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Autore: Hiram

Vita di Milton Erickson di Ernest Rossi

Per uno strano caso, il primo lavoro di Albert [padre di Milton n.d.r] presagiva quella che sarebbe divenuta la professione di suo figlio: si ritrovò con un contratto di un anno come infermiere in un ospedale psichiatrico, con permessi solo saltuari per andare a trovare sua moglie a casa.
Successivamente il sangue vichingo e lo spirito di avventura che in quei tempi eroici spingeva a esplorare terre sconosciute portarono Albert a rispondere al richiamo delle miniere d’argento del Nevada.

La famiglia Erickson viaggiò dunque in treno e in carro fino ad arrivare nel minuscolo villaggio di Aurum, nel Nevada. Il viaggio a Ovest fu difficile, pieno di quei disagi tipici delle avventure dei pionieri: vi furono carenze di cibo e d’acqua, rigide notti, forti tempeste di vento da sopportare, senza contare la resistenza fisica richiesta per il lungo tragitto.

Una volta arrivata, la famiglia si stabilì in una capanna di tronchi dal pavimento di terra, con tre sole pareti (la quarta era costituita da una montagna!) in una zona desolata della Sierra Nevada. Costantemente assillati da penuria di viveri, i pionieri divennero bravissimi nel trasformare ciò che avevano a disposizione in ciò di cui avevano bisogno.

Ad Albert e Clara piaceva raccontare di quando conservavano la gelatina nelle bottiglie di whisky – la gelatina la si poteva tirare fuori con un coltello – perché i vasi a bocca larga, che erano di meno, servivano per conservare altri cibi. Certamente il fatto di crescere in un ambiente di questo tipo deve avere contribuito a formare la base di ciò che alla fine avrebbe caratterizzato gli approcci molto innovativi alla terapia Milton: l’utilizzare in modo creativo tutto ciò che è disponibile nella persona al fine di ottenere cambiamento e guarigione.
L’amore per la natura e lo spirito pionieristico così evidenti nelle prime vicende della sua famiglia erano ancora un aspetto caratteristico della personalità di Milton quando lo conobbi, nell’ultimo decennio della sua vita.

Primi anni della vita di Erickson: differenze di costituzione e percezioni alterate

Dato che Erickson nacque e crebbe in una terra di frontiera e in campagna, poté avvalersi di poche istituzioni sanitarie o educative. L'”istruzione” che si impartiva era di tipo semplice, limitata all’essenziale, ed è forse per questo che (a quanto sembra) nessuno si accorse che il giovane Milton percepiva il mondo in un suo modo del tutto peculiare.

Molti dei primi ricordi di Erickson riguardano il modo in cui, per via di vari problemi di costituzione, le sue percezioni erano diverse da quelle degli altri: per esempio, era daltonico; inoltre era affetto da sordità tonale e non poteva né riconoscere né eseguire i ritmi tipici della musica e delle canzoni; era poi anche affetto da dislessia – un problema che indubbiamente la sua mente di bambino non riusciva a capire e che egli riconobbe e capì solo molti, molti anni dopo.

Le incomprensioni, le discrepanze e la confusione che derivavano da queste differenze rispetto alla visione del mondo che era comune e normale negli altri avrebbero potuto menomare il funzionamento mentale di un’altra persona. Nel giovane Milton, invece, queste differenze crearono a quanto pare l’effetto opposto: stimolarono la sua ricerca e la sua curiosità. Ma, cosa più importante, esse portarono a una serie di esperienze inusuali che costituirono la base di una ricerca, durata tutta una vita, sulla relatività delle percezioni umane riguardanti tali problemi.

Forse fu per via della confusione generata da tali difficoltà di percezione che il giovane Milton imparò a fare più domande di quante ne faccia la maggior parte dei bambini della sua età. Un esempio: prima ancora di avere dieci anni, Milton volle sapere perché suo nonno piantava le patate a pancia in su, e sempre in una data fase lunare. Non contento della risposta ricevuta, passò a ideare e mettere in atto il suo primo esperimento controllato: piantò alcune file di patate con le gemme rivolte in tutte le direzioni e diverse fasi lunari; mentre ne piantò altre seguendo il metodo del nonno. Rimase però molto male quando il nonno non volle credere che tutte le file di patate avevano dato gli stessi risultati!

La poliomielite e la scoperta spontanea dell’ipnosi

Se c’è mai stato qualcuno che ha impersonato l’archetipo del medico malato – colui che impara a guarire gli altri guarendo innanzitutto se stesso – questi fu Milton H. Erickson. L’esperienza più formativa nei suoi primi anni di vita fu la sua prima lotta con la poliomielite all’età di diciassette anni (il secondo stacco lo ebbe all’età di 51 anni).

Il modo in cui Milton si riprese costituisce uno dei racconti di auto-guarigione e scoperta più affascinanti che io abbia mai sentito. Quando si svegliò dopo quei tre giorni, si trovò quasi del tutto paralizzato: sentiva i suoni molto bene, vedeva e poteva muovere le pupille, poteva parlare, con grande difficoltà, ma per il resto non poteva fare nessun altro movimento.

Nella sua comunità rurale non esisteva nessuna struttura per la riabilitazione, e a detta di tutti egli sarebbe rimasto senza l’uso degli arti per tutto il resto della sua vita. Ma la sua acuta intelligenza continuò a lavorare. Egli imparò, per esempio, standosene tutto il giorno a letto, a fare dei giochi con la mente, interpretando i suoni che gli provenivano dall’ambiente: dal suono che faceva la porta della stalla nel chiudersi, e dal tempo che impiegavano i passi a raggiungere la casa, lui riusciva a dire di che persona si trattava e di quale umore era.

Poi venne il famoso giorno in cui i suoi familiari si scordarono di averlo lasciato da solo, inchiodato nella sedia a dondolo. (Gli avevano costruito una specie di primitivo vaso da notte intagliando un foro nel sedile). La sedia a dondolo si trovava all’incirca nel mezzo della stanza, e Milton, seduto in essa, guardava ardentemente la finestra, col desiderio di esservi più vicino, in modo d’avere almeno il piacere di poter guardare la fattoria lì fuori. Mentre era lì seduto, apparentemente immobile, preso dai suoi desideri e dai suoi pensieri, improvvisamente si rese conto che la sua sedia aveva cominciato a dondolare leggermente. Che enorme scoperta! Era un caso? Oppure il suo desiderio di essere più vicino alla finestra non aveva forse effettivamente stimolato qualche minimo movimento del corpo, che aveva cominciato a far dondolare la sedia?

Questa esperienza, che probabilmente alla maggior parte di noi sarebbe passata inosservata, portò il ragazzo diciassettenne a un periodo di febbrile esplorazione di sé e di scoperta. Milton stava scoprendo da solo il principio ideomotorio fondamentale dell’ipnosi esaminato da Bernheim una generazione prima: che il solo pensiero o la sola idea di un movimento potevano portare all’effettiva esperienza di un movimento automatico del corpo.

Nelle settimane e nei mesi che seguirono, Milton andò a ripescare tutti i suoi ricordi sensoriali per cercare di reimparare a muoversi. Per esempio, si guardava per ore e ore la mano, e cercava di ricordare che sensazione gli avevano dato le dita quando tenevano un forcone. A poco a poco si accorse che le sue dita cominciavano a fare dei piccoli scatti e a muoversi leggermente in modo scoordinato. Continuò sino a che i movimenti diventarono più ampi, e lui potè controllarli coscientemente. E in che modo la mano afferrava un ramo d’albero? Come si muovevano le gambe, piedi e dita quando si arrampicava su un albero?

Non erano semplici esercizi di immaginazione; erano esercizi di attivazione di reali ricordi sensoriali – ricordi che ri-stimolarono la sua coordinazione senso-motoria tanto da permettergli di guaririe.
Ma perché potesse guarire era necessario qualcosa di più della semplice introspezione: l’osservazione del mondo esterno. Fortunatamente in quel periodo la sua sorella minore, Edith Carol, stava appena imparando a camminare. Milton iniziò una serie di osservazioni giornaliere nelle quali notava il suo modo (soprattutto inconscio) di imparare a camminare, in modo da poterlo copiare consapevolmente, e così costringere il proprio corpo, a fare lo stesso.
Dopo undici mesi di questo intensivo allenamento, Milton camminava ancora sulle stampelle, ma stava imparando rapidamente a camminare in modo sempre meno faticoso, in modo da sottoporre a minima tensione il suo corpo.

Non disponendo delle risorse finanziarie che gli potessero garantire un viaggio pieno di comodità, Milton si preparò a lasciarsi in questo viaggio con soli quattro dollari in tasca e, come sperava, un amico al suo fianco.

Dato che la sua capacità di guidare una canoa era nel migliore dei casi irrisoria (immaginatevi di lottare per far entrare e uscire dall’acqua una canoa reggendo contemporaneamente un paio di grucce!), sembrava evidente che un compagno sarebbe stato non solo opportuno, ma anche indispensabile.

Tuttavia all’ultimo momento il suo amico decise di non partire, cosicché l’indomito Milton si mise in viaggio tutto da solo nel giorno che aveva stabilito. (Ebbe l’accortezza di non dire ad Albert e Clara che il loro figlio inesperto e handicappato si riprometteva di scendere da solo lungo le rapide). Equipaggiato con riserve di cibo per due settimane, il necessario armamentario per cucinare, una tenda e un certo numero di libri, Milton si mise a discendere la corrente con l’intenzione di procedere in quella direzione sino al momento di invertire la marcia. Darsi una precisa destinazione, a suo avviso, non avrebbe fatto che rendere tedioso il viaggio.

Lungo la strada gli capitarono molte piccole avventure. All’inizio del viaggio se ne uscì a pescare un mattino presto, ma non fu in grado di uscire nuovamente dal lago sino al pomeriggio: i forti venti, uniti alla sua debolezza fisica lo costrinsero a molte ore di dura lotta. Ben presto, tuttavia, divenne bravissimo nel sollecitare in modo indiretto l’aiuto degli altri in tutte quelle situazioni che non riusciva ad affrontare da solo, come superare una diga e così via.
Riuscì anche a farsi invitare a pranzo più di una volta da qualche campeggiatore, e con loro passava il pomeriggio attorno a una tavola piena di cibo scambiando racconti d’avventure. Sembrava che gitanti e campeggiatori trovassero qualcosa d’affascinante nel giovane Milton. (Ed effettivamente questo suo disporre le cose in modo che gli altri gli dessero ‘spontaneamente’ aiuto era valso a Milton il soprannome di “Eric il Tasso”, affibiatogli dai compagni di scuola del Wisconsin. Quante volte, metà contenti e metà pieni di rammarico non si erano trovati a concedere, senza nemmeno sapere perché, certi vantaggi in situazioni di competizione a questo curioso ma astuto ragazzo di campagna!)
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Qua e là nel suo viaggio, Milton trovò lavoro temporaneo presso vari contadini, guadagnando così abbastanza denaro da costruire le proprie provviste. Scoprì anche che la sua capacità di cucinare poteva essere usata come mezzo di scambio: riuscì infatti a pagarsi una parte del suo viaggio lunga 400 chilometri semplicemente cucinando per due giovani che stavano avendo un’avventura estiva simile alla sua.

All’epoca in cui Milton cominciò il viaggio di ritorno, la sua forza muscolare era aumentata al punto che era in grado di pagaiare contro corrente e, cosa più importante, di trasportare la canoa senza bisogno d’aiuto. Alla fine del viaggio durato dieci settimane, l’elenco delle cose che aveva fatto era ancora più notevole: aveva navigato per quasi duemila chilometri di fiume, ricorrendo esclisivamente alla propria intelligenza e alle proprie risorse; aveva iniziato il viaggio con quattro dollari e lo terminava con otto; era partito sulle stampelle e tornava zoppicando in modo solo leggero (ma permanente); e per finire quando era partito era un debole malaticcio, e al ritorno era un robusto giovane con un nuovo senso di fiducia, di orgoglio e di autonomia personale.

Così rianimato e rafforzato dall’eroica avventura estiva, Milton tornò al college sprizzante d’energia e di determinazione a colmare le prime lacune della semplice educazione ricevuta.
Un tratto assolutamente originale e distintivo di queste prime ricerche di Erickson era costituito dalla sua attenta osservazione del sottile intergioco tra i meccanismi mentali dello stato di veglia e quelli dello stato di trance.
Erickson dimostrò in che modo gli stati alterati e i fenomeni di trance costituissero anche parte normale della vita di tutti i giorni. Questa sua intuizione costiuì il principio di base dei suoi successivi studi sulla psicopatologia, oltre che per lo sviluppo degli approcci naturalistici e di utilizzazione all’ipnoterapia.

In questo modo Erickson trasformò la vecchia concezione autoritaria dell’ipnosi in un approccio permissivo e di facilitazione. Ora non c’erano più suggestioni meccaniche impresse in modo automatico nella mente ‘vuota’ della persona in trance; piuttosto, Erickson vide lo stato ipnotico di trance come uno stato di dinamica complessità e individualità, nel quale le capacità personali del soggetto potevano essere utilizzate per facilitare il processo di guarigione.

All’età di ventitré anni, quando era ancora studente in medicina, Erickson si sposò per la prima volta. Da questo matrimonio, che durò dieci anni prima di finire con un divorzio, egli ebbe tre figli. So molto poco delle sue vicende personali in quel periodo della sua vita, ma dai pochi riferimenti casuali che Erickson vi ha fatto, appariva molto evidente che l’isolamento sociale e culturale cui era stato soggetto nei primi anni di vita gli aveva lasciato una certa ingenuità in campo sociale, e una certa carenza di capacità di giudizio riguardo ai rapporti con gli altri. In ogni caso il dolore e la confusione che gli derivano da questo primo sfortunato matrimonio lo portarono a focalizzare la sua attenzione sul capire le donne e i rapporti umani.

Sentiva di essere cresciuto con molte significative lacune nella comprensione degli altri, e per tutta la sua vita d’adulto dovette lavorare coscienziosamente per colmarle. Quando lo conobbi, sulla settantina, era suo principio fondamentale ritenere che tutti gli adulti normali avessero lacune del genere, che anch’essi dovevano colmare, continuando a imparare su se stessi per tutto l’arco della vita.

Sino al momento del primo matrimonio, Erickson si era dovuto per forza concentrare soprattutto sui suoi problemi di salute fisica e di benessere mentale. Ora si rendeva conto che doveva espandere la propria attenzione al di là di se stesso, anche alle difficoltà dei rapporti di coppia e con gli altri. Questa lezione appresa a così caro prezzo divenne dunque un’altra delle strade che con sofferenza personale lo portarono a essere pioniere in un nuovo campo professionale: Erickson fu infatti negli anni Quaranta e Cinquanta uno dei primi psichiatri che in seduta trattassero coppie e famiglie tutte intere.

Primi anni di ricerca

Nel 1928, subito dopo essersi laureato all’Università del Wisconsi, Erickson entrò a fare internato come medico al Colorado General Hospital e come psichiatra al Colorado Psychopathic Hospital. Successivamente venne nominato assistente allo State Hospital for Mental Diseases di Howard, Rhode Island (1929-1930). La sua tesi di laurea aveva avuto come tema la deficienza mentale, e ora egli ampliò il lavoro svolto, esplorando i rapporti tra fattori quali intelligenza, matrimonio, abbandono e crimine. Le sue conclusioni vennero riportate da svariate riviste mediche, di scienze sociali e di diritto in una serie di sette articoli pubblicati tra il 1929 e il 1931.

Fu solo all’epoca dei vari incarichi che ricoprì al Worcester State Hospital del Massachusetts (1930-1934), in cui iniziò da giovane medico e terminò come psichiatra primario dei servizi di ricerca, che pubblico il suo primo scritto riguardante l’ipnosi: “Possibili effetti nocivi dell’ipnosi sperimentale”. In questo scritto si occupava della prima cosa che aveva dovuto fare in un ambiente ospedaliero e professionale che inizialmente era ostile a quella che molti consideravano un’arte misteriosa e temibile: ed egli invece dimostrò sperimentalmente che l’ipnosi era un procedimento che non comportava pericoli.

In questo primo periodo l’ipnosi era ancora considerata una forma di sonno. Con la diffusione della teoria pavloviana, il concetto di sonno era stato elevato a quello di ‘inibizione corticale’. Ma Erickson non era affatto d’accordo. Le sue proprie esperienze di vita lo portavano a considerare l’ipnosi come uno stato alterato nel quale il soggetto provava un’attenzione intensa ma focalizzata su un ambito più ristretto.

Alla fine del suo incarico a Worcester, Massachusetts, nel 1934, anche il primo matrimonio di Erickson era finito. Aveva trentatré anni ed era padre di tre bambini piccoli dei quali doveva prendersi cura, una posizione a quell’epoca alquanto inusuale per uno psichiatra inusuale. Tuttavia, quando accettò la nomina successiva al Wayne County General Hospital a Elise, nel Michigan, egli iniziò un nuovo capitolo di approfondita ricerca nella sua vita personale e professionale.

Nel giro di un anno, poi, incontrò Elisabeth (Betty) Moore, che sarebbe divenuta sua moglie, la sua collega di ricerca, la madre dei suoi tre figli (e successivamente di altri cinque).
La nomina di Erickson a Eloise – dapprima come direttore della ricerca psichiatrica (1934-39) e successivamente come direttore della ricerca e formazione psichiatrica (1939-48) – offrì la sede per le sue principali ricerche sperimentali sulla natura e la realtà dei fenomeni ipnotici. L’ambito di questi studi andava dagli esperimenti di laboratorio, attentamente controllati, sulla sordità ipnotica e la cecità ai colori (con l’aiuto di sua moglie), sino alla ricerca sui complessi e le nevrosi significative per il lavoro clinico, indotte per via ipnotica. La fantastica abilità di Erickson nell’utilizzazione degli stimoli minimi e delle forme indirette di suggestione lo portò alla pubblicazione di una serie di scritti sulla dimostrazione sperimentale dei meccanismi mentali freudiani e sulla presenza dei processi inconsci sia nella ‘psicopatologia della vita quotidiana’, sia nelle sindromi psichiatriche gravi.

Benché molto del suo lavoro nel corso di questo periodo fosse a sostegno della teoria psicoanalitica, Erickson non si considerò mai un freudiano, né, del resto, un seguace, di nessuna scuola particolare. Ed effettivamente egli deplorò spesso l’esistenza delle varie scuole di psicologia e di psichiatria, perché secondo lui i loro seguaci dimostravano troppo spesso un’immatura rigidità (o ‘limiti appresi’) non facevano che inibire una ampia esplorazione libera, e per tutta la sua carriera egli stesso non volle legarsi a nessuna teoria. Era un genio nel campo della percezione e della comunicazione e provava un enorme piacere nello studio e nell’impiego terapeutico dei mezzi datici dalla natura; e tuttavia su questi mezzi non sentiva alcun bisogno di costruire impalcature teoriche d’alcun genere.

La maturità professionale

Il successivo passo importante nella carriera di Erickson si ebbe quando accettò la carica di direttore dell’Arizona State Hospital a Phoenix, in Arizona (1948-49). Questo trasferimento nel clima secco e caldo dell’Arizona fu motivato in parte dai dolori che gli causava il freddo clima del Michigan e in parte dalle molteplici allergie che lì lo avevano tormentato.

Il sovraintendente all’ospedale dell’Arizona era John A. Larson, un medico e ricercatore inusitatamente capace, uno studioso che aveva compiuto molte delle prime ricerche sul poligrafo. I rapporti con Erickson sul piano intellettuale erano eccellenti, e insieme essi intendevano mettere in atto un programma all’avanguardia nella ricerca e nel trattamento. Il primo anno la famiglia Erickson visse in un’ala annessa all’ospedale, ma a quel punto Larson venne chiamato ad altri incarichi ed Erickson iniziò un’attività privata impiantando casa e studio a Cypress Stret, al centro di Phoenix.

Il passaggio all’attività professionale privata malgrado i principali interessi di Erickson vertessero nel campo della ricerca, fu dovuto ancora una volta a cause di salute. Benché il caldo secco e l’aria pulita dell’Arizona fossero d’aiuto nel ridurre i crampi muscolari e le allergie da cui era stato provato nei climi più freddi, Erickson era tutt’ora soggetto a momenti di vertigine, disorientamento, grave debilitazione. La fonte di questi problemi i medici l’attribuirono a “strascichi della poliomielite, forse di poliencefalite”. Per quanto si potesse sentire bene, c’era sempre per lui la possibilità di provare dolore e non essere in grado di muoversi.

Il fatto d’avere lo studio in casa gli avrebbe permesso di prendersi delle pause tra un paziente e l’altro, durante le quali avrebbe potuto riprendere con l’autoipnosi controllo sul dolore; ciò avrebbe mantenuto le spese professionali al minimo, rendendogli contemporaneamente disponibile il costante sostegno e le cure di sua moglie; infine gli avrebbe permesso di rimanere vicino ai suoi cani e ai suoi bambini, con i quali aveva sempre un intenso rapporto di maestro, tutore, buffone, narratore di aneddoti e storie sagge, nonché affettuoso compagno.

Adottare questo stile di vita meno faticoso si rivelò effettivamente una scelta perspicace. Nel giro di pochi anni infatti, all’età di cinquantuno anni, Erickson provò la rara tragedia di un secondo attacco di poliomielite. A questo punto della sua vita il dolore divenne suo costante compagno.
Ciò era dovuto in parte al graduale e inevitabile deterioramento del tessuto muscolare che avviene per via della poliomielite, e in parte agli effetti residui delle torsioni e delle pressioni inusuali che aveva imparato a dare alla sua colonna vertebrale negli anni passati nei suoi tentativi di mantenere una posizione del corpo più normale possibile.

Per tutto il corso della sua vita Erickson mal sopportò le affermazioni della parapsicologia, la fede religiosa nei miracoli, o gli entusiasmi popolari riguardo a una presunta ‘energia psichica’.

Per Erickson l’ipnosi era un fenomeno naturale che utilizzava processi fisiologici ordinari quali il ricordo, la dimenticanza, la dissociazione, la reinterpretazione cognitiva dei sistemi di credenze. Di solito per aiutare il paziente a raggiungere quei risultati apparentemente miracolosi era richiesta una gran mole di addestramento, intelligenza e lavoro da parte del terapeuta.
Se al paziente e all’osservatore abituale questi sembrano miracolosi, è solo perché non conoscono tutte le vicende e l’attenta programmazione necessaria per ottenere gli effetti ipnotici.

E’ vero che a volte le circostanze socio-culturali possono combinarsi spontaneamente in modo tale da far pensare a un miracolo che si sia prodotto senza sforzo e per il tramite di qualche entità sovrannaturale (si pensi ai santuari, alle riunioni di fedeli, all’effetto prodotto da pittoreschi ciarlatani, ecc.), ma il comune terapeuta dovrebbe conoscere tutto il possibile sulle scienze della psicologia, dello sviluppo umano del linguaggio, della comunicazione e della cultura.

Ciascun paziente è un microcosmo unico che deve essere compreso appieno se si vuol riuscire a sintetizzare un adeguato approccio che utilizzi le sue potenzialità individuali. Anche se esistono certi principi generali di trattamento de eseguire, qualsiasi intervento ipnoterapeutico è necessariamente sperimentale. Con l’impegno, l’intuito e molta pratica, questi approcci ipnoterapeutici possono divenire quasi una ‘seconda natura’ per il terapeuta, cosicché alla fine si ottengono buoni risultati in modo apparentemente privo di sforzo.

Gli anni della leadership

Il fatto di lavorare a casa significò per Erickson ritirarsi in disparte. Al contrario, non appena sifu ripreso dal secondo attacco di poliomielite si trovò tanta energia a disposizione da iniziare il periodo più pieno e soddisfacente della sua carriera, come amico, terapeuta, maestro e consulente – e alla fine come leader nazionale e mondiale nell’ipnosi clinica.

A questo punto Erickson incominciò a tenere lezioni e conferenze dietro invito in vari college locali e in seminari rivolti a colleghi. Agli inizi degli anni Cinquanta partecipò alle lezioni tenute a psicologi, psichiatri e dentisti nei seminari di ipnosi di Los Angeles, insieme a Lesile LeCron e altri.

In quello stesso periodo conobbe Aldous Huxley, con il quale trovò un’eccellente affinità sul piano intellettuale. La mente eccezionale di Huxley, provò sotto la guida di Erickson alcuni affascinanti fenomeni ipnotici. I due si ripromettevano di effettuare un lavoro congiunto sulla coscienza e gli stati alterati, ma i loro manoscritti non ancora portati a termine andarono purtroppo distrutti in un incendio che bruciò completamente la casa di Huxley. Erickson impiegò però alcuni degli appunti presi nelle loro sedute ipnotiche per scrivere successivamente uno dei suoi più geniali e coloriti racconti: “Una indagine speciale condotta con Aldous Huxley sulla natura e il carattere dei vari stati di coscienza”.

Sino al momneto in cui comparve sulla scena Erickson, nel campo dell’ipnosi clinica c’era stato il vuoto. Non cerano, semplicemente, molti professionisti che la impiegassero: sembrava che le vecchie, autoritarie tecniche ipnotiche non si confacessero a una cultura democratica alla spasmodica ricerca di se stessa.

In America, l’unica organizzazione professionale di una qualche importanza era la Society of Experimental and Clinical Hypnosis, composta soprattutto da accademici che si concentravano sulla ricerca, più che sulla pratica. Fu in questo vuoto che comparve Erickson, il quale,con i suoi approcci i diretti e permissivi che utilizzavano l’insight e i meccanismi mentali, diede inizio a una grande rinascita dell’ipnosi nel mondo clinico, nelle sue applicazioni nei campi della medicina, dell’odontoiatria e della psicologia.

Erickson si lanciò ora nel periodo più impegnato della sua vita. Aveva una famiglia sempre crescente, composta di otto figli, una schiera sempre più numeroso di cani di tutte le razze, e una fama sempre più vasta come scrittore, consulente e insegnante. La gamma delle sue attività era estremamente variegata: era consulente di gruppi disparati quali la squadra americana di tiro al bersaglio, enti governativi che si interessavano allo studio degli incidenti aerei, nonché atleti di primo piano che cercavano di accrescere le loro potenzialità e risultati tramite l’ipnosi. Le sue conferenze a gruppi di professionisti si estesero a tutto il paese, tanto che di solito mancava da casa almeno una settimana al mese. Venne acclamato in svariati paesi quando diede dimostrazioni di ipnosi di fronte a gruppi di professionisti, e non potendo parlare la lingua del luogo inventò le spettacolari tecniche mimate di induzione ipnotica. Il modo in cui le elaborò è descritto in “Tecniche mimate nell’ipnosi e le loro implicazioni”.

Il saggio di Phoenix

L’umile studio-casa di Cypress Street costituiva un’esperienza umana per tutti coloro che venivano a varcarne la soglia. Nel soggiorno di famiglia che fungeva anche da sala d’aspetto i pazienti s’imbattevano sempre in simpatici cani e bambini. C’era un cane bassotto di nome “Roger” che si rilassava talmente, sdraiato in mezzo alla stanza, che i pazienti spesso cadevano in fantsasticheria e stato di trance semplicemente guardandolo. Erickson considerava che ciò gli facilitasse il lavoro.

Ed effettivamente non si trattava tanto di un rapporto medico- paziente quanto piuttosto di un rapporto famigli-paziente. I bambini avevano l’abitudine di fare dei disegni per i pazienti, e avvenivano scambi di piccoli doni. La famiglia sapeva sempre quando un paziente migliorava o peggiorava, e talvolta poteva anche avvenire che nel cortile retrostante la casa venissero messi in atto metodi di trattamento estremi: in almeno un’occasione Erickson mise sotto chiave gli stivali di un paziente alcolizzato, in modo che non potesse fuggire dal cortile dove si stava disintossicando mentre per pagarsi la pigione badava ai cani e al giardino!

Un altro paziente che dovette essere ospedalizzato venne ‘adottato’ dalla famiglia: dopo che fu dimesso dall’ospedale gli regalarono un cane, che venne tenuto a casa degli Erickson (dato che lui non poteva tenerlo nel suo appartamento), e per anni egli venne a trovare ogni giorno il cane e la famiglia – e a tutt’oggi continua le sue visite regolari.

Dato che studiando e compensando le proprie carenze Erickson aveva raggiunto un modo di vedere il mondo davvero unico, era chiaro che il suo modo di concepire i rapporti umani fosse diverso da quello dei suoi colleghi. Così, anche se aveva molto in comune coi suoi colleghi, c’erano sempre, anche con coloro che lo conoscevano meglio ,differenze di percezione e di comunicazione.

Pur avendo effettuato ricerche su concetti psicanalitici fondamentali con un teorico freudiano, Lawrence Kubie, e pur condividendo opinioni e progetti con altri eminenti pensatori quali Aldous Huxley, Margaret Mead e Gregory Bateson, Erickson rimase sempre un professionista sui generis, al centro dell’identità professionale del quale rimanevano sempre le sue straordinarie capacità operative. Nessuno poteva negare i brillanti e inusitati effetti che riusciva a ottenere in ipnosi, ma pochi potevano capire o riprodurre il suo operato. Ciò ha portato a molta confusione ed errori d’interpretazione circa il contributo di Erickson, e rimane tutt’oggi un problema ancora aperto, anche tra coloro che vorrebbero seguirlo: come può il professionista medio, con tutti i limiti appresi dalla nostra cultura media, imparare a ottenere quei risultati molto efficaci ma sempre unici che erano il prodotto di un’intelligenza così particolare come quella di Milton H. Erickson?

A mio avviso anche questo breve profilo della vita di Erickosn è importante per capire la fonte della sua genialità, spesso trascurata da coloro che cercano di emulare i suoi brillanti risultati tecnici. La tecnica di Erickson proveniva dalle ferite della sua carne; la sua originalità come terapeuta aveva radici della sua lotta di vita o di morte per far fronte alle sue carenze congenite e alla malattia che lo paralizzava. Io sono convinto che la vera fonte della sua efficacia come terapeuta sia questa: i pazienti avvertivano a svariati livelli che le capacità di Erickson come terapeuta derivavano da autentiche esperienze e conoscenze personali. Era davvero il medico sofferente che aveva imparato a guarire gli altri guarendo se stesso.

E ciò vale anche per tutti coloro tra noi che sentono un’autentica vocazione per questa professione. Ognuno di noi, in un modo o in un altro, ha qualche ferita. La nostra riuscita sempre parziale nel guarire le nostre ferite ci porta alla vocazione di esplorare insieme agli altri ulteriori modi di adattarci alla nostra comune condizione umana e di ampliarne le possibilità.

I pazienti hanno ragione a risentirsi quando sentono di subire una manipolazione per mezzo di ‘aride tecniche’, impiegate da un operatore che non ha alcun rapporto personale o conoscenza della fonte dei problemi e della malattia che sono in tutti noi.
Questi operatori cercano d’impiegare la tecnica come mezzo di potere e prestigio per controllare gli altri. Ma l’inconscio dei pazienti, naturalmente, avverte tutta la superficialità di questa vuota messinscena, e nulla cambia davvero; non fanno che manifestarsi delle ‘resistenze’. Anche se cambia un sintomo, non è ancora avvenuto nessun profondo coinvolgimento con quelle fonti interne di malattia e creatività, che è il vero scopo di tutto il lavoro terapeutico.

E’ proprio a questo fine che è dedicata questa breve rassegna della vita di Erickson, e anche questi volumi sui suoi seminari, gruppi di lavoro e conferenze: rispondere alla domanda su come ciascuno di noi possa generare un più efficace rapporto con le fonti e i problemi del nostro essere unici, e su come possiamo affinare queste capacità per aiutare gli altri ad affrontare i dilemmi della nostra comune condizione umana.

tratto da E. Rossi in Milton Erickson, Guarire con l’ipnosi – Astrolabio

Psicoterapia transpersonale

Verso nuove tecnologie del sacro
La psicologia transpersonale, si diceva, è un vasto movimento culturale che, in quanto tale, travalica gli ambiti e i limiti della psicologia per contribuire alla nascita di una nuova Scienza della Coscienza.
La sua giurisdizione si estende al campo dell’arte, della filosofia, dell’antropologia, della religione, dell’educazione, della parapsicologia, della sociologia.
Uno speciale contributo, come del resto è lecito attendersi, il movimento transpersonale lo ha fornito e lo sta fornendo nel campo della psicoterapia. Sono venute infatti sorgendo negli ultimi decenni una serie di metodologie psicoterapeutiche cosidette esperienziali, come diretta emanazione applicativa delle tesi e delle scoperte del movimento transpersonale.
Per queste metodologie, Grof ha suggerito il termine di Tecnologie del sacro per sottolineare il loro orientamento, finalizzato alla realizzazione del Sè, vale a dire al pieno compimento della natura spirituale dell’essere umano.
Tra queste possiamo citarne alcune che si rifanno direttamente alle antiche tradizioni mistiche e che sono state elaborate da insigni ricercatori universalmente riconosciuti. Ci riferiamo alla Psicologia dello Yoga elaborata dal filosofo indiano Haridas Chaudhuri ed esposta in più di quindici opere (1) o alla Essential Psychotherapy proposta dalla psicologa californiana Kathleen Riordan e basata sul lavoro di Gurdjieff (2) oppure alla Psicologia della Coscienza elaborata in più di una ventina di pubblicazioni dallo psicologo americano Robert Ornstein e basata sulla tradizione Sufi (3). Anche la Tradizione Mistica Cristiana è stata ispiratrice di una metodologia psicoterapeutica proposta nelle opere del sacerdote e mistico cattolico William McNamara, (4) (5). L’Induismo Vedanta ha ispirato le opere di Ken Wilber (5), l’Einstein della Psicoterapia Transpersonale e della ricerca sulla coscienza. Il Buddismo, dal canto suo, forse la più psicologica delle tradizioni spirituali, è stato proposto in chiave psicoterapeutica da diversi autori: si pensi alla psicologa texana Claire Myers Owens (6) e alla sua elaborazione psicoterapeutica del Buddismo Zen o allo psicologo californiano Daniel Goleman (7) e sue opere quali ‘Psychology of Self-Deception’ e ‘The Meditative Mind’.
La ricerca psicologica laica occidentale, da parte sua, ha elaborato all’interno del movimento transpersonale una serie di tecnologie autonome. Si pensi in primo luogo alle capostipiti, vale a dire alla Psicosintesi di Roberto Assagiol (8) e alla Psicologia del Profondo di Carl Gustav Jung (9), che hanno anticipato di alcuni decenni le tesi poi sviluppate ed ampliate dalla ricerca psicologica transpersonale.
Tra le più recenti possiamo citare le tecnologie elaborate da alcuni dei padri fondatori del movimento transpersonale, come il Cosmodramma di Pierre Weil (10), la Terapia Olotropica di Stan Grof (11), il metodo di Claudio Naranjo basato sull’Enneagramma e la Corenergetica di John Pierrakos (12), a cavallo tra psicoterapia transpersonale e psicocorporea. E’ in questo contesto che si colloca la Biotransenergetica (13).

BIBLIOGRAFIA
(1) Citiamo tra le altre: Essere, evoluzione e immortalità (1974) L’evoluzione della coscienza integrale (1977) e L’essenza della filosofia spirituale (1992).
(2) Si veda: The Essential Psychotherapies (1981) The Gurdjeff Work (1989) e Generativity (1990)
(3) Si veda: Ornstein R. – La psicologia della coscienza, ed. Franco Angeli, Milano 1978
(4) Si veda: The Human Adventure (1974) Mystical Passion (1977) Christian Mysticism (1981).
(5) Tra le sue opere principali tradotte in italiano: Oltre i confini, ed. la Cittadella, 1985; Lo spettro della coscienza, ed. Crisalide, 1993.
(6) Si veda: Zen and the Lady: Memoirs-Personal and Transpersonal in a world in Transition. ed. Baraka Books, New York 1979
(7) Si veda: The Varieties of Meditative Experiences, Dutton, New York 1977; The Meditative Mind, ed. J.P.Tarcher, Los Angeles1988
(8) Si veda: Principi e metodi della psicosintesi terapeutica, ed. Astrolabio, 1973
(9) Si veda: Jung, Opere, ed. Boringhieri, Torino.
(10) Si veda: L’uomo senza frontiere, ed. Crisalide 1996
(11) Si veda: Oltre il cervello, ed. Cittadella 1988; La mente olotropica, ed Red. 1996
(12) Si veda: Corenergetica, ed. Crisalide 1996
(13) Si veda: Biotransenergetica, ed Xenia 1997; Il Modo Ulteriore, ed. Meb 1995; Lavorare coi chakras, ed. Meb 1996
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MOVIMENTO TRANSPERSONALE
Una nuova tesi scientifica: Oltre i confini
Esplorando le dimensioni dell’esperienza interiore, la Psicologia Transpersonale (come ci ricorda uno degli antesignani del movimento transpersonale in Brasile, Pierre Weil, nel suo libro “L’uomo senza frontiere”) ha individuato una serie di confini che limitano l’uomo nella sua visione del mondo.
Essi sono: la coscienza, la memoria, l’evoluzione e la morte.
La conoscenza e la trascendenza di tali confini è prerogrativa del movimento transpersonale che opera con metodi scientifici per lo sviluppo della seguente tesi:
La coscienza è un flusso incessante ed illimitato. I limiti esistono solo nella mente dell’uomo.
La memoria va oltre la filogenesi e può risalire lungo la giornata evolutiva del vivente fino alla fonte stessa dell’energia vitale.
L’evoluzione umana non si ferma all’intelletto o alla fase della maturità sessuale ma procede verso qualitˆ più elevate quali: saggezza, amore, umiltà, compassione, consapevolezza, ecc
La morte è solo un passaggio, un occasione per attingere nuove dimensioni dell’essere.

La coppia e la famiglia di Willy Pasini

Freud affermava che in un letto matrimoniale si ritrovano almeno 4 personaggi: lui, lei, la madre di lui e il padre di lei. Questa metafora voleva semplificare il concetto dell’influenza che può avere sulla coppia neoformata il mancato superamento del complesso edipico o, comunque, la difficoltà del distacco pratico ed emotivo dalla famiglia di origine dei coniugi.

Alcune donne, che si identificano totalmente con il ruolo di madri, stabiliscono con il figlio maschio una modalità di protezione apprensiva che rende il figlio insicuro in età adulta: queste madri hanno una inconscia esigenza di essere considerate sempre le migliori e possono arrivare a soffrire di gelosia nei confronti della donna che il figlio ha scelto come donna della sua vita ed interferire pesantemente nella vita di coppia appena nata.

Quando le interferenze si limitano ad aspetti concreti della vita quotidiana sono sufficienti alcuni accorgimenti per uscirne fuori.

Non è mai utile che la partner imponga degli aut aut perché lui entrerebbe subito in crisi e in questa insicurezza si insinuerebbe subito la madre con tutto il suo ascendente.

In fondo l’uomo ha dimostrato di voler autonomizzarsi dalla famiglia di origine facendo un passo importante come il matrimonio forse in un momento ancora prematuro ma che va comunque rinforzato mettendo tutte le energie nella nuova coppia: è bene dunque separarsi fisicamente dalle rispettive famiglie di origine e stimolare il proprio partner a prendere le decisioni importanti all’interno del nucleo familiare neo-costituito, in modo tale che ogni interferenza successiva possa non diventare ingerenza. E’ oltremodo importante non creare legami basati sul bisogno con la madre di lui, altrimenti avrebbe subito lo strumento per reinserirsi nella vita di coppia.

Il problema nasce quando la dipendenza madre-figlio è di tipo emotivo-affettivo.

Olga ha 27 anni ed è fidanzata da 5 anni con Giovanni che ne ha 33 e vive da solo, quando viene in consultazione e inizia a piangere quasi subito perché ha “dovuto” interrompere la sua gravidanza un mese prima. Alla notizia dell’arrivo del bambino lei e Giovanni erano entusiasti: cominciavano a pensare a un futuro matrimonio e alla spesa di una casa in comune, visto che abitavano entrambi da soli.

Il sogno si infrange nel momento in cui Giovanni fa ritorno alla sua città di origine per dare comunicazione ai suoi familiari. Dopo questo incontro ha cominciato a manifestare una forte indecisione e un atteggiamento di prudenza, scoppiando a piangere in ogni momento. Olga ha affrontato con coraggio l’argomento e si è sentita dire che, in realtà, la mamma di Giovanni era rimasta molto delusa dal suo unico figlio maschio, considerato da sempre come una persona affidabile.

Giovanni era entrato in conflitto tra l’approvazione della mamma e il sentimento per Olga. Lei ha preso la decisione perché non avrebbe sopportato l’idea di non trovare appoggio rispetto a questa esperienza. In realtà Olga non ha avuto abbastanza fiducia in se stessa e in questa coppia neoformata avallando, in un certo senso, la delusione provata dalla madre di lui.

In questo caso la madre interna e giudicante di Giovanni ha avuto la meglio in quanto lui non avrebbe mai sopportato di essere considerato così deludente.

 

tratto da http://www.willypasini.it

Stati non ordinari di coscienza a cura di Maurizio D’Agostino

Il termine Stati Non Ordinari di Coscienza è troppo vasto e generico, perché comprende un ampia gamma di condizioni che sono di poco o nessun interesse dal punto di vista euristico e terapeutico…

Il termine Stati Non Ordinari di Coscienza è troppo vasto e generico, perché comprende un ampia gamma di condizioni che sono di poco o nessun interesse dal punto di vista euristico e terapeutico.
La coscienza può essere trasformata drasticamente attraverso svariati processi patologici: traumi cerebrali, intossicazioni con prodotti chimici velenosi, infezioni, o per processi degenerativi del cervello. Situazioni del genere provocano sicuramente profonde trasformazioni mentali, tanto da essere classificate nella categoria degli “stati non ordinari di coscienza”. Tuttavia, menomazioni simili causano “deliri superficiali” o “psicosi organiche”, stati clinicamente molto importanti, ma di nessun rilievo per il nostro tema.
Nella presente dispensa si vuole metterete in luce un vasto e importante sottogruppo di stati non ordinari di coscienza, che si differenzia in modo rilevante dagli altri e che rappresenta una fonte inestimabile di informazioni nuove sulla psiche umana, sana e malata. Il sottogruppo possiede un notevole potenziale terapeutico e di trasformazione. S. Grof ha coniato il termine “olotropico” (Grof, 1996) che significa letteralmente “orientato verso la totalità” o “che si muove in direzione della totalità” (dal greco holos, “intero” e trepein, “muovere verso” o “in direzione di” qualcosa).
In sintesi, la parola indica che nel nostro stato quotidiano di coscienza ci identifichiamo soltanto con una piccola frazione di chi siamo veramente. Al contrario, negli stati olotropica, riusciamo a trascendere i limitati confini dell’Ego e a rivendicare la nostra piena identità.


Stati olotropici di coscienza

Negli stati olotropica, la coscienza è trasformata qualitativamente in maniera fondamentale, ma non viene menomata come nei traumi e nelle degenerazioni organiche. La persona rimane totalmente presente per quanto riguarda lo spazio ed il tempo e non perde il contatto con la realtà quotidiana. Frattanto, il campo di coscienza è inondato da contenuti provenienti da altre dimensioni dell’esistenza in una maniera che può essere molto intensa e persino schiacciante. Così si sperimentano simultaneamente due realtà molto differenti: “Si ha ciascun piede in un mondo diverso”.
Gli stati olotropica sono caratterizzati da una forte trasformazione percettiva in tutte le aree sensoriali.

Stati olotropici di coscienza e storia dell’umanità

In forte contrasto con l’umanità moderna, ogni cultura indigena ha sempre tenuto in grande considerazione gli stati olotropica e ha dedicato molto tempo e sforzi a sviluppare vie sicure ed efficaci per indurli; li ha usati come veicolo principale nella vita rituale e spirituale e per altri scopi importanti.
Nel contesto delle cerimonie sacre dei popoli nativi, gli stati non ordinari di coscienza mediano un contatto esperienziale diretto con le dimensioni archetipiche della realtà: divinità, regni mitologici e forze luminose della natura. Un’altra area in cui tali stati svolgono un ruolo decisivo è la diagnosi e la cura di varie malattie. Gli stati olotropica sono anche stati usati per alimentare a fini pratici l’intuito e la percezione extrasensoriale. Inoltre, servono come fonte di ispirazione artistica. L’impatto che le esperienze vissute in questi stati hanno avuto e hanno sulla vita culturale delle società preindustriali e sulla storia spirituale dell’umanità è enorme.
Le culture antiche e moderne di interesse etnologico hanno impiegato ed impiegano moltissime energie allo sviluppo delle “tecnologie del sacro”, cioè di vari procedimenti capaci di alterare la mente e di indurre stati olotropica a scopi rituali e spirituali.
La pratica dell’induzione di stati olotropica risale agli albori della storia umana. Costituisce il punto cardinale dello sciamanismo, il sistema spirituale e di cura più antico dell’umanità. Probabilmente esisteva già trenta o quarantamila anni fa; le sue radici risalgono al Paleolitico.
Le origini dello sciamanismo risalgono a un culto ancora più antico, quello neandertaliano dell’orso delle caverne, come si vede nelle grotte del periodo interglaciale trovate in Svizzera e in Germania meridionale.
Lo sciamanismo non è soltanto antico, è di ogni tempo e di ogni luogo (America settentrionale e meridionale, in Europa, in Africa, in Asia, in Australia, in Micronesia e in Polinesia). Il fatto che così tante culture diverse, durante tutta la storia dell’umanità, abbiano ritenuto le tecniche sciamaniche utili e importanti indica che gli stati olotropica coinvolgono quella che gli antropologi definiscono “mente primaria”, un aspetto fondamentale e primordiale della psiche umana che trascende la razza, il sesso, la civiltà e il tempo storico. Nelle culture che sono riuscite a evitare l’influenza distruttiva della civiltà industriale dell’Occidente, i procedimenti sciamanici sopravvivono ancora oggi.
Tabella. Tecniche antiche e aborigene per indurre gli stati olotropici
· Lavoro con il respiro, diretto o indiretto (pranayama, bastrika logico, “respiro del fuoco” buddista, respiro sufi, ketjak balinese, canto gutturale eschimese, esercizi di respirazione degli Esseni, ecc.).· Tecnologie sonore (suonare il tamburo, scuotere sonagli, uso di bacchette, campanelli, gong, didgeridoo, rombo, cantilenare, recitare mantra)
· Danze e altre forme di movimento (danza roteante dei dervisci, danze dei lama, danze dei boscimani del kalahari, hatha yoga, tai chi, chigong, ecc.).· Isolamento sociale e deprivazione sensoriale (stare nel deserto, in caverne sulla cima di una montagna, in campi di neve, vision quest, ecc.).· Sovraccarico sensoriale (una combinazione di stimoli acustici, visivi e propriocettivi in riti aborigeni, dolore estremo, ecc.).
· Mezzi fisiologici (digiuno, deprivazione del sonno, purghe, lassativi, salassi (Maya), procedure fisiche dolorose (danza del sole dei Sioux Lakota, subincisione, limatura dei denti).· Meditazione, preghiera e altre pratiche spirituali (vari tipi di yoga, tantra, zen rinzai e soto, dzogchen tibetano, esicasmo cristiano (preghiera continua di Gesù), metodi cabalistici e hassidici, gli esercizi di Loyola, ecc.).
· Materiale psichedelico animale e vegetale (hashish, peyote, teonanacatl, ololiuqui, ayahuasca, Tabernanthe, Psychotria viridis delle foreste hawaiane, erba ruta siriana, secrezioni dalle palle del rospo Bufo alvarius, dal pesce del Pacifico Kyphosus cuscus, ecc.)
Un altro esempio di trasformazione psicospirituale, culturalmente riconosciuta, che implica gli stati olotropici, è costituito dagli eventi rituali che gli antropologi chiamano riti di passaggio. Cerimonie di questo tipo esistevano in tutte le culture native conosciute e sono eseguite ancora oggi in molte società preindustriali. Il loro scopo principale è di ridefinire, trasformare e consacrare individui, gruppi o persino intere società.
I riti di passaggio vengono svolti durante il periodo di trasformazione di un individuo o di una comunità: nascita di un bambino, la circoncisione, la pubertà, il matrimonio, la menopausa, la morte. Iniziazione allo status di guerriero, all’entrata in società segrete, durante le feste stagionali di rinnovamento, nelle sedute di guarigione e prima di grandi migrazioni di gruppi umani.
I riti di passaggio comportano potenti procedure di alterazioni mentale che inducono esperienze psicologicamente sconquassanti e che portano a un livello più elevato di integrazione. Questa forma di morte e di rinascita psicospirituale è allora interpretata come la scomparsa del vecchio ruolo e il sorgere di uno nuovo.
Il soggetto che esce dall’iniziazione non è lo stesso di quello che vi è entrato. Dopo avere subito una profonda trasformazione psicospirituale, acquisisce una connessione personale con le dimensioni numinose dell’esistenza, una visione del mondo più vasta, una migliore immagine di se stesso e un altro sistema di valori. Tutto ciò è il risultato di una crisi deliberatamente indotta, che raggiunge l’essenza dell’iniziato e a volte può essere spaventosa, caotica e scompaginante. I riti di passaggio forniscono dunque un altro esempio di una situazione in cui un esplodere temporaneo di disintegrazione e di tumulto porta a un maggiore equilibrio e benessere.
La crisi sciamanica invade la psiche del futuro sciamano in modo inaspettato e senza preavviso. I riti di passaggio, invece, sono un prodotto della cultura, e seguono un iter prevedibile.
Gli stati olotropici di coscienza hanno svolto un ruolo importante anche nei misteri di morte e di rinascita, cerimonie sacre e segrete molto diffuse nel mondo antico. Questi misteri si fondavano su racconti mitologici di divinità che simboleggiano la morte e la trasformazione: Inanna e Tammuz presso i Sumeri; Iside e Osiride presso gli egizi; Attis, Adone, Dioniso e Persefone presso i Greci. I loro equivalenti mesoamericani erano l’azteco Quetzalcoatl o Serpente Piumato e gli Eroi Gemelli dei Maya conosciuti grazie al Popol Vuh. Nell’antica area mediterranea e nel Medio Oriente esistevano, per esempio, le iniziazioni dei Sumeri e degli Egizi, i misteri mitriaci e, in Grecia, i riti coribantici, i baccanali e i misteri eleusini.
Tutte le correnti mistiche delle grandi religioni e i loro ordini monastici hanno elaborato modi per indurre o facilitare esperienze spirituali dirette.

Stati olotropici nella storia della psichiatria

L’accettazione univoca degli stati olotropici nell’era preindustriale è in forte contrasto con l’atteggiamento complesso e confuso verso gli stessi stati da parte della civiltà industriale.
Gli stati olotropici hanno avuto un ruolo importante agli inizi della storia della psicologia del profondo e della psicoterapia.
Le radici della psicologia del profondo risalgono a sedute con l’ipnosi con pazienti isterici, condotte da J.M. Charcot alla Salpetriere di Parigi, e alle ricerche sull’ipnosi condotte da H.Bernheim e A. Lièbault a Nancy. S. Freud imparò le tecniche per indurre l’ipnosi che ha usato nelle prime esplorazioni per accedere all’inconscio dei suoi pazienti. In Studi sull’isteria, Freud e Breuer consigliavano la regressione ipnotica e le abreazioni emotive ritardate di traumi per il trattamento delle psiconevrosi.
Nei lavori che seguirono, Freud si spostò in modo radicale dall’esperienza emotiva diretta durante uno stato olotropica alla metodo delle libere associazioni nello stato ordinario di coscienza. Ha pure spostato l’attenzione dal rivivere consapevole e dall’abreazione emotiva di materiale inconscio all’analisi del transfert, e dal trauma vero e proprio alle fantasie edipiche. In retrospettiva, sembra che questi siano stati sviluppi alquanto infelici, che hanno mandato la psicoterapia occidentale nella direzione sbagliata per i successivi cinquant’anni. Laddove la terapia verbale può essere molto utile per dare insegnamenti interpersonali e per correggere interazioni e capacità di comunicazione distorte nell’ambito delle relazioni umane (per esempio, terapia di coppia e familiare), lo stesso metodo di cura è inefficace quando ha a che fare con blocchi emotivi e bioenergetici e con i macrotraumi che stanno alla base di molti disturbi emotivi e psicosomatici.
Il risultato di questa evoluzione è stato che la psicoterapia della prima metà del ventesimo secolo era praticamente un sinonimo di conversazione. Nello stesso tempo, gli stati olotropici, visti inizialmente come uno strumento terapeutico efficace, sono stati associati alla patologia e non più usati per la cura.
La situazione ha cominciato a cambiare negli anni Cinquanta, con l’avvento della terapia psichedelica e con innovazioni radicali nella psicologia. Insoddisfazione della psicoanalisi freudiana e del comportamentismo, nacque la terza forza della psicologia: la psicologia umanistica. Tale movimento guidato da A. Maslow ha ispirato una vasta gamma di terapie esperienziali.
Mentre le psicoterapie tradizionali usavano soprattutto i mezzi verbali e l’analisi intellettuale, queste terapie esperienziali privilegiavano l’esperienza diretta e espressione delle emozioni. Molte includevano anche svariate forme di lavoro sul corpo.
Le novità più rilevanti sono rappresentate da metodi molto potenti, capaci di trasformare enormemente lo stato di coscienza dei clienti. Fra questi metodi, ricordiamo l’Analisi Bioenergetica e altri approcci neoreichiani, la Primal Therapy e la Terapia psichedelica, il Rebirthing e la Terapia Olotropica.
Esistono anche tecniche di laboratorio molto valide per alterare la coscienza: la Deprivazione sensoriale, il Biofeedback, tecniche di Deprivazione del sonno e dei sogni e i sogni lucidi.
È importante rilevare che episodi di stati olotropici di diversa durata possono manifestarsi spontaneamente, senza cause specifiche identificabili, persino contro la volontà di chi vi è coinvolto. Poiché la psichiatria moderna non fa nessuna differenza tra stati mistici o spirituali e malattie mentali, le persone che sperimentano questi stati sono spesso catalogate come psicotiche, vengono ricoverate in ospedale e ricevono la solita cura di psicofarmaci soppressivi. S. Grof e C. Grof definiscono tali statiCrisi psicospirituali o Emergenze spirituali.

Come abbiamo visto, l’uso del potenziale curativo degli stati olotropici rappresenta l’evoluzione più recente della psicoterapia occidentale, se non prendiamo in considerazione il breve periodo, alla svolta del secolo scorso, di cui abbiamo parlato. Paradossalmente, in un contesto storico più ampio. Questa è pure la forma di cura più antica, che risale agli albori dell’umanità.
Dunque, le terapie che si servono degli stati olotropici rispecchiano una riscoperta e un’interpretazione nuova e moderna degli elementi e dei principi documentati dagli antropologi, che hanno studiato le forme antiche e aborigene di guarigione spirituale, soprattutto i vari metodi sciamanici.

La natura della psiche umana e le dimensioni della coscienza
La psichiatria e la psicologia accademiche si servono di un modello che si limita a prendere in considerazione la biologia, la biografia postnatale, e l’inconscio individuale freudiano. Per spiegare tutti i fenomeni che avvengono negli stati olotropici, dobbiamo rivedere completamente la nostra comprensione delle dimensioni della psiche umana. Oltre al livello biografico postnatale, la nuova, più estesa cartografia comprende due campi d’azione aggiuntivi: il Perinatale (in relazione con il trauma della nascita) e il Transpersonale (che comprende le memorie ancestrali, razziali, collettive e filogenetiche, le esperienze karmiche e le dinamiche archetipiche).
La natura e l’architettura dei disturbi emotivi e psicosomatici
Per comprendere i diversi disordini che non hanno una base organica (“psicopatologie psicogene”), la psichiatria corrente usa un modello limitato ai traumi biografici postatali dell’infanzia, della fanciullezza e dell’età adulta. Il nuovo paradigma indica che le radici di questi disordini sono molto più profonde: includono anche notevoli elementi provenienti dal livello perinatale e dalla sfera transpersonale.
Numerose esperienze e osservazioni che accadono durante il lavoro con gli stati olotropici sono così straordinarie che non possono essere capite nel contesto della visione monastico-materialistica della realtà. Il loro impatto concettuale è di portata talmente vasta da minare i concetti metafisici che stanno alla base della scienza occidentale, soprattutto quelli che interessano la natura della coscienza e la sua relazione con la materia.
( S. Grof, Psicologia del futuro, Ed. Red, 2002)

La natura più profonda dell’umanità

Cenni sulla teoria psicologica di Abraham Maslow

Secondo lo psicologo americano Abraham Maslow il comportamento umano è diretto e motivato, al di là delle particolari differenze culturali, dai bisogni fondamentali comuni a tutti gli esseri umani. Questi sono classificati in una relazione gerarchica – la famosa scala di Maslow – al cui apice c’è il bisogno di autorealizzazione, definito dallo psicologo come l’esigenza di ogni individuo di “diventare ciò che si è capaci di diventare” e di “attuare le proprie migliori potenzialità”.

Era il 1954 quando Motivazione e personalità, di Abraham H. Maslow, uscì in libreria. L’autore in questo libro provava a formulare un nuovo approccio della psicologia che tentava di aggiungere qualcosa di veramente nuovo e importante a quanto le psicologie del tempo dicevano sulla natura umana: l’essere umano possiede un enorme potenziale positivo, una natura nobile ed elevata. Questa è istintuale ed è parte della sua essenza.


I bisogni fondamentali

Secondo Maslow il comportamento umano è diretto e motivato, al di là delle particolari differenze culturali, dai bisogni fondamentali comuni a tutti gli esseri umani. Tra di essi i bisogni fisiologici sono i più prepotenti di tutti. Se i bisogni fisiologici risultano insoddisfatti tutti gli altri, quelli più alti e nobili, possono essere annullati e respinti nell’ombra. Tutta la mente e l’organismo intero diventano uno strumento al servizio dell’unico scopo, ad esempio, di sfamarsi. La libertà, l’amore, il rispetto, la filosofia sono tutte cose che possono essere messe da parte come sciocchezze inutili perché non riempiono lo stomaco.
Cosa avviene però quando il nostro ventre è cronicamente pieno? “Avviene che subito compaiono altri (e più alti) bisogni e sono questi a dominare l’organismo invece della fame fisiologica. Quando questi, a loro volta, sono soddisfatti, di nuovo nascono altri (ancora più alti) bisogni, e così via. È questo che intendiamo quando diciamo che i bisogni umani fondamentali sono organizzati in una gerarchia di preferenza relativa. Una conseguenza di ciò è che la gratificazione diventa nella teoria della motivazione un concetto importante […] perché libera l’organismo dal dominio di un bisogno relativamente più fisiologico e permette l’emergenza di altri fini più sociali” (Motivazione e personalità, p. 87).
Quando i bisogni fisiologici sono stati gratificati emerge una nuova serie di bisogni che possiamo categorizzare come bisogni di sicurezza: stabilità, protezione, libertà dalla paura, dall’ansia, dal caos, bisogno di ordine, di un forte protettore… Tutto ciò che vale per i bisogni fisiologici vale anche per questi desideri, sebbene in grado minore. L’organismo può essere dominato interamente anche da essi. Possono funzionare da organizzatori quasi esclusivi del comportamento, mettendo al loro servizio tutte le capacità dell’organismo e noi possiamo ben descrivere l’intero organismo come un meccanismo di ricerca della sicurezza.
Se i bisogni fisiologici e quelli di sicurezza sono abbastanza soddisfatti emergono i bisogni di affetto, di amore e di appartenenza e tutto il ciclo già descritto si ripete all’interno di questo nuovo centro. “Adesso la persona sentirà acutamente, come prima non avveniva, l’assenza di amici, di un amante, di una moglie o dei figli. Essa desidera relazioni di affetto con persone in generale, cioè desidera un posto nel suo gruppo o nella sua famiglia e cerca intensamente di realizzare questo scopo. Essa cerca di raggiungere un tal posto più di qualsiasi altra cosa e può anche dimenticarsi di quando era affamata e disprezzava l’amore come qualcosa di irreale, di non necessario o di non importante. Adesso sente acutamente il dolore della solitudine, dell’ostracismo, della reiezione, dell’assenza di amici o della spietatezza” (op. cit., p. 95).
Tutte le persone della nostra società (salvo poche eccezioni patologiche) sentono il bisogno e il desiderio di una valutazione di se stessi o autostima e contemporaneamente desiderano la stima degli altri. Da una parte vogliamo essere persone di successo, desideriamo sentirci forti, competenti e adeguati per affrontare con fiducia il mondo; dall’altra abbiamo bisogno di reputazione o prestigio, di una posizione sociale, di fama
e di gloria, di dominio, di importanza, dignità e apprezzamento. Questi bisogni, ancora più alti dei precedenti, vengono da Maslow categorizzati nel cosiddetto bisogno di stima.
Ma anche quando tutte queste esigenze vengono soddisfatte possiamo aspettarci un nuovo stato di scontentezza e irrequietezza “se – per usare le parole di Maslow – l’individuo non sarà occupato a fare ciò che egli, individualmente, è adatto a fare. Un musico deve fare musica, un pittore deve dipingere, un poeta deve scrivere, per poter essere definitivamente in pace con se stesso. Ciò che uno può essere, deve esserlo. Egli deve essere come la sua natura lo vuole. Questo è il bisogno che possiamo chiamare di autorealizzazione” (op. cit., p. 99).
È il bisogno di ogni individuo di attualizzare ciò che è potenziale, diventare ciò che si è capaci di diventare, attuare le proprie migliori potenzialità.

Carattere e gratificazione

Maslow tende a collegare la gratificazione dei bisogni con lo sviluppo di alcuni, forse molti, tratti caratteriali. Molti aspetti caratteristici dell’adulto sano, secondo l’autore, come la capacità di amare, di concedere indipendenza alla persona amata, sono infatti conseguenze positive della gratificazione infantile del bisogno di amore. Allo stesso modo la mancanza di ansietà, di nervosismo, l’esser rilassato, l’aver fiducia nel futuro sono effetti della gratificazione del bisogno di sicurezza.
“Questo vale anche per gli altri bisogni emozionali fondamentali, per il bisogno di appartenenza, di amore, di rispetto e autostima. La gratificazione di questi bisogni permette la comparsa di caratteri come l’affettuosità, l’autorispetto, l’autofiducia, la sicurezza… Un po’ lontani da queste conseguenze immediatamente caratteriologiche della gratificazione dei bisogni sono i tratti della gentilezza, della generosità, dell’altruismo, della magnanimità, dell’equanimità, della serenità, della felicità, della contentezza, e così via. Queste cose sembrano essere conseguenze di conseguenze, sottoprodotti di una generale gratificazione dei bisogni…” (op. cit., p. 129).
In generale sembrerebbe che il grado di gratificazione dei bisogni fondamentali sia positivamente correlato col grado di sanità psicologica dell’individuo, anche se Maslow è il primo ad ammettere l’esistenza di altre vie per raggiungere tale sanità.
Particolarmente interessante è l’analisi comparata delle persone che si autorealizzano. Attraverso l’analisi accurata di un gruppo di soggetti, Maslow evidenziò le caratteristiche comuni dei soggetti dotati di sanità psicologica. Egli scelse un gruppo estremamente eterogeneo di persone in possesso “di un uso e di un’utilizzazione piena dei propri talenti, delle proprie capacità e delle proprie potenzialità”. “Tutti i soggetti erano individui che si sentivano sicuri, non avevano ansie, si sentivano accettati, amati, rispettati e degni di rispetto, ricchi di amore e impegnati nell’elaborazione di loro concezioni filosofiche, religiose o assiologiche” (op. cit., p. 249).
I soggetti furono scelti tra un folto gruppo di studenti universitari, tra conoscenti e figure pubbliche e storiche (ad esempio Albert Einstein, Eleanor Roosevelt, William James, Aldous Huxley, Benedetto Spinoza, Wolfgang Goethe, Martin Buber, Danilo Dolci, Ralph Waldo Emerson, Walt Whitman, ecc.).

Empowerment, autorealizzazione e ottenimento della Buddità

Per coloro che, come chi scrive, amano indugiare in parallelismi e paragoni, voglio suggerire alcune riflessioni.
L’autorealizzazione viene definita da Maslow come il bisogno di ogni individuo di “attualizzare ciò che è potenziale”, “diventare ciò che si è capaci di diventare” e ancora “attuare le proprie migliori potenzialità”. In termini buddisti il raggiungimento di questo obiettivo viene definito “manifestare il proprio vero io” (vero io è una delle principali caratteristiche, assieme a felicità, eternità e purezza, del mondo di Buddità). Ciascun essere umano, quando ottiene la Buddità, fa risplendere le proprie peculiarità. Proprio come piante di specie diverse, ognuno fiorisce secondo la propria natura: “I fiori del ciliegio, del pesco e del susino selvatico hanno ognuno le proprie qualità, e manifestano le tre proprietà della vita del Budda originale senza cambiare le loro caratteristiche” (Nichiren Daishonin, Ongi kuden, citato in La vera entità della vita, Esperia, 1996, p. 119).
Il desiderio di autorealizzazione, o se vogliamo di manifestare la Buddità, è tanto nell’indagine di Maslow quanto per la teoria buddista un bisogno fondamentale comune a tutta l’umanità. Anche se non tutti iniziano a praticare il Buddismo per questo nobile bisogno, chi continua lo fa perché motivato dall’esigenza di fiorire come essere umano, migliorare se stesso e attualizzare le sue potenzialità. Esigenza che nella vita del praticante diviene piano piano sempre più consapevole.
Continuando a leggere il saggio di Maslow con questo parallelismo nella mente facciamo altre significative scoperte. Le caratteristiche più importanti delle persone che si autorealizzano collimano in maniera sorprendente con le caratteristiche di coloro che manifestano il mondo della Buddità.
La prima caratteristica che evidenzia Maslow nel suo gruppo scelto di soggetti è la percezione più efficace della realtà e le relazioni più confortevoli con essa. Le persone che si autorealizzano hanno un senso di soddisfazione generale, manifestano inoltre una serena accettazione di sé, degli altri e della natura. Manifestano semplicità, spontaneità e naturalezza. Sono dotati di autocontrollo, hanno codici morali che sono relativamente autonomi e individuali piuttosto che convenzionali. “I soggetti che stiamo considerando non si sforzano più nel senso ordinario, ma si sviluppano. Essi cercano di crescere verso la perfezione e di svilupparsi in modo sempre più pieno secondo il loro stile. La motivazione delle persone ordinarie è uno sforzo verso la gratificazione dei bisogni fondamentali, dato che mancano di tale gratificazione. Ma le persone che si autorealizzano, di fatto, non mancano di queste gratificazioni, tuttavia hanno impulsi. Esse lavorano, cercano, sono ambiziose, ma in un senso non comune, perché la loro motivazione è lo sviluppo del carattere, è espressione del carattere, è maturazione, è sviluppo, in una parola è autorealizzazione” (op. cit., p. 261).
Le persone che si autorealizzano hanno capacità di fare valutazioni sempre nuove. “La creatività è una caratteristica che si trova in tutte le persone osservate o studiate, che si autorealizzano. Non c’è eccezione. Ciascuno di loro mostrava in un modo o in un altro uno speciale tipo di creatività, di originalità, di inventività che ha alcune caratteristiche peculiari. […] Da una parte questa creatività è ben diversa da quella dovuta a un talento speciale, come nel caso di Mozart. […] La creatività della persona che si realizza sembra piuttosto essere vicina alla creatività ingenua e universale dei bambini non viziati”.
Nelle persone sane molti dualismi e dicotomie sono superati, le polarità scompaiono e molte opposizioni, ritenute fondamentali, sono sostituite da unità. Ad esempio le vecchie opposizioni tra cuore e mente, fra ragione e istinto scompaiono nelle persone autorealizzate. Non è possibile contrapporre egoismo e disinteresse perché per principio ogni atto è insieme egoistico e altruistico. Né si può opporre il dovere al piacere, né il lavoro al gioco quando il dovere è piacere e il lavoro è gioco.
Ultimo, ma non ultimo, le persone che si autorealizzano hanno un sentimento comunitario, “unica parola valida a ben descrivere la pienezza dei sentimenti di umanità espressi dai soggetti che si autorealizzano. Essi hanno verso gli esseri umani in generale un profondo sentimento di identificazione, di simpatia e di affetto, nonostante i momenti occasionali di ira, di impazienza o di disgusto… A causa di tale sentimento di comunione, essi hanno un genuino desiderio di aiutare la specie umana. È come se fossero membri di una sola grande famiglia… Le persone che si autorealizzano hanno relazioni interpersonali più profonde di ogni altro adulto. Esse sono capaci di maggiore fusione, di maggiore amore, di identificazione più perfetta, di una maggiore riduzione delle barriere dell’ego di quanto la ritengano possibile le altre persone… In un senso molto reale e molto speciale si può dire che amano o piuttosto compatiscono tutta l’umanità”. (op. cit., pp. 271-272).
Tratto da Buddismo e Società n.99

Introduzione ai 5 elementi di Vivation

Vivation è il risultato di una serie di evoluzioni il cui scopo è quello di rendere l’esperienza del respiro più dolce e soprattutto di fornire alle persone che si avvicinano a questa tecnica degli strumenti per comprendere ed integrare le loro esperienze e sensazioni in maniera sempre più consapevole e permanente… Vivation è il risultato di una serie di evoluzioni il cui scopo è quello di rendere l’esperienza del respiro più dolce e soprattutto di fornire alle persone che si avvicinano a questa tecnica degli strumenti per comprendere ed integrare le loro esperienze e sensazioni in maniera sempre più consapevole e permanente.
Vivation è un processo, un’avventura, l’inizio di un percorso in cui si va a scoprire il proprio respiro, e si va a ritrovare parti di noi stessi tenute nascoste da fitti veli di inconsapevolezza.
La seduta di respirazione viene considerata come una squisita metafora che aiuta a cogliere in modo diretto e reale come viviamo la nostra vita in quel momento. Gli elementi di questa respirazione sono come gli ingredienti di una ricetta, per esempio quella del pane: si debbono utilizzare tutti i suoi componenti per ottenere un buon pane casalingo, se si tralascia anche solo un ingrediente si avrà qualcosa d’altro rispetto al pane.
Il 1° elemento è il RESPIRO CIRCOLARE, che vuole essere continuo, dolce e seguire un ritmo abbastanza entusiasta, un’inspirazione ampia e l’espirazione rilassata senza nessuno stacco tra un respiro e l’altro. Il respiro è la nostra connessione con la vita, quell’azione involontaria che ci collega con tutte quelle sensazioni che esistono appena sotto la nostra consapevolezza. Respirando in modo circolare attiviamo la nostra energia vitale ed espelliamo le impurità e le tossine presenti nel nostro corpo.
Seguendo questo ritmo e lasciando andare i muscoli del torace e di tutto il corpo si arriva al 2° elemento: il RILASSAMENTO COMPLETO, che è simbolico della nostra disposizione d’animo, della nostra arrendevolezza all’avventura nella quale ci troveremo con la nostra seduta. Il rilassamento nell’espirazione ci aiuta a ritrovare e rafforzare la nostra capacità di un ascolto più profondo dentro di noi così con più facilità potremmo sciogliere le resistenze ed entrare a livelli più profondi di benessere e di serenità.
Durante la seduta, mentre stiamo sdraiati ad occhi chiusi il corpo rilassato, abbandonato, e il respiro che percorre il nostro corpo, sviluppiamo il 3° elemento: CONSAPEVOLEZZA NEI DETTAGLI, adoperando la mente per focalizzarci nel dettaglio sulle sensazioni corporee predominanti che si presentano, e non solo, ma anche sulle innumerevoli emozioni o immagini che vengono proposte dal nostro inconscio. Finalmente possiamo sentire ciò che ci siamo negati.
In Vivation riusciamo a scandagliare tutte le sensazioni che emergono e ad accoglierle con amore, perché anch’esse sono parte di noi stessi ed hanno un loro significato.
Non sempre si riesce ad accogliere tutte le sensazioni specialmente quelle negative, quelle che ci fanno soffrire e che ci disturbano: ecco che a questo punto entra in gioco il 4° elemento:  l’INTEGRAZIONE NELL’ESTASI.
L’integrazione è un’esperienza, un momento che fa parte di un processo. Integrare significa rendere ciò che accade parte della nostra vita, in una accettazione attiva, infatti è il nostro atteggiamento che cambia.
È il nostro atteggiamento che rende le cose dolorose o gioiose, si può imparare a leggere le nostre esperienze in un modo diverso, più disponibili a trovare nelle situazioni del nostro quotidiano l’aspetto che funziona, il lato più positivo che la vita ci propone. Non sono mai le circostanze in se stesse che toccano il nostro animo, ma semplicemente il nostro atteggiamento nei confronti delle circostanze.
Nella seduta di V. si ha l’esperienza in prima persona di come si possono interpretare diversamente le sensazioni del nostro corpo e quindi viverle in maniera ottimale, si impara a cambiare contesto.
Il contesto è un modo di interpretare, di leggere, di filtrare la nostra realtà, le nostre sensazioni, sentimenti ecc. Ci sono naturalmente contesti positivi, filtri attraverso i quali tutta la nostra realtà viene vissuta in modo da farci sentire in armonia con noi stessi, ossia a nostro agio.
Ci sono anche contesti negativi, e quando questi si innescano provocano delle sensazioni di disagio nel nostro corpo.
Il contesto negativo è spesso basato sul giudizio. Giudichiamo negativamente come ci sentiamo, che cosa pensiamo, che cosa facciamo. Come il mondo si rapporta con noi, come gli altri ci vedono.
Se accettiamo la verità delle nostre sensazioni, allora possiamo riconoscere che esse esistano. Se poniamo resistenza al dolore o alla tensione non la risolviamo, anzi ci sentiamo peggio.
La maggior parte del dolore umano dipende dalla resistenza che noi stessi opponiamo contro la manifestazione della realtà.
Attraverso il contesto che vede e considera tutto ciò che esiste dentro di noi, buono, in quanto esiste, in questo atteggiamento si troverà sempre più pace, la tranquillità e come dice Jim Leonard, l’estasi.
L’integrazione nella seduta diventa un’esperienza cinestesica, squisitamente corporea che interessa anche livelli energetici più profondi.
Ci aiuta ad accedere alla parte più profonda del nostro essere, quella che contiene tutta la nostra saggezza, tutte le nostre risorse e potenzialità.
In questa dimensione si riscopre il piacere della vita, la felicità di sentirsi vivi, e la gratitudine di sentire tutte le sensazioni pienamente.
Qualunque cosa accada è quella giusta!
La DISPONIBIITA’ – BUONA VOLONTA’, il 5° elemento di questo approccio, è non solo la disponibilità a fare le sedute, e a intraprendere un viaggio verso sé stessi, ma significa anche che non c’è bisogno di sforzarsi per far si che questa esperienza vada bene, non si deve cercare di rilassarsi o di integrare, ci si rilassa e si integra e basta! Non si fa niente che non sia necessario.
In pratica nelle sedute di V. smettiamo di opporre le nostre resistenze, le nostre repressioni e grazie all’integrazione viviamo le nostre emozioni per quello che sono, e per quello che siamo.
La buona volontà, corrisponde ad una disponibilità interiore ad accettare le nostre emozioni e ciò equivale se ci pensate bene, a vivere, semplicemente vivere!

L’anziano – Tipi di cambiamento

È un periodo complesso del ciclo di vita perché è tra quelli più intrisi di cambiamenti e modifiche; di conseguenza è inevitabile che queste modifiche portino ad un adattamento di cambiamenti molteplici che coinvolgono più di 646b11g mensioni della persona: fisica, psicologica, sociale e relazionale. In questa fase di vita più che in altre, tali dimensioni sono interdipendenti. L’uomo è un’unità biopsicosociale e ha delle dimensioni molto correlate tra loro.

TIPI DI CAMBIAMENTI

Scenescenza: periodo della vita che va dai 65 anni in poi.

Si tende a distinguere tra 3a e  4a : la prima va dai 65 ai 75 anni, la seconda dai 75 in poi (giovani vecchi, vecchi vecchi). Questa distinzione è usata di rado perché non è del tutto veritiera per via che soprattutto nell’età anziana ci sono molte differenze tra persona e persona. Nell’età anziana si evidenziano le caratteristiche uniche. Il nostro ciclo di vita è esprimere quello che siamo. Il nostro stile di vita incide sulla vecchiaia.

ADATTAMENTI

–          Apparati sensoriali

I sensi subiscono delle modificazioni importante. Si tratta di un processo di invecchiamento che avviene inevitabilmente. Diminuisce l’acuità visiva e uditiva. Gli stimoli percettivi non sono ben distinti. Difficoltà nel percepire gli stimoli. Le conseguenze dirette riguardano eventuali problemi della percezione. L’anziano spesso si trova confuso, non sente bene, non riesce a comunicare e si presenta una mancanza di adattamento all’ambiente che porta ad un senso di precarietà. Spesso si sentono fragili e insicuri. In questa fase della vita è presente anche un deficit che colpisce il senso del gusto e la sensibilità gustativa viene alterata soprattutto nei cibi salati.

–          Apparato locomotore

Subisce delle modificazioni che portano ad un irrigidimento delle strutture. Viene limitata la mobilità e la risposta dei riflessi. Questa mancanza comporta un minor afflusso di sangue al cervello (conseguenze a livello cognitivo). L’apparato cardiovascolare si irrigidisce. La respirazione subisce delle modifiche e quindi l’ossigenazione del cervello subisce delle modifiche che portano una minor tolleranza allo sforzo. Tali conseguenze portano alla persona all’avvertimento del suo declino.

–          Sistema nervoso

Subisce delle alterazioni globali (emotività, psicologiche, motricità …). Hanno delle ricadute che si estendono su tutte le dimensioni, incidendo sui comportamenti e sull’elaborazione del pensiero emotivi affettivi. È presente uno sfoltimento di neuroni. La teoria che sostiene chi il nostro sviluppo giunge l’apice alla fine dell’adolescenza e dopo il suo conseguente declino, è parzialmente smentita perché si è visto che i dendriti possono essere persi, ma si possono ricostruire delle sinapsi. Le sinapsi sono sinonimo di intelligenza. Tutti gli stimoli attivano delle sinapsi. Il miglior modo di invecchiare è quello di avere una curiosità nel cercare stimoli ed essere stimolati. (la matematica organizza il pensiero). L’attivazione delle risorse è fondamentale per un mantenimento delle capacità dell’anziano

PROCESSI COGNITIVI

–          Attenzione

Diminuisce notevolmente l’attenzione distribuita e diminuisce anche il tempo di concentrazione. L’attenzione dipende anche dalle alterazioni dell’apparato sensoriale.

–          Memoria

La memoria cambia notevolmente, incide su quella di rievocazione e di riconoscimento (nella prima da uno stimolo ricostruiamo tutta la scena che ci viene in memoria, la seconda identifichiamo una figura e la collochiamo nel nostro ricordo). La memoria di rievocazione diventa estremamente difficoltosa. Richiede molte energie psichiche, invece rimane buona la memoria di riconoscimento.

–          Magazzini della memoria

Viene compromessa notevolmente la memoria a breve termine. Incapacità di elaborare le informazioni. Le persone anziane trovano più facile nel raccontare la loro infanzia, gioventù e vita adulta. È difficile mantenere una buona capacità memonica se i compiti richiesti si basano sugli ultimi mesi di vita o giorni.

APPROCCIO COGNITIVISTA

La corrente cognitivista presta attenzione ai processi cognitivi. Alla base della perdita di memoria c’è un decadimento cognitivo.

APPROCCIO ECOLOGICO

Sottoponendo appositi test a persone anziane si è scoperto che le prestazioni non sono inferiori, ma bensì cambia il tipo di intelligenza perché le esigenze sono diverse rispetto a ciò che si chiede rispetto ad un adulto. Infatti nell’anziano assume più importanza ciò che a lui serve per adattarsi ai nuovi contesti di vita e quindi sviluppare l’adattamento dei riflessi.

–         life – span (percorso di vita)

Tale corrente sostiene che non è vero che lo sviluppo intellettivo – affettivo raggiunga il massimo apice dai 0 ai 25 anni, ma è presente un continuo sviluppo che dura in tutto il nostro percorso di vita, solo che si modifica in base alla visione ecologica e alle richieste del soggetto.

APPROCCIO UMANISTICO

Tale corrente sostiene che nell’anziano più che in altri periodo di vita, assumono un’importanza rilevante alcuni fattori legati ad eventi di vita dell’anziano come importanti lutti, malattie… Questi cambiamenti incidono notevolmente sulle risorse emotive – cognitive. L’anziano potrebbe potenzialmente ricordare, ma subisce degli eventi stressanti che gli impediscono di ricordare.

INTELLIGENZA

Esistono più tipi di intelligenze a seconda del modello teorico. Non è presente un solo tipo di intelligenza, ma si esprime in diverse modalità. Nell’anziano cambia l’intelligenza e si è notato che prevale l’intelligenza cristallizzata, mentre in quella giovanile prevale l’intelligenza fluida.

–         Intelligenza fluida

Si basa molto su conoscenze, informazioni, dati, notizie, logica e deduzione e utilizza un metodo scientifico. Basa molta importanza sulla elaborazione creativa dei problemi. È tipica nei matematici, fisici, chimici.

–         Intelligenza cristallizzata

Non si basa su numeri, notizie e dati, ma sulla loro rielaborazione senza utilizzare i semplici ottenuti, ma utilizzando un’ottica globale. Utilizza strategie risolutive non solo sui dati, ma anche sull’esperienza e riesce a stabilire un confronto in più ambiti. È tipica dei filosofi, letterati scrittori e psicologi.

Si è notato che l’intelligenza fluida ha maggior potenziale fino ai 30 anni, invece quella cristallizzata è più tardiva e si manifesta intorno ai 50-60 anni.

IL LINGUAGGIO

Nell’anziano rimane pressoché inalterato, ma è presente una rigidità nella scorrevolezza del linguaggio. Il loro vocabolario si riduce notevolmente, inoltre c’è la modifica della capacità fonetica (es. Pippo Baudo = Tito Paudo)

SFERA EMOTIVA – AFFETTIVA

Generalmente si accentua le caratteristiche della personalità dell’anziano (persone che in gioventù erano timide, nella vecchiaia divengono chiuse, persone che in gioventù erano potenzialmente irritabili, nella vecchiaia divengono irascibili…). Queste accentuazioni sono più evidenti nel caso di malattie (Alzheimer, Parkinson, Demenza). Può verificarsi anche un completo stravolgimento della personalità.

PERSONALITÀ

In questa fase di vita le persone anziane adottano una personalità centripeta, infatti le minori risorse (fisiche, psichiche, ecc..) portano a centrare su sé le energie residue. Facilmente tale comportamento viene frainteso con egocentrismo o egoismo, ma adottano questa strategia per salvaguardare le proprie energie necessarie alla sopravvivenza. Nell’età adulta invece si ha una personalità centrifuga che appunto non è incentrata su di sé, ma verso gli altri (lavoro, educazione dei figli…).

Tratto da www.inftube.com

Arte e tecnica del silenzio

Parlare del silenzio potrebbe sembrare una contraddizione, o almeno un paradosso, ma in realtà non è così. Come avviene per molte paia di opposti, i due poli non sono nemici, non si escludono a vicenda; entrambi sono necessari. Il problema non consiste nell’eliminare uno di essi, ma nella saggia regolazione di entrambi; questo è un aspetto, un’applicazione importante della Legge dei Retti Rapporti.

Cominciamo quindi a parlare del nostro tema dal punto di vista dei rapporti fra silenzio da un lato e la parola e il suono dall’altro. Questo che vi espongo non è violare il silenzio, ma semplicemente un’umile guida all’entrata del Tempio del Silenzio.

Al silenzio segue poi il suono; ma o-ni suono o parola creativa dovrebbero provenire dal silenzio.

Il primo genere di detti rapporti fra silenzio e parola è quello delle loro giuste proporzioni; non occorre che mi dilunghi a indicare l’enorme sproporzione che esiste attualmente tra silenzio e suono.

La nostra civiltà è stata chiamata giustamente la civiltà del rumore; ogni genere di rumori ci assilla in quelle che l’Istruttore Tibetano ha giustamente chiamato le « giungle dell’Occidente ». Il continuo frastuono è stato dimostrato essere dannoso anche alla salute fisica; ma il peggio è che l’umanità attuale, e soprattutto i giovani, si abituano al rumore, anzi lo desiderano, tanto che lo creano quando non c’è, ad esempio tenendo la radio a pieno suono, finché essi divengono incapaci di sopportare il silenzio.

Questo riguarda il rumore ed 727i88h i suoni dall’estemo; ma la situazione non è migliore riguardo ai rumori ed ai suoni che vengono dal nostro interno, il che significa soprattutto: parlare a vanvera. Se ci fossero strumenti per misurare la somma di energie sprecate in parole vane e anche dannose, ne saremmo veramente colpiti; ma non occorre grande immaginazione o un contatore speciale per rendersene conto. L’abitudine di parlare troppo e male è stata incoraggiata da quello che può essere chiamato il culto moderno dell’espressione, il diritto dell’autoespressione. Questa è stata una reazione all’eccessiva repressione dell’Ottocento, ma, come tutte le reazioni, è andata all’altro estremo e vi è in realtà un bisogno urgente di limitare l’attuale eccessivo, sregolato « espressionismo ».

Anche qui la soluzione consiste in una giusta regolazione, ciò che significa semplicemente: pensare prima di parlare, considerare se quello che stiamo per dire ha qualche valore o serve a qualcosa. L’Istruttore sopra nominato ha detto: «L’umanità nel suo insieme ha bisogno del silenzio ora come mai prima, ha bisogno di riflettere e di percepire il Ritmo Universale ». (Psicologia Esoterica, 11, p. 44).

Questo bisogno è particolarmente grande e urgente per gli aspiranti e per i discepoli spirituali, e questo ci porta a considerare un altro genere di silenzio, più sottile ma non meno vitale e necessario, cioè il silenzio interno.

Silenzio non significa soltanto astenersi dal parlare; quando le tempeste delle nostre emozioni tumultuano in noi, quando la nostra mente discorre continuamente con se stessa, non vi è vero silenzio; perciò l’Istruttore ha ammonito: « Dico a tutti gli aspiranti che si allenano per il discepolato: imparate il silenzio esoterico che produce potenza interna e silenzio esterno, parlate meno e amate di più ». (Discepolato nella Nuova Era, Il, 237). « Essenzia/ venite il silenzio non è soltanto l’astenersi dal parlare; il silenzio richiesto in ii Ashrai è l’astenersi da certe linee di pensiero, l’eliminazione delle fantasticherie e dell’uso non sano dell’immaginazione creativa». (I Raggi e le Iniziazioni).

Il silenzio interno è di varii generi e si potrebbe dire che ogni piano ha il proprio silenzio. Tutti conosciamo il meraviglioso silenzio della natura, sia in un meriggio d’estate, sia soprattutto durante la notte il silenzio di fronte ad un cielo stellato. Vi è poi il silenzio delle emozioni, dei desideri, delle paure, dell’immaginazione: quello che in senso positivo è: pace e serenità. Il silenzio nel livello mentale che consiste nel tener ferma e calma la sostanza, mentale (chiamata dagli iridiani chitta), il fermare l’attività della mente. Di questo trattano di Yoga Stitras di Pantanjali, che contengono, specialmente nel primo libro ottimi insegnamenti al riguardo. (Un’edizione italiana, con ampi commenti di Alice A. Bailey, è stata pubblicata col titolo: La Luce dell’Anima).

Vi è anche un silenzio della volontà, cioè della volontà personale, che significa la dedizione di questa volontà e la sua unificazione con la Volontà Spirituale. La forma più alta del silenzio è quella conseguita e mantenuta nella contemplazione. Sulla via religiosa o mistica è chiamata « l’orazione di quiete »; ma anche dal punto di vista esoterico la contemplazione è la forma più alta di silenzio, che richiede ed include tutte le altre.

Un aspetto del silenzio che non è generalmente preso in considerazione è la letizia. E’ stata data un’interessante definizione della letizia: « il silenzio che risuona », ed è stato detto che è una caratteristica del nuovo servitore Spirituale. Un altro fatto ancor meno riconosciuto è che il silenzio è un’Entità; vi è uno Spirito del Silenzio, nello stesso senso in cui vi è uno Spirito dell’Amore, uno Spirito della Luce, uno Spirito della Bellezza. Alla nostra mente materialistica questo sembra strano, difficile a concepire, eppure tutti gli attributi e le qualità di Dio sono Esseri, sono i Suoi Angeli, i Suoi Messaggeri, sono Forze coscienti e viventi. Nella Dottrina Segreta E.P. Blavatsky dice chiaramente che tutto è vivente nell’Universo; e del resto anche nelle varie religioni i fedeli senza rendersene conto si rivolgono agli Angeli, agli Spiriti o Esseri Superiori. Le nostre Anime, chiamate esotericamente « Angeli Solari », sono Esseri Viventi e operanti in piani superiori ove le qualità, o note dello Spirito, esistono quali Esseri Viventi. Il riconoscerlo ci dà un senso meraviglioso della Vita Universale che è Una e Molteplice, manifestata in miriadi di Entità gerarchicamente ordinate.

Vi è un particolare beneficio nel pensare al Silenzio come ad una Entità, perché ci aiuta a comprendere la Sua Natura positiva ed attiva e a non considerarlo, come si fa di solito, semplice assenza di suono o di parola. Il silenzio è un’energia Spirituale positiva e, se lo ammettiamo, possiamo venire aiutati a praticarlo invocando lo Spirito del Silenzio, entrando in comunione con Lui, e così divenire recettivi a Lui e alle « impressioni » che ci vengono quando siamo, metaforicamente « avvolti nelle Sue ali ». Vi è uno stretto rapporto tra il silenzio e la reazione telepatica dall’alto; è stato detto che la Scienza della Recettività, dal punto di vista esoterico, è basata su vari tipi di silenzio.

Dirò ora qualcosa sulla pratica, sulla tecnica di quest’arte del silenzio. Come per sviluppare ogni altra qualità spirituale, una prima facile ed utile preparazione è il mettersi in quella « atmosfera » leggendo qualcosa sul tema. Fra gli scritti adatti a tale scopo citerò il bel saggio di M. Maeterlink sul silenzio nel vol. Le tresor des humbles. La celebrazione del silenzio di Th. Carlyle contenuta nel suo libro On Heroes. I Quaccheri hanno pubblicato numerosi scritti sul silenzio poiché essi basano la loro vita religiosa su riunioni di silenzio (vedi, fra altri: C.H. Hepher (ed.) The Fellowship of Silence, London, Macmillan, 1915; L.V. Hodkin, Silent Worship, London, Swarthmore, 1919; G. Hoyland, The Use of Silence, Wallingford, Pendle Hill, 1961.

Inoltre può essere di stimolo e di monito l’esempio di coloro che hanno praticato il silenzio in modo particolare: fra i moderni vi è Aurobindo, il quale per parecchi anni è stato in silenzio per 360 giorni ogni anno e in tali periodi scriveva molto ma taceva; un esempio meno estremo è quello di Gandhi che una volta alla settimana, ogni lunedì, osservava 24 ore di silenzio.

,Dopo questa preparazione dobbiamo « fare silenzio » dentro di noi; e questo si può ottenere mediante i variì stadi della meditazione: anzitutto raccoglimento « dalla periferia al centro »; poi elevazione del centro di coscienza mediante l’aspirazione del sentimento e la direzione dell’interesse della mente verso l’Anima, ed in generale verso il mondo dello Spirito e della Realtà.

E’ importante traversare rapidamente, per così dire, il livello emotivo e immaginativo per non disperdersi nelle impressioni psichiche che possono venire quando ci soffermiamo in esso. La coscienza deve essere tenuta ad un alto punto di tensione interna. Questa tensione, che è una consapevolezza vigile, una « presenza » Spirituale a noi stessi, è il vero segreto, la condizione essenziale per ogni conquista Spirituale. Essa può essere considerata una combinazione dell’Intenzione e dell’Attenzione. L’Intenzione è quella che ci sospinge a penetrare a livelli più alti di coscienza; l’Attenzione è la « polarizzazione » della coscienza, e il mantenerla fissa al livello raggiunto (1).

Questa tensione è seguita dal silenzio, un silenzio vivente, che crea le condizioni necessarie per ogni rivelazione, e soprattutto per la rivelazione dell’Anima. L’Istruttore Tibetano consiglia: « Riflettete, visualizzando un vivido giallo dorato, sul vero significato, sul valore e sui benefici del Silenzio » (Discepolato nella Nuova Era, I, p. 42 1 ).

Tutto quanto è stato detto fin qui riguarda il silenzio individuale, ma può e dovrebbe essere applicato anche al silenzio in Gruppo e di Gruppo. Le riunioni di Gruppo facilitano la pratica del silenzio, non solo per l’occasione, la necessità di stare in silenzio, ma anche perché si crea, insensibilmente ma realmente, una comunione fra un gruppo di persone o anche fra due persone che stiano insieme in silenzio. Nei Fioretti di San Francesco c’è un anedotto che mostra bene come i francescani conoscessero il valore del silenzio.

« Poco dopo la morte di San Francesco, San Luigi Re di Francia andò, travestito, da Fratello Egidio nel suo convento a Perugia; ma era stato rivelato al Fratello che il pellegrino era in realtà il Re di Francia, perciò egli lasciò in fretta la sua cella e andò ad incontrarlo al cancello senza porgli alcuna domanda. Essi si inginocchiarono e si abbracciarono con grande reverenza e segni di affetto come se già esistesse una lunga amicizia fra essi, per quanto non si fossero mai incontrati prima.

Nessuno di essi disse una parola e dopo essere rimasti abbracciati per qualche tempo si lasciarono in silenzio; poi quando gli altri Fratelli appresero chi era l’umile pellegrino, rimprovera-

(1)La tensione spirituale è diversa dalla tensione personale; sono anzi due condizioni opposte. La seconda ostacola la prima, mentre la tensione spirituale può meglio venire attuata e mantenuta in uno stato di rilasciamento fisico e di calma emotiva e mentale.

rono aspramente Fratello Egidio per il suo silenzio. – Egli rispose: – Cari Fratelli non siate sorpresi a ciò se io non ho detto una parola a Lui ne Lui a me, perché quando ci siamo abbracciati ci siamo visti l’uno nel cuore dell’altro è molto di più che se avessimo spiegalo a parole ciò che abbiamo sperimentato nelle nostre anime. La lingua dell’uomo rivela così imperfettamente i segreti misteri di Dio che le parole sarebbero state per noi più un ostacolo che un conforto ».

Gli effetti del silenzio sulla nostra personalità sono il ricaricamento di energia, il ritemprante e vero processo di rigenerazione di tutti i veicoli personali. L’effetto del silenzio in Gruppo è inoltre l’armonizzazione: quando in un gruppo ci sono contrasti o dissensi o semplici diversità d’opinioni su qualche decisione da prendere, su qualche attività da svolgere, il miglior modo è di fare un silenzio, un raccoglimento insieme, (questo naturalmente presuppone che tutti conoscano ed apprezzino l’arte del silenzio); dopo un periodo di silenzio insieme è molto più facile intendersi, poiché allora si considera il problema dall’alto, impersonalmente; si sono messe a tacere le personalità separative e ci si è riuniti – parlando simbolicamente – nel Tempo del Silenzio e qui ognuno, avvicinandosi alla propria Anima unita alle Anime degli altri, vede i punti di accordo, di contatto, d’intesa.

Ma i buoni effetti del silenzio non si limitano a questo, con la pratica del silenzio a poco a poco si sviluppa quella che è stata chiamata « la duplice vita del discepolo », cioè la capacità di mantenere Lina « zona di silenzio » durante la vita quotidiana, in mezzo ai rumori ed al tumulto: « Il silenzio del centro mantenuto nel rumore di tutto il mondo». Anche a questo riguardo vi è un esempio incoraggiante, quello di Frate Lorenzo della Resurrezione, il quale era capace di mantenere il senso della presenza di Dio mentre era affaccendato in urla rumorosa cucina.

Un altro buon risultato della pratica del silenzio è quello di imparare ad agire in silenzio, senza chiasso o rumore.

Nel metodo educativo di Maria Montessori viene usato un esercizio per allenare i bambini a muoversi ordinatamente in attento silenzio; essi lo fanno volentieri e imparano così l’autodominio.

Un altro vantaggio del mantenere una zona di silenzio di disidentificazione, di raccoglimento, pur dando la parte necessaria e sufficiente di attenzione e di energia (ma non più) alle attività che svolgiamo, è quella di poter prestare ascolto e riconoscere intuizioni, messaggi, spinte interne che molte volte vengono più facilmente quando pensiamo ad altro o siamo attivi esternamente, che nei momenti di raccoglimento.

 

Tratto da www.inftube.com

L’educazione dei figli: si, no, devi

Tre parole sono responsabili di tutta l’educazione del bambino:si, no, devi.
L’educazione interviene in un’epoca in cui il bambino sta sviluppando il senso di sé, esplorando la sua psicomotricità, e frequentemente ne limita la libera espressione.
L’adulto trascura troppo spesso che educare deriva da
e-ducere, non significa mettere dentro o imporre qualcosa, ma significa tirare fuori dal bambino il meglio delle sue potenzialità, consentendogli, allo stesso tempo, l’apprendimento dei propri limiti.

Il Si dell’adulto contiene tre principali significati, a seconda che sia un:

SI IGNORATIVO (fa quello che vuoi ma non mi seccare). Il bambino sente di essere ignorato, sviluppa insicurezza, ansia, l’illusione di non avere bisogno di nessuno, ribellione per l’autorità da cui si sente ignorato.

SI PERMISSIVO (non sei capace, ma ti do il permesso proteggendoti). Il bambino impara che se fa le cose che la madre gli permette di fare, la madre si sente amata da lui e lo amerà a sua volta.

SI AFFERMATIVO (tu hai la capacità di farlo) Il fanciullo sente di poter imparare dall’esperienza, emerge la gioia di vivere, di affermazione dell’Io, il senso di libertà acquisito da una educazione gioiosa

Anche dire No, presenta tre diversi significati:

NO REALISTICO (insegna al bambino i limiti ed i pericoli). Equivale al si affermativo. Per esprimere le sue potenzialità e conoscere i suoi limiti il bambino necessita di no realistici e di si affermativi.

NON VOGLIO (esiste anche la volontà; la libertà individuale termina dove inizia quella dell’altro, che non deve essere sopraffatto. Il principio di uguaglianza.) Genitori prepotenti che dicono “non voglio” senza discutere e a sproposito, creeranno adolescenti ribelli e adulti aggressivi, oppure gregari e sottomessi, tipico della posizione masochistica. Di contro, genitori con sensi di colpa perché trascurano il loro bambino, non riescono a dire dei sani “non voglio” e creeranno adulti prepotenti.

NON E’ PERMESSO (senza dare alcuna spiegazione) Il bambino non riesce ad allenare il proprio diritto di esprimersi, non può sperimentare la giusta frustrazione, indispensabile per saper negoziare. Non può scaricare la rabbia per un divieto a lui incomprensibile, verso la persona di riferimento. Questa rabbia trattenuta sarà successivamente agita, indirettamente, contro gli altri oggetti carichi affettivamente o emotivamente (genitori, fratelli, compagni, amici, etc.); oppure contro se stesso. Se disobbedisce a questo divieto immotivato, si sentirà colpevole e/o cattivo.

Il no, può essere dato con diverse tonalità:

  • quelle in sintonizzazione coni bisogni evolutivi del bambino (tono fermo ma gentile e sempre improntato all’affetto, disponibilità alla spiegazione e al ragionamento),
  • quelle categoriche che guardano solo ai comodi del genitore,
  • quelle superegoiche (istanze censorie dell’individuo) che comunicano disgusto, durezza, rimprovero, ricatto affettivo e sono foriere di violenza e punizioni corporali

Per una crescita sana il bambino deve incontrare tanto il “Si” quanto il “No” e imparare a maneggiarli entrambi, per sperimentare e comprendere non solo i suoi diritti, ma anche i suoi doveri.

Il “DEVI” sprigiona forti emozioni evolutive, che possiamo riassumere in:

DEVI PERCHE’ E’ NECESSARIO. E’ un devi realistico, con cui il bambino si arricchisce di esperienza, comunica fare questo, per ottenere quello (devi mettere a posto i tuoi giocattoli dopo l’uso se vuoi trovarli in ordine la prossima volta,) o perché non succeda quest’altro (devi stare lontano dal forno quando è acceso se non vuoi scottarti le manine).

DEVI PERCHE’ IO VOGLIO COSI’. E’ un devi autoritario, il bambino non è in condizione di resistere o reagire; lo orienta verso una posizione passiva (una formazione reattiva nel maschio può strutturare una tendenza all’omosessualità latente); oppure scatena in lui rabbia che il genitore non potrà accettare, mentre sarebbe opportuno farlo, per evitare il blocco della rabbia, con conseguenze patologiche.

DEVI FARE QUESTO SE NO MI DISPIACCIO. E’ un devi ricattatorio, fa sentire il bambino sbagliato, deludente, cattivo e colpevole se non obbedisce. La paura di poter perdere l’affetto (ricatto emotivo) lo indurrà all’obbedienza per compiacere il genitore. La perdita della libertà nella scelta se aderire o meno alle richieste del genitore lo farà sentire imprigionato dal ricatto, umiliato e arrabbiato. Terreno fertile per strutturare il masochismo come equilibrio difensivo.

DEVI FARE QUESTO PERCHE’ IO SO CHE FA BENE PER TE. Non considerando assolutamente tutto ciò che il bambino sta esprimendo con la psicomotricità del corpo, è un doppio messaggio psicotizzante, perché il bambino pur di conservare l’amore del genitore, rinuncerà alle sue sensazioni e alle percezioni di se stesso, in favore di quelle del caregiver (figura affettiva e accudente di riferimento).

  • Il volere è il linguaggio del desiderio e degli istinti,
  • il potere è il linguaggio della volontà,
  • il dovere è il linguaggio superegoico dei divieti.

La psicomotricità sviluppatasi al servizio del Super-Io (dovere), produce incapacità di amare e di essere amato, con un blocco delle emozioni e dei sentimenti.
L’energia bloccata muscolarmente sostiene la rigida corazza muscolo-carattetteriale, mentre, sul piano mentale, la corazza si esprimerà con una rigidità di comportamento e un’eccessiva razionalizzazione, che porta ad una limitazione dell’immaginario e della capacità di condivisione e di espressione delle emozioni.

L’ipertrofia e la rigidità dell’Io e del Super-Io, allontana dal principio del piacere per obbedire al principio del dovere, evidenziato, nel corpo, dall’ipertono muscolare, la cui collocazione e distribuzione evidenzia situazioni patologiche, conseguenza delle ingiustizie sofferte.

Tratto da: Ezio Zucconi Mazzini, La malattia del potere, Alpes Italia, Roma, 2010

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