre, sarebbe come sentire l’amarezza e lo sconforto di confrontarsi con una madre falsa, il bambino entra così nella paura del terrore di quello che non c’è.

CONSEGUENZE
Se questo rappresenta per il bambino l’unico meccanismo di sopravvivenza a sua disposizione, a questo si adatterà. Così facendo diventerà remissivo, ma senza sentimenti, uno psicopatico ingenuo, facilmente parassita, gregario, bisognoso di lusinghe, di alleanze, camaleontico nel comportamento, in quanto, a differenza del narcisista che si sente onnipotente, non ha mete precise. L’aspetto manipolativo lo porterà a sfruttare le persone più forti di lui, vivendo nella loro ombra, evidente comportamento non autentico perché il suo caos interiore non gli consente di capire cosa veramente vuole. Nello psicopatico con aspetti masochistici la sottomissione è più evidente. Al contrario, lo psicopatico con aspetti marcatamente narcisistici, sente che per lui è fondamentale non essere gregario di nessuno, ma di avere gregari da usare, sempre disponibili per lui. Il suo imperativo assoluto è: diventare un leader, il numero uno, il migliore, purtroppo a qualsiasi costo.
Per Alexander Lowen “Bioenergetica, Feltrinelli Editore, Milano 1983“, nello psicopatico l’Io diventa ostile al corpo e alle sue sensazioni, specie a quelle sessuali. Il bisogno di potere, di dominio, di controllo, sia attraverso la sopraffazione, che invece con la seduzione (sempre vincente con gli ingenui), rimane la caratteristica di fondo. Il bisogno di controllare è sempre correlato alla paura di essere controllato e quindi usato; per cui la lotta che si stabilisce per il predominio esclude la possibilità della sconfitta. Presente è sempre l’aspetto sessuale, anche se nel rapporto il piacere non deriva tanto dal sesso quanto dalla performance in cui l’aspetto seduttivo, morbido, accattivante fa parte della manovra manipolativa di cui, da bambino fu oggetto da parte della madre che lo voleva legare a sé. L’idea fissa di essere speciale (mitomania, megalomania), gli fa respingere qualunque cosa che la contrasti, negando ogni responsabilità che lo possa mettere in discussione. L’incapacità di accettare critiche fa scattare le sue difese usando la menzogna come se fosse una realtà, recitando e apparendo “come se fosse autenticamente dispiaciuto” o “come se fosse emozionato”. Alexander Lowen parla di aridità affettiva, di deserto emozionale, di mancanza di senso di umanità, nel senso che i bisogni degli altri non esistono per lui, così come si sente indifferente ai sentimenti degli altri. Lo psicopatico è stato costretto a imparare troppo presto “le regole del gioco” fingendo. La seduzione manipolativa operata a suo tempo dal genitore del sesso opposto non consente l’identificazione con il genitore dello stesso sesso, lo psicopatico si sente superiore a lui (i maschi si sentono superiori al padre e le femmine superiori alla madre). Per questo motivo non potrà sviluppare il Super Io e per questo motivo è scevro da ogni norma morale. Non desidera il sostegno e l’aiuto di nessuno perché teme di poter diventare così uno strumento dell’altro, come la sua esperienza infantile gli ha insegnato. E’ sempre diffidente e guardingo, non crede alla buona fede degli altri e nemmeno che l’altro possa essere animato da sinceri propositi, che possa essere disinteressato; la sua drammatica esperienza di vita nella fanciullezza gli ha dimostrato il contrario. Proprio perché è stato manipolato, lo psicopatico ha maturato l’abilità di saper cogliere il bisogno dell’altro e lo utilizza per se, fingendo di essere animato da profondo altruismo. Spesso si propone come una persona simpatica, sorridente, positiva e molto sensibile, al punto da intuire i veri bisogni degli altri, presentare soluzioni brillanti possibili e apparire altruista e disinteressato.
La sua frase tipica, pronunciata in modo seducente e mellifluo, con postura di tre quarti, abbassando sensibilmente il capo ma non lo sguardo, è: “ma lo faccio per te!”. Tuttavia, appena riesce a conquistare la fiducia ed a superare ogni muro di difesa o di saggia perplessità degli altri, seduce e manipola le persone per volgere la situazione a suo esclusivo vantaggio. Quando gli altri, che lui percepisce frequentemente come prede, si accorgono della trappola è troppo tardi, perché lo psicopatico è riuscito a portare a termine i suoi propositi a suo esclusivo vantaggio. Il suo tornaconto è sovrano per lui e si dimostra indifferente per i danni causati agli altri, anche se ingenti, anche se rovinosi. La pericolosità dello psicopatico nelle relazioni di ogni natura e genere è amplificata dalla sua eccellente intelligenza, tale da renderlo spesso insuperabile; controlla ogni variante e anticipa ogni possibile difesa dell’altro. Come per una mosca davanti alla tela del ragno, l’unica possibilità di salvezza è accorgersi con anticipo della trappola, tessuta in modo da apparire invisibile. Non è casuale che tante persone raggirate e danneggiate abilmente da qualcuno, a posteriori dicano: “chi se lo sarebbe aspettato, non lo avrei mai immaginato“.

IL CORPO E LA SITUAZIONE DELLO PSICOPATICO
Lo psicopatico è stato un bambino che non ha ricevuto il sostegno e non possiede la capacità di essere in grounding. In una simile situazione il corpo deve per adattamento “sradicarsi”, “tirarsi su”, l’energia si concentra nella parte superiore del corpo. Questa spinta verso l’alto, questa fuga dalla realtà (sconvolgente per il bambino in una importante fase di sviluppo) sposta in alto anche il centro di gravità del corpo, il che è ben visibile nella sproporzione tra sviluppo della parte superiore (ipersviluppata), rispetto alla parte inferiore del corpo, (iposviluppata).

Gli arti inferiori sono esili, non c’è la base sicura; la parte superiore è iper-espansa, si tiene su, come per gonfiare la sua immagine il più possibile. La mancanza di integrazione percettiva si esprime somaticamente mediante la tipica struttura caratteriale dello psicopatico (holding up). La testa non è connessa energeticamente con il resto del corpo; a volte la testa si rivela inadatta ed inadeguata al resto del corpo, essendo una testa infantile su un corpo adulto, oppure, al contrario, una testa matura su un corpo infantile. Altre volte la testa è piccola rispetto ad un corpo che è grosso e forte. Queste disarmonie e sproporzioni tra testa e corpo sarebbero indotte dall’anello di tensione che lo psicopatico sviluppa alla base del cranio, in epoche abbastanza precoci del suo sviluppo psicofisico.

Il suo sguardo è molto controllato e controllante, spesso fissa per imporre la sua volontà. Gli occhi possiedono una duplice funzione : sono un organo visivo (guardare), ma anche un organo di contatto con gli altri (vedere in profondità). Lo psicopatico possiede occhi vivaci che guardano tutto, ma che non “vedono” i loro interlocutori. Il blocco oculare impedisce o distorce il contatto affettivo con gli occhi. Gli occhi sono lo specchio dell’anima ed esprimono i sentimenti e le emozioni. Lo psicopatico esprime con l’elevazione del cingolo scapolare e l’espansione della gabbia toracica: “Io, Io, lei non sa chi sono io!”. Nega i sentimenti, si allontana dal suo vero sé e investe le sue risorse energetiche nella sua immagine. Lo psicopatico non va mai in terapia se non per necessità. Nella vita gestisce il potere, deve sentirsi potente attraverso il denaro, il successo, il prestigio, etc. Con la crisi economica lo psicopatico non regge perché non riesce più a mantenere la sua immagine gonfiata. Non riesce a stare in una situazione che lo “riduce” e per reazione fugge dall’intollerabilità, spesso facendo uso di alcol, droghe, etc. Non può sopportare la frustrazione e se non riesce a sfuggirvi si “sgretola”; solo in questa situazione di fallimento considera la possibilità di una psicoterapia.

Nella lettura del corpo si osserva nello psicopatico un flusso energetico invertito, cioè dalla testa agli arti inferiori, mediante il reclutamento difensivo dell’energia dalla parte superiore del corpo (testa, torace, collo), iperenergizzati, per compensare e nascondere la debolezza e l’instabilità delle gambe. Infatti, le sue ginocchia non si flettono e gli arti inferiori, durante gli esercizi bioenergetici, non vibrano. Queste forti tensioni muscolari dissociano la coscienza dalle sensazioni, mentre la tensione diaframmatica e pelvica dissocia la sessualità dalle emozioni di amore, in altre parole lo psicopatico è controllato dal potere della testa. L’energia non può scendere al cuore, ai genitali ed alle gambe perché il grounding lo renderebbe facile preda dell’intimità, che lo psicopatico vive come: “essere in balia della seduzione della madre“. Proprio per paura di essere sedotto diviene lui molto seduttivo, ma senza mai mettere a rischio il cuore e l’intimità, controllando le emozioni e gli affetti. Purtroppo per lui, proprio questo comportamento difensivo mette davvero a rischio la salute del suo cuore, a tutto vantaggio dei cardiologi (Ezio Zucconi Mazzini, La malattia del potere, Alpes Italia, Roma, 2010, cap. XXV° – pag. 214). La respirazione dello psicopatico è prevalentemente toracica. Il petto risulterà per questo motivo gonfio ed espanso, nel tentativo psicologico di ipertrofizzare il suo IO. Non è infrequente osservare nella storia evolutiva dello psicopatico un correlato disturbo affettivo, generato dal desiderio dei suoi genitori di avere un figlio speciale, di successo, che ha ricevuto giocattoli e beni materiali in sostituzione della vicinanza affettiva autentica, sottolineata da un vero contatto d’amore con i genitori.

 

Dr. Cosimo Aruta
Psicologo – studente del XIX° corso di formazione in analisi bioenergetica (SIAB Milano)

Tratto da www.mediazionefamilaremilano.it

Il Carattere schizoide di Cosimo Aruta

Accettare un sentimento implica più della semplice consapevolezza intellettuale della sua esistenza. Si deve sperimentare il sentimento, fare amicizia con esso.

(Alexander Lowen, Arrendersi al corpo, Feltrinelli, Milano, 2004, cap. I° – pag. 176).

Per comprendere il tratto schizoide è necessario un lavoro con l’aspetto terrifico dell’esperienza umana, in terapia si lavora molto sugli occhi e sui piedi. L’eziologia di questa patologia affonda le sue radici nel primo periodo della vita di un individuo: un bambino che venendo alla luce trova un ambiente ostile, rifiutante ed assolutamente non accogliente. Lo sguardo di quell’anima appena entrata nel mondo ha incrociato gli occhi sprezzanti, carichi di odio appartenenti ad un demone umano, capace di farlo sentire destinato a vivere dentro un inferno di ghiaccio. Come se il diritto alla vita ed alla gioia di questo mondo a lui fosse negata. Questa prima esperienza terrifica lascia incisioni profonde nell’anima di una persona, le finestre che aprono l’anima al mondo (occhi), comunicano la sofferenza patita.

Gli occhi rispecchiano la salute o il malessere dell’individuo dal puto di vista psicosomatico. Si possono osservare diverse caratteristiche:

  • l’espressione e la loro collocazione nelle orbite,
  • la struttura ed il funzionamento del globo oculare,
  • la situazione dell’iride e della sclerotica.

Dopo avere esplorato lo sguardo di un individuo è possibile comprendere quello che gli occhi esprimono attraverso la loro lucentezza, la loro forma ed il modo in cui si inquadrano nel viso.
Ad esempio, gli occhi profondamente incassati nelle orbite, frequentemente, indicano tutta una vita di espressioni trattenute e di tristezza repressa. (Ken Dychtwald, Psicosoma, Astrolabio, Roma, 1978, cap. IX° – pag. 184)

La mancanza di espressione negli occhi è un elemento della difesa schizoide dalle emozioni. Quando osserviamo negli occhi un soggetto schizoide ci sembra che egli stia osservando un punto indefinito posto dietro la nostra testa. I suoi occhi appaiono vacui e distanti, sembra che egli sia nascosto dentro i suoi occhi. Espandendo l’esplorazione al viso, si osserva che esso è privo della gamma di emozioni che esprime la vivacità di un individuo.

La maschera può assumere diverse forme:

  • l’espressione del cown,
  • l’innocenza del bambino,
  • l’espressione di sufficienza,
  • l’arroganza del nobile.

La caratteristica costante in ogni mascherata è un sorriso fisso, senza la partecipazione dello sguardo. La dissociazione tra il sorriso delle labbra e l’inespressività degli occhi è tipica della personalità schizoide.
Talvolta, esercitando una pressione con i pollici sugli zigomi e ai due lati del setto nasale, si spegne il sorriso stereotipato ed emerge un’espressione cadaverica che ricorda l’aspetto di un teschio. Il viso si scolora e gli occhi appaiono come orbite vuote. Sarebbe corretto dire che lo schizoide è ‘spaventato a morte’ in senso letterale, non come modo di dire.
L’espressione del suo viso è raggelata dal terrore sottostante (Alexander Lowen, Il tradimento del corpo, Edizioni mediterranee, Roma, 1997, cap. IV° – pag. 67).
Lo schizoide non osa accettare il bambino che è dentro di se, perché è terrorizzato dalla paura primaria.

I piedi sani che possono muoversi liberamente e privi di inestetismi debilitanti, sono piattaforme con tre punti di contatto e con un fisiologico arco nel metatarso. I piedi hanno una grande importanza perché sono in contatto con la realtà e con la terra attraverso la forza di gravità. Una imperfezione nel contatto al suolo si riflette sull’equilibrio di tutto il corpo. Proprio per la loro funzione, i piedi rappresentano l’atteggiamento che un individuo assume per affrontare le vicissitudini della vita. Ad esempio, quando diciamo che una persona ha i “piedi per terra”, intendiamo che ha un buon senso della realtà.

Molte persone ritengono di avere i “piedi per terra”. In senso meccanico hanno effettivamente un contatto con il suolo, ma è altrettanto vero in termini di sensazioni e di energia?
In bioenergetica il lavoro di grounding si propone di abbassare un individuo in direzione della terra, come se potesse mettere radici. Essere radicati (grounded) è l’opposto di essere sollevati (hung up) e ci aiuta a stabilire un contatto adeguato con la terra che ci sostiene.
Nel sistema energetico di un organismo, l’essere ben radicati è come avere la messa a terra in un circuito elettrico. Offre una valvola di sicurezza per poter liberare l’eccitazione quando è eccessiva. Senza questa preziosa opportunità ed in condizione di elevata carica tensionale, l’individuo potrebbe scindersi e cadere in crisi.

Nei soggetti schizoidi i piedi sono molto deboli e debole è il loro senso di radicamento.

Il movimento verso il basso fa paura, evoca l’antica paura di cadere dalle braccia della madre. Il grounding è un esercizio di radicamento con la realtà che allontana dalle illusioni, ma che richiede in questi casi una buona dose di coraggio e preparazione.

La rigidità schizoide è diversa da quella del nevrotico frustrato. Il nevrotico è incollerito, lo schizoide è terrificato da una rabbia “ingabbiata”. La rigidità nevrotica è paragonabile al ferro, la rigidità schizoide è paragonabile al ghiaccio. Il ghiaccio, come la personalità schizoide è tanto fragile quanto duro, reprime e sostiene. La sensibilità schizoide non è connessa alle sensazioni del corpo, si presenta fredda e nega il bisogno del piacere fisico. Tuttavia, lo schizoide dimostra passione e sentimento quando si tratta di combattere contro una ingiustizia: difendere i diritti dei più deboli, etc. Riflette un altruismo, la cui energia sgorga dalle sue difficoltà personali. Egli tenta di compensare la perdita della sua identità personale con le identificazioni sociali.
Quando la volontà diventa il meccanismo primario dell’agire, sostituendosi al naturale orientamento verso il piacere, l’individuo funziona in modo schizoide.

Una osservazione attenta del corpo schizoide rivela diversi disturbi tipici:

  • La metà superiore del corpo presenta frequentemente una muscolatura ipotonica,
  • Il torace è spesso stretto, costretto, contratto e mantenuto in posizione di espirazione,
  • La respirazione, per questo motivo, è limitata,
  • Nei casi meno gravi è presente un rigonfiamento compensatorio del torace, tipico di molti body builders ossessionati con l’allenamento dei distretti muscolari “virili”,
  • In tutti i casi, soprattutto per una contrazione cronica del diaframma, il giro vita è molto stretto, sia dal punto di vista strutturale: corto asse bisiliaco, sia dal punto di vista energetico: bassa percentuale lipidica (che rappresenta il magazzino di energia), e scarsa distribuzione delle cellule adipose in quella zona),
  • L’impressione di un corpo diviso in due (la persona tenta di dissociare la metà superiore del corpo, identificata con l’io, dalla sessualità e dalla parta inferiore),
  • Displasia, cioè la presenza di tratti del sesso opposto, rara nel tipo astenico,
  • Nel tipo astenico, lungo e magro, si presentano attenuate le differenze sessuali secondarie e ridotta la coordinazione motoria,
  • Le ginocchia sono rigide,
  • Le caviglie si presentano stecchite, la flessione dorsale del piede è limitata, con conseguente impossibilità di flettere completamente le ginocchia mantenendo le piante dei piedi aderenti al suolo,
  • i piedi sono contratti,
  • Se presente una fissazione a livello infantile, i muscoli dei piedi sono cronicamente contratti per sostenere il peso del corpo, accentuando così la curva dell’arco (piede cavo),
  • Si nota un infantilismo anche nei piedi insolitamente e stranamente piccoli.

(Alexander Lowen, Il tradimento del corpo, Edizioni mediterranee, Roma, 1997,
cap. IV° – pag. 72
)

Per proteggere la sua personalità privata dalla naturale identificazione con il corpo, lo schizoide dipende interamente dalla sua forza di volontà, che deve essere sempre vigile. La conseguenza è una muscolatura perennemente in stato di contrazione, che lo schizoide utilizza come una corazza protettiva contro il terrore. Il “frantumarsi” della corazza può causare nello schizoide la disgregazione della personalità, perché, a differenza della persona sana, non riesce a tenere salda l’unità e l’identità della personalità con l’energia proveniente dai sentimenti.

Il corpo.

  • Nella persona normale
    Il corpo è vitale e la carica energetica periferica si rivela nel tono e nel colorito della pelle, nella luminosità dello sguardo, nell’armonia della motilità e nella capacità di rilassare i muscoli e stare comodi.
  • Nella condizione schizoide
    L’energia è racchiusa in nuclei interni, protetti da una rigida barriera muscolare in costante stato di contrazione e utile ad impedire il collasso minacciato dal vuoto interno. La minor carica superficiale rende la pelle ipersensibile. La contrazione cronica dei muscoli è responsabile del restringersi del corpo, che prende così il tipico aspetto astenico.

Il crollo della rigidità precipiterebbe lo schizoide in una situazione schizofrenica. Il collasso comporta la perdita dei confini dell’io e la distruzione dell’unità e della integrità residua. Quando la carica di tensione è sufficiente, la struttura schizoide può cedere ed entrare in una crisi psicotica acuta.

Per lo schizoide, a differenza della persona normale, la funzione integrativa del piacere è inaccessibile. Di conseguenza, la strada che consente un flusso continuo di impulsi diretti al mondo per ricevere conforto e soddisfazione, è bloccata. Per questo motivo lo schizoide usa la volontà per cementare la mente e il corpo. Ma la volontà, anche se dura come l’acciaio, è fragile, mentre il piacere è duttile e insinuante e fornisce elasticità, come la linfa nell’albero.

La malattia somatica e la malattia mentale sono antitetiche e tendono a escludersi vicendevolmente. L’individuo è predisposto all’una o all’altra ma non ad entrambe nello stesso periodo.
Quando si disintegra la funzione del piacere, possiamo attenderci una malattia fisica, mentre la disintegrazione della volontà porta a una malattia mentale.
Leopold Bellak osserva, a proposito di questo fenomeno: “La bassa incidenza di disturbi allergici negli psicotici, e il loro ripresentarsi dopo il miglioramento e la guarigione, è probabilmente uno degli esempi meglio documentati di tale intercambiabilità”.
(Alexander Lowen, Il tradimento del corpo, Edizioni mediterranee, Roma, 1997,
cap. III° – pag. 55) – (Bellak L., Schizophrenia: A Review of the Syndrome, Logos Press, New york, 1950,
pag. 24)

Il sistema di difesa schizoide contro il terrore e la follia dispone di due strategie. La più frequente è la rigidità fisica e psicologica, che attraverso la sua “barriera” di muscoli cronicamente contratti, imprigiona le emozioni e costringe il corpo al solo controllo dell’io.

Una strategia meno comune si manifesta attraverso una ipotonia muscolare superficiale. La formazione degli impulsi è ulteriormente ridotta, al punto che il corpo sembra più morto che vivo. La carica periferica è molto bassa e il colorito è olivastro o terreo. Questa difesa si verifica in seguito al crollo di quella rigida e si orienta verso la schizofrenia. Si tratta di una manovra disperata, indispensabile quando il terrore è grande. In una condizione di estremo terrore, come ad esempio l’attesa della propria esecuzione, accettare la propria morte simbolica significa privare il terrore dei suoi aculei. Un corpo privo di emozioni non può più subire spaventi o traumi. Ritirandosi lo schizoide perde i suoi soldati (tono muscolare) e la capacità di difendersi, anche se controlla il controllo del resto della personalità. La ritirata schizoide è una tattica per evitare la totale disfatta; come un comandate senza soldati può cavarsela meglio che circondato da un’armata disordinata e nel caos più generale. Infatti, la condizione schizofrenica è uno stato di caos dove ogni pezzo di personalità, come ogni soldato nella metafora, abbandona gli altri.

Nel ritiro la volontà è inoperosa, l’io si allea al nemico per evitare la totale sconfitta e si dimostra sottomesso ad ogni situazione. Lo schizoide che sceglie il ritiro alla rigidità ha perduto la sua capacità assertiva, non riesce mai a prendere una posizione.
Dal punto di vista logico, la rigidità schizoide è una difesa dal collasso, mentre il ritirarsi è causato dal cedimento di una resistenza anteriore.
Dal punti di vista storico, la tattica schizoide di ritirata e di sacrificio fu elaborata dal bambino in età precoce, dopo un tentativo fallito di erigere una difesa rigida contro la pressione dell’ostilità parentale.
(Alexander Lowen, Il tradimento del corpo, Edizioni mediterranee, Roma, 1997, cap. III° – pag. 58).

 

Dr. Cosimo Aruta
Psicologo – studente del XIX° corso di formazione in analisi bioenergetica (SIAB Milano)

Tratto da www.mediazionefamiliaremilano.it

LA RESPIRAZIONE E I SUOI BLOCCHI di Nitamo Federico Montecucco

L’aria e il respiro sono sempre stati legati alla vita e alla mente. Ogni essere vive perché continua a scambiare energia e informazioni con l’esterno. Ogni essere vivente deve quindi produrre continuamente sostanze solide (cibo), liquide (bevande) e gassose (aria). E’ possibile restare molti giorni senza cibo, anche settimane, ma solamente qualche giorno senza liquidi. e appena pochi minuti senza aria.

L’energia vitale dell’aria
Per questo motivo in tutte le tradizioni mediche dell’antichità il termine ‘aria’ conteneva in sé anche il significato biologico e psichico di ‘energia vitale’. Così la medicina spirituale indiana identifica l’elemento vitale presente nell’aria chiamandolo “prana”, nel Tibet prende invece il nome di “rlung”, “Qi” in Cina, “pneuma” nell’antica Grecia. La stessa mitologia religiosa della tradizione ebraica riconosce l’importanza del “soffio vitale” con cui Dio anima gli esseri umani infondendogli 1a vita e la coscienza. L’elemento “aria” come sinonimo di vitalità e di psiche, lo ritroviamo anche nella simbologia astrologica e in quella archetipica.
La respirazione infatti è la più vitale delle funzioni fisiologiche e anche l’unica ad essere sia volontaria (cosciente) che automatica (inconscia). Noi non possiamo modificare il battito cardiaco, o controllare l’attività dello stomaco o dei reni ma, se desideriamo, possiamo modificare volontariamente la respirazione sia in ampiezza che in frequenza; possiamo fermare il respiro o accelerarlo.

I comuni blocchi della respirazione
Il respiro è profondamente influenzato dalle emozioni e dalla nostra psiche. Se osserviamo la qualità del respiro di una persona possiamo immediatamente riconoscere quale emozione sta vivendo. Sarebbe estremamente importante che genitori, insegnanti e medici fossero in grado di riconoscere queste modificazioni in modo di correggere le eventuali alterazioni della respirazione naturale e prevenire sul nascere moltissime delle patologie del sistema respiratorio.
Facciamo alcuni esempi molto generali. Ogni volta che un bambino ha paura modifica la sua respirazione con una caratteristica contrazione della muscolatura respiratoria delle spalle e della parte superiore del torace. L’inibizione della libera espressione della voce e delle proprie emozioni e opinioni provoca contrazioni dei muscoli del collo e della gola, mentre la repressione delle sue funzioni fisiche più semplici e vitali come il correre, il muoversi, il giocare nella natura (tipica dei bambini di città) provoca un indebolimento della respirazione addominale.

Reprimere la sessualità bloccando il respiro
Reich e tutta la moderna ricerca psicosomatica hanno documentato come la repressione della libera e naturale sessualità (che già si manifesta nei bambini di 3 – 4 anni e ha il suo massimo dai 14 ai 19 anni), porti a profondi blocchi respiratori e muscolari in tutto il corpo. Questi blocchi spesso si manifestano con irrigidimento del diaframma, dei muscoli della zona lombare e renale e dei muscoli del basso ventre e dell’inguine. Quando la respirazione in una zona del corpo è bloccata, vengono anche bloccate le sensazioni che da quella zona arrivano al cervello; il risultato sarà di avere una parte del corpo che non pulsa più, ma rimane contratta e senza sensazioni: una vera zona morta. Molto spesso, i blocchi emotivi, causati dai condizionamenti sociali e religiosi, provocano un tale arresto della normale circolazione sanguigna e linfatica e della trasmissione nervosa da rappresentare una vera condizione predisponente per l’instaurarsi di forme patologiche più gravi come, ad esempio, dismenorree, vaginiti, tumori di origine infiammatoria o degenerativa, emorroidi, coliti o problemi venosi agli arti inferiori.

Pene d’amore e blocchi di petto
La mancanza di affetto si manifesta invece con un caratteristico blocco della respirazione nella parte alta del torace e tensione sternale, nelle donne spesso con un forte dolore di fondo al seno; Il torace è interessato sia anteriormente che posteriormente, la repressione dell’ira blocca più sovente la parte destra del diaframma e dei muscoli laterali del torace e della spalla, con un caratteristico blocco dei muscoli della masticazione.
Ogni naturale funzione vitale ed emozionale che viene inibita porta ad un blocco muscolare e respiratorio. Gli esempi potrebbero continuare e, certamente, essere espressi in termini medici e psicologici più specifici, esistono infatti blocchi caratteristici delle differenti emozioni, ma, essendo questo solo un primo tentativo di comunicare l’esistenza di tensioni psicosomatiche estremamente comuni sia nei bambini che negli adulti, riteniamo sia meglio restare sulle generali.
Come riconoscere i blocchi
E’ di estrema importanza capire che i blocchi possono iniziare in ogni età della vita e che la presenza di un blocco, anche lieve, porta ad un indebolimento di tutta la zona fisica relativa e delle funzioni ad essa correlate. Quando il blocco non viene riconosciuto e risolto, il corpo, non più mobile e ossigenato, tende ad ammalarsi.
Malattie respiratorie come l’asma, le bronchiti, i raffreddori, le laringiti e le sinusiti e anche molte malattie generali, come le gastriti, le stitichezze, le coliti, le lombalgie e moltissimi disturbi ginecologici, hanno una base nei blocchi della respirazione e quindi possono essere fortemente migliorati e prevenuti da una attenta osservazione e riequilibrio respiratorio.

Il piacere di vivere sani
Un corpo sano deve essere mobile e rilassato in ogni sua parte, nessun muscolo deve essere dolente alla pressione. Se non vi sono tensioni muscolari, emozionali o psichiche, la respirazione è naturalmente libera, fluida e profonda. La respirazione normale si percepisce come una pulsazione ritmica dell’addome e del torace, come fosse urna medusa che si espande con un movimento fluido e silenzioso dalla pancia al torace e si rilassa con un movimento contrario. La respirazione è accompagnata da un senso di sottile piacere fisico che si estende all’intero corpo. Se la respirazione al contrario è bloccata, si osservano movimenti irregolari o una respirazione parziale (solo torace o solo addome), si nota una difficoltà di respirare profondamente, una insensibilità di alcune parti del corpo o anche un evidente dolore. Il collo è rigido, le spalle tese, spesso c’è dolore acuto in zona epigastrica.
La voce di una persona che respira armoniosamente è piena e ha un timbro rotondo e piacevole. Ogni blocco della respirazione provoca per contro una riduzione dell’ampiezza della voce dando una marcata riduzione di volume e di tono. Le voci troppo sottili, roche, acute, nasali o metalliche sono solo alcuni effetti dei blocchi più comuni.

Rieducazione della respirazione
Il riequilibrio della naturale respirazione prevede tre livelli di intervento: 1) primo livello di rieducazione preventiva di base per i blocchi più lievi e recenti, 2) secondo livello di intervento sui blocchi già in parte cronicizzati o comunque più profondi ma che non hanno ancora causato danni fisici, la cui rieducazione prevede una attività di sblocco emozionale e di riequilibrio psicofisico più connesso, 3) terzo livello di intervento per i casi più gravi che hanno già causato un danno fisico la cui cura è di stretta pertinenza medica e psicologica.
E’ necessario comprendere che, nell’ottica di un discorso realmente preventivo della salute pubblica, il primo livello di riequilibrio dovrebbe diventare un’attività scolastica regolare che potrebbe essere gestita, per esempio, durante l’ora di educazione fisica, sia nelle elementari che nelle medie.
Una tale politica di istruzione e prevenzione avrebbe un profondo valore nel miglioramento della qualità della salute, soprattutto considerando che le malattie respiratorie sono tra le forme patologiche giovanili più comuni.
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