Skip to main content

Autore: Hiram

La consapevolezza paziente di Corrado Pensa

1. Nel Vangelo di Luca si legge: “Nella pazienza, possiederai il tuo cuore” 1. La parola greca per pazienza ha anche il significato di costanza, perseveranza. È una parola forte. Cuore traduce psyche che ha anche il significato di vita, mente, anima. Dunque, nella pazienza, diverrai uno col tuo cuore. Ricordo quanto mi colpì questa frase quando la lessi per la prima volta. Da questo passo la parola “pazienza”, piuttosto grigia nel nostro linguaggio abituale, emergeva luminosa e intensa. Anni dopo mi capitò di leggere alcune importanti riflessioni su questo tema di un autore cristiano molto noto, Henry Nouwen, e di alcuni altri autori, in un libro intitolato Compassione 2.
Dice Nouwen:

Se non siamo pazienti, non possiamo diventare compassionevoli. Non possiamo essere compassionevoli, se non siamo capaci di soffrire, se non sappiamo soffrire con gli altri, che è il significato della compassione.

In linguaggio dharmico potremmo dire che, se non siamo aperti alla nostra sofferenza, se non siamo pronti a un’esperienza diretta della nostra sofferenza, non c’è molta speranza che possiamo provare empatia per la sofferenza degli altri.

E Nouwen continua sottolineando alcuni punti fondamentali:

La pazienza è la capacità di vedere, sentire, toccare, assaporare e odorare il più pienamente possibile gli eventi interiori ed esteriori della nostra vita. È entrare nella nostra vita con occhi, orecchie e mani aperte in modo da conoscere veramente quello che accade. La pazienza è una disciplina assai difficile proprio perché è un movimento opposto al nostro impulso irriflessivo a fuggire o a combattere. – E conclude: – La pazienza ci chiede di andare al di là della scelta tra fuggire e lottare. È la terza via ed è la più difficile. Richiede disciplina perché va contro la tendenza dei nostri impulsi 3.

Nelle scritture, la pratica del Dharma è definita patiloma, che significa “controcorrente”. La pazienza comporta lo stare con, il vivere interamente, l’ascoltare attentamente ciò che si presenta qui e ora. A me sembra che l’affinità tra la descrizione di cos’è la vera pazienza e la definizione di presenza mentale, o sati, nel Dharma, sia molto forte, tanto che potremmo unire i linguaggi e parlare di consapevolezza paziente, così come si parla di consapevolezza non giudicante, di consapevolezza equanime, di consapevolezza affettuosa.

2. Ciò che va compreso è che queste qualità, la pazienza, l’equanimità, la sollecitudine, l’attitudine non giudicante sono intrinseche alla consapevolezza. In altri termini, se queste qualità non sono presenti, la consapevolezza non è vera e autentica consapevolezza. Non esiste una consapevolezza giudicante: non è consapevolezza. Dunque la vera pazienza è una di quelle qualità intrinseche che caratterizzano il gioiello di cui ci ha fatto dono il Buddha.

Come possiamo definire la consapevolezza, la presenza mentale, sati? Sati è la capacità di entrare in intimità con le cose, ma secondo un atteggiamento di non attaccamento e di non identificazione. Quindi con sollecitudine ed equanimità. Dal punto di vista dell’io è una contraddizione, è assolutamente incomprensibile, ma questa è per definizione la struttura stessa della consapevolezza.

Va da sé che sviluppare vera consapevolezza richiede un addestramento di immensa pazienza e un graduale affinamento della capacità di comprendere, di vedere in profondità. Facciamo un esempio. Supponiamo di essere tristi, che la tristezza sia il nostro stato emotivo predominante. Cosa facciamo di solito? La nostra reazione è condizionata, in ultima analisi, dall’ignoranza. Così, spesso, anche se non necessariamente, ci perdiamo nella tristezza e ci identifichiamo con essa. Con alcune variazioni sul tema: possiamo cadere nell’auto-commiserazione o nell’irritazione, a causa della tristezza. Finiamo così per accrescere la forza e il potere della tristezza. Ed è la nostra reazione abituale. Potremmo chiamare tristezza impura queste forme di tristezza, perché c’è un appesantimento dovuto a strati di reazioni, paure, avversioni. Ora, dando per scontato che il condizionamento basilare è l’ignoranza, se guardiamo in modo più ravvicinato, cos’è più accessibile alla nostra comprensione immediata? Prima di tutto notiamo il grandioso potere dell’abitudine. L’abitudine a reagire in un certo modo crea profondi solchi dai quali diventa poi difficile uscire. Perciò è importante sviluppare una sorta di controabitudine, la pratica, e cioè una forza adeguata, proporzionata, per neutralizzare le abitudini negative che causano la nostra fondamentale sofferenza nella vita.

In aggiunta all’abitudine, se osserviamo da vicino, notiamo qualcosa di più sottile, ma forse di ancora più importante. Si tratta della tendenza a investire un’enorme quantità di energia nel desiderio di liberarsi dello stato mentale spiacevole, per esempio la tristezza. Tale tendenza è presente spesso. Certe volte ne siamo liberi, ma la nostra tendenza è allora di indulgere nella tristezza: non solo non ce ne vogliamo liberare, ma ne vogliamo addirittura di più. Non voglio dire che rientrino nell’avversione alla tristezza piccole scelte di saggezza come parlare con un amico o immergersi nella natura, mi riferisco piuttosto a qualcosa di compulsivo, di ossessivo: pensare, giudicare, reagire per trovare come liberarsi di questa emozione spiacevole. Si può definire questa tendenza una totale non accettazione della tristezza o, appunto, avversione alla tristezza.

3. Ricordiamoci dell’insegnamento del Buddha sulle due frecce 4. Un uomo viene colpito da una freccia a una gamba. In breve l’insegnamento dice che, chi ha coltivato la pratica, prova solo la sofferenza dovuta al dolore fisico, una sofferenza pura. La persona ordinaria, invece, soffre a causa di una seconda freccia, che è l’intensa reazione mentale al dolore fisico.

Nella nostra vita ci sono infiniti esempi che illustrano questo insegnamento della doppia freccia. La prima freccia è la tristezza, la seconda è l’avversione alla tristezza. Nel sutta del Buddha viene spiegato molto chiaramente che il problema sta nella seconda freccia. Questa rafforza le tendenze latenti all’avversione e alimenta anche le tendenze latenti all’attaccamento, attaccamento alla gratificazione vista come unico antidoto alla frustrazione. La seconda freccia è il desiderio intenso di liberarci da uno stato mentale spiacevole. Il problema non è la tristezza, ma il desiderio di liberarcene, perché questo desiderio è un’energia che ci separa dallo sperimentare in modo diretto la verità della tristezza. Essendo tormentati dal desiderio di liberarci da ciò che è spiacevole, anziché aprirci alla tristezza ci chiudiamo. Proprio questa chiusura è la seconda freccia. Restiamo così intrappolati nel nostro concetto di tristezza e nella nostra reazione a questo concetto, ma non facciamo un’esperienza viva della tristezza. Solo se decidiamo di fare questa esperienza reale il nostro rapporto con la tristezza cambierà, come cambierà la qualità stessa della tristezza.

Il desiderio di liberarci da emozioni spiacevoli è energia, non un semplice pensiero, ma qualcosa di denso e vischioso. Ecco perché il Buddha ha tanto sottolineato la forza del desiderio nutrito dall’ignoranza come causa prima della sofferenza nella nostra vita. Ed è di questo che si tratta nell’esempio della tristezza. E più gli esempi sono quotidiani più sono significativi, altrimenti tendiamo a idealizzare dukkha, a pensare alla sofferenza solo in termini di episodi drammatici, mentre dukkha, magari in piccole forme, è raro che non visiti le nostre giornate, e iniziando a praticare lo comprendiamo.

La via dell’impazienza è questo modo condizionato di reagire alle cosiddette emozioni negative, è energia distanziante che ci mantiene nell’immaginazione, nel pensiero della tristezza, anziché nella sua realtà, nella sua verità.

4. Dice Henry Nouwen:

Quale che sia la natura della nostra impazienza, noi vogliamo abbandonare lo stato fisico o mentale in cui ci troviamo e passare a un altro meno disagevole. Essenzialmente, l’impazienza è sperimentare il momento come vuoto, inutile, senza significato. È il desiderio di scappare il più in fretta possibile dal qui e ora 5.

Come sarebbe invece una risposta sveglia, consapevole e paziente alla tristezza o ad altri stati mentali? Prima di tutto si tratta di investire moltissima energia nella consapevolezza stessa, una consapevolezza immediata di cosa sta accadendo. Se lo facciamo, cominciamo a risvegliarci, iniziamo ad avere una percezione diretta, che è cosa ovviamente molto diversa dalla reattività o dalla rimozione. È un punto di svolta e la chiave è un interesse sempre più forte a rivolgersi alla consapevolezza, un interesse diventato quasi un istinto a scegliere la consapevolezza.

Prendiamo per esempio la fame. La nostra mente e il nostro corpo sanno che senza cibo si muore, dunque vogliamo il cibo, è un istinto. Quando la pratica si sviluppa, comincia ad accadere qualcosa di simile. Ci rendiamo conto che più la consapevolezza è disponibile, più la scegliamo, meglio viviamo. È semplice, ma finché non capiamo che più c’è consapevolezza meglio viviamo, questo interesse non si sviluppa e al massimo ci innamoriamo di un concetto. Ci piace parlare della consapevolezza, speculare sulla consapevolezza, leggere tutto il leggibile su di essa. Punto. Ma per fortuna esiste la pratica.

Come individui e come cultura abbiamo assegnato il primato al pensiero, alla parola e all’azione. Chi pratica, tuttavia, comincia a muoversi in un campo diverso, cioè nel campo della contemplazione. La contemplazione è essere consapevoli, è osservare in modo non giudicante, in modo sollecito, equanime.

Torniamo al nostro esempio: sorge la tristezza e, questa volta, vogliamo incontrarla, vogliamo entrare in intimità, vogliamo una relazione con la tristezza, perché la vita è relazione. Dunque, vogliamo cambiare la nostra prospettiva, il nostro atteggiamento riguardo agli stati mentali, alle emozioni. Cominciamo a intuire che la mente è il nocciolo della nostra vita. “La mente conduce, – dice il Dhammapada – e il resto segue”. Ma se siamo posseduti dal desiderio di liberarci dalla tristezza, come possiamo incontrarla? Tutta l’energia va nel desiderio di respingere questa realtà, questo incontro, dunque non c’è energia disponibile per la consapevolezza. È come cercare di accendere una fiamma mentre c’è un forte vento. La consapevolezza viene continuamente spenta, i nostri sforzi sono vani. Possiamo essere molto motivati, molto determinati, vogliamo sinceramente essere consapevoli, ma restiamo sempre più frustrati, perché la consapevolezza continua a spegnersi, perché tutta l’energia va nella direzione opposta. Quindi, finché non ci rendiamo conto di tutta l’energia che va nel desiderio di cacciare la tristezza, non possiamo lavorare per lasciar cadere questa energia. Quando finalmente la vediamo, allora e allora soltanto possiamo cominciare a lasciarla andare e la consapevolezza ha la possibilità di accendersi e di restare accesa.

5. L’esperienza diretta non è facile da praticare. L’esperienza diretta può accadere solo momento per momento. Lo sappiamo e insieme non lo sappiamo. Non appena abbandoniamo il momento presente, ci ritroviamo nel mondo del pensare, così spesso carico di giudizi e reattività. Non ci resta che ritornare più e più volte, con generosa pazienza, alla realtà del presente. Si tratta, dunque, di sentire direttamente, momento per momento, nel corpo e nella mente ciò che definiamo come sentirci tristi. Sensazioni, pensieri, emozioni: aprirsi a quanto sta accadendo a ogni istante. All’inizio può essere doloroso, perché di solito siamo avvolti da una tale quantità di pensieri e reattività che finiamo per avere una sensibilità meno intensa. Se cominciamo a lasciar cadere tutti questi strati, diventiamo più sensibili, meno protetti e dunque il primo impatto può essere doloroso. Ma se restiamo fermi, se continuiamo a sostenere la pratica, la dolorosità finisce per trasformarsi. Le emozioni negative, una volta spogliate dagli strati di reattività, di pensiero, e giudizio, cambiano. Sono più pure. Diventano sempre meno minacciose, meno dolorose. Cambia la nostra relazione con le emozioni. Siamo guidati da un interesse che è quasi un istinto a stare con ciò che è presente e vogliamo imparare sempre di più a starci.

Certo, è facile scivolare indietro e regredire a modalità primitive, primordiali, in cui la reattività sembra essere l’unica scelta ragionevole e non ci interessa più l’esperienza diretta. In pochi secondi possiamo creare un’intera ideologia e crederci ciecamente. È quello che le scritture chiamano il potere di avijja, dell’ignoranza, che nel linguaggio dharmico non è l’assenza di qualcosa, ma piuttosto qualcosa di attivo. Ci vuole molta pazienza per affrontare tutta l’ignoranza che ci portiamo appresso. La contemplazione paziente, la contemplazione affettuosa della tristezza sono un invito in più a praticare la consapevolezza anziché praticare la reattività, il giudizio, la reazione verbale; un invito a coltivare il primato della contemplazione anziché quello del pensiero e dell’azione. Quando la consapevolezza affettuosa rivolta a ciò che è presente qui e ora comincia a essere un valore, una vera priorità nella nostra vita, finalmente ci accorgiamo di avere una sorgente affidabile per il retto pensiero, per la retta azione, per la retta parola. Ma la contemplazione viene per prima, intendendo per contemplazione non un vago termine spirituale, bensì osservare ciò che si presenta momento per momento.

6. Questo è controcorrente, è patiloma, perché come primo impulso noi reagiamo, non contempliamo: dunque è necessaria una rieducazione. La pratica è rieducazione, riallineamento, rivoluzione. Non è un termine eccessivo: è una rivoluzione interiore, deve esserlo. Senza troppo rumore. Dunque nella pazienza, nella consapevolezza paziente, possiamo diventare uniti col nostro cuore, possiamo rasserenare il cuore.

Un’insegnante americana di tradizione Zen, Cheri Huber, ha detto:

Esplorare con accuratezza cosa significhi essere stanchi può rivelarci quella parte della personalità che ha un’opinione sulla stanchezza. Cosa c’è nell’essere stanchi che non mi piace? Quali sono le mie convinzioni sotterranee sulla stanchezza? La paura di cadere a pezzi? Di morire? E quali implicazioni comportano queste convinzioni nella mia vita? Come mi limitano? Qualcuno mi ha parlato di aver svolto un lavoro che richiedeva solo due movimenti e di che esperienza gioiosa fosse stata. Aveva compreso che l’esperienza era stata gioiosa perché la sua attenzione era pienamente concentrata su quanto stava facendo. Cosa accadrebbe se concentrassimo la nostra attenzione sulla sensazione che definiamo “stanchezza”? Potremmo avere la stessa gioiosa esperienza, restando solo assolutamente presenti alle sensazioni del corpo: questo genera di per sé energia. In ogni caso, se non ci precipitassimo a etichettarle, queste sensazioni non sarebbero più percepite come stanchezza 6.

Quindi, se continuiamo a contemplare, scopriamo che il problema fondamentale è una sorta di nodo dentro il corpo e che quel nodo è una resistenza a quanto sta accadendo. Il problema non è la stanchezza, ma la resistenza alla stanchezza. Lo sappiamo? Sì e no.

7. Faccio un esempio personale. Nel corso dell’anno conduco corsi di meditazione il lunedì e il martedì sera, il che significa che almeno due volte a settimana vado a dormire tardi. Se mi capita di andare a letto tardi anche il mercoledì e il giovedì, è più che probabile che il venerdì mi trovi a essere completamente fuori centro. E mi sono accorto che nasce in me un modo sottile di minare la pratica, una voce che dice: “Se tu fossi più disciplinato, la pratica andrebbe meglio”. Ma in quel momento la mia pratica è stare con la stanchezza e con l’essere fuori centro! Il resto sono solo pensieri che cercano di evitare ciò che è presente. Quando invece riesco ad aprirmi alla stanchezza, allora mi risveglio a quello che è presente, anziché battagliare, resistere o lamentarmi. Vedo la contrazione della stanchezza nel corpo e nella mente, vedo l’attaccamento a ciò che potrebbe dare sollievo, e continuando a restare presente, accade talvolta qualcosa di bello ed è che sotto questo movimento mentale dell’affaticamento c’è pace. Ma se non mi fermo, non posso percepirlo, non posso sentire quella zona di pace. Dunque, la stanchezza è spiacevole, ma non è la stanchezza in sé a essere un problema. Il problema è la resistenza alla stanchezza, è l’autogiudizio a causa della stanchezza. Non è la stanchezza il problema, altrimenti non ci sarebbe alcuna possibilità di percepire la pace, di percepire la spaziosità. Non è lo stato mentale il problema, ma il modo in cui lo trattiamo. È la seconda freccia il problema, non la prima.

È anche interessante osservare cosa accade quando siamo pieni di energia e ci sentiamo bene. È facile che finiamo per incanalare l’energia in progetti, in pensieri, in qualche azione di immediata utilità, perché questi sono i valori da seguire per non sentire di “sprecare” il benessere. Il benessere è una cosa positiva, non ha di per sé niente di manchevole. Il problema sta nella nostra reazione eccitata ad esso, nel nostro non poter nemmeno concepire la possibilità di contemplarlo. Meglio “goderselo”. Perché contemplarlo? Ma la consapevolezza è consapevolezza di ciò che è presente e, se è presente il benessere, perché non esserne consapevoli? Scopriremmo, tra l’altro, che in virtù della consapevolezza, ce lo godiamo molto di più.

Abbiamo detto che il desiderio di disfarsi di uno stato negativo è problematico perché è un’energia che distoglie dallo sperimentare in modo diretto ciò che è presente, ma abbiamo anche aggiunto che è un impulso comprensibile. Perché? Perché volersi liberare di uno stato mentale negativo è anche un’espressione dell’universale aspirazione alla felicità. Ma tale espressione è distorta e, come possiamo verificare continuamente, non porta alla felicità. Ricordiamoci che uno degli scopi primari della nostra pratica è purificare questo tipo di desiderio, in modo che l’aspirazione alla felicità possa fiorire nel modo giusto, sempre più purificato dall’ignoranza. È importante non essere giudicanti nei confronti dei nostri attaccamenti, delle nostre avversioni dolorose e di quelle degli altri, perché sotto questi attaccamenti e avversioni c’è il nostro legittimo desiderio di felicità.

NOTE
1. Luca 21, 19.
2. H.J.M. Nouwen, D.P. McNeill, D.A. Morrison, Compassion, New York 1983, p. 92.
3. Ivi, p. 93.
4. Sallasutta, Il discorso della freccia, Samyutta Nikaya, 36. 6.
5. Nouwen, cit. , p. 96.
6. Ch. Huber, Sweet Zen, Present Perfect Books, 2000, pp. 33-34.

La mente che mente

Commenti al Dhammapada di Gautama il Buddha

Il Dhammapada, o “Sentiero della Legge”, è uno dei testi più conosciuti di tutta la letteratura buddhista e uno dei più antichi del Canone pali: un’antologia di oltre quattrocento detti di Gautama il Buddha che è diventato testo di riferimento e oggetto di studio e interpretazioni. Buddha non predicò una religione, né insegnò una filosofia come sistema di pensiero, offrì invece una spiegazione dell’infelicità umana e mostrò una pratica per liberarsene: “la Via del Buddha”. La liberazione, che è essenzialmente libertà da se stessi, si realizza attraverso la meditazione e il risveglio dal sonno della coscienza. Le parole del Maestro del VI sec. a.C. sono qui commentate dal Maestro moderno Osho.

La mente che mente

Io insegno l’amore per se stessi. Ma ricorda, amore per se stessi non significa orgoglio egocentrico, niente affatto, significa esattamente l’opposto. La persona che ama se stessa scopre che in lei non esiste alcun sé. L’amore dissolve sempre il sé: questo è uno dei segreti alchemici che dev’essere compreso, appreso, sperimentato.

L’amore dissolve sempre il sé. Ogni volta che ami, il sé scompare. Quando ami una donna, almeno nei pochi istanti in cui senti amore reale per lei, in te non esiste un sé, alcun ego. L’ego e l’amore non possono esistere insieme. Sono come la luce e l’oscurità: quando viene la luce, l’oscurità si dissolve. Se ami te stesso, ti sorprenderai: l’amore per se stessi implica la scomparsa del sé.

Nell’amore per se stessi non esiste mai un sé. Questo è il paradosso: l’amore per se stessi è totale assenza di sé. Non è egocentrismo; perché ogni volta che esiste la luce non c’è alcuna oscurità, e ogni volta che esiste amore non c’è alcun sé. L’amore scioglie il sé congelato. Il sé è simile a un cubetto di ghiaccio, l’amore è simile al sole del mattino. Il calore dell’amoree il sé inizia a sciogliersi.

Più ami te stesso meno troverai un sé dentro di te, per cui diventa una meditazione profonda, uno slancio appassionato verso il divino. E tu lo sai! Forse non sai nulla dell’amore per te stesso, perché non ti sei mai amato. Ma hai amato gli altri, e devi aver colto dei bagliori fugaci. Devono esserci stati istanti rarissimi in cui per un secondo, improvvisamente, tu non eri più presente e solo l’amore esisteva, solo l’energia dell’amore fluiva, senza avere un centro: dal nulla verso il nulla.

Quando due amanti sono seduti vicini, due nulla sono seduti vicini, due zero siedono vicini; e questa è la bellezza dell’amore: ti svuota totalmente del tuo sé. Ricorda, dunque: l’orgoglio egocentrico non è mai amore per se stessi. L’orgoglio egocentrico è esattamente l’opposto. La persona che non è riuscita ad amare se stessa diventa egocentrica”.

Osho

Cinquanta strofe sulla natura della coscienza di Thich Nhat Hanh

PRIMA PARTE

Coscienza deposito

1 La mente è un campo su cui è sparso ogni tipo di seme. Il nome di questa mente-campo può essere anche “Tutti i semi”.

2 In noi c’è infinita varietà di semi: semi del samsara, semi del nirvana, dell’illusione, dell’illuminazione, semi di sofferenza e di felicità, semi di percezioni, di nomi, di parole.

3 Semi che si manifestano come corpo e come mente, come sfere dell’esistenza, come stadi, e mondi, sono depositati tutti nella nostra coscienza. Ecco perché questa è detta “deposito”.

4 Alcuni semi sono innati, trasmessici dagli antenati; alcuni seminati che eravamo ancora nel grembo, altri quando eravamo bambini.

5 Che sia trasmesso dalla famiglia o da amici, dalla società o dall’istruzione, per sua natura ogni seme, in noi, è individuale ed è anche collettivo.

6 La qualità della nostra vita dipende dalla qualità dei semi che giacciono nel profondo della nostra coscienza.

7 Funzione della coscienza deposito è ricevere e conservare i semi e le loro energie abitudinali; così possono manifestarsi nel mondo, o restare sopiti.

8 Le manifestazioni della coscienza deposito si possono percepire direttamente come cose-in-sé, come rappresentazioni o come mere immagini. Tutte sono comprese nei diciotto elementi dell’essere.

9 Tutte le manifestazioni portano il marchio sia dell’individuale sia del collettivo. Allo stesso modo si compie la maturazione della coscienza deposito, nel suo partecipare ai diversi stadi e alle diverse sfere dell’essere.

10 Senza velo, indeterminata, la coscienza deposito scorre e cambia di continuo; e insieme, è correlata di continuo con le cinque formazioni mentali universali [contatto, attenzione, sensazioni, percezione e volizione].

11 Sebbene impermanente e priva di un sé separato, la coscienza deposito contiene tutti i fenomeni del cosmo, condizionati e incondizionati, sotto forma di seme.

12 Seme può produrre seme. Seme può produrre formazione. Formazione può produrre seme. Formazione può produrre formazione.

13 Semi e formazioni, entrambi, per natura inter-sono e si interpenetrano. L’uno è prodotto dal tutto, il tutto dipende dall’uno.

14 La coscienza deposito non è la stessa né altra; non è individuale né collettiva. Identità e alterità inter-sono. Il collettivo e l’individuale si generano a vicenda.

15 Quando si supera l’illusione si comprende e la coscienza deposito non è più soggetta ad afflizioni: diventa Saggezza Grande Specchio, che riflette il cosmo in ogni direzione, e prende nome di Pura Coscienza.

PARTE SECONDA

Manas

16 Semi di illusione danno origine a formazioni interne di avidità e di afflizioni, forze che animano la nostra coscienza nelle manifestazioni della mente e del corpo.

17 Con la coscienza deposito come sostegno, sorge manas. Sua funzione è la proliferazione mentale; si aggrappa ai semi e li considera un “sé”.

18 L’oggetto di manas è il marchio di un sé che si trova nel campo delle rappresentazioni, nel punto in cui manas e coscienza deposito si toccano.

19 In quanto base del sano e del malsano della altre sei coscienze che si manifestano, manas discrimina di continuo. Per natura, è indeterminata e offuscata.

20 Manas si accompagna alle cinque formazioni universali, a mati [percezione erronea di cui si è convinti] tra le cinque particolari [zelo, determinazione, consapevolezza, concentrazione, saggezza], e alle quattro afflizioni principali [ignoranza di sé, visione egocentrica, orgoglio di sé, amore di sé] e alle otto secondarie [rabbia, ostilità, ipocrisia, persecuzione, invidia, avarizia, inganno, disonestà]. Tutte sono indeterminate e offuscate.

21 Come l’ombra segue la forma, manas segue sempre la coscienza deposito, nel tentativo inconsulto di sopravvivere, bramando continuità e soddisfazione cieca.

22 Raggiunto il primo stadio della via del bodhisattva, gli ostacoli di conoscenza e afflizioni si trasformano. All’ottavo stadio, lo yogi trasforma la convinzione di un sé separato, e la coscienza deposito è liberata da manas.

PARTE TERZA

Coscienza mentale

23 Con manas per base e i fenomeni per oggetti, si manifesta la coscienza mentale. La sua sfera cognitiva è la più vasta.

24 La coscienza mentale percepisce in tre modi [percezione diretta, inferenza o deduzione, percezione diretta o inferenza erronea]. Ha accesso a tre campi della percezione [la sfera delle cose in-sé, la sfera della rappresentazione, la sfera delle mere immagini], sa essere di tre nature diverse. In essa si manifestano tutte le formazioni mentali: universali, particolari, salutari, non salutari o indeterminate.

25 La coscienza mentale è radice di ogni azione di corpo e parola. Sua natura è manifestare formazioni mentali, ma non ha esistenza continua. La coscienza mentale fa sorgere azioni che poi fa maturare; gioca il ruolo del giardiniere che sparge ogni seme.

26 Sempre attiva è la coscienza mentale, tranne che negli stati di non-percezione: nei due raggiungimenti [due stati meditativi], nel sonno profondo, da svenuti e nel coma.

27 La coscienza mentale opera in cinque modi: insieme alle cinque coscienze sensoriali o indipendentemente da esse, dispersa, concentrata o instabile.

PARTE QUARTA

Coscienze sensoriali

28 Basate sulla coscienza mentale, le cinque coscienze sensoriali si manifestano, come onde sull’acqua, da sole o insieme alla coscienza mentale.

29 Il loro campo di percezione è quello delle cose in-sé, la loro modalità di percezione è diretta. Sono di natura salutare, non salutare o neutra. Agiscono sugli organi di senso e sui centri sensoriali del cervello.

30 Sorgono con le formazioni mentali universali, particolari, salutari, con quelle non salutari, sia fondamentali sia secondarie, e con quelle indeterminate.

PARTE QUINTA

La natura della realtà

31 La coscienza include sempre soggetto e oggetto. Sé e altro, dentro e fuori, sono tutte creazioni della mente concettuale.

32 Tre parti ha la coscienza: percettore, percepito e intero. Tutti i semi e le formazioni mentali sono uguali.

33 Nascita e morte dipendono da condizioni. Per sua natura la coscienza è una manifestazione discriminante. Percettore e percepito dipendono l’un dall’altro in quanto soggetto e oggetto della percezione.

34 Nella loro manifestazione individuale e collettiva sé e non-sé non sono due. Il ciclo di nascita e morte si compie in ogni momento. La coscienza fluttua nell’oceano di nascita e morte.

35 Spazio, tempo e i quattro grandi elementi [terra, acqua, fuoco, aria: le energie dell’universo materiale] sono tutte manifestazioni della coscienza. Nel processo dell’interessere e dell’interpentrazione, la coscienza deposito matura ogni momento.

36 Gli esseri si manifestano quando le condizioni sono sufficienti; quando mancano le condizioni, essi non compaiono più. Eppure non c’è venire né andare, non c’è essere né non essere.

37 Un seme che fa sorgere una formazione è la sua causa prima. Il soggetto percettore dipende dall’oggetto della percezione. Quest’ultimo è un oggetto-causa.

38 Le condizioni propizie e non di ostacolo sono cause sussidiarie. Il quarto tipo di condizione è la continuità immediata.

39 La manifestazione interdipendente ha due aspetti: la mente illusa e la mente veritiera. La prima è costruzione immaginaria, la seconda è natura pienamente compiuta.

40 L’immaginazione impregna la mente di semi di illusione: ne risulta l’infelicità del samsara. La natura compiuta spalanca la porta della saggezza sul regno delle cose nella loro vera essenza.

PARTE SESTA

La via della pratica

41 Meditare sulla natura dell’interdipendenza può trasformare l’illusione in illuminazione. Samsara e vera essenza non sono due, sono una cosa sola, la stessa.

42 Anche in boccio, il fiore è già nel compost, il compost è già presente nel fiore. Fiore e compost non sono due. Illusione e illuminazione inter-sono.

43 Non rifuggire nascita e morte, osserva solo a fondo le tue formazioni mentali. Una volta vista la vera natura dell’interdipendenza si comprende la verità dell’interessere.

44 Pratica il respiro consapevole per innaffiare i semi del risveglio. Retta visione è un fiore che sboccia nel campo della coscienza mentale.

45 Quando il sole splende, fa crescere ogni pianta. Quando la consapevolezza splende, trasforma ogni formazione mentale.

46 Riconosciamo nodi interni e tendenze latenti, così da poterli trasformare. Dissipate le energie dell’abitudine, ecco la trasformazione alla radice.

47 Il momento presente contiene il passato e il futuro. Il segreto della trasformazione sta nel modo di trattare l’attimo in corso.

48 La trasformazione ha luogo nella vita di tutti i giorni. Per facilitarle il compito pratica insieme a un Sangha.

49 Nulla nasce, nulla muore. Nulla da trattenere, nulla da lasciar andare. Il samsara è il nirvana. Non c’è nulla da raggiungere.

50 Compreso che le afflizioni non sono che illuminazione, possiamo cavalcare le onde di nascita e morte, in pace, solcare l’oceano dell’illusione sulla barca della compassione, sorridendo senza paura alcuna.

Tratto da: Thich Nhat Hanh, La via della trasformazione, Mondadori, 2004.

Abbracciare la Rabbia di Thich Nhat Hanh

Conferenza tenuta il 25 settembre 2001 alla Riverside Church di New York

Cari amici, vorrei dirvi come pratico quando mi arrabbio. Durante la guerra in Vietnam, c’erano molte ingiustizie, e furono uccise molte migliaia di persone, fra le quali molti miei amici e discepoli. Ero molto arrabbiato. Una volta venni a sapere che la città di Ben Tre, una città di trecentomila abitanti, era stata bombardata dall’aviazione americana solo perché alcuni guerriglieri erano scesi in città e avevano cercato di abbattere gli aeroplani americani. I guerriglieri non ebbero successo, e dopo quel tentativo se ne andarono. E la città fu distrutta. In seguito il militare che si era reso responsabile di ciò dichiarò che aveva dovuto distruggere la città per salvarla. Ero molto arrabbiato.

Ma a quel tempo ero già un praticante, un solido praticante. Non dissi nulla, non feci nulla, perché sapevo che agire o dire cose mentre si è arrabbiati non è saggio. Può creare molta distruzione. Tornai a me stesso, riconoscendo la mia rabbia, abbracciandola, e guardai profondamente nella natura della mia sofferenza.

Nella tradizione buddista abbiamo la pratica del respirare in presenza mentale, del camminare in presenza mentale, allo scopo di generare l’energia della presenza mentale. È esattamente con questa energia che possiamo riconoscere, abbracciare e trasformare la nostra rabbia. La presenza mentale è il tipo di energia che ci aiuta a essere consapevoli di ciò che sta avvenendo dentro di noi e intorno a noi, e tutti possono essere in presenza mentale. Se bevete una tazza di tè e sapete che state bevendo una tazza di tè, questo è bere in presenza mentale. Quando inspirate e sapete che state inspirando, e concentrate la vostra attenzione sull’inspirazione, questa è consapevolezza della respirazione. Quando fate un passo e siete consapevoli che state facendo un passo, questo si chiama consapevolezza del camminare. La pratica basilare nei centri Zen, nei centri di meditazione, è quella di generare la presenza mentale in ogni momento della vita quotidiana. Quando siete arrabbiati, siete consapevoli di essere arrabbiati. E’ perché avete già in voi l’energia della presenza mentale creata dalla pratica che potete averne a sufficienza per riconoscere, abbracciare, guardare in profondità e capire la natura della vostra sofferenza.

Io riuscii a capire la natura della sofferenza in Vietnam. Vidi che non solo i vietnamiti soffrivano, ma anche gli americani soffrivano durante quella guerra. Il giovane americano mandato in Vietnam per uccidere ed essere ucciso era sottoposto a molta sofferenza, e la sofferenza continua ancora oggi. La famiglia soffre, e anche la nazione. Io potei vedere che la causa della nostra sofferenza in Vietnam non erano i soldati americani. Era una politica non saggia. Era un equivoco. Era la paura che stava al fondamento della politica.

Molti in Vietnam si sono dati fuoco per chiedere che la distruzione cessasse. Essi non volevano provocare dolore ad altri, ma prendere il dolore su di sé affinché passasse il loro messaggio. Ma il rumore degli aerei e delle bombe era troppo forte. Poche persone al mondo furono in grado di sentirci. Così decisi di recarmi in America e invocare una cessazione della violenza. Questo avvenne nel 1966, e a causa di ciò mi fu impedito di fare ritorno a casa. E da allora, dal 1966, ho vissuto in esilio.

Ho potuto vedere che non è l’uomo il vero nemico dell’uomo. Il vero nemico è l’ignoranza, la discriminazione, la paura, l’avidità, e la violenza. Non odiavo il popolo americano, la nazione americana. Venni in America a invocare quel guardare in profondità che avrebbe consentito al vostro governo di rivedere quel tipo di politica. Ricordo che incontrai il Segretario della Difesa Robert Mac Namara. Gli dissi la verità circa la sofferenza. Egli si trattenne con me a lungo e mi ascoltò profondamente, e io fui molto grato per la qualità del suo ascolto. Tre mesi dopo, quando la guerra si fece più intensa, venni a sapere che si era dimesso dal suo incarico.

Odio e rabbia non erano nel mio cuore. Fu per questo che molti giovani del mio paese mi ascoltarono, quando li invitai a seguire il cammino della riconciliazione, e insieme collaborammo nel dare vita alle nuove organizzazioni per la pace a Parigi. Spero che i miei amici qui a New York siano capaci di praticare allo stesso modo. Io ho compreso, e comprendo, la sofferenza e l’ingiustizia, e sento di capire profondamente la sofferenza di New York, dell’America. Io sento di essere un newyorkese. Sento di essere un americano.

Quando non siete calmi evitate di agire, non dite nulla: restate disponibili per voi stessi, centrati in voi stessi. Ci sono sistemi grazie ai quali possiamo tornare a noi stessi e praticare così da riscoprire la nostra calma, la nostra tranquillità, la nostra lucidità. Ci sono sistemi che possiamo mettere in pratica così da capire le reali cause della sofferenza. E questa comprensione ci aiuterà a fare ciò che va fatto, e a non fare ciò che potrebbe essere dannoso per noi e per gli altri.

Prima di continuare, pratichiamo la respirazione in presenza mentale per mezzo minuto.

 

Nella psicologia buddista, siamo soliti parlare della coscienza in termini di semi. Abbiamo il seme della rabbia, nella nostra coscienza. Abbiamo il seme della disperazione, della paura. Ma abbiamo anche il seme della comprensione, della saggezza, della compassione, e del perdono. Se sappiamo come innaffiare il seme della saggezza e compassione in noi, quel seme, questi semi si manifesteranno come energie potenti che ci aiuteranno a compiere un gesto di perdono e compassione. Ciò basterà a recare un immediato sollievo alla nostra nazione, al mondo. Questa è la mia convinzione.

Io credo molto fortemente che gli americani abbiano molta saggezza e compassione in loro stessi. Voglio che siate al meglio di voi quando comincerete ad agire, nell’interesse dell’America e nell’interesse del mondo. Con lucidità, con comprensione e compassione vi rivolgerete alle persone che vi hanno provocato così tanto danno e sofferenza e porrete loro molte domande.

“Noi non comprendiamo abbastanza la vostra sofferenza, potreste parlarcene? Non vi abbiamo fatto nulla, non abbiamo cercato di distruggervi, non abbiamo cercato di discriminarvi, e non comprendiamo perché ci abbiate fatto questo. Deve esserci molta sofferenza in voi. Vogliamo ascoltarvi. Può darsi che possiamo aiutarvi. E insieme possiamo collaborare a costruire la pace nel mondo.” Se sarete solidi, se sarete compassionevoli nell’affermare ciò, essi vi parleranno della loro sofferenza.

Nel buddismo parliamo della pratica dell’ascolto profondo, dell’ascolto compassionevole, un metodo magnifico grazie al quale possiamo ripristinare la comunicazione – la comunicazione tra marito e moglie, la comunicazione tra padre e figlio, la comunicazione tra madre e figlia, la comunicazione tra nazioni. La pratica dell’ascolto profondo dovrebbe essere assimilata dai genitori, dalle coppie, così che possano capire la sofferenza dell’altra persona. Quella persona potrebbe essere nostra moglie, nostro marito, nostro figlio o nostra figlia. Ma anche se possiamo avere l’intenzione di ascoltare, molti di noi hanno perso la capacità di farlo perché c’è molta rabbia e violenza in noi. Altri non sanno come usare la parola gentile; rimproverano e giudicano in continuazione. E il loro parlare è molto spesso aspro, amaro. Questo genere di linguaggio farà sempre esplodere in noi l’irritazione e la rabbia e ci impedirà di ascoltare profondamente e con compassione. Per questo la semplice intenzione di ascoltare non è sufficiente. Abbiamo bisogno di un qualche allenamento per poter ascoltare profondamente e con compassione. Io penso, credo, ho la convinzione che se un padre sa come ascoltare profondamente e con compassione suo figlio, sarà in grado di aprire la porta del suo cuore e di ripristinare la comunicazione.

Anche al Congresso e al Senato le persone dovrebbero allenarsi nell’arte dell’ascolto profondo, dell’ascolto compassionevole. C’è molta sofferenza nel paese, e molte persone sentono che la loro sofferenza non è capita. Per questo i politici, i membri del Parlamento, i membri del Congresso devono allenarsi nell’arte dell’ascolto profondo – l’ascolto del loro stesso popolo, l’ascolto della sofferenza nel paese, perché nel paese c’è ingiustizia, c’è discriminazione. C’è molta rabbia nel paese. Se possiamo ascoltarci gli uni gli altri, possiamo anche ascoltare coloro che sono al di fuori del paese. Molti di essi vivono nella disperazione, molti soffrono a causa di ingiustizia e discriminazione. La quantità di violenza e disperazione in loro è enorme. Ma se come nazione sappiamo come ascoltare la loro sofferenza, già possiamo recare molto sollievo. Essi sentiranno di essere capiti. Già questo è sufficiente a disinnescare la bomba.

Alle coppie raccomando sempre, quando sono arrabbiati l’uno con l’altra, di tornare al proprio respiro e al camminare in presenza mentale, di abbracciare la rabbia e guardare profondamente nella natura della rabbia. Così possono essere in grado di trasformare quella rabbia, anche in soli quindici minuti o in poche ore. Se non possono farlo, allora dovranno dire all’altra persona che soffrono, che sono arrabbiati, e che vogliono che l’altro lo sappia. Proveranno a dirlo in un modo calmo. “Caro (o cara), soffro, e voglio che tu lo sappia”. A Plum Village, dove vivo e pratico, raccomandiamo ai nostri amici di non tenersi la loro rabbia per più di ventiquattr’ore senza dirlo all’altra persona. “Caro/a, soffro, e voglio che tu lo sappia. Non so perché tu mi abbia fatto una cosa simile. Non so perché tu mi abbia detto una cosa simile.” Questa è la prima cosa che dovrebbero dire all’altra persona. E se non sono abbastanza calmi per dirlo, possono scriverlo su un foglio.

La seconda cosa che possono dire o scrivere è: “Sto facendo del mio meglio.” Significa: Sto praticando per non dire nulla, non fare nulla con rabbia, perché so che in questo modo creerei maggiore sofferenza. Così sto abbracciando la mia rabbia, sto guardando profondamente dentro la natura della mia rabbia.” Dite all’altra persona che state praticando il trattenere la rabbia, il comprendere la rabbia, allo scopo di scoprire se per caso quella rabbia proviene da una vostra cattiva comprensione, da una vostra percezione errata, da una vostra scarsa presenza mentale o da una mancanza di abilità.

E la terza cosa che potreste volergli o volerle dire è: “Ho bisogno del tuo aiuto.” Generalmente quando ci arrabbiamo con qualcuno vogliamo fare esattamente l’opposto. Vogliamo dire: “Non ho bisogno di te. Posso sopravvivere anche per conto mio.” “Ho bisogno del tuo aiuto” significa “Ho bisogno della tua pratica, ho bisogno del tuo guardare in profondità, ho bisogno che mi aiuti a vincere questa rabbia perché soffro.” E se io soffro, non è possibile che tu possa essere felice, perché la felicità non è una faccenda individuale. Se l’altro soffre, non c’è modo che tu possa essere felice da solo. Così aiutare l’altro a soffrire meno, a sorridere, farà felice anche te.

Il Buddha ha detto: “Questo è così perché quello è così. Questo è perché quello è.” Le tre frasi che propongo sono il linguaggio del vero amore. Esso ispirerà l’altra persona a praticare, a guardare in profondità, e insieme realizzerete la comprensione e la riconciliazione. Ai miei amici propongo di scrivere queste frasi su un foglietto e di infilarlo nel portafoglio. Ogni volta che si arrabbiano con il partner, o con il figlio o la figlia, possono praticare la respirazione in presenza mentale, tirare fuori il foglietto e leggerlo. Sarà una campana di consapevolezza che dirà loro che cosa fare e che cosa non fare. Le tre frasi sono: “Soffro e voglio che tu lo sappia.” “Sto facendo del mio meglio.” “Per favore aiutami.”

Credo che anche in un conflitto internazionale sia possibile lo stesso genere di pratica. Perciò propongo all’America di fare lo stesso. Dite a coloro che ritenete essere la causa della vostra sofferenza che voi soffrite, che volete che loro lo sappiano, che volete sapere perché vi hanno fatto una cosa simile, e praticate l’ascolto profondamente e con compassione.

La qualità del nostro essere è molto importante, perché quella domanda, quell’affermazione non è una condanna, ma un desiderio di creare la vera comunicazione. “Siamo pronti ad ascoltarvi. Sappiamo che dovete aver sofferto molto per averci fatto una cosa simile. Forse avete pensato che siamo noi la causa della vostra sofferenza. Quindi per favore diteci se abbiamo cercato di distruggervi, se abbiamo cercato di farvi oggetto di discriminazione, affinché possiamo capire. Sappiamo che quando avremo compreso la vostra sofferenza, potremo essere capaci di aiutarvi.” Questo è quello che nel buddismo chiamiamo “parola amorevole” o “linguaggio gentile”; esso ha lo scopo di creare la comunicazione, di ristabilire la comunicazione. Una volta che sarà ristabilita la comunicazione, la pace sarà possibile.

Quest’estate, un gruppo di palestinesi è venuto a Plum Village e ha praticato con un gruppo nutrito di israeliani. Abbiamo favorito la loro venuta offrendo loro facilitazioni per il soggiorno e abbiamo praticato insieme. In due settimane hanno imparato a sedersi insieme, a camminare insieme in presenza mentale, ad apprezzare i pasti in silenzio in comune e a sedere tranquillamente per ascoltarsi l’un l’altro. La pratica così assimilata ha avuto molto successo. Alla fine delle due settimane di pratica ci hanno dato una notizia davvero meravigliosa. Una signora ha detto: “Thây, per la prima volta nella mia vita vedo che la pace in Medio Oriente è possibile.” Un altro giovane ha detto: “Thây, appena arrivato a Plum Village non credevo che Plum Village fosse qualcosa di reale, perché nella situazione del mio paese si vive costantemente nella paura e nella rabbia. Quando i nostri bambini salgono sull’autobus non siamo sicuri che torneranno a casa. Quando andiamo al supermercato non siamo sicuri di sopravvivere e di tornare alla nostra famiglia. A Plum Village vedi le persone guardarsi con amore, parlare gentilmente con gli altri, camminare in pace e fare ogni cosa in presenza mentale. Noi non credevamo che ciò fosse possibile. Non mi sembra vero.”

Ma nelle condizioni di pace di Plum Village, essi erano capaci di stare insieme, di vivere insieme, e di ascoltarsi l’un l’altro, e alla fine la comprensione è arrivata. Essi promisero che tornati in Medio Oriente avrebbero continuato la pratica. Organizzeranno incontri di pratica una volta alla settimana a livello locale e una giornata di presenza mentale a livello nazionale. E contano di tornare a Plum Village in un gruppo più numeroso per continuare la pratica.

Penso che se nazioni come l’America organizzassero ambienti di questo genere, dove le persone possono incontrarsi e trascorrere il tempo praticando la pace, sarebbero in grado di calmare le loro emozioni, la loro paura, e i negoziati di pace sarebbero molto più facili.

 

Tutte le cose hanno bisogno di cibo per vivere e per crescere, inclusi il nostro amore e il nostro odio. L’amore è una cosa vivente, l’odio è una cosa vivente. Se non nutri il tuo amore, esso morirà. Se tagli la fonte di nutrimento alla tua violenza, anche la tua violenza morirà. Per questo il sentiero indicato dal Buddha è il sentiero del consumo consapevole.

Il Buddha raccontò la seguente storia. C’era una coppia che voleva attraversare il deserto per recarsi in un altro paese in cerca di libertà. Essi portarono con sé il loro figlioletto e una quantità di cibo e di acqua, ma non fecero bene i conti, sicché a metà strada in pieno deserto terminarono il cibo. I due sapevano che sarebbero morti. Così, dopo molta angoscia, decisero di mangiare il bambino in modo da poter sopravvivere e raggiungere l’altro paese; ed è proprio ciò che fecero. E ogni volta che mangiavano un pezzetto della carne del loro bambino, i due piangevano.

Il Buddha domandò ai suoi monaci: “Cari amici, pensate che quella coppia gioisse nel mangiare la carne del loro proprio figlio?” Il Buddha disse: “E’ impossibile gioire nel mangiare la carne del proprio figlio. Non mangiare in presenza mentale è come mangiare la carne di nostro figlio e di nostra figlia, è come mangiare la carne dei nostri genitori.”

Se guardiamo profondamente, vedremo che mangiare può essere un atto estremamente violento. L’Unesco ci dice che ogni giorno quarantamila bambini nel mondo muoiono per mancanza di cibo. Ogni giorno, quarantamila bambini! E la quantità totale dei cereali che coltiviamo in Occidente è usata principalmente per nutrire il bestiame. L’ottanta per cento del granoturco coltivato in questo paese serve a nutrire il bestiame da carne. Il novantacinque per cento dell’avena prodotta in questo paese non è per noi, per la nostra alimentazione, ma per gli animali allevati per farne cibo. Secondo questo recente rapporto, l’ottantasette per cento dell’intero territorio agricolo degli Stati Uniti viene usato per l’allevamento. Si tratta del quarantacinque per cento di tutto il territorio degli Stati Uniti.

Acqua

Più della metà di tutta l’acqua consumata negli USA serve per l’allevamento di animali. Occorrono quasi 9.500 litri d’acqua per produrre una libbra di carne, ma solo 95 litri per produrre una libbra di frumento. Una dieta totalmente vegetariana richiede 1.135 litri di acqua al giorno, mentre una dieta che comprende la carne richiede più di 15.000 litri di acqua al giorno.

Inquinamento

Allevare animali a scopo alimentare provoca maggior inquinamento nell’acqua di qualsiasi altra industria negli Stati Uniti, perché gli animali allevati producono centotrenta volte gli escrementi dell’intera popolazione umana. Significa quaranta tonnellate al secondo. Molti dei liquami provenienti dalle fattorie e dai macelli finiscono nei ruscelli e nei fiumi, contaminando le sorgenti.

Deforestazione

Ogni vegetariano può salvare un acro di alberi all’anno. Più di 260 milioni di acri di foreste degli Stati Uniti sono stati disboscati per fare spazio alle coltivazioni destinate a nutrire gli animali da carne. E un altro acro di alberi scompare ogni otto secondi. Anche le foreste pluviali tropicali stanno per essere distrutte per creare pascoli per il bestiame.

Risorse

Negli Stati Uniti, gli animali allevati a scopo alimentare sono nutriti con oltre l’ottanta per cento del granoturco coltivato, e con più del novantacinque per cento dell’avena. Stiamo mangiando il nostro paese, stiamo mangiando il nostro cuore, stiamo mangiando i nostri bambini. E ho saputo che oltre la metà delle persone in questo paese mangia in eccesso.

Mangiare in presenza mentale può aiutarci a mantenere la compassione dentro il nostro cuore. Una persona priva di compassione non può essere felice, non può entrare in relazione con gli altri esseri umani e con gli altri esseri viventi. E il mangiare la carne dei nostri propri figli è proprio quello che sta succedendo nel mondo, perché non pratichiamo il mangiare in presenza mentale.

Il Buddha ha parlato del secondo genere di nutrimento che consumiamo ogni giorno: le impressioni sensoriali; quel genere di cibo che assumiamo attraverso gli occhi, le orecchie, la lingua, il corpo e la mente. Quando leggete una rivista, consumate. Quando guardate la televisione, consumate. Quando ascoltate una conversazione, consumate. E queste cose possono essere altamente tossiche. Possono esserci molti veleni, come l’ avidità, la violenza, la rabbia, la disperazione. Permettiamo così a noi stessi di farci intossicare da ciò che consumiamo in termini di impressioni sensoriali. Permettiamo ai nostri bambini di farsi intossicare da questi prodotti. Per questo è molto importante guardare profondamente dentro il nostro malessere, dentro la natura del nostro malessere, allo scopo di riconoscere la fonte di nutrimento che abbiamo usato per portarlo dentro di noi e nella nostra società.

Quello che il Buddha ha detto è: “Ciò che è venuto in essere – se sai come guardare profondamente nella sua natura e identificare la sua fonte di nutrimento, allora sei già sulla strada della liberazione.” Ciò che è venuto in essere è la nostra malattia, il nostro malessere, la nostra sofferenza, la nostra violenza, la nostra disperazione. E se pratichiamo il guardare in profondità, la meditazione, saremo in grado di identificare la fonte di nutrimento, di cibo, che ha portato tutto questo in noi.

Dunque l’intera nazione deve praticare il guardare in profondità dentro la natura di ciò che consumiamo ogni giorno. Il consumare in presenza mentale non è il solo modo di proteggere la nazione, noi stessi e la società. Dobbiamo anche imparare come consumare in presenza mentale come famiglia, come città, come nazione. Dobbiamo imparare che cosa produrre e che cosa non produrre allo scopo di dare al nostro popolo solo cose che nutrono e che guariscono. Dobbiamo astenerci dal produrre quei generi di cose che portano guerra e disperazione nel nostro corpo, nella nostra coscienza, e nel corpo e nella coscienza collettivi della nostra nazione e società. Questo deve praticare il Congresso. Noi abbiamo eletto i membri del Congresso. Da loro ci aspettiamo che pratichino profondamente, che si mettano in ascolto della sofferenza delle persone, delle cause reali di quella sofferenza, e che facciano il tipo di leggi che possono proteggerci dall’autodistruzione. L’America è grande. Io sono convinto che voi possiate farlo e che possiate aiutare il mondo. Voi potete offrire al mondo saggezza, presenza mentale e compassione.

Recentemente ho avuto l’occasione di apprezzare i luoghi dove le persone non fumano. Ci sono voli per non fumatori di cui potete approfittare. Dieci anni fa voli così, per non fumatori, non esistevano. E in America su ogni pacchetto di sigarette è scritto l’avvertimento: “Stai attento: il fumo può mettere in pericolo la tua salute.” Questa è una campana di consapevolezza. Questa è pratica del consumo consapevole. Non dite che state praticando la presenza mentale, ma in realtà lo state facendo. La consapevolezza del fumo è ciò che vi ha permesso di vedere che il fumo non è salutare.

In America, le persone sono molto consapevoli del cibo che mangiano. E pretendono che su ogni prodotto vi sia un’etichetta in modo da poter sapere che cosa c’è dentro. Non vogliono mangiare cibi che possano portare tossine e veleni nei loro corpi. Questo è pratica del mangiare consapevolmente.

Ma possiamo andare oltre. Possiamo fare di meglio, come genitori, come insegnanti, come artisti e come politici. Se sei un insegnante, puoi dare un grande contributo nel risvegliare le persone sulla necessità di un consumo consapevole, perché è quella la via della vera emancipazione. Se sei un giornalista, hai i mezzi per educare le persone, per ridestarle sulla natura della nostra situazione. Facendo opera di risveglio ognuno di noi può trasformare se stesso in un bodhisattva.

 

Il terzo nutrimento di cui ha parlato il Buddha è la volizione. La volizione è ciò che vogliamo più di ogni altra cosa, il desiderio più profondo. Ognuno di noi ha un desiderio profondo. Dobbiamo identificarlo, dobbiamo chiamarlo con il suo vero nome. Il Buddha aveva un desiderio; voleva trasformare tutta la sua sofferenza. Voleva diventare un illuminato per essere capace di aiutare gli altri. Egli non credeva che da politico avrebbe potuto aiutare molte persone, e per questo scelse di farsi monaco. Alcuni fra noi credono che la felicità sia possibile solo ottenendo una grande quantità di denaro, o la fama, o un grande potere, o molto sesso. Questo tipo di desiderio appartiene alla terza categoria di cibo di cui ha parlato il Buddha.

Per illustrare il suo insegnamento il Buddha è ricorso a questa immagine: C’è un giovane che ama vivere, e che non vuole morire. Tuttavia, due uomini possenti lo stanno trascinando verso un luogo dove si trova una fossa di carboni accesi e vogliono gettarlo tra i tizzoni ardenti per farlo morire. Lui resiste, ma è destinato a morire perché i due uomini sono troppo forti. Il Buddha disse: “Il vostro più profondo desiderio vi porterà o in un luogo di felicità oppure all’inferno.” Per questo è molto importante guardare dentro la natura del vostro più profondo desiderio, vale a dire la volizione. Il Buddha ha detto che l’avidità vi porterà a molta sofferenza, sia che si tratti di desiderio di ricchezza, di sesso, di potere, o di fama. Ma se avete un desiderio salutare, come il desiderio di proteggere la vita, di proteggere l’ambiente o di aiutare la gente a vivere una vita semplice e con il tempo per prendersi cura di sé, di amare e prendersi cura dei propri cari, questo è il genere di desiderio che conduce alla felicità. Ma se siete spinti dalla brama di fama, di ricchezza, di potere, dovrete soffrire molto. E questo desiderio vi trascinerà all’inferno, nella fossa di tizzoni ardenti, e morirete.

Ovunque nel mondo ci sono persone che considerano la vendetta come il loro desiderio più profondo. Queste persone diventano terroristi. Quando il rancore e la vendetta sono il nostro desiderio più profondo, anche noi soffriamo terribilmente, come il giovane che quei due uomini possenti trascinavano, per gettare poi nella fossa di tizzoni ardenti. Il nostro desiderio più profondo dovrebbe essere amare, aiutare, non vendicarsi, punire o uccidere. Confido che i newyorkesi abbiano questa saggezza. Il rancore non può essere una risposta al rancore; ogni violenza è ingiusta. Rispondere alla violenza con la violenza può soltanto portare maggiore violenza e ingiustizia, maggior sofferenza, non solo agli altri, ma a noi stessi. Questa è la saggezza che è in ognuno di noi. Abbiamo bisogno di respirare profondamente, di diventare calmi per toccare il seme della saggezza. Io so che se il seme della saggezza e della compassione del popolo americano potesse essere innaffiato regolarmente per l’arco di una settimana, esso porterebbe molto sollievo, ridurrebbe la rabbia e il rancore. E l’America sarebbe capace di compiere un gesto di perdono che darebbe un grande sollievo all’America e al mondo intero. Per questo il mio suggerimento è praticare la calma, l’essere concentrati, innaffiare i semi di saggezza e compassione che sono già in noi, e imparare l’arte della consumo consapevole. Questa è una vera rivoluzione, il solo tipo di rivoluzione che può aiutarci a uscire da questa difficile situazione, nella quale la violenza e il rancore prevalgono.

No, non sto piangendo.

Mi tengo il volto tra le mani,

Per scaldare la mia solitudine.

Mani che proteggono,

Mani che nutrono,

Mani che impediscono alla mia anima

Di vivere nella rabbia.

Una rosa all’occhiello di Thich Nhat Hanh

Il pensiero della mamma non può essere separato da quello dell’amore. L’amore è dolce, tenero e delizioso. Senza amore un bambino non fiorisce, un adulto non matura. Senza amore si perdono le forze e ci si immalinconisce.
Il giorno in cui morì mia madre scrissi queste parole sul mio diario:
“Mi è capitata la più grande disgrazia della vita!”. Persino una persona anziana non si sente pronta quando perde la propria madre. Si ha l’impressione di non essere ancora maturi e ci si ritrova improvvisamente soli, ci si sente abbandonati e infelici come un bambino orfano.
Tutti i canti e i versi che rendono lode alla maternità sono belli, di una bellezza immediata. Anche poeti e scrittori di canzoni di non grande talento riversano tutti se stessi in queste opere, e coloro che le eseguono o le recitano ne sembrano profondamente coinvolti e commossi, anche se hanno perduto la propria madre tanto presto da non sapere cosa sia l’amore per la mamma. Da sempre in tutto il mondo si è scritto per celebrare le virtù della maternità.

Quando ero molto piccolo mi capitò di sentire una semplice poesia sulla perdita della madre che è tuttora molto importante per me. Se vostra madre è ancora viva, ogni volta che la leggerete potrete sentire tutto il vostro amore per lei e insieme la paura per quell’evento lontano eppure inevitabile.

Quell’anno, benché fossi ancora molto giovane,
mia madre mi lasciò,
e compresi che ero un orfano.
Tutti piangevano attorno a me.
Io soffrivo in silenzio.
Lasciando cadere le lacrime
sentii il dolore affievolirsi.
Il crepuscolo avvolse la tomba della mamma.
La campana della pagoda suonò con dolcezza.
Avevo compreso che perdere la madre
è come perdere l’intero universo.

Per molti anni nuotiamo in un mondo di tenero amore e, senza neanche rendercene conto, siamo molto felici. Ce ne accorgiamo solo quando è troppo tardi.

In campagna non si capisce il linguaggio complicato di coloro che vivono in città. Quando dicono che la mamma è un tesoro da amare dicono una cosa già troppo complicata.
La gente di campagna, in Vietnam, paragona la madre alle più prelibate varietà di banana o al miele, al riso dolce o allo zucchero di canna. Esprimono il loro amore in modo semplice e diretto: per me una mamma è come una banana ba huong della migliore qualità, il miglior riso dolce nep mot, il più squisito zucchero di canna mia lau!
Dopo una febbre alta ci sono dei momenti in cui si ha la bocca amara. Non si sentono i sapori, e nulla sa di buono. Soltanto quando arriva la mamma ci si sente subito ristabiliti e circondati dalla dolcezza del suo amore: ci rimbocca le coperte, poi mette la mano sulla fronte che scotta (ma è veramente una mano oppure è seta celestiale?) e sussurra con gentilezza: “Povero tesoro!”. Il suo amore è profumato come una banana, come il riso dolce, come lo zucchero di canna.

Il mestiere di padre è una fatica enorme, vasta quanto una montagna. La dedizione della mamma è straripante, come acqua di sorgente. L’amore materno è il primo che assaporiamo, l’origine di tutti i sentimenti d’amore. La mamma è la nostra prima maestra di amore, che nella vita è la materia più importante. Senza mia madre non avrei mai imparato come si ama.
Grazie a lei sono capace di amare coloro che mi circondano. Grazie a lei sono capace di amare tutti gli esseri viventi. Da lei ho acquisito le mie prime nozioni sulla comprensione e sulla compassione.
La mamma è il fondamento di tutte le forme di amore e molte tradizioni religiose lo riconoscono, e venerano una figura materna, come la Vergine Maria o la Bodhisattva Kuan Yin. Appena un neonato apre la bocca per piangere, già sua madre accorre alla culla. La mamma è uno spirito gentile e dolce che fa scomparire l’infelicità e le preoccupazioni. Quando la parola mamma viene pronunciata, subito sentiamo i nostri cuori traboccare di amore. Con l’amore si abbrevia la distanza fra intenzione e azione.

In Occidente la Festa della Mamma si celebra a maggio. Io provengo dalla campagna vietnamita e non avevo mai sentito parlare di questa tradizione.
Un giorno, mentre visitavo la Ginza, a Tokyo, insieme al monaco Thien An, incontrammo fuori da una libreria un gruppo di studenti giapponesi suoi amici. Uno di loro, con discrezione, fece una domanda al monaco, poi tirò fuori dalla sua borsa un garofano bianco e lo appuntò sulla mia veste. Ne fui sorpreso, e anche un po’ imbarazzato: non sapevo come interpretare quel gesto e non osavo chiedere. Provai così a comportarmi con naturalezza, pensando che fosse un’usanza del luogo.
Quando ebbero finito di parlare (io non capisco il giapponese), Thien An ed io entrammo nella libreria e lui mi spiegò che quel giorno era la festa della mamma. In Giappone, se la propria madre è ancora viva ci si appunta un fiore rosso su una tasca o sul bavero.

Se non lo è più, il fiore è bianco. Guardai allora il fiore bianco sulla mia tunica e mi sentii improvvisamente tanto infelice. Ero un orfano come tanti, uno qualunque fra i poveri orfani, che non possono più portare con orgoglio un fiore rosso all’occhiello.
Quelli che portano i fiori bianchi soffrono, e non possono fare a meno di tornare col ricordo alla propria mamma. Non riescono a dimenticare che non c’è più. Quelli che portano i fiori rossi, invece, sono felici al pensiero che la propria madre è ancora con loro. Possono ancora provare a renderla felice prima di perderla, prima che sia troppo tardi. Trovo bella questa usanza. Propongo di adottarla anche in Vietnam e in Occidente.

La madre è una fonte infinita di amore, un tesoro inesauribile. Purtroppo, qualche volta, lo dimentichiamo. Una madre è il dono più bello che la vita ci può riservare.
Voi che avete ancora la mamma al vostro fianco, vi prego, non aspettate la sua morte per dire a voi stessi: “Mio Dio, ho vissuto accanto a mia madre per tutti questi anni senza neanche prestarle attenzione, solo brevi occhiate e due parole per chiederle soldi o qualche altra cosa”.
Vi accoccolate vicino alla mamma per riscaldarvi, le tenete il broncio, vi arrabbiate con lei. Fate di tutto per complicarle la vita, la fate preoccupare, a scapito della sua salute. A causa vostra va a dormire tardi e si sveglia presto. Molte madri muoiono giovani a causa dei loro figli.
Per tutta la vita ci aspettiamo da lei che prepari da mangiare, che lavi e pulisca tutto quello che sporchiamo, mentre noi ci preoccupiamo solo dei nostri risultati e della nostra carriera. Le nostre madri non hanno più il tempo per guardarci con attenzione e noi siamo troppo occupati per prendercene cura. Soltanto quando non c’è più ci rendiamo conto che abbiamo avuto una madre, ma non ce n’eravamo mai accorti.

In Vietnam, durante la festa di Ullambana, ascoltiamo storie e leggende sul bodhisattva Maudgalyayana e sull’amore filiale, il lavoro del padre, la dedizione della madre e i compiti dei figli. Ognuno prega per la longevità dei propri genitori oppure, se questi sono morti, per la loro rinascita nella celestiale Terra Pura. Per noi un figlio senza amore filiale è senza valore.
Ma la dedizione filiale nasce dall’amore stesso: senza amore, la dedizione filiale è solo una formalità. Quando c’è l’amore c’è tutto e non serve parlare di obblighi. Amare vostra madre è già sufficiente. Non è un dovere, è qualcosa di assolutamente naturale, come bere quando si ha sete.
Ogni figlio deve avere una madre ed è del tutto naturale che la ami. La madre ama suo figlio e il figlio ama sua madre. Il figlio ha bisogno di sua madre e la madre ha bisogno di suo figlio. Se la madre non ha bisogno di suo figlio e il figlio non ha bisogno di sua madre, la madre non è una madre e il figlio non è un figlio. Si tratta di un uso improprio delle parole “madre” e “figlio”.
Quando ero piccolo uno dei miei insegnanti mi chiese: “Che cosa devi fare se ami tua madre?”. Io risposi: “Devo obbedirle, aiutarla, prendermi cura di lei quando invecchierà, pregare per lei e tenere ordinato l’altare degli antenati quando sarà scomparsa per sempre dietro la montagna”. Ora so che il “che cosa” in quella domanda era superfluo. Se ami tua madre non devi fare nient’altro: la ami e questo è sufficiente. Amare tua madre non è una questione di integrità o di virtù.

Vi prego, non pensate che abbia scritto tutto questo per darvi lezione di morale. Amare la madre giova moltissimo. Una madre è come una sorgente di acqua pura, come il più pregiato zucchero di canna o miele, come riso dolce della migliore qualità.
Se non sapete come trarne beneficio è un peccato per voi. Io voglio solo richiamare la vostra attenzione. Voglio aiutarvi a evitare che un giorno vi troviate a lamentarvi perché la vostra vita non vi dà nulla. Se non riesce a soddisfarvi un dono come la presenza di vostra madre, probabilmente non sarete mai soddisfatti, anche se siete il presidente di un’importante società o il re dell’universo. So che il Creatore non si sente felice, perché il Creatore nasce spontaneamente e non ha la fortuna di avere una madre.

Vorrei raccontare una storia. Vi prego, non giudicatemi un irresponsabile. Mia sorella avrebbe potuto non sposarsi ed io non diventare un monaco. Fatto sta che tutti e due lasciammo nostra madre: lei per condurre una nuova vita accanto all’uomo che amava, io per seguire un ideale di vita che adoravo.
La sera prima del matrimonio di mia sorella, mia madre si preoccupava di centomila cose e non sembrava neanche triste. Ma mentre ce ne stavamo seduti a tavola per un piccolo rinfresco, aspettando che la famiglia dello sposo passasse a prendere mia sorella, mi accorsi che mamma non aveva toccato cibo.
Disse: “Per diciotto anni ha mangiato con noi e oggi sarà il suo ultimo pasto qui, prima di andare in un’altra casa”. Mia sorella piangeva, con la testa china sul piatto: “Mamma, non mi sposo più”. Invece si sposò. Quanto a me, ho lasciato la mamma per diventare un monaco. A coloro che sono fermamente decisi a lasciare le proprie famiglie e a diventare monaci si dice, per congratularsi, che stanno seguendo il cammino della comprensione, ma io non sono fiero di questo. Amo mia madre, ma ho anche un ideale, e per servirlo ho dovuto lasciarla. Dunque, peggio per me.

Spesso nella vita è necessario fare delle scelte difficili. Come dice il proverbio, non si possono pescare due pesci contemporaneamente. La cosa difficile è che se accettiamo di crescere dobbiamo accettare di soffrire. Io non sono pentito di avere lasciato mia madre per diventare un monaco, ma mi dispiace di essere stato costretto a questa scelta. Non ho avuto la possibilità di trarre pienamente profitto da questo prezioso tesoro.
Ogni notte prego per mia madre, ma non ho più la possibilità di assaporare la squisita banana ba huong, il riso dolce nep mot della migliore qualità, né il delizioso zucchero di canna mia lau. Non pensate che vi stia invitando a non seguire le vostre inclinazioni e a restare a casa vicino a vostra madre.
Come ho già detto, non sono qui per dare consigli o lezioni di morale. Voglio solo ricordarvi che una madre è come un buon riso, come il miele, come lo zucchero. È tenerezza, è amore, e dunque, cari fratelli e sorelle, non dimenticatela. Dimenticare genera una perdita immensa. Così spero per voi che non siate costretti, per ignoranza o mancanza di attenzione, a sopportare una tale perdita.
Io con gioia vi ho appuntato all’occhiello un fiore rosso, una rosa, così che siate felici. E questo è tutto.

Se mai dovessi dare un consiglio sarebbe questo: stasera, tornando da scuola o dal lavoro, o la prossima volta che farete visita a vostra madre, entrate nella sua stanza, con calma, in silenzio, sorridendo, e sedetevi accanto a lei. Non dite nulla, fate in modo che lasci da parte il suo lavoro.
Guardatela a lungo, guardatela bene, così che possiate vederla con chiarezza e rendervi conto che è lì, viva, al vostro fianco. Poi prendetele la mano e domandatele con semplicità: “Mamma, sai una cosa?”.
Lei sarà un po’ stupita e vi chiederà, sorridendo: “Che cosa, mio caro?”. Continuando a guardarla negli occhi, ditele con un sorriso sereno: “Lo sai che ti voglio bene?”. Non aspettatevi una risposta. Anche se avete trenta o quaranta anni o più, diteglielo e basta, perché siete suo figlio.
Sarete felici tutti e due, consapevoli di vivere nell’amore eterno. E domani, quando lei vi lascerà, non avrete nessun rimpianto.

Tratto da Canti e Recitazioni di Plum Village, Nobili Editore

La vita è un miracolo di Thich Nhat Hanh

In Vietnam, quando io ero un giovane monaco, il tempio di ogni villaggio era dotato di una grande campana, come quelle delle chiese cristiane d’Europa e d’America. Ogniqualvolta la campana era invitata a suonare, tutti gli abitanti interrompevano le loro attività per prendersi alcuni istanti di pausa, inspirando ed espirando in consapevolezza. Al Plum Village, la comunità nella quale vivo in Francia, ci comportiamo allo stesso modo. Ogni volta che sentiamo la campana, torniamo a noi stessi e ci godiamo il nostro respiro. Inspirando, ripetiamo silenziosamente: “Ascolta, ascolta”, ed espirando diciamo, sempre mentalmente: “Questo suono meraviglioso mi fa tornare alla mia vera dimora”.

La nostra vera casa è il momento presente. Vivere nel momento presente è un miracolo. Miracolo non è camminare sull’acqua. Miracolo è camminare sul nostro verde pianeta nel momento presente, per poter apprezzare la pace e la bellezza che ci si offrono proprio ora. La pace è ovunque intorno a noi, nel mondo e nella natura, e dentro di noi, nei nostri corpi e nelle nostre anime. Se solo impariamo a entrare in contatto con questa pace, a toccarla, saremo guariti e trasformati. Non si tratta di fede: è una questione pratica. Non c’è bisogno d’altro che di trovare dei modi per riportare il nostro corpo e la nostra mente al momento presente, così da poter toccare ciò che è vitale, salutare e meraviglioso.

L’anno scorso a New York ho preso un taxi, e ho potuto constatare che il tassista non era per niente felice. Non era nel momento presente. Non c’erano in lui né pace né gioia, nessuna capacità di essere vivo nel suo lavoro, e tutto ciò era espresso dal suo modo di guidare. Molti di noi si comportano allo stesso modo. Ci diamo un gran daffare, ma non siamo una cosa sola con quello che stiamo facendo; non siamo in pace. Il nostro corpo è qui, ma la mente è in qualche altro posto, nel passato o nel futuro, prigioniera della rabbia, delle frustrazioni, delle speranze o dei sogni. Non siamo davvero vivi: siamo piuttosto simili a fantasmi. Se il nostro bel bambino dovesse correrci incontro per offrirci un sorriso, lo perderemmo completamente, e lui perderebbe noi. Che peccato!

Nel suo Lo straniero, Albert Camus descrive un uomo che dovrà essere giustiziato di lì a pochi giorni. Seduto da solo nella sua cella, l’uomo nota un piccolo squarcio di cielo blu attraverso il lucernario, e istantaneamente si sente in intimo contatto con la vita, profondamente radicato nel momento presente. Promette a se stesso di vivere il tempo che gli resta in consapevolezza, apprezzando pienamente ogni istante, e continua a fare così per diversi giorni. Poi, solo tre ore prima dell’esecuzione, un sacerdote va nella sua cella per ricevere la confessione e celebrare gli ultimi rituali. L’uomo non vuole null’altro che restare solo. Invita più volte il sacerdote ad andarsene, e quando alla fine ci riesce, dice a se stesso che quel sacerdote vive come un morto. “Il vit comme un mort”. Può cioè constatare che colui che sta cercando di salvarlo è meno vivo di lui, di colui che sta per essere giustiziato.

Molti di noi, sebbene viventi, non sono veramente vivi, perché non sono in grado di toccare la vita nel momento presente. Siamo come morti, come dice Camus. Vorrei insegnarvi alcuni semplici esercizi, che possono essere praticati per unificare il corpo e la mente e tornare in contatto con la vita nel momento presente. Il primo si chiama respirazione cosciente, e molti esseri umani come noi lo praticano da più di tremila anni. Inspirando, sappiamo che stiamo inspirando; espirando, sappiamo che stiamo espirando. Così facendo, osserviamo i molteplici elementi di felicità dentro di noi e tutt’intorno a noi. È davvero possibile goderci il contatto con il respiro e l’essere vivi.

Possiamo trovare la vita solo nel momento presente. Penso che dovremmo istituire un giorno di vacanza per celebrare questo fatto. Ci sono festività per così tante occasioni importanti: Natale, Capodanno, la festa della mamma e quella del papà, persino il giorno della Terra, perché allora non celebrare un giorno nel quale sia possibile vivere felici nel momento presente per tutto il giorno? Vorrei proprio dichiarare oggi il “Giorno dell’Oggi”, un giorno dedicato a toccare la Terra, a toccare il cielo, a toccare gli alberi, e a toccare la pace che ci si offre proprio nel momento presente.

Dieci anni fa piantai tre magnifici cedri himalayani all’esterno del mio eremo, e oggi, ogni volta che passo vicino a uno di loro, mi inchino, tocco la corteccia con le guance, e lo abbraccio. Inspirando ed espirando in consapevolezza, guardo i rami e le splendide foglie . Abbracciare gli alberi mi dà moltissima pace e sostegno. Toccare un albero può dare un grande piacere sia a voi che all’albero. Gli alberi sono belli, comunicano un senso di freschezza e solidità. Se volete abbracciare un albero, non sarete mai respinti. Potete fare assegnamento sugli alberi. Ho insegnato anche ai miei studenti a praticare l’abbraccio degli alberi.

Al Plum Village c’è un bellissimo tiglio che offre ombra e gioia a centinaia di persone ogni estate. Alcuni anni fa ci fu una grande tempesta, molti dei suoi rami si spezzarono, e l’albero quasi ne morì. Quando vidi il tiglio dopo la tempesta, avrei voluto piangere. Sentii il bisogno di toccarlo, ma non trassi molto piacere da quel contatto. Vidi che l’albero stava soffrendo, e volli cercare di aiutarlo. Per fortuna il nostro amico Scott Mayer è come un medico degli alberi, e se ne è preso così bene cura che ora il tiglio è persino più forte e più bello di prima. Il Plum Village non sarebbe più stato lo stesso, senza quell’albero. Appena posso, tocco la sua corteccia e lo percepisco profondamente.

Così come tocchiamo gli alberi possiamo toccare noi stessi e gli altri, con compassione. Può succedere, cercando di piantare un chiodo in un pezzo di legno, che invece di colpire il chiodo ci colpiamo il dito. Subito posiamo il martello e ci preoccupiamo del dito ferito. Facciamo tutto il possibile per aiutarlo, mettendo mano al pronto soccorso e occupandocene con compassione e cura. Potremmo aver bisogno dell’aiuto di un dottore o di un’infermiera, ma abbiamo anche bisogno di compassione e gioia perché la ferita guarisca rapidamente. Quando sentiamo dolore, è meraviglioso toccare ciò che duole con compassione. Anche se il dolore è all’interno, nel nostro fegato, nel cuore o nei polmoni, possiamo toccarlo tramite la consapevolezza.

La nostra mano destra ha toccato la sinistra molte volte, ma forse non l’ha mai fatto con compassione. Proviamo a praticare insieme. Inspirando ed espirando tre volte, tocchiamo la mano sinistra con la destra e contemporaneamente con la nostra compassione. Vi siete accorti che mentre la mano sinistra riceve amore e benessere, anche la destra sta ricevendo amore e benessere? Questa pratica è benefica per tutte e due le parti, non solo per una. Quando vediamo qualcuno soffrire, se lo tocchiamo con compassione, potrà ricevere amore e benessere, e anche noi riceveremo amore e benessere. Possiamo fare lo stesso quando siamo noi a soffrire. Tutti traggono beneficio da questo tipo di contatto.

Il miglior modo di toccare è toccare con la consapevolezza. Sapete, è davvero possibile toccare senza consapevolezza. Lavandovi il viso la mattina, vi può capitare di toccarvi gli occhi senza rendervi conto che li state toccando. Può darsi che stiate pensando ad altre cose. Ma se vi lavate la faccia con consapevolezza, consapevoli di avere occhi con cui potete vedere, acqua che giunge da sorgenti lontane perché voi possiate rinfrescarvi, allora il vostro gesto è molto più profondo. Toccandovi gli occhi, potete dire: “Inspirando, sono consapevole dei miei occhi. Espirando, sorrido ai miei occhi”.

I nostri occhi sono elementi vitali, salutari e calmi, a nostra disposizione. Facciamo così tanta attenzione a ciò che non va, perché non notare ciò che è meraviglioso e ritemprante? Raramente ci soffermiamo un attimo ad apprezzare i nostri occhi. Toccando gli occhi con le mani e con la consapevolezza, comprendiamo che i nostri occhi sono gioielli preziosi, fondamentali per la nostra felicità. Chi ha perso la vista sente che se potesse vedere bene come noi, sarebbe in paradiso. Non dobbiamo fare altro che aprire gli occhi, per vedere ogni tipo di forme e di colori: il cielo blu, le colline morbide, gli alberi, le nuvole, i fiumi, i bambini, le farfalle. Solo sedendo e godendo di queste forme e colori, possiamo già raggiungere uno stato di grande felicità. Vedere è un miracolo, una condizione di felicità, eppure normalmente lo diamo per scontato. Non ci comportiamo affatto come se fossimo in paradiso. Praticando l’inspirazione possiamo acquisire consapevolezza dei nostri occhi, ed espirando possiamo sorridere ai nostri occhi: tocchiamo così uno stato di vera pace, di vera gioia.

Possiamo fare lo stesso con il nostro cuore. “Inspirando, sono consapevole del mio cuore. Espirando, sorrido al mio cuore”. Se pratichiamo in questo modo per qualche minuto, ci rendiamo conto che il nostro cuore sta lavorando sodo, giorno e notte, da molti anni, per tenerci in vita. Pompa migliaia di litri di sangue ogni giorno, senza tregua. Persino quando dormiamo, il cuore continua un lavoro da cui conseguono la nostra pace e il nostro benessere. Il cuore è quindi un elemento di pace e di gioia, ma noi non lo tocchiamo né lo apprezziamo. Invece, andiamo a toccare le cose che ci fanno soffrire, e così facendo procuriamo al nostro cuore momenti difficili, sia con preoccupazioni ed emozioni violente, sia con ciò che mangiamo e beviamo. In tal modo, miniamo la nostra pace e la nostra gioia. Praticando l’inspirazione diveniamo consapevoli del cuore, espirando sorridiamo al cuore: così raggiungiamo l’illuminazione. Vediamo il nostro cuore con estrema chiarezza. Sorridendo al nostro cuore, lo massaggiamo con la nostra compassione. Manteniamo il nostro cuore in buona salute quando sappiamo discriminare tra ciò che è bene mangiare e ciò che è dannoso, tra ciò che è utile bere e ciò che non lo è; sapendo quali preoccupazioni e dolori si possono evitare.

Lo stesso tipo di pratica può essere applicato ad altri organi del nostro corpo, per esempio al fegato. “Inspirando, so che il mio fegato sta lavorando sodo per farmi stare bene. Espirando, faccio voto di non danneggiare il mio fegato bevendo troppo alcol”. Questa è una meditazione d’amore. I nostri occhi sono noi stessi. Il nostro fegato è noi stessi. Se non sappiamo amare il nostro cuore e il nostro fegato, come possiamo amare un’altra persona? Praticare l’amore è prima di tutto praticare l’amore verso noi stessi: prenderci cura del nostro corpo, del nostro cuore, del nostro fegato. Stiamo toccando noi stessi con amore e compassione.

Quando abbiamo mal di denti, sappiamo che non avere mal di denti è una cosa meravigliosa. “Inspirando, sono consapevole del mio non-mal di denti. Espirando, sorrido al mio non-mal di denti”. Possiamo toccare il nostro non-mal di denti con la consapevolezza, e persino con le mani. Quando soffriamo d’asma e respiriamo a fatica, comprendiamo che poter respirare a pieni polmoni è qualcosa di meraviglioso. Anche se abbiamo solo il naso chiuso, già sappiamo che respirare liberamente è una cosa splendida.

Ogni giorno tocchiamo ciò che non va e di conseguenza, perdiamo la salute. Proprio per questo dobbiamo imparare a praticare il toccare ciò che va, che funziona, dentro di noi e intorno a noi. Entrando in contatto con gli occhi, col cuore, con il fegato, con la respirazione, con il non-mal di denti, e apprezzandoli veramente, vediamo che le condizioni per la pace e la felicità sono già presenti. Camminando in consapevolezza e toccando la Terra con i piedi, oppure bevendo il tè con gli amici e toccando sia il tè sia l’amicizia, siamo guariti, e la nostra guarigione diventa un contributo alla guarigione della società. Più abbiamo sofferto in passato, più siamo capaci di guarire noi stessi e gli altri. Possiamo imparare a trasformare la sofferenza in una sorta di introspezione, di intuizione, che sarà d’aiuto ai nostri amici e alla società.

Non c’è bisogno di morire per entrare nel Regno dei Cieli. Anzi, dobbiamo essere completamente vivi. Inspirando ed espirando, abbracciando un bell’albero, siamo in paradiso. Praticando la respirazione consapevole, attenti ai nostri occhi, al cuore, al fegato, al non-mal di denti, siamo immediatamente trasportati in paradiso. La pace è a nostra disposizione. Non dobbiamo fare altro che toccarla. Quando siamo davvero vivi, possiamo vedere come l’albero sia parte del paradiso, e come anche noi ne siamo parte. Tutto l’universo sta cercando di rivelarci questa realtà, ma siamo così ciechi da investire le nostre risorse per tagliare gli alberi. Se vogliamo accedere al paradiso in Terra, ci basta un solo passo cosciente e un solo respiro cosciente. Quando tocchiamo la pace, ogni cosa diventa reale. Diventiamo noi stessi, pienamente vivi nel momento presente, e sia l’albero che il nostro bambino, così come ogni altra cosa, si rivelano a noi nel loro pieno splendore.

“Il miracolo è camminare sulla Terra”. Questa frase è stata pronunciata dal maestro zen Lin Ci. Miracolo non è camminare sull’acqua, o nell’aria, ma camminare sulla Terra. La Terra è talmente bella. E anche noi siamo belli. Possiamo concederci di camminare in consapevolezza, toccando la Terra, la nostra madre meravigliosa, a ogni passo. Non c’è bisogno di augurare agli amici: “La pace sia con te”. La pace è già con loro. L’unica cosa che dobbiamo fare è aiutarli a coltivare l’abitudine di toccare la pace in ogni momento.

Tratto da:Thich Nhat Hanh, Toccare la pace, Ubaldini Editore

Siamo tutti dei fiori di Thich Nhat Hanh

Nella tradizione zen, poesia e meditazione vanno sempre di pari passo. La poesia è fatta di immagini e di musica, e le immagini rendono più facile la pratica della consapevolezza. Qui trovate una serie di esercizi che possono essere d’aiuto per praticare la consapevolezza, e che molti amici hanno trovato efficaci e fonte d’ispirazione.

 

Inspirando, io so che sto inspirando.
Espirando, io so che sto espirando.
Dentro / Fuori.

Inspirando, io mi vedo come un fiore.
Espirando, mi sento fresco.
Fiore / Fresco.

Inspirando, io mi vedo come una montagna.
Espirando, mi sento solido.
Montagna / Solido.

Inspirando, io mi vedo come acqua tranquilla.
Espirando, rifletto le cose così come sono.
Acqua / Riflettere.

Inspirando, io mi vedo come spazio.
Espirando, mi sento libero.
Spazio / Libero.

 

Tutti noi, i bambini come gli adulti, siamo dei bei fiori. Le nostre palpebre sono proprio come i petali delle rose, specialmente quando i nostri occhi sono chiusi. Le nostre orecchie sono come la bellezza radiante del mattino che ascolta il canto degli uccelli. Le nostre labbra formano uno splendido fiore ogni volta che sorridiamo. E le mani sono un fiore di loto con cinque petali. La pratica consiste nel mantenere vive e presenti le nostre caratteristiche di fiori, non solo per il nostro bene, ma per la felicità di ogni essere.

Sapete, se lasciate un fiore fuori dall’acqua per alcune ore, lo stelo si inaridisce. Quando lo rimettete nel vaso, potrebbe essere troppo tardi: potrebbe non riuscire più ad assorbire l’acqua. Per salvare il fiore, dovete tagliare un pezzetto dello stelo, se possibile tenendolo sommerso, in modo che l’acqua torni subito a fluire nelle cellule. Potete anche incidere un po’ i lati dello stelo, per favorire l’assorbimento laterale dell’acqua. In poco tempo, il vostro fiore tornerà a sorridere.

Ognuno di noi è un fiore, ma qualche volta siamo un po’ appassiti e abbiamo bisogno di riacquistare vigore. Noi fiori umani abbiamo bisogno d’aria. Se inspiriamo ed espiriamo profondamente, in modo cosciente, rifioriamo immediatamente. Possiamo respirare seduti, stando in piedi, coricati o camminando: dopo pochi minuti avremo riacquistato abbastanza freschezza da poter condividere il nostro fiore con gli altri. I nostri amici hanno bisogno che noi siamo un fiore. Qualche volta potranno sentirsi tristi, ma nel vederci felici si ricorderanno del loro fiore e torneranno a sorridere. Ci sosteniamo l’uno con l’altro. Se sappiamo come far rivivere il nostro fiore quando non è più molto fresco, stiamo veramente servendo la comunità.

La meditazione è portare pace, gioia e armonia a noi stessi e agli altri. ‘Fermarsi’ è la base della pratica meditativa. Per mantenere la freschezza del nostro fiore dobbiamo imparare a fermare le preoccupazioni, le ansie, l’agitazione e la tristezza, così da poter trovare pace e felicità e sorridere ancora. Quando le cose non vanno, è bene fermarsi per impedire che le energie sgradevoli e distruttive continuino a operare. Fermare non vuol dire reprimere: significa prima di tutto calmare. Se vogliamo che l’oceano sia calmo, non gettiamo via la sua acqua. Senza l’acqua, non resta niente. Quando ci rendiamo conto della presenza della rabbia, della paura e dell’agitazione dentro di noi, non è che dobbiamo sbarazzarcene. Dobbiamo soltanto inspirare ed espirare coscientemente, e già questo è sufficiente a placare la tempesta. Ma non c’è bisogno di aspettare una tempesta per iniziare a praticare. Quando non stiamo soffrendo, la respirazione cosciente ci fa sentire meravigliosi, e questo è il miglior modo per prepararci ad affrontare i problemi, quando si presenteranno.

Respirare è il miglior modo di fermarsi: ci permette di fermare l’infelicità, l’agitazione, la paura e la rabbia. Si può praticare la respirazione cosciente stando seduti o coricati, camminando, stando in piedi o in qualsiasi altra posizione. È sopratutto molto piacevole praticare all’aperto, all’aria fresca. Potete coricarvi o sedere sull’erba, oppure camminare lentamente inspirando ed espirando, concentrando l’attenzione su ogni respiro. Senza pensare a nient’altro, ripetete in silenzio: “Inspirando, io so che sto inspirando. Espirando, io so che sto espirando”. Se volete, potete ripetere semplicemente “Dentro” mentre inspirate, e “Fuori” mentre espirate. Sappiamo che chi soffre d’asma non desidera altro che poter respirare liberamente, e possiamo ricordarci quanto sia bello respirare. La respirazione ci nutre, e può darci tanta felicità. Praticate “Dentro / Fuori” per quante volte volete, magari cinque, dieci, venti volte, o anche di più. Questo esercizio è essenziale per la pratica del fermarci, calmarci e quindi ritornare alla nostra vera casa, nel momento presente.

Poi, quando vi sentite pronti, provate il secondo verso: “Inspirando, io mi vedo come un fiore. Espirando, mi sento fresco”. Inspirando, ripetete “Fiore”, ed espirando ripetete “Fresco”. Tutti noi siamo nati come fiori, ma dopo una vita trascorsa nell’ansia e nelle preoccupazioni possiamo aver perso la nostra vitalità originaria; possiamo non aver custodito bene il nostro fiore. Praticando questo verso lo innaffiamo. Se lo faremo bene, ogni cellula del nostro corpo sorriderà, e in soli cinque o dieci secondi, giusto il tempo per inspirare ed espirare, avremo recuperato la freschezza del nostro fiore. Continuiamo per un po’ finché la freschezza diventa qualcosa di solido, tangibile.

Quando vediamo qualcuno che conserva davvero la sua freschezza, ci fa piacere sedergli vicino. È uno che sa conservarsi come un fiore. Con la respirazione consapevole, anche noi possiamo recuperare la nostra freschezza. I giovani che non hanno sofferto molto sono ancora dei bei fiori, quel genere di fiori che può essere sorgente di gioia per chiunque e in ogni momento. Semplicemente inspirando ed espirando, e sorridendo, riusciamo anche noi ad avere un fiore da offrire agli altri, e più pratichiamo la respirazione e il sorriso, più il nostro fiore diventa bello. Un fiore non deve fare niente di particolare per rendersi utile, un fiore non deve fare altro che essere un fiore. Tutto qui. Basta un solo essere umano, se è un vero essere umano, per far gioire il mondo intero. Per questo motivo vi chiedo di inspirare ed espirare e di far rifiorire il vostro fiore. Fatelo per noi tutti. La vostra freschezza e la vostra gioia sono la pace di tutti.

“Inspirando, io mi vedo come una montagna. Espirando, mi sento solido”. Questo esercizio può essere praticato meglio stando seduti su un cuscino o sul pavimento, possibilmente nella posizione del loto o del mezzo-loto. Si tratta infatti di posizioni molto stabili, e la stabilità del corpo comporta la stabilità della mente. È importante scegliere un cuscino che abbia lo spessore giusto per sostenervi. Per sedere nella posizione del loto, ponete un piede per il mezzo-loto (o entrambi i piedi per il loto) sulla coscia opposta. Se è troppo difficile, potete sedere in qualsiasi altra posizione che sia di vostro gradimento, cercando però sempre di tenere la schiena ben diritta e le mani poste comodamente in grembo. Se preferite sedere su una sedia, i piedi devono poggiare sul pavimento e le mani in grembo. Se invece volete coricarvi, tenete le gambe ben diritte e le braccia ai lati del corpo.

Immaginate un albero nella tempesta. In cima all’albero, i rami più piccoli e le foglie sono frustati violentemente dal vento. L’albero appare vulnerabile, assolutamente fragile: sembra che debba spezzarsi da un momento all’altro. Ma se concentrate la vostra attenzione sul tronco, vi renderete conto della sua solidità; se poi guardate alla struttura delle radici, capite che l’albero è profondamente e fermamente radicato nel terreno. L’albero è molto forte: può resistere alla tempesta. Anche noi uomini siamo come un albero. Il nostro tronco, il nostro centro, è proprio sotto l’ombelico. Le zone relative al pensiero e alle emozioni sono a livello del capo e del petto. Quando siamo in preda a una forte emozione, come la disperazione, la paura, la rabbia o la gelosia, dovremmo fare del nostro meglio per lasciare il luogo dove infuria la tempesta e scendere a valle, dove possiamo praticare la respirazione. Può essere troppo pericoloso se restiamo esposti alla furia della tempesta. Possiamo rifugiarci nel tronco, inspirare ed espirare, consapevoli del riempirsi e svuotarsi della zona addominale.

Molte persone non sanno come trattare le emozioni. Quando sono in preda a una sensazione molto forte non sono in grado di sopportarla, e possono persino giungere a concepire l’idea del suicidio. È perché sono precipitate nel cuore della tempesta, dove si sentono impotenti. Sentono che tutta la loro vita è ridotta a quell’unica emozione, che può essere paura, disperazione, rabbia o gelosia, e pensano che l’unico modo per porre fine alla sofferenza sia togliersi la vita.

Dobbiamo praticare la respirazione cosciente in modo da imparare come affrontare i momenti difficili, nei quali emozioni potenti ci catturano. “Inspirando, io mi vedo come una montagna. Espirando, mi sento solido. Montagna / Solido”. Se prestate attenzione al riempirsi e svuotarsi dell’addome, potete aiutarlo a riempirsi un po’ di più con l’inspirazione, e a svuotarsi più profondamente quando espirate. Praticando in questo modo per pochi minuti, potete rendervi conto che siete più forti del vostro pensiero. Siete molto di più delle vostre emozioni. Un’emozione sorge, permane per qualche tempo, poi se ne va: è la sua natura. Perché dovremmo morire per un’emozione? Se ne andrà comunque, prima o poi. Andate giù, al tronco, e restate là decisamente, inspirando ed espirando. Dopo pochi minuti, l’emozione si placherà, e potrete praticare la meditazione camminata, oppure la meditazione seduta, o anche bere un tè in consapevolezza.

Non aspettate che la situazione si aggravi per iniziare a praticare. Praticando quotidianamente “Montagna / Solido” inspirando ed espirando, questa pratica diventerà un’abitudine in meno di tre settimane. Allora, quando sorgerà un’emozione intensa, vi sarà facile osservarla semplicemente fino a che non scomparirà. Se praticherete da coricati prima di dormire, poi vi addormenterete pacificamente. C’è una montagna in voi; entrate in contatto con quella montagna. Siete assai più solidi ed elastici di quanto pensiate.

Meditazione non vuol dire evitare i problemi o fuggire dalle difficoltà. Non pratichiamo la fuga. Pratichiamo invece per avere abbastanza forza per affrontare i problemi con efficacia. Per riuscirci dobbiamo essere calmi, limpidi e solidi. A tale scopo abbiamo bisogno di praticare l’arte del ‘fermarsi’. Imparando a fermarci diventiamo più calmi, e la nostra mente si fa più chiara, come acqua limpida dopo che le particelle di fango si sono depositate. Seduti tranquillamente, senza fare altro che respirare, sviluppiamo forza, concentrazione e chiarezza. Quindi, sedete come una montagna. Nessuna tempesta può abbattere una montagna. Se potete sedere per mezz’ora, godetevi mezz’ora di pratica. Se lo fate per pochi minuti, godetevi quei pochi minuti. È già abbastanza.

“Inspirando, io mi vedo come acqua tranquilla. Espirando, rifletto le cose così come sono. Acqua / Riflettere”. Vicino alla montagna troviamo uno specchio d’acqua limpida, tranquilla, che riflette la montagna e il cielo con chiarezza adamantina. Voi potete fare lo stesso. Se siete sufficientemente calmi e tranquilli, potete riflettere la montagna, il cielo blu, la luna, esattamente così come sono. Rispecchiate ogni cosa in modo esatto, proprio come è, senza alcuna distorsione.

Vi siete mai visti in uno specchio deformante? La faccia si allunga, gli occhi sono enormi, le gambe diventano cortissime. Non siate come quello specchio. È meglio essere come l’acqua tranquilla di un lago di montagna. Spesso non possiamo riflettere le cose con chiarezza, e soffriamo a causa delle nostre percezioni errate. In Essere Pace ho usato questo esempio: supponiamo che mentre passeggiate al tramonto vediate un serpente. Vi mettete a urlare e correte a casa a chiamare gli amici, e tutti insieme uscite fuori con una torcia. Ma una volta illuminato, scoprite che non si tratta di un serpente: è un semplice pezzo di corda. Questa è una percezione errata.

Quando osserviamo le cose o ascoltiamo gli altri, spesso non vediamo chiaramente, non ascoltiamo veramente. Non vediamo e udiamo che le nostre proiezioni, i nostri pregiudizi. Non siamo sufficientemente lucidi, e abbiamo percezioni errate. Se pure un nostro amico ci stesse facendo un complimento, potremmo finire per litigare con lui, solo perché abbiamo distorto ciò che ha detto. Se non siamo calmi, se ascoltiamo solo le nostre speranze e la nostra rabbia, non siamo in grado di ricevere la verità che sta cercando di riflettersi nel nostro lago. È necessario rendere la nostra acqua tranquilla se vogliamo ricevere la realtà per quello che è. Se vi sentite agitati, non fate e non dite niente. Inspirate ed espirate finché non siete abbastanza calmi. Poi chiedete al vostro amico di ripetere ciò che vi ha detto. Questo atteggiamento eviterà un bel po’ di problemi. La calma è il fondamento della comprensione e dell’introspezione. La calma è forza.

La pratica del fermarsi e calmarsi contiene in sé la pratica dell’intuizione introspettiva. Non solo la montagna, tutte le cose vogliono riflettersi in noi: gli alberi, il vento, gli uccelli, ogni cosa dentro e tutt’intorno a noi. Non dobbiamo andare in un altro posto per ottenere la verità. L’unica cosa che dobbiamo fare è dimorare nella calma, e tutto si rivelerà nell’acqua tranquilla del nostro cuore.

 

La luna rinfrescante del Buddha
viaggia nel cielo della somma vacuità.
Se il lago della mente è calmo,
la luna splendente si riflette in esso.

 

“Inspirando, io mi vedo come spazio. Espirando, mi sento libero. Spazio / Libero”. Quando disponiamo i fiori in un vaso, è opportuno lasciare un po’ di spazio attorno a ogni fiore, perché possa rivelare tutta la sua bellezza e la sua freschezza. Non c’è bisogno di molti fiori, ne bastano due o tre. Anche noi esseri umani abbiamo bisogno di spazio per essere felici. Ci fermiamo e ci calmiamo per offrire spazio a noi stessi, all’interno come all’esterno, così come a chi amiamo. Dobbiamo saper lasciar andare i progetti, le preoccupazioni, le paure, i rimpianti, e creare spazio intorno a noi. Lo spazio è libertà.

Un giorno il Buddha sedeva con una trentina di monaci, in una foresta nei pressi della città di Vaisali. Era il primo pomeriggio e stavano per parlare del Dharma, quando ecco che arriva un contadino sconvolto e fuori di sé. Racconta che le sue dodici mucche sono tutte fuggite, e chiede al Buddha e ai suoi discepoli se le hanno viste. Aggiunge che, come se ciò non bastasse, due acri di piante di sesamo sono stati devastati dagli insetti, e si sfoga così: “Monaci, credo che morirò. Sono la persona più infelice del mondo”.

Il Buddha gli risponde: “Signore, non abbiamo visto le tue mucche. Per favore, prova a cercare nell’altra direzione”. Una volta partito l’uomo, il Buddha si rivolge ai monaci con queste parole: “Amici, siete davvero fortunati. Voi non possedete nessuna mucca.”. La nostra pratica consiste nel lasciar andare le mucche. Se abbiamo troppe mucche, nella la nostra mente o intorno a noi, dovremmo lasciarle andare. Senza spazio, non c’è modo di essere felici. Prendiamo a cuore tante di quelle cose, abbiamo così tanti progetti, e siamo convinti che siano tutti cruciali per la nostra felicità, ma non è così. Più mucche lasceremo andare, più saremo felici.

“La luna rinfrescante del Buddha viaggia nel cielo della somma vacuità” è un’immagine che ci comunica spazio e libertà, interiore ed esteriore. Possiamo fare ogni cosa – camminare, bere il tè, parlare – in un modo che ci permetta di recuperare la nostra libertà. Non dobbiamo fare le cose sotto pressione. Possiamo limitarci a pochi progetti e realizzarli con gioia e serenità. Possiamo resistere, non lasciarci trascinare via dalle nostre mucche. Libertà e felicità sono troppo importanti per sacrificarle alla realizzazione delle nostre ambizioni.

Dobbiamo smettere di distruggere il nostro corpo e la nostra mente per correre nel futuro, inseguendo l’ideale della felicità. Dobbiamo imparare a vivere lietamente nel momento presente, a toccare la pace e la gioia che sono disponibili ora. Se qualcuno dovesse chiederci: “È già arrivato il miglior momento della tua vita?”, potremmo rispondere che arriverà molto presto. Ma se continuiamo a vivere nello stesso modo distorto, potrebbe non arrivare mai. È necessario trasformare questo momento nel momento più meraviglioso, e possiamo farlo fermandoci, fermando la nostra corsa verso il futuro, smettendo di preoccuparci del passato, smettendo di accumulare mucche. Siete persone libere: siete vivi. Aprite gli occhi e godetevi il sole, il bel cielo azzurro, gli stupendi bambini intorno a voi.

Respirare in modo cosciente permette di realizzare la parte migliore di sé, di essere calmi, freschi, solidi, limpidi e liberi, di godere il momento presente come il momento migliore della propria vita.

Tratto da: Thich Nhat Hanh, Toccare la pace, Ubaldini Editore

Non nascita, non morte di Thich Nhat Hanh

Prima parte

Una signora che era qui con noi ieri è dovuta partire perché le è morta la madre. Credo che le sarebbe piaciuto molto restare con noi e condividere il discorso di Dharma, ma lo ascolterete anche per lei. Quando una persona che ci è molto cara muore non sappiamo dove andrà, e non sappiamo se la incontreremo ancora in futuro, da qualche parte. Nell’insegnamento del Buddha si parla di non venire e non andare. Si tratta di un modo profondo di vedere se quella persona cara è ancora con noi o non c’è più.

Faremo ora insieme un esercizio sul non andare e non venire. L’altro giorno ho detto che nel buddhismo si preferisce la parola manifestazione piuttosto che creazione; quando facciamo il gesto di accendere un fiammifero in realtà non siamo noi ad accendere la fiamma, ma piuttosto la aiutiamo a manifestarsi. Se si guarda profondamente in questa scatola di fiammiferi, potremo vedere che la fiamma c’è già, non la vediamo davvero, ma sappiamo che la fiamma c’è ed aspetta solo di manifestarsi.

Tutte le condizioni sono già sufficienti tranne una, e l’ultima è il movimento della mia mano. Già da ora possiamo parlare alla fiamma e dirle: “Per favore, fiamma, manifestati”. Se non ci fosse, non potremmo parlarle così. Per piacere, aiutatemi a parlare alla fiamma ed ecco la risposta della fiamma: vedete, la fiamma si è manifestata, starà un pochino con noi e poi se ne andrà.

Ora parliamo di nuovo alla fiamma: “Cara fiamma, da dove sei venuta? Dove sei andata, mi manchi tanto”. Nello stesso modo una persona che ci è molto cara si è manifestata ad un certo punto della nostra vita e poi è andata via. Crediamo che prima che apparisse non esisteva, e che dopo la sua scomparsa non esiste più perché abbiamo la nozione di essere e non essere. Qualifichiamo il prima della manifestazione come non essere e la manifestazione come essere. Poi, dopo la cessazione della manifestazione, è di nuovo un non essere. Secondo il Buddha questi due concetti non possono essere applicati alla realtà. Prima che la fiamma si manifesti non si può chiamarla “non essere”, e quando si manifesta è sbagliato considerarla “essere”. Infine quando la manifestazione cessa di nuovo sbagliamo dicendo che non è.

Secondo il Buddha, quindi, la natura della fiamma non è né essere, né non essere. La vera natura della fiamma è libera dalla nozione di essere e non essere. Nell’insegnamento del Buddha, “essere e non essere non è questo il problema”. Nirvana è l’assenza di tutte le idee, comprese quella sull’essere e non essere. Chiediamo allora alla fiamma: “Da dove sei venuta?”, e se ascoltiamo profondamente la fiamma ci dirà: “Caro amico, non sono venuta da nessun luogo, quando le condizioni sono sufficienti mi manifesto. E andrò ovunque, non importa dove, quando le condizioni non saranno sufficienti.

Cesserà la manifestazione, ma non andrò da nessuna parte”. Possiamo comprendere l’affermazione fatta dalla fiamma e possiamo comprendere che la natura della fiamma non è né andare né venire. La realtà è libera dalle nozioni di essere, non essere, andare e venire.

Quando ci capita di perdere qualcuno molto vicino, vi prego, praticate nel modo suggerito dal Buddha. Potrete toccare davvero la sua presenza se eliminerete le nozioni di essere e non essere, andare e venire. Una volta ho fatto un discorso di Dharma a Plum Village e negli occhi dei bambini ho letto che avevano compreso questo essere e non essere, non andare e non venire. Se i bambini prestano attenzione, possono anche loro comprendere i discorsi di Dharma. Chiediamo alla fiamma di manifestarsi, inspiriamo ed espiriamo con attenzione ed aiutatemi a chiedere alla fiamma di manifestarsi: “Cara fiamma, per favore manifestati.” Proviamo ad accendere una candela: la fiamma è la stessa di quella di prima o è diversa? Non rispondete subito, prima dobbiamo praticare il guardare profondamente. È la stessa o sono diverse?

Il Buddha ci direbbe che non sono né la stessa né sono diverse, perché la realtà trascende le idee di stesso e diverso. Se lasciamo la candela una mezz’ora e poi torniamo, vedremo che la fiamma è ancora lì e la fiamma sarà la stessa, o meglio pensiamo che la fiamma sia la stessa, ma se guardiamo profondamente vedremo che ogni fiamma ha il suo ossigeno con cui bruciare, il suo combustibile di cui vivere, e se guardiamo ancor più profondamente vedremo che c’è una successione di fiamme, che non è la stessa fiamma che ha una certa durata, ma è piuttosto la successione di una moltitudine di fiamme.

Immaginiamo che qualcuno al buio tenga una torcia in mano e con quella luce disegni un cerchio: se non siamo molto lontani dalla persona avremo l’impressione che sia un cerchio di fuoco, mentre non è affatto un cerchio di fuoco quanto il susseguirsi del movimento a darci l’impressione di un cerchio di fuoco. Allo stesso modo, se abbiamo una cinepresa, possiamo fare un esperimento analogo: con la successione di tanti fotogrammi daremo l’impressione del movimento. Ma guardando profondamente potremo vedere la successione di una moltitudine di immagini. Quindi pensare che la fiamma sia la stessa è un’illusione ottica, ma anche dire che sono fiamme diverse, che non hanno collegamento tra loro, non è corretto. Con la pratica del guardare in profondità si può dire che la natura della fiamma non è né di essere la stessa né di essere diversa. Ora, per non dimenticare, abbiamo bisogno che qualcuno scriva sulla lavagna queste parole: “Non andare, non venire; non essere, non non essere; non uguale e non diverso”. Crediamo che la fiamma sia nata quando Thay l’ha accesa e che sia morta quando Thay l’ha spenta, quindi abbiamo ancora una nozione di nascita e morte. All’inizio di questo discorso vi ho invitato a pensare ai fenomeni come a qualcosa che si manifesta e non a qualcosa che nasce.

Guardiamo questo foglio di carta e pensiamo che sia venuto fuori dal nulla. Perché nella nostra mente nascere significa che da niente diventiamo qualcosa. Nascere significa che da nessuno diventiamo qualcuno. Nascere significa che da non essere diventiamo essere. Percezioni sbagliate. Questo foglio di carta prima di essere foglio di carta era già qualcosa? Guardando profondamente dentro il foglio di carta possiamo vedere la presenza di alberi, di foreste, del sole, dell’acqua. Tutto in un foglio di carta. E quindi è facile vedere che prima di essere foglio di carta era già qualcosa. Sarebbe sbagliato dire che il foglio di carta è venuto dal nulla, quella nella quale ora lo vediamo è solo una nuova manifestazione. Prima di nascere come foglio di carta, già era stato albero, pioggia, sole, e il momento che noi crediamo sia quello della nascita in realtà è solo una continuità. Il giorno del nostro compleanno è più appropriato cantare: “Buona continuazione”, anziché: “Buon compleanno”. Vorrei chiedere a questo bambino quando è nato. Prima di quella data esistevi già? “Sì”. Quindi, se esistevi già qual è il significato di nascere? Lo chiediamo a questa bambina. Esistevi prima di essere nata? “No”. E se non esistevi già, come hai fatto a nascere da tua madre?

Alcuni mesi prima che tu nascessi, la mamma già ti sentiva, eri già lì, quindi la data che è sul tuo certificato di nascita non è esatta. E prima del concepimento esistevi già? Almeno per il 50% nella tua mamma e il 50% in tuo padre. Guardando in questo modo scoprirai che ci sei sempre stata, e che la tua vera natura è la natura di non nascita. I nostri amici di tradizione cristiana non credono che Gesù non esistesse prima del concepimento. Era già lì prima di nascere. E nel suo insegnamento, anche dopo la crocifissione, ha continuato ad essere. La sua natura è di non morte: non solo il Cristo e il Buddha hanno la natura di non nascita e di non morte, ma tutti noi.

Lo scienziato francese Lavoisier disse: “Nulla nasce e nulla muore”, non conosceva il buddhismo, ma ha detto la stessa cosa del Sutra del cuore che abbiamo cantato stamane. Facciamo un esperimento: proviamo a bruciare questo foglio di carta e vediamo se diventa niente, perché secondo la nostra mente quando qualcosa nasce poi muore e da niente diventa qualcosa per diventare poi di nuovo niente. Il foglio di carta bruciato è niente. No, questo non è niente, si è trasformato in qualcosa di diverso, prima in fumo che è salito in cielo e ha raggiunto una nuvoletta: possiamo guardare il cielo e salutare il foglio di carta bruciato. Ma si è anche trasformato in calore, quasi bruciava le mie dita e quel calore è penetrato nel mio corpo e nel vostro. E così quando tornerete a casa, porterete quel foglio con voi.

Uno di voi può portare questa cenere in un campo e magari il prossimo anno quando tornerò per un altro ritirò la troverò trasformata in fiore. Quindi il momento della morte del foglio di carta non è altro che un momento di continuazione. Per lo stesso motivo non dovremmo essere tristi quando qualcuno muore, perché la sua morte è un momento di continuazione. Non solo durante un compleanno possiamo cantare: “Buona continuazione”, ma anche nel momento in cui uno muore. È un momento di un nuovo inizio, e se noi guardiamo con gli occhi del Buddha non possiamo sentire tanta disperazione. Se guardiamo in cielo possiamo vedere tante belle nuvole e quando viene il tempo in cui dovranno trasformarsi in poggia, la nuvola non avrà paura. Essere una nuvola che si muove nel cielo, ma alla stesso modo essere la pioggia che cade sulla terra è ugualmente una cosa meravigliosa. Se noi vogliamo vedere solo la nuvola, piangeremo quando si trasformerà in pioggia, e perciò in meditazione guardiamo profondamente per vedere la nuova manifestazione dei nostri cari, e allora potremo dire loro: “So dove siete e cercherò di identificare la vostra nuova manifestazione”.

Il Buddha disse: “Se guardi in profondità nella tua vera natura scoprirai che la tua vera natura è di non nascere e di non morire, non venire e non andare, non uguale e non diverso, non essere e non non essere. Se riuscirai a vedere la tua vera natura, allora sarai libero dalla sofferenza. Nel buddhismo esiste un termine che molti non comprendono: nirvana. Nirvana significa estinzione, ovvero estinzione di tutte le idee e di tutti i concetti, dell’idea di andare, venire, essere e non essere. Perciò dovremmo praticare abbastanza in modo da guardare in profondità e riconoscere la nostra vera natura.

 

Seconda parte

Lo scopo della pratica è di liberarci dalla sofferenza, ma il più grande sollievo è di toccare la nostra vera natura di non nascere e non morire. Ecco perché non dovremmo essere troppo indaffarati nella vita quotidiana, ma trovare sempre il tempo di praticare questo meraviglioso insegnamento del Buddha che ne costituisce la crema, il nettare; sarebbe un terribile spreco non riuscire a praticarlo.

Al tempo del Buddha, c’era un praticante di nome Anathapindika che era un uomo d’affari molto generoso sia dal punto di vista delle risorse materiali che delle energie che metteva al servizio dei più deboli e poveri. La gente nel suo paese lo amava, tanto che gli aveva dato questo nome che significa “colui che si prende cura degli emarginati”. Un giorno si recò nel boschetto di bambù dove il Buddha meditava e gli chiese di accettarlo come suo discepolo e poi lo invitò a recarsi nel suo paese, Kosala. E quando il Buddha accettò, egli tornò felice nel suo paese per trovare un luogo degno di ospitare il Buddha e i suoi discepoli, trovò il palazzo di un principe il quale fu contento di metterlo a disposizione del Buddha e dei suoi discepoli come centro di pratica. Poi l’uomo d’affari con sua moglie e i tre figli presero i cinque meravigliosi addestramenti di consapevolezza e praticarono insieme al Buddha. Cinque anni dopo, Anathapindika si ammalò gravemente e il Buddha personalmente andò a trovarlo a casa dopodiché chiese al suo discepolo più anziano, Sariputra, di prendersi cura di quell’uomo. Sariputra era intimo amico di Anatapindika perché quando quest’ultimo aveva invitato il Buddha nella sua terra lo aveva aiutato ad organizzare l’accoglienza. Sariputra chiese al venerabile Ananda, suo fratello di Dharma, di accompagnarlo a far visita al morente.

Anatapindika fu felice di vedere arrivare i due monaci al suo capezzale, ma era talmente debole da non riuscire a mettersi a sedere e allora Sariputra disse: “Caro amico, non devi metterti a sedere, noi prenderemo due sedie e ci siederemo accanto a te per parlare”.

Dopo essersi seduto Sariputra chiese: “Caro amico, come stai? Il dolore del corpo sta diminuendo o sta crescendo?” “Caro venerabile Sariputra, il dolore del mio corpo non sembrerebbe proprio diminuire, sta aumentando piuttosto.” Shariputra allora propose la meditazione delle tre Rimembranze: la rimembranza del Buddha, la rimembranza del Dharma e la rimembranza del Sangha.

Sariputra era uno dei discepoli più intelligenti del Buddha, egli sapeva che per più di venti anni Anatapindika aveva provato piacere ad essere al servizio del Buddha, del Dharma e del Sangha e perciò sapeva bene che praticare le tre rimembranze avrebbe annaffiato i semi della gioia e dunque propose proprio questo esercizio. Immaginate i due monaci seduti al capezzale di quest’uomo che praticano la meditazione guidata. Dopo circa otto minuti i dolori diminuirono e il sorriso ricomparve sul suo viso. Dobbiamo ricordare l’esperienza di Sariputra quando sediamo accanto a qualcuno gravemente ammalato, così da annaffiare i semi della gioia e dare sollievo alla sua mente ed al suo corpo. Subito dopo, Sariputra invitò Ananda e Anatapindika a continuare una meditazione sui sei organi di senso:

“Questi occhi non sono me,

io non sono preso da questi occhi;

questo corpo non sono io,

io non sono preso da questo corpo;

questa coscienza mentale non è me,

io non sono preso da questa coscienza mentale.”

Dovete sapere che i sei organi di senso, ossia i cinque sensi più la mente, si manifestano quando le condizioni sono sufficienti e se noi ci identifichiamo con loro, la disintegrazione del corpo diventa molto dolorosa. Perciò non dobbiamo identificarci con i sei organi di senso che includono la coscienza mentale e il corpo. In questo modo potremo cancellare tutta la paura che si prova in punto di morte.

C’è una pratica che dice:

“L’elemento terra non è me,

io non sono racchiuso dall’elemento terra;

l’elemento acqua non è me,

io non sono limitato dall’elemento acqua;

l’elemento fuoco, il calore in me, non è me,

io non sono limitato dall’elemento fuoco;

l’elemento aria non è me,

io non sono limitato dall’elemento aria”.

Quando le condizioni sono sufficienti, allora il corpo si manifesta, ma il corpo non viene e non va da nessuna parte. Prima della manifestazione del corpo non possiamo qualificare il corpo come non esistente. Dopo la cessazione della manifestazione del corpo non possiamo qualificare il corpo come non esistente.

La natura del corpo e anche della nostra mente è la natura della non nascita, non morte, non andare, non venire. Ed è proprio questo insegnamento del non nascere, non morire, non andare, non venire che abbiamo imparato all’inizio del discorso di Dharma.

Quando arrivò a questa pratica, le lacrime iniziarono a scendere lungo le guance di Anatapidika e Ananda, sorpreso, gli chiese che cosa gli stesse succedendo: “Perché piangi, hai dei rimpianti?” “No, venerabile Ananda, non ho nessun rimpianto.” “Oppure non hai praticato con successo la meditazione guidata?” “No, venerabile, ho praticato la meditazione guidata con molto successo” “E allora, perché piangi?” “Piango perché sono commosso, ho praticato il rifugio nel Buddha, nel Dharma e nel Sangha per più di trent’anni, ma non ho mai provato una pratica così meravigliosa come quella fattami provare oggi dal venerabile Sariputra. Al che Ananda replicò: “Caro amico, questo insegnamento il Buddha lo impartisce a noi monache e monaci tutti i giorni” Anatapitika disse: “Per favore, va e riferisci che è vero che ci sono persone che non praticano l’insegnamento dell’essere e non essere, non andare e non venire, non nascere e non morire, ma ce ne sono tante altre però che amano molto praticarlo. Chiedo quindi che il Buddha offra questo insegnamento anche ai laici e non solo ai monaci.” Fu questa l’ultima frase pronunciata da Anatapidika prima di morire in pace.

Questa storia si trova nel libro appena tradotto: “I canti di Plum Village”, nella parte dedicata agli insegnamenti per l’uomo moderno. Per favore, prendetene visione; il mio consiglio è di non essere troppo indaffarati nella vita quotidiana. Dovremmo avere il tempo per praticare ogni giorno questi insegnamenti, perché, se veramente pratichiamo liberandoci della paura, la nostra felicità aumenterà centinaia di volte, e se sediamo accanto ad una persona in fin di vita senza paura potremo davvero aiutarla a non aver paura.

Trascrizione del discorso del 1° novembre 2000 a chiusura del ritiro di Castelfusano (Roma).
La prima parte è l’insegnamento rivolto ai bambini presenti al ritiro.

Tratto da www.bodhidharma.it

Close