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Autore: Hiram

Fiori di Bach per i disturbi del sonno dei bambini

I fiori di Bach sono dei prodotti naturali derivati dall’infusione dei fiori in acqua sorgiva esposta al sole per diverse ore. Derivano da piante semplici, selvatiche e non velenose, si considerano privi di effetti collaterali e possono essere utilizzati da soli o in combinazione (ma è consigliabile non usare più di quattro rimedi contemporaneamente), a seconda delle preparazioni e delle indicazioni.

Si assumono sotto forma di gocce e vanno assunti sia episodicamente al bisogno (di solito due gocce in acqua) o più volte al giorno a seconda dell’intensità dei sintomi. Nel caso della somministrazione a bambini la principale avvertenza è quella di evitare la somministrazione di preparati con alcool. Di solito infatti i rimedi di Bach prevedono l’utilizzo come conservante di una base alcolica (brandy o alcol) che tuttavia può essere sostituita da altri supporti meno tossici come l’olio di mandorle dolci.

I fiori di Bach sono usati con successo nei bambini soprattutto per cercare di risolvere i disturbi legati al sonno. Qui di seguito elenco fiori di Bach più indicati nei bambini.

Agrimony (Agrimonia): nei bambini miti, socievoli, che soffrono molto i conflitti e diventano per questo insonni, angosciati e tormentati; questo soggetto nasconde dietro una apparenza allegra il dispiacere e la preoccupazione.

Aspen (Pioppo tremulo): utile nei problemi di addormentamento in soggetti suggestionabili, con paura della solitudine, delle favole e degli spiriti.

Beech (Faggio): utile nei bambini prepotenti, irritabili, scocciatori.

Cherry Plum (Mirabolano): utile per i bambini impauriti dalle “apparizioni” e nei casi di enuresi notturna.

Chicory (Cicoria selvatica): è utile nei bambini che hanno sviluppato un attaccamento morboso e soffocante nei confronti dei genitori, in genere della madre. Sono i bambini che non possono dormire da soli e si spaventano se il genitore non è sempre presente.

Clematis (Vitalba): è adatto a soggetti apatici, lenti, inclini a incidenti perché poco presenti; utile in quei casi in cui il bambino sembra infelice e poco vitale.

Holly (Agrifoglio): per i bambini provocatori, irascibili, gelosi, vendicativi.

Larch (Larice): è adatto a bambini insicuri che non si sentono capaci e necessitano di protezione.

Mimulus (Mimolo giallo): per bambini che hanno paura del buio e della gente. Non vanno a letto volentieri perché la notte non è gradita.

Scleranthus (Centigrani o Fiorsecco): in caso di inabilità, facilità al pianto, umore mutevole

Star of Bethlehem (Latte di gallina): è particolarmente adatto ai neonati specie se si sono verificati traumi alla nascita.

Vervain (Verbena): per bambini ipercinetici, mai fermi, caricati a molla e resistenti al sonno; impulsivi, loquaci, non vogliono mai andare a letto e rilassarsi.

Walnut (Noce): nei casi di insonnia in coincidenza della dentizione oppure nei disturbi del sonno causati da qualsiasi cambiamento come l’inizio della scuola o un cambio di abitazione.

Red Chestnut (Ippocastano rosso): da dare ai genitori! Utile nei casi di un eccesso di protezione e attenzione nei confronti dei bambini che a loro volta sviluppano bisogni di vicinanza notturna continua verso i genitori.

Anche se concepita, fin dalle origini per l’autocura, la floriterapia come tutte le terapie, andrebbe seguita da un esperto che valuta e gradua dosi, tempi, rimedi a seconda dei risultati e dell’andamento dei sintomi, cosa che non è facile ottenere con la semplice aut osservazione.

Imparare a camminare. Intervista a Alberto Villani

Dal gattonameno ai primi passi: come aiutare il bambino in questo periodo, che cosa fare se cade, le prime scarpe, consigli su girello e deambulatore e i piccoli disturbi da tenere sott’occhio.

Pronti, partenza, in marcia!

E’ un processo delicato ed emozionante, sia per il bambino sia per i genitori: a poco a poco comincia a gattonare, poi impara a mettersi in piedi e infine eccolo muovere i primi passi da solo! Come incoraggiare e sostenere il bambino in questo periodo così importante? Lo abbiamo chiesto ad Alberto Villani, responsabile dell’Unità Operativa di Pediatria Generale dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma.

1. La fase del gattonamento

Quando inizia
In genere i bambini cominciano a gattonare tra i 6 e i 12 mesi, ma non c’è una regola valida per tutti. Anzi, alcuni bambini saltano addirittura questa fase e sperimentano altre modalità di movimento, ad esempio strisciano a pancia ingiù, si spostano da seduti aiutandosi con mani e piedi, per poi passare direttamente alla stazione eretta. Il gattonamento difatti non è un pre-requisito per camminare e ogni bambino ha un processo psicomotorio personale.

Come aiutarlo in questa fase
“Compito del genitore deve essere innanzitutto quello di controllare che non ci siano ostacoli e/o pericoli negli spazi in cui gattona” commenta Alberto Villani: “una volta eliminati, è bene lasciarlo libero di fare i suoi esperimenti il più possibile in autonomia. Solo in questo modo acquisirà gradualmente sicurezza e si preparerà a poco a poco a mettersi in piedi. In tutti i suoi tentativi, l’atteggiamento di mamma e papà deve essere sempre giocoso e incoraggiante, mai preoccupato e troppo protettivo.

Una buona ‘palestra’ per consentirgli di fare i suoi esperimenti può essere un tappetone morbido con la gomma sotto (così non si arrotola) con alcuni giocattoli: imparerà a spostarsi nella modalità che gli risulta più congeniale per raggiungerli, allenando i suoi muscoli”.

Quali le scarpe giuste
Per gattonare non c’è bisogno di scarpe: l’ideale sono i calzini antiscivolo.

2. I primi passi

Quando inizia a camminare
“L’età media per i primi passi è 12 mesi, ma ancora una volta il calendario è individuale” specifica Alberto Villani: “ci sono bambini più precoci che iniziano anche a 8-9 mesi, altri che aspettano l’anno e mezzo. L’inizio della deambulazione autonoma è una caratteristica familiare: se uno dei genitori ha iniziato a camminare presto, è possibile che anche il piccolo inizi presto. In ogni caso entro i 18 mesi si è nella norma”.

Come aiutarlo in questa fase
Semplicemente assecondandolo: il bambino fa ciò che si sente di fare e non va forzato. Per questo motivo non deve essere il genitore a metterlo in piedi, per poi cercare di lasciarlo da solo: il bambino deve raggiungere autonomamente la stazione eretta, perché solo allora vuol dire che è pronto per stare in piedi e muovere i suoi primi passi. A mamma e papà il compito di incoraggiarlo e complimentarsi con lui per i traguardi raggiunti.

E se cade?
Se succede, non mostriamoci spaventati: certe cadute per lui non sono dannose e se piange è solo perché ha visto la nostra espressione preoccupata. Un nostro atteggiamento allarmato potrebbe anzi dargli insicurezza e scoraggiare ulteriori tentativi.

Una casa a misura di bebè
Non appena il bambino comincia a spostarsi da solo, occorre riorganizzare gli spazi in casa: eliminiamo dalla sua altezza tutti gli oggetti fragili o pericolosi, via i soprammobili dai ripiani più bassi, copriamo gli spigoli con paraspigoli, le prese elettriche con copripresa, chiudiamo i detersivi negli armadietti, togliamo i tappeti che potrebbero farlo inciampare, attenzione ai lembi delle tovaglie, che potrebbe facilmente trascinarsi giù con tutte le stoviglie appoggiate: ormai gli spazi devono essere tutti su misura per lui!

Girello no, deambulatore sì
Il girello può essere utile per aiutare il bambino a camminare? “No, anzi è pericoloso e potenzialmente dannoso, perché fa impostare male l’andatura, inoltre non gli permette di allenare la muscolatura e il senso dell’equilibrio” risponde il prof. Villani. “Molto meglio un deambulatore con rotelle: a forma di camion, cagnolino, macchinina, sono tutti dotati di un maniglione posteriore al quale il bambino si può appoggiare e spostarsi a suo piacimento. Ok anche al box, dove il bambino può sperimentare in tutta sicurezza ad alzarsi in piedi e reggersi senza manine”.

Mano no, dito sì
Per aiutare il piccolo a muovere i primi passi, basta offrirgli un dito, che il bimbo impugnerà e al quale si sosterrà. Sbagliato invece tenerlo per mano, poiché si rischiano strattonamenti che possono anche provocare la lussazione della testa del radio (l’osso laterale dell’avambraccio, posto tra gomito e polso). Oltretutto tenerlo sempre per mano può renderlo insicuro e rallentare la conquista della deambulazione autonoma (“se mi tengono per mano, vuol dire che da solo non posso farcela”), e la mano dell’adulto potrebbe diventare un appiglio dal quale il bebè fatica a separarsi. Non dimentichiamo che riuscire a camminare da solo è anche una conquista dal punto di vista psicologico, poiché rappresenta una prima importante forma di distacco da mamma e papà.

Quali le scarpe giuste
Le prime scarpe dovrebbero preferibilmente essere alte, con un modesto plantare e flessibili, dalla punta al tacco.

3. Non preoccuparti se…

… cammina con le punte verso l’interno. In termini medici si parla di “marcia a punte intraruotate”: mentre cammina, tende a mettere le punte verso l’interno. “Anche se i genitori tendono ad allarmarsi, in realtà la marcia a punte intraruotate fa parte della normale ricerca dell’equilibrio, che i bambini mettono in atto quando imparano a camminare: mettere i piedini verso l’interno infatti allarga la base d’appoggio” tranquillizza il pediatra.

… cammina sulle punte Anche questo tipo di deambulazione rientra nella fisiologica ricerca di equilibrio, che porta il bambino a mettere i piedi nel modo che trova più congeniale alla stazione eretta. Col passare dei mesi, l’aumento di peso lo porterà spontaneamente ad appoggiare a terra tutta la pianta del piede.

 

Piccoli disturbi da tenere sott’occhio

Piede piatto. Può capitare ai più piccoli: quando sono in posizione eretta, il piede non mostra la fisiologica curvatura plantare ma tutta la pianta del piede tocca a terra. “Entro certi limiti, fino ai 2-3 anni di età, un leggero piattismo rientra nella norma ed è legato alla presenza di un maggior tessuto adiposo sotto la pianta plantare” spiega il prof. Villani. “Se tuttavia, su parere del pediatra, il piattismo è troppo pronunciato o se permane oltre i 4 anni di età, allora è doveroso un controllo da un ortopedico pediatra, che, fatta la diagnosi, potrà valutare l’opportunità di inserire nelle scarpe un piccolo plantare”.

Gambe ad arco. Può succedere quando il bambino comincia a stare in piedi: se si mette con i piedi uniti, si vede uno spazio tra le ginocchia, che formano, appunto, un arco. “Il fenomeno si chiama propriamente ginocchio varo e può interessare con maggiore frequenza i bambini robusti, che con il loro peso possono far arcuare le ginocchia” spiega Villani. “Spesso c’è una componente familiare, ma nella maggior parte dei casi è una caratteristica che tende a regredire spontaneamente intorno ai 2-3 anni- In ogni caso è bene farlo presente al pediatra che, se lo riterrà opportuno, potrà consigliare una visita ortopedica”.

Gambe ad X. È la situazione opposta al ginocchio varo: quando il bambino sta in piedi, anche se le ginocchia sono a contatto fra di loro, i piedi restano distanziati. E’ il fenomeno del ginocchio valgo, e si manifesta in genere fra i 3 e i 4 anni. Anche in tal caso c’è in genere una componente familiare ed anche in tal caso il fenomeno tende a scomparire con il fisiologico sviluppo degli arti inferiori. Sarà però il pediatra a valutare se e quando è il caso di consultare uno specialista ortopedico.

Tratto da www.nostrofiglio.it

L’ipnosi nel dolore

INTRODUZIONE

L’ ipnologia e l’ ipnosi sono ufficialmente accettate dalla medicina dell’evidenza per le numerose prove che dimostrano, più o al pari di altre tecniche psicologiche, una efficacia nel controllo del dolore. Di fatto sono relegate dalla maggior parte degli operatori della sanità al confine tra la magia, il buffo e comunque il non praticabile. Come segnalato, recentemente da Luchetti (1) è fondamentale in questo settore una particolare apertura mentale. Questo diventa imprescindibile quando osserviamo l’ uso distorto e abusivo di una medicina che sembra richiedere scarse risorse materiali e contemporaneamente appaga il senso narcisistico di potere sul prossimo. Scismi tassonomici determinati da esigenze specifiche (come di preparazione dei manager, educazione alla vendita) e non concettuali, hanno reso più confuso il panorama. Il termine stesso ipnosi (da ipnos: sonno) non dà certo ragione alla complessa fenomenologia che sottende questa condizione. Tuttavia, almeno per ora, ipnosi è il termine di riferimento per indicare sia una condizione alterata di coscienza, dalla quale ci aspettiamo scaturiscano utili cambiamenti psicologici, neuroendocrini, metabolici ed in generale biologici, sia una condizione relazionale particolare all’interno della quale questi cambiamenti possono compiersi in sicurezza.

CONCETTO ATTUALE DI IPNOSI

E’ ormai accettato che l’ipnosi è una particolare condizione psicosomatica in cui esiste uno stato di coscienza diverso dal normale stato di veglia e da tutte le fasi del sonno. Può presentare alcune affinità con stati meditativi, in particolare per l’attenzione focalizzata, il pensiero dominato dal processo primario e la ricettività dell’Io (Fromm, 1977-79). Questo stato psicofisico è dinamico ed è caratterizzato dalla prevalenza di funzioni immaginativo-emotive rispetto a quelle critico-intellettive, dalla presenza di una parziale dissociazione psichica e da fenomeni ideoplastici, in particolare ai livelli più profondi. Le teorie attuali sul meccanismo dell’ipnosi implicano un transfert e controtransfert positivo, uno stato empatico e una sincronia interattiva fra ipnologo e soggetto. Viene quindi enfatizzato il ruolo della relazione tra l’ipnotista e l’ipnotizzato, non solo nel successo dell’induzione ipnotica, ma anche nello sviluppo della fenomenologia caratteristica e come fattore essenziale del fenomeno stesso. L’ipnosi è considerata cioè una particolare forma di interazione umana in una persona reale o immaginaria. La relazione è un contenitore dove si svolge qualsiasi atto professionale, in cui coesistono aspetti affettivi/emozionali ed elementi cognitivi (5). Nella figura I è espressa tramite formula, una definizione operativa di ipnosi, quale stato di coscienza determinato da una particolare relazione che si inserisce su dinamiche percettive sensoriali (corpo).

In tempi recenti sono stati sviluppati disegni sperimentali raffinati per identificare un correlato neurofisiologico dello stato di coscienza ipnotico o di trance (6), e sono stati proposti diversi modelli speculativi (7), ma persiste notevole difficoltà ad ottenere elementi che evidenzino univocamente questo stato come caratteristico e specifico della condizione di trance. Il paradigma maggiormente accreditato è quello dell’asimmetria funzionale degli emisferi cerebrali (8).

Sintetizzando le specializzazioni emisferiche, si possono individuare le seguenti caratteristiche per l’emisfero dominante (sinistro nel destrimane e in buona parte dei mancini): maggiore abilità per i compiti analitico verbali, analitico spaziali e temporali, aritmetici, ideazionali, maggiore competenza a cogliere gli aspetti rilevanti degli stimoli elaborando l’informazione in modo sequenziale, attraverso l’analisi delle singole parti. Utilizzando un termine informatico possiamo definire la modalità di elaborazione come digitale. Essa risulta estremamente efficiente per operazioni matematiche, linguistiche e per la formulazione di concetti astratti. Lo stile cognitivo di questo emisfero coincide con i cosiddetti “processi secondari” della psicoanalisi. Esiste inoltre un collegamento con lo stato di coscienza ordinario e una maggiore performance per le emozioni positive. L’emisfero “non dominante” (destro, nel destrimane) sembra specializzato per compiti visuo-spaziali, musicali, geometrici, sintetici spaziali e temporali. Lo stile cognitivo è in grado di integrare diversi stimoli simultaneamente con un comportamento analogico-sintetico, quasi non verbale, olistico, molto efficace per le attività visivo-spaziali, la coordinazione motoria nello spazio, la comprensione della tonalità musicale. Il suo stile cognitivo coincide con i “processi primari” della psicoanalisi. Non esiste un collegamento con lo stato di coscienza ordinario, la performance è maggiore per le emozioni negative e per quelle attività che richiedono una percezione simultanea del tutto (percezione olistica), per la creatività artistica e scientifica, quindi per le intuizioni. Esistono evidenti analogie fra la fenomenologia della trance ipnotica e le funzioni dell’emisfero destro gia sottolineate da Erickson e Rossi (9). In contrapposizione allo stato di veglia, nello stato di trance si svilupperebbe una prevalenza emisferica destra (nel destrimane).

Lo studio elettroencefalografico di soggetti in ipnosi comparato con quello di soggetti allo stato di veglia ha permesso di identificare e comprendere alcuni meccanismi neurofisiologici sottesi allo stato ipnotico (10). Gran parte degli studi hanno focalizzato l’attenzione su una particolare onda dell’EEG: il ritmo alfa, questo ritmo (8-12 Hz), presenta un comportamento di tipo paradosso, in quanto tende a scomparire e desincronizzarsi nel soggetto sveglio ad occhi aperti, intento in attività cognitive, ma anche all’estremo opposto nel soggetto rilassato mentre tende a diventare più sonnolento. Un’elevata attività di fondo alfa è stata invece riscontrata nei soggetti in condizioni di particolare rilassamento e in alcune forme di meditazione e perciò almeno storicamente questo ritmo è associato ad una condizione di relativa inattività funzionale del sistema nervoso.

Attraverso analisi spettrale di frequenza dell’ EEG, è stato evidenziato (11) che nello stato di riposo vigile, la maggior parte dei soggetti destrimani presenta una maggior quantità di ritmo alfa nell’emisfero destro rispetto al sinistro. In condizioni di trance ipnotica, almeno nei soggetti altamente ipnotizzabili si ha un’inversione del profilo spettrale del ritmo alfa con una sua predominanza all’emisfero sinistro. Con l’assunto che l’attività alfa sia inversamente proporzionale all’attivazione funzionale dell’emisfero si può concludere che durante la condizione ipnotica si assiste ad una riduzione relativa dell’attività funzionale emisferica sinistra e ad una prevalenza emisferica destra.

Altri autori non hanno confermato questi risultati e tuttavia è stata evidenziata in ipnosi, a differenza di quanto si osserva allo stato di veglia, una attività EEGrafica apparentemente non congrua con il compito richiesto (ad es. matematico o visuo-spaziale). Questa incongruenza è attribuita all’azione inibitoria in ipnosi, di strutture sottocorticali diencefaliche sull’attivazione corticale compito specifica.

Studi di De Benedittis e Sironi in pazienti epilettici (12) hanno dimostrato che la condizione ipnotica determina una riduzione dell’attività lenta patologica e dell’attività irritativa intercritica rispetto allo stato di veglia e a maggior ragione rispetto al sonno che in questi pazienti si comporta come un attivatore della soglia epilettogena.

Studi elettrofisiologici hanno identificato due aree del sistema nervoso implicate nei fenomeni ipnotici, queste aree appartenenti al sistema limbico sono l’ippocampo che sembra responsabile del mantenimento della condizione ipnotica e l’amigdala che sembra svolgere un ruolo primario nei meccanismi di risveglio dall’ipnosi.

Lo stato ipnotico sarebbe mediato dall’attività combinata di queste due strutture, attraverso una inibizione funzionale dell’amigdala, responsabile del senso di calma, dell’ipoattività e dell’insensibilità all’ambiente e una attivazione funzionale delle strutture ippocampali.

L’analisi dei potenziali evocati corticali somatosensoriali non ha rilevato significative differenze nella latenza e nell’ampiezza delle componenti nelle condizioni di trance e di veglia, una diminuzione d’ampiezza della componente lenta è stata riferita in un esperimento di ipnoanalgesia. Per quanto riguarda i potenziali evocati corticali visivi, uditivi e olfattori esistono risultati contraddittori.

Per confermare il paradigma dell’emisfericità destra sono state sviluppate altre metodiche come l’ascolto dicotico, che hanno permesso di accumulare una notevole evidenza empirica.

E’ stato sperimentalmente osservato che soggetti altamente ipnotizzabili a cui venivano somministrate suggestioni di analgesia durante la trance non presentavano la risposta motoria tardiva a latenza più lunga (circa 120 msec) a seguito dello stimolo algico, mentre rimaneva inalterata la risposta motoria precoce, a breve latenza (circa 70 msec). L’abolizione del riflesso di difesa tardivo è espressione di una attività di modulazione sopraspinale.

L’ipnoterapia o l’ipnositerapia, per definizione, implica un intervento preciso, da parte del terapeuta o ad opera del paziente stesso. In quest’ ultimo caso si parla di autoipnosi. L’ipnositerapia, rappresenta quindi l’utilizzo a scopo medico delle potenzialità intrinseche del soggetto che si rendono disponibili pienamente in questo stato psicosomatico, è una scienza basata sulle correlazioni dimostrate fra mente e corpo. Nella figura II è proposto un modello psicosomatico che cerca di sintetizzare le ipotesi attuali più accreditate sulla genesi della malattia a partenza psichica, mentre nella figura III è evidenziato il ruolo che l’ipnoterapia può rivestire nella prevenzione o nella cura del disturbo o della malattia, anche attraverso una azione a più livelli (13).

L’IPNOTERAPIA NEL DOLORE

Gli studi sull’ipnoterapia per il controllo del dolore sono numerosi, anche se è merito dei coniugi Hilgard (1977-78) (14) la costruzione di un modello esplicativo e la dimostrazione di una correlazione diretta fra il grado d’ipnotizzabilità ed il livello d’analgesia raggiungibile. Sempre agli Hilgard (15) si deve la dimostrazione che l’effetto analgesico dell’ipnosi non è riconducibile all’effetto placebo, alla paura (non è una analgesia da stress o ansia) o alla suggestione, non dipende dalle endorfine e quindi non è reversibile con antagonisti degli oppioidi (naloxone) (16, 17), e non dipende da modulazioni dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, ma è un effetto specifico.

La teoria neodissociativa fornisce un modello esplicativo, schematizzato nella figura IV secondo il quale lo stato ipnotico determina delle modificazioni nelle strutture di controllo cognitive, per cui i processi cognitivi dell’ipnotizzato non sono più disponibili alla coscienza ordinaria, anche se una parte dissociata dell’io ipnotico, definita come l’osservatore nascosto, mantiene la normale percezione del dolore. A causa di una barriera di comunicazione questa componente cognitiva non si manifesta (covert pain), ma può comunque essere evidenziata con tecniche particolari, come la scrittura automatica. Una seconda barriera impedisce la comunicazione fra due sottosistemi del dolore: A e B. Al sistema A competono gli indicatori involontari, ad es. quelli cardiovascolari, che perciò continuano a registrare l’esperienza; al sistema B competono le reazioni volontarie come la mimica, i vari atteggiamenti tensivi che vengono esclusi lasciando il paziente rilassato, calmo, senza apparente segno di sofferenza.

In sintesi, è attualmente accettato che l’ipnosi svolga il suo ruolo nel controllo del dolore attraverso eventi aspecifici quali la d efocalizzazione dell’attenzione (com’è noto l’attenzione focalizzata sull’agente lesivo e sull’area corporea interessata, potenzia la percezione dolorosa, mentre la semplice distrazione ha effetto nel ridurla), la riduzione dell’ansia associata, il noto effetto placebo che può assumere un notevole peso se esiste un’ottima sintonia medico-paziente ed infine il decondizionamento. L’effetto dell’ipnosi nel controllo del dolore dipende in modo specifico dal grado d’ipnotizzabilità del paziente ed è compatibile con un sistema di controllo elettrico o neurotrasmettitoriale e questo spiega la rapidità con cui l’analgesia può essere indotta o rimossa. La condizione ipnotica sarebbe in grado di modulare dei sistemi sensoriali afferenti come la via paleospinotalamica, sopprimendo anche alcuni riflessi segmentari locali.

In una review delle prove scientifiche relative alla riduzione del dolore negli adulti con un intervento di tipo psicologico o psicosociale (18), è stata evidenziata, attraverso metaanalisi di studi multipli controllati, ben disegnati, e numerosi altri lavori di minore impatto statistico, la validità delle tecniche ipnotiche nel controllo del dolore in pazienti malati di tumore. De Benedittis et al. hanno dimostrato (19) in un esperimento con dolore ischemico che soggetti altamente ipnotizzabili presentavano un aumento della tolleranza al dolore del 113% verso un incremento di tolleranza di solo il 26% in soggetti scarsamente ipnotizzabili .

L’ipnosi si è dimostrata capace di alleviare sia la componente sensoriale discriminativa dell’esperienza dolorosa, sia la componente affettiva. In soggetti altamente ipnotizzabili è stato osservato un maggior effetto sulla componente motivazionale affettiva dell’esperienza stessa. La scissione tra le due componenti è responsabile della attivazione d’indicatori involontari del dolore quali un aumento della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa, della frequenza respiratoria, della sudorazione, ecc.. Le nuove tecniche di neuroimaging ci forniscono attraverso immagini suggestive ulteriori spunti di riflessione (20).

Numerosi lavori evidenziano l’utilità delle tecniche ipnotiche nel bambino con dolore acuto e cronico (21) e la particolare sensibilità dei bambini all’uso analgesico dell’ipnoterapia (Wakeman e Kaplan, 1978) (22, 23). I bambini sembrano anche in grado di utilizzare tecniche autoipnotiche in tutta una serie di malattie croniche, fra cui il cancro, l’emofilia, il diabete, l’anemia e l’artrite reumatoide. Altrettanto valida e utilizzata routinariamente anche in Italia, è la partoanalgesia in ipnosi (24).

Le modalità operative con cui può essere indotto questo alterato stato di coscienza cioè le tecniche ipnotiche (25, 26, 27) sono numerose e la loro trattazione esula dagli scopi del presente lavoro. Forse alcuni ricordano il pendolo sostenuto da un vecchio psichiatra che oscilla ritmicamente davanti agli occhi del paziente che tende a diventare sempre più sonnolento. Beh, se funzionava così bene perché è stato accantonato? Tecniche e strategie sono in continua evoluzione e seguono oltre lo sviluppo delle conoscenze neurofisiologiche e psicologiche, i nuovi modelli culturali e le diverse esigenze e attese di una società in cambiamento. Le strategie ericksoniane restano in ogni caso di riferimento (28, 29, 30), richiedono sensibilità e spirito d’osservazione, sono considerate tecniche indirette in quanto non aggrediscono frontalmente il disturbo ma cercano di sviluppare soluzioni attraverso l’uso delle risorse e delle caratteristiche del paziente, sono tecniche dolci, materne. In un contesto eterogeneo si sviluppano anche approcci di confine rispetto alle tecniche ipnoterapeutiche più ortodosse, come nel lavoro di Hoffmann (31) che dimostra l’utilità del supporto della realtà virtuale come trattamento analgesico supplementare nella terapia delle ustioni in pazienti adolescenti.

L’ipnosi è utilizzata a livello mondiale per il trattamento del dolore operatorio e postoperatorio, per agevolare procedure diagnostiche o terapeutiche dolorose, in particolare nei bambini; per il dolore iatrogeno, per il dolore da parto, il dolore odontoiatrico, il dolore da ustioni (con riconoscimento della FDA americana), per il dolore cronico non oncologico ad es. lombalgia, fibromialgia, sindrome dell’arto fantasma, cefalee croniche primarie; per il dolore oncologico e i disturbi associati, dove il suo ricorso precoce sembra utile anche nel controllo dell’evoluzione della malattia.
Conclusioni

Sono passati dieci anni da quando nel 1994 l’Associazione Internazionale per lo studio del dolore definisce il dolore come esperienza mentale. S empre lo stesso anno la IV a edizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders introduceva all’interno dei disturbi somatiformi la categoria Pain Disorders, dove la valutazione psicologica non serve a distinguere un dolore organico da uno psicogeno, ma ad analizzare come i fattori psicologici interferiscono con l’espressione del dolore e l’effetto del dolore sul benessere del paziente. Dovrebbe essere ormai superata definitivamente la dicotomia shakespeariana fra dolore fisico e mentale. Solo accettando questo potremo sforzarci di modulare la nostra comunicazione col paziente in termini curativi.

Tratto dalla rivista ACTA ANAESTHESIOLOGICA ITALICA vol. 56 n. 3 del 2005, pag. 96, 99-104, 106, 108, 109-111 a cui si rimanda per l’ edizione integrale.

Freud e l’ipnosi

Freud addusse una serie di motivi “scientifici” per spiegare il suo abbandono dell’ipnosi:

  1. effetti terapeutici non duraturi e sostituzione del sintomo
  2. mancata analisi delle resistenze
  3. difficoltà a produrre invariabilmente il sonno ipnotico
  4. l’ipnosi è una tecnica autoritaria e coercitiva.

Rispetto a quest’ultimo punto anche Anna Freud spiegava che l’ipnosi permetteva al terapeuta un agevole accesso all’inconscio eliminando le difese dell’Io. A quel punto l’ipnotista poteva imporre una serie di suggestioni e l’ipnotizzato si trovava a pensare come l’ipnotista.

Per esempio, l’ipnotista poteva dire: “ora tu non senti più il tuo disturbo…” e la persona effettivamente non avvertiva più quel particolare sintomo. Ma tale pratica non aveva effetto nel lungo periodo perché l’Io non partecipando al processo terapeutico “sopportava l’intruso, solo fintanto che era sotto l’influenza del medico, poi si ribellava e iniziava una nuova battaglia per difendersi da questo contenuto dell’Es che gli era stato imposto. (Anna Freud, L’Io e i meccanismi di difesa)

A partire dal lavoro di Erickson è prevista la partecipazione dell’Io cosciente per un più agevole accesso all’emisfero non dominante (inconscio) e per garantire risultati duraturi.:

“I punti neuropsicologici d’aggancio degli interventi ipno-comunicazionali sarebbero pertanto essenzialmente tre, consistenti:

1) nel bloccare l’emisfero sinistro (nei non mancini), evitando così le resistenze e la componente ansiosa disturbante;

2) nell’ottenere “il consenso” da parte dell’emisfero sinistro (“utilizzazione dell’emisfero dominante”)

3) nel realizzare in definitiva l’accesso all’emisfero destro e la successiva interazione con lo stesso mediante comunicazione empatica, musicale (nell’emisfero destro sono presenti intere gestalt auditive), l’affettivazione del rapporto, metafore, forme linguistiche immaginifiche, fiabe, favole, inclusi i messaggi non verbali (inconsci e/o intenzionalmente gestiti dall’operatore).” (Vincenzo Mastronardi, “Ipnosi clinica negli anni 2000”, in AA.VV. Ipnosi e psicoanalisi. Collisioni e collusioni, a cura di Léon Chertok, Armando Editore, Roma 1998, p. 31)

 

In realtà nell’ipnosi così come in ogni altro contesto comunicazionale occorre creare un accordo tra le parti, un contesto favorevole: “se il rapporto suscita ansietà la risposta sarà di difesa, se il paziente percepisce che l’ipnotista vive l’ipnosi come una lotta o come un gioco o come qualcosa che lo mette a disagio o verso cui è scettico, il tipo di relazione che va sviluppandosi e la forma dello stato ipnotico che va evolvendo ne saranno ampiamente influnzati.” (Vincenzo Mastronardi, “Ipnosi clinica negli anni 2000”, in AA.VV. Ipnosi e psicoanalisi. Collisioni e collusioni, a cura di Léon Chertok, Armando Editore, Roma 1998, p. 41)

Secondo Freud, la psicanalisi propriamente detta ebbe inizio il giorno in cui decise di rinunciare all’ipnosi. In altre parole la vera psicanalisi non avrebbe nulla a che fare con la suggestione perché con la psicanalisi l’affettività si troverebbe “canalizzata nel transfert, e da lì dominata e messa al servizio della conoscenza.” (Léon Chertok, “Presentazione”, in AA.VV. Ipnosi e psicoanalisi. Collisioni e collusioni, a cura di Léon Chertok, Armando Editore, Roma 1998, p. 50)

In tal modo, la resistenza, da ostacolo che l’ipnotista mirava ad abbattere si trasforma nel motore della cura: “il medico si impegnerà a convincire il malato che il transfert, che egli ha operato sulla sua persona, è un falso rapporto, una mésalliance, cioè un matrimonio fra persone di rango diverso. (Léon Chertok, “Presentazione”, in AA.VV. Ipnosi e psicoanalisi. Collisioni e collusioni, a cura di Léon Chertok, Armando Editore, Roma 1998, p. 61)

In realtà l’aspetto suggestivo dell’ipnosi che aveva spinto Freud ad abbandonarla anzi, lo continuò a seguire…

Sembra che ci fu un evento determinante che portò Freud all’abbandono dell’ipnosi: “Dopo che avevo liberato dalle sue sofferenze una fra le più docili delle mie pazienti, con la quale l’ipnosi aveva ottenuto i risultati più brillanti, collegando le sue crisi dolorose alle loro cause remote, essa al risveglio mi gettò le braccia al collo. L’inatteso ingresso di una persona di servizio ci evitò una spiegazione penosa, ma noi rinunciammo da quel giorno, per tacito comune accordo, alla continuazione del trattamento ipnotico. Ero abbastanza sereno per non mettere questo incidente sul conto della mia irrestibilità personale, e pensai di avere ora colto la natura di quell’elemento mistico che agiva dentro l’ipnosi. Per escluderlo, o almeno per isolarlo, dovevo abbandonare l’ipnosi.”

 

Il transfert e il rapport

In cosa differisce il transfert dal rapporto ipnotico? La tecnica delle libere associazioni dalla scrittura automatica? La concezione energetica dell’apparato psichico dal fluido magnetico di Mesmer?

Il transfert positivo, per esempio, ricorda molto da vicino l’intensa relazione affettiva della trance ipnotica:

“Invece di raccontare i suoi amori passati, il paziente “ama” il suo analista, non pensa che a lui, si sottomette docilmente ai suoi consigli, accetta tutte le sue interpretazioni e costruzioni di pensiero, e inoltre ripone una fiducia cieca nella teoria psicanalitica.” (Mikkel Borch-Jacobsen, “L’ipnosi nella psicoanalisi”, in AA.VV. Ipnosi e psicoanalisi. Collisioni e collusioni, a cura di Léon Chertok, Armando Editore, Roma 1998, p. 87)

E se il trasfert non è altro che la riattualizzazione di un affetto provato in passato per un altra persona di cui se ne deve divenire consapevoli, in che cosa differisce la psicanalisi dalla terapia catartica; in entrambi i casi gli stati psichici vengono rivissuti, drammatizzati nel presente fino all’insight.

 

Che dire invece della libido e del fluido descritto da Mesmer?

Mesmer credeva nell’esistenza di un principio unico dell’evoluzione, un fluido universale che percorre ogni cosa. Le malattie non sarebbero altro che il risultato di una cattiva circolazione del fluido magnetico. Se pensiamo a Freud troviamo alcuni punti in comune:

Per esempio Freud legava indissolubilmente l’ontogenesi alla filogenesi e in alcune opere descriveva la libido come energia. Affermava (in base alla suddivisione pulsione dell’Io/pulsione sessuale) che: “l’individuo considera la sessualità come uno dei suoi fini; ma da un altro punto di vista non è che un’appendice del suo plasma germinale a disposizione del quale pone le proprie forze in cambio di un premio di piacere. Egli è il veicolo mortale di una sostanza virtualmente immortale”

Inoltre, descrivendo l’apparato psichico usava termini come aumento, diminuzione, suddivisione, spostamento di tale “energia”. Se si riscontra una “stasi della libido”, un suo accumulo, si possono verificare effetti negativi tra cui le malattie psicosomatiche. (Massimo, Introvigne, Lo spiritismo, Editrice Elle Di Ci, Leumann (TO) 1994, p. 114)

Quanto alla interpretazione, dove risiede la scientificità del metodo psicanalitico se l’interpretazione dell’analista è frutto di intuizioni soggettive? Si potrebbe persino ipotizzare che le rievocazioni “spontanee” che emergono in seduta così come i sogni di natura freudiana non siano altro che atti di compiacenza nei confronti del terapeuta.

Forse anche l’interpretazione è una forma di suggestione…

D’altronde lo stesso Freud nel capitolo II della Interpretazione dei sogni scriveva a proposito della necessità di ricostruire in analisi uno stato psichico simile allo stato ipnagogico, cioè allo stato intermedio tra la veglia e il sonno al fine di far affiorare le rappresentazioni rimosse:

“Come si può vedere, si tratta insomma di ricostituire uno stato psichico che presenta una certa analogia con lo stato intermediario tra la veglia e il sonno, e senza dubbi anche con lo stato ipnotico, sotto il profilo della ripartizione psichica (dell’attenzione mobile). Nel momento in cui ci si addormenta, “le rappresentazioni non desiderate” vengono alla superficie poiché una certa azione volontaria (e senza dubbio anche critica) si attenuata… Nello stato che noi utilizziamo per l’analisi dei sogni e delle fissazioni patologiche, si rinuncia intenzionalmente a tale attività critica e si utilizza l’energia psichica risparmiata in questo modo (o parte di essa) per seguire i pensieri non voluti, che nascondono e che conservano il loro carattere rappresentativo, contrariamente, a ciò che succede nel momento in cui ci si addormenta.”

C’è da domandarsi perciò quando effettivamente si esce dall’ipnosi e dalle tecniche suggestive e si approda alla psicoanalisi? quando Freud rinuncia ad addormentare i pazienti utilizzando il Druckmethode, che consisteva in una leggera pressione delle mani sulla fronte del paziente con l’ingiunzione di ricordare? In tal caso, secondo Franklin Rausky, non ci sarebbe stata “la rinuncia all’ipnosi, ma più modestamente l’abbandono dei metodi classici della suggestione ipnotica indotta attraverso una trance profonda e l’adozione di un procedimento più morbido, più universale, definito all’inizio come ipnosi leggera.

Freud si ricollegava in tal modo alle preuccupazioni di Bernheim, che cercava allora di fondare una nuova psicoterapia, basata su una relazione terapeutica allo stato di veglia, nella qualesi sarebbe conservato, secondo il maestro di Nancy, l’essenziale della terapia ipnotica e cioé: la suggestione.” (Franklin Rausky, “Dal rapporto ipnotico alla relazione analitica nella storia delle idee”, in AA.VV. Ipnosi e psicoanalisi. Collisioni e collusioni, a cura di Léon Chertok, Armando Editore, Roma 1998, p. 179)

Così succede che si elimina il diavolo e restano gli individui affetti da convulsioni. Si elimina la tinozza e rimane la suggestione, l’ipnosi e il rapporto. Si elimina l’ipnosi, resta il transfert.

E questo totale abbandono nei confronti di un altra persona rimane un mistero che Freud non riesce a spiegare se non come legame libidico senza soddisfazione erotica.

L’ipnosi sarebbe allora simile allo stato amoroso?

Freud ne parla nel capitolo “Innamoramento e ipnosi” del libro Psicologia delle masse e analisi dell’Io. Egli riteneva che nell’innamoramento venga soddisfatto il proprio narcisismo, poiché “una quantità notevole di libido straripa sull’oggetto d’amore idealizzandolo a tal punto che si può ben dire che l’oggetto ha preso il posto dell’ideale dell’Io” (p. 61)

Si riscontra quindi una similitudine tra innamoramento e ipnosi: “la stessa umile sottomissione, arrendevolezza, assenza di un senso critico nei confronti dell’ipnotizzatore come nei confronti dell’oggetto amato; la stessa cessazione di ogni iniziativa personale; è indubbio che l’ipnotizzatore ha preso il posto dell’ideale dell’Io” (p. 61) E perciò la relazione ipnotica è “una dedizione amorosa illimitata che prescinde dal soddisfacimento sessuale” (p. 62) e paradossalmente trae maggior forza perché l’impulso è inibito alla meta.

Ma allora dobbiamo considerare anche la nevrosi da transfert una riedizione del rapporto ipnotico e quindi l’interpretazione una suggestione?

 

A ben vedere, la cura in psicanalisi va di pari passo con l’indottrinamento e l’apprendimento del lessico e della dottrina psicanalitica; le obiezioni vengono ridefinite come resistenze, in tal modo ogni fenomeno viene inglobato e analizzato all’interno del sistema di pensiero della psicanalisi. Non c’è possibilità di fuga al di fuori della rete associativa, si tratta di una vera e propria situazione di doppio legame.

 

II fatto che la suggestione e la trance ritornino nella seduta psicanalitica non stupisce, poiché ogni vero cambiamento presuppone una destrutturazione dello stato di coscienza ordinaria – che crea e mantiene il problema.

D’altronde fenomeni come il transfert positivo e negativo erano ben noti anche ai magnetizzatori, si raccontava che spesso i malati identificavano il magnetizzatore come un padre autoritario o come madre dolce e rassicurante.

Anche nell’ipnosi moderna la resistenza (il transfert negativo in psicanalisi) diventa motore della cura con le ingiunzioni paradossale e l’utilizzo della resistenza.

 

Stadio dello specchio e ricalco

Secondo lo psicanalista Jacques Lacan la costituzione di un soggetto comporta alcune tappe fondamentali la prima delle quali venne denominata lo “stadio dello specchio”.

La teoria intorno allo stadio dello specchio venne presentata per la prima volta al Congresso di Marienbad (31 Luglio 1936) e poi successivamente a Zurigo nel 1949.

Secondo Lacan dapprima il bambino vive l’angoscia del corpo disgregato. Inizialmente non ha l’esperienza del corpo come una totalità unitaria. Tale unità va conquistata attraverso la mediazione dell’immagine.

Il bambino comincia col percepire l’immagine dello specchio come una cosa reale e tenta di afferrarla. Con l’esperienza comprende che si tratta solo di una immagine. Infine riconosce in questo essere, il riflesso speculare di sé stesso.

Questa immagine rimanda al bambino una Gestalt unificante che lo porta a identificarsi in essa.

Grazie all’immagine speculare il bambino anticipa la propria unità e padronanza del corpo e ciò è motivo di giubilazione, estasi, poiché l’Io “si ama sempre come un oggetto, in quell’altro adorabile che gli offre il miraggio della propria onnipotenza.” (Mikkel Borch-Jacobsen, Lacan, il maestro assoluto, Einaudi, p. 40)

L’Io attiene pertanto al registro dell’immaginario: “È soltanto attraverso la vista, infatti, che l’io può ergersi dinanzi a sé, come una “bella totalità” chiusa in se stessa. L’erezione dell’io è sempre l’erezione di una statua che io vedo; laggiù trionfale, incrollabile, immobile per l’eternità.” (Id. ibid. p. 39)

È ciò avviene perché l’essere si può autoconoscere solo a patto di ex-porsi, di ex-sistere, oggettivandosi nell’immagine speculare e quindi far ritorno a sé così da conoscersi (re-flectere=volgere indietro).

Ma in realtà la sintesi fra Io e oggetto non si realizza: L’Io (Je) si aliena oggettivandosi in un me (Moi).

Si contempla e in un sol tempo si guarda e si pietrifica.

 

Ricalco

Il ricalco in ipnosi rievoca la simbiosi immaginaria che il cliente da infante aveva con la madre. La madre funziona come specchio nei confronti del bambino “tra di loro passa una comunicazione a-simbolica che ha l’immediatezza e l’intensità con la quale si incrociano gli sguardi” (Silvia, Vegetti Finzi, Storia della psicanalisi, Oscar saggi Mondadori, Milano 1990, p. 384)

È questo il legame affettivo, fusione, identificazione o trasfert che si verifica in ipnosi (secondo Freud il trasfert rende attuale un “frammento di vita infantile”).

E in tal senso il trasfert secondo Mikkel Borch-Jacobsen non è analizzabile, non vi è alcunché da ricordare poiché il primo legame con il prossimo non è un evento che può essere ricordato in quanto costitutivo del soggetto: non c’è nessun io prima dell’identificazione che mi pone in essere.

Il corpo nella relazione

La relazione terapeutica è una realtà creata tra due individui che si definiscono e si riconoscono nel ruolo di paziente o cliente e nel ruolo di psicoterapeuta.  Anche quando la terapia è puramente verbale terapeuta e cliente comunicano essenzialmente attraverso il corpo. Sono molti infatti gli approcci che riconoscono nell’essere centrati sul corpo e non solo sulla struttura della mente, una possibilità di maggior contatto ed efficacia terapeutica.

Già nel 1961 C. Rogers scriveva Mi lascio andare nell’immediatezza della relazione in cui e’ il mio organismo  totale a prendere il sopravvento ed ad essere sensibile alla relazione, non soltanto semplicemente alla mia consapevolezza”

Egli dunque riteneva che un buon clinico sta dentro e risponde dal corpo. In questo scritto si cercherà di analizzare come aver centrato il focus dell’attenzione sul corpo nel setting terapeutico abbia attuato una svolta cruciale nel mondo stesso della terapia.

Se guardiamo al fenomeno della psicoterapia stiamo trattando il mondo della sofferenza “psichica”. Sofferenza che spesso si esprime come malattia, o comunque disagio e dolore nel corpo. Credo, infatti, che ogni individuo percepisca in modo rilevante il proprio disagio quando questa sofferenza viene percepita dal corpo.

Tale sofferenza può esprimersi in un bisogno di cambiamento e in una domanda di aiuto. Ogni disagio può variare nel tempo e nella cultura, e dunque varieranno nel tempo le problematiche portate dagli individui in terapia. L’individuo, però, non può non portare se non attraverso il corpo la comunicazione del proprio disagio; ed è allora che il corpo può divenire luogo di ricerca individuale per una maggior consapevolezza e autorealizzazione.

Credo, infatti, che per scoprire realmente la natura più profonda di ogni essere umano non possiamo che rivolgere l’attenzione al corpo e alla profondità dei suoi linguaggi.

“Il corpo, inoltre, contiene e manifesta bisogni che non sono riducibili alla razionalità diretta allo scopo, e che non si misurano solo sui criteri dell’efficienza. Il corpo è poi il canale della comunicazione affettiva e permette un contatto con l’altro che ha tonalità e accenti non sempre traducibili nel linguaggio e nei riti dello scambio sociale”. (Alberto Melucci, 1984, ).

Il corpo trattato in psicoterapia non è più il corpo oggetto delle scienze naturali, ma neppure il corpo simbolo della cultura spiritualista. Ma è un corpo che esprime la globalità e l’unicità della persona partendo da un principio di identità funzionale tra psichico e corporeo già anticipata da Reich, pioniere di tutte le terapie corporee nei primi anni ’30.

Come Reich stesso racconta nei suoi scritti, egli arriverà al salto dal verbale al somatico proprio analizzando ciò che secondo lui e molti altri non funzionava nella relazione analitica ai suoi tempi. Quando, infatti, egli venne in contatto con Freud e  la società psicoanalitica di Vienna, la psicoanalisi era in qualche modo impantanata in una serie di difficoltà inerenti alla tecnica analitica ed in generale al modo di condurre la psicoterapia.

Infatti, in nome del principio di non intervento dell’analista, i silenzi potevano durare anche un’intera seduta e vi era un’attesa estenuante e passiva che il paziente formulasse una qualche associazione verbale per poter impostare intorno a questa delle interpretazioni. Il processo terapeutico si svolgeva ad un ritmo estremamente lento, Reich stesso ricorda quei tempi: “Gli psicanalisti facevano di necessità virtù. Abrahm affermava che ci volevano anni per comprendere una depressione cronica, a suo avviso la tecnica passiva era l’unica possibile, i miei colleghi scherzavano spesso sulla sonnolenza che li coglieva durante le ore di analisi. Ebbi fin dall’inizio la sensazione che questo metodo era sbagliato. Provai io stesso ad applicare questa tecnica, ma non diede alcun risultato. I pazienti manifestavano un profondo senso di disagio e divenivano cocciuti”(W.Reich 1969). Reich si rese conto che questo tipo di approccio psicoanalitico puramente passivo e verbale era inadeguato sotto molti profili, in primo luogo il profilo sociale, era già chiara in lui la responsabilità sociale della psicanalisi e in generale della psicoterapia.

Egli capiva l’impossibilità di accettare metodi terapeutici che esigevano anni di sforzi per curare una sola persona, mentre tutto intorno il sistema produceva nevrosi di massa. In secondo luogo, la focalizzazione sulle resistenze aveva reso Reich particolarmente sensibile al problema dell’incorporazione delle tensioni nevrotiche nella struttura caratteriale e somatica del paziente.

Di qui era in un certo senso naturale il passaggio dall’analisi del carattere all’intuizione del significato psicologico degli atteggiamenti somatici. Per la prima volta egli studiò l’insieme delle resistenze con cui l’organismo blocca gli impulsi interiori e gli stimoli esterni considerati pericolosi per il proprio equilibrio nevrotico definendoli “corazza” o armatura caratteriali.

A differenza del sintomo che l’io percepisce come un fenomeno incomprensibile, estraneo e spesso insopportabile, (ego-distonico), la corazza e il singolo tratto caratteriale vengono percepiti dall’io come omogenei, razionali e comunque morali (ego-sintonici o addirittura potremmo definirli super-egosintonici).

E’ evidente che un approccio più organico e sistematico delle resistenze comportava un’attenzione ed una posizione più attiva e critica nei confronti del paziente.

“Nessuna interpretazione dei significati psichici profondi dei sintomi”, scrive Reich in Analisi del carattere, “può essere data prima che siano interpretate le resistenze e la loro implicazione caratteriale” (W. Reich, 1973, ).

Egli, infatti, intuì che se l’interpretazione o comunque la tecnica terapeutica viene fornita senza quell’attenzione dovuta alle resistenze intese come tempi interni del paziente, questi tenderà a reagire con due modalità parimenti improduttive:

  1. Accettare gli interventi terapeutici per motivi di transfert, rifiutandoli poi quando si svilupperà un transfert negativo;
  2. Abbandonare le resistenze solo temporaneamente per poi svilupparle in un secondo tempo.

Spostando l’attenzione dal sintomo, che era stato fino ad allora l’epicentro degli sforzi psicanalitici, Reich di fatto metteva a fuoco gli aspetti nevrotici della struttura del carattere andando a studiare i sistemi di valore che determinava e si autodeterminavano in tale struttura.

Inoltre, esaminando le difese che il carattere opponeva alla terapia, Reich arrivò gradualmente ad individuare queste tensioni non solo di tipo psicologico, ma anche di tipo somatico e muscolare, giungendo a concludere che la corazza caratteriale, l’insieme delle difese psicologiche del paziente, ha una puntuale corrispondenza in una corazza muscolare.

Reich comprese questa connessione che poi definirà identità funzionale fra psichico e somatico.

Ogni tensione muscolare contiene la storia ed il significato della sua origine. La sua dissoluzione non solo libera energia, ma riporta anche alla memoria la situazione in cui la situazione ha avuto luogo (W.Reich,1969,).

Nello studio della corazza muscolare Reich arriverà successivamente all’individuazione di una serie di “blocchi” (anelli corazzanti) disposti trasversalmente lungo il corpo del paziente dalla testa al bacino, destinati a bloccare le pulsioni interne, come gli stimoli esterni in qualche modo percepiti minacciosi dal soggetto.

In quegli anni Reich comincerà parallelamente ad esplorare e sperimentare nuove tecniche di approccio corporeo alle resistenze, che consistevano quasi nel provocare mimando e ripetendo le espressioni del paziente in analisi e nell’esplorazione  delle emozioni sottostanti. Egli usava dunque il contatto fisico come potente agente terapeutico arrivando a due fondamentali risultati:

  1. Spostare l’attenzione dal livello psichico a quello somatico, inteso però come espressione dello psichico.
  2. Inventare un metodo che, proprio attraverso l’imitazione, permetteva al terapeuta di identificarsi e comprendere a fondo le tensioni del paziente in una sorta di empatia corporea.

Egli, inoltre, individuando nel blocco della respirazione la principale fonte di tensione, studiò ed elaborò tutta una serie di tecniche volte a riattivare una vitalità psicocorporea che l’individuo perde nel corso della propria evoluzione psichica. Ovviamente in tutte queste innovazioni era implicita un’altra fondamentale: all’interno della relazione terapeutica: l’abbandono dell’atteggiamento impersonale e passivo dell’analista.

Come egli stesso descrive, egli tentava in tutti i modi di liberare i pazienti da un rapporto stereotipato, da quello che lui stesso definiva una “rigidezza caratteriale”. “Dovevano considerarmi un essere non autoritario, umano” (W.Reich, 1969). Egli, infatti, proprio spostando l’attenzione dal verbale al somatico, soffermandosi su come il cliente raccontava piuttosto che su cosa raccontava e quindi sul qui e ora del momento terapeutico, riuscì a comprendere ed anticipare quanto l’effetto curativo della psicoterapia  consista non tanto nella rievocazione puramente verbale dei ricordi traumatici o nell’interpretazione dei sogni o dei sintomi, quanto nella particolare qualità della relazione che si instaura fra terapeuta e paziente superando il tabù del contatto sia emotivo che fisico che sino ad allora aveva dominato l’analisi e la psicoterapia

Questa enfasi è stata determinante non solo nello sviluppo all’interno della psicanalisi per l’accento posto sulle dinamiche di transfert e contro-transfert, ma anche e soprattutto per quella vasta gamma di scuole che oggi si riconoscono nel filone umanistico-esistenziale.

Quando infatti il corpo entra in scena nel setting terapeutico, è impossibile non ricordare che la psicoterapia sia anche e soprattutto un confronto o incontro tra due persone vive e reali.

Credo, infatti, che non esista terapeuta qualunque sia il suo approccio di riferimento, che più o meno consapevolmente non dia alla corporeità un’attenzione rilevante.

Credo, inoltre, che ognuno nella propria pratica clinica dia importanza alla presenza e alle variazioni che i segnali del corpo emanano nella dinamica della evoluzione della persona. Tutti possiamo accorgerci dai segnali del corpo se il nostro cliente è interessato, coinvolto nella relazione terapeutica, se i suoi occhi esprimono contatto, affetto, e se invece esprimono paura, risentimento, ostilità. Quando non ci è possibile cogliere questi segnali è perché noi stessi siamo così sconnessi dal nostro livello percettivo da non permetterci di cogliere ciò che a qualsiasi persona radicata nella propria esperienza corporea non può che apparire ovvio.

Dopo Reich questa consapevolezza è entrata in maniera stabile nel mondo della psicoterapia. Egli ha dato vita a tutta una serie di pratiche terapeutiche  che non intervenivano solo sul livello verbale del cliente, ma che si focalizzavano anche e soprattutto su aspetti corporei, quali il movimento, la respirazione, l’inspirazione, la contrazione muscolare, per ristabilire la motilità emotivo-somatica della persona.

  1. Reich, infatti, con le sue pagine sulla cinesi e la psicologia del gesto e del movimento del corpo, resta uno dei precursori dell’introduzione del corpo sulla scena della psicologia e della pedagogia.

Molti degli approcci di crescita del potenziale umano hanno ereditato da Reich i concetti di biofunzionalità, di energia, di corporeità. Sicuramente l’autore che maggiormente ha contribuito allo sviluppo ancora più organico completo ad uno studio e prassi corporea in terapia è stato Lowen con la sua teoria dell’analisi bioenergetica

A.Lowen ha dato un contributo fondamentale all’espansione e alla continuazione del pensiero reichiano. Egli è stato l’allievo di Reich, che se da un lato si è separato da lui, quando non ha potuto condividere le sue ipotesi sull’energia organica, né certe intemperanze caratteriali dell’ultimo Reich, dall’altro è stato anche lo studioso che ha cercato di articolare in modo più sistematico, il fondamentale approccio somatico di Reich al problema delle nevrosi.

Il lavoro di Lowen si basa su due fondamentali principi reichiani:

  1. il concetto di identità funzionale fra rigidità e funzione psicologica e rigidità e tensione muscolare;
  2. la fondamentale correlazione fra inibizione emotiva e psichica ed inibizione ed insufficienza delle funzioni respiratorie.

Rispetto a Reich, Lowen ha però sistematizzato una tipologia caratteriale più articolata e sofisticata. E lo ha fatto proprio attraverso la lettura del corpo dei suoi pazienti.

Infatti, attraverso lo studio e l’osservazione delle caratteristiche fisiche e psichiche dei suoi pazienti, Lowen ha individuato 5 caratteri principali che sono soprattutto visti e qualificati in termini energetici, partendo dalla struttura meno caricata a quella che presenta una maggiore quantità di carica, vengono determinati da Lowen il carattere schizoide, orale, psicopatico, masochista e rigido. Questi caratteri corrispondono a diverse fasi ed ai rispettivi blocchi dello sviluppo espressivo dell’individuo.

Per Lowen l’influenza ambientale, incluse quelle dei genitori frustrano i tentativi dell’individuo di realizzarsi, le problematiche dunque riscontrate nei tipi caratteriali corrispondono al “blocco” in una particolare fase dello sviluppo ove l’individuo non riceve i “diritti” fondamentali che ad essa corrispondono. La negazione esterna di questi diritti determinerà nell’individuo una stratificazione difensiva. I 5 diritti fondamentali individuati da Lowen sono:

 

diritto di esistere – nella problematica schizoide;

diritto di aver bisogno – nella problematica orale;

diritto di avere sostegno – nella problematica psicopatica;

diritto di esse libero – nella problematica masochista;

diritto a essere sessuale – nella problematica rigida.

 

A livello somatico, dunque, l’inibizione di questi fondamentali bisogni, viene espressa dalla tensione e la contrazione muscolare.

Mentre, a livello psichico, per compensare questa problematica, l’individuo costruisce e vive l’illusione di un “Io ideale”, in cui le stesse problematiche vengono negate.

Ciò che è innovativo in Lowen, è proprio una sistematizzazione, una chiave di lettura dei messaggi, che le singole parti del corpo possono rivelare circa le problematiche dello sviluppo emozionale nell’individuo (Lowen, 1978).

Mentre Reich aveva visto come obiettivo finale della terapia la capacità del carattere genitale di raggiungere una completa capacità di abbandono nell’esperienza sessuale (riflesso dell’orgasmo), Lowen non accetta una così netta distinzione fra carattere genitale e carattere nevrotico.

Lowen, inoltre, non riconosce nel “riflesso dell’orgasmo” l’espressione di un’avvenuta guarigione, ma piuttosto identifica questa in una capacità più generale ed ampia di provare piacere, che verrà espressa da un senso di accresciuta vitalità e gioia di vivere nell’organismo.

Obiettivo fondamentale nella terapia bioenergetica è, come in quella reichiana, il rimettere l’individuo in contatto con il proprio nucleo centrale positivo (core), vi è , però, in Lowen una maggiore focalizzazione sulla necessità di un ripristino, di un miglior contatto ed adattamento dell’individuo con la propria realtà sia interna che esterna.

In relazione a questo aspetto, egli ha sentito il bisogno di sviluppare tecniche terapeutiche indirizzate allo sviluppo delle funzioni dell’io, che rappresenta appunto la struttura della personalità che agisce sulla realtà e la manipola.

Nell’accezione loweniana vi è però l’assunto che solo una completa capacità di soddisfazione genitale può determinare un io realmente maturo ed un reale essere centrati nella propria realtà psicofisica.

L’obiettivo terapeutico è posto dunque sull’integrare l’io con il corpo al fine di un soddisfacente raggiungimento del piacere sessuale.

Nell’analisi bioenergetica vengono integrati l’approccio corporeo e l’analisi verbale dei vissuti del paziente  (sono dunque da Lowen riprese ed ampliate le intuizioni teoriche del primo Reich, ancora legate alla pratica psicoanalitica).

Nella sua elaborazione Lowen ha però sviluppato una griglia di lettura delle contrazioni muscolari e comportamentali dell’individuo, articolata e ricca di intuizioni che proprio attraverso il linguaggio del corpo ci fa comprendere la struttura caratteriale e i sistemi motivazionali dell’individuo permettendo di poter così approfondire la comprensione sia dei bisogni individuali vissuti dall’individuo nella sua esperienza evolutiva, ma anche e soprattutto delle ripercussioni che questi ultimi hanno nel comportamento attuale.

Nella tradizione bioenergetica il corpo ha un’importanza fondamentale. La forma, il movimento dell’espressione corporea rivelano la natura stessa dell’esistenza dell’individuo. Ogni individuo è il suo corpo, citando Keleman:

“Io non sono un corpo qualsiasi, ma un certo corpo” (nel testo “I am not a body, I am some body”) e ancora, il corpo che hai è il corpo che vivi. Sensazioni ed emozioni modellano la nostra vita. Formiamo il nostro io corporeo così come modelliamo la nostra personale realtà. La nostra vita corporea modella la nostra esistenza (Keleman, 1979).

Poiché, infatti, se il nostro corpo oltre ad essere un miscuglio di sentimenti ed emozioni è l’espressione di una funzione evolutiva, “formativa”, allora non può non essere che il principale “attore” della scena terapeutica.

Citando Lowen: “Le illusioni sono le difese dell’io contro la realtà e se possono risparmiano a qualcuno la sofferenza di una realtà spaventosa. Tuttavia, ci rendono prigionieri dell’irrealtà, la salute emotiva è la capacità di accettare la realtà, di non sottrarsi ad essa. La nostra realtà di base è il nostro corpo, il nostro se non è un’immagine prodotta dal nostro cervello, ma un organismo reale, vivo, pulsante. La perdita di una parte del nostro corpo è una perdita del sé “ (A.Lowen, 1994).

La consapevolezza del sé è il primo stadio del processo terapeutico, ma tale consapevolezza non può prescindere dalla percezione del corpo, poiché ogni parte del corpo contribuisce al nostro senso di sé.

Lavorando con il corpo attraverso tecniche che ristabiliscono una motilità psico-fisica possiamo aiutare i nostri clienti a riscoprire un contatto più reale con la loro realtà interiore, una più piena espressione di sé,  ed una maggiore padronanza che dà all’individuo una responsabilità diversa del suo cammino, dei suoi arresti e del suo malessere, e delle possibilità di uscirne. Dunque una maggiore motivazione al processo terapeutico, dove i segnali del corpo possono rappresentare una mappa per disegnare la dinamica dell’evoluzione della persona attraverso il riconoscimento dei suoi bisogni più profondi.

Affinché tutto questo possa accadere è importante però che “l’individuo si arrenda al corpo e ai suoi sentimenti”.

E’ importante sottolineare che quando andiamo a trattare sentimenti ed emozioni imprigionati nel corpo, il percorso terapeutico deve necessariamente rispettare e riconoscere i ritmi interni del cliente poiché come ricorda Lowen si tratta di un viaggio doloroso, giacché risveglia ricordi orribili ed evoca sentimenti penosi (Lowen, 1994).

Il viaggio alla scoperta di sé che costituisce il processo terapeutico non può essere intrapreso da soli né tantomeno accompagnati da una persona che non ha vissuto lo stesso dilemma che il cliente si trova a vivere.

Nel processo terapeutico il terapeuta deve necessariamente aver già compiuto un viaggio analogo alla scoperta di sé attraverso il proprio inferno (A.Lowen, 1994).

Per l’analisi bioenergetica il terapeuta deve aver conclusa la propria analisi ed avere una “buona” consapevolezza di sé e quindi della propria realtà corporea. Che sia in grado, dunque di accogliere il cliente non solo su un piano verbale, ma anche e soprattutto su un piano non verbale e che quindi sia in grado di aprire totalmente se stesso all’esperienza dell’altra persona.

Ma per far ciò è necessario che egli sia disposto ad accettare la propria esperienza e il proprio corpo che di essa è il tramite.

Mi sembra importante concludere con ciò che Lowen scrive in Arrendersi al corpo: “Per il paziente in terapia l’inferno è l’inconscio rimosso, il mondo sotterraneo, nel quale sono sepolti i terrori del passato: disperazione, tormento, mania. Se il paziente scende in questo mondo oscuro, sperimenterà la sofferenza del proprio passato sepolto, rivivrà i conflitti che non aveva potuto gestire e scoprirà una forza che aveva sognato ma non aveva creduto di possedere.

Inizialmente la forza proviene dalla guida, dal sostegno e dall’incoraggiamento del terapeuta, ma diventa la forza del paziente non appena questi scopre che i propri errori erano paure infantili che un adulto può affrontare. L’inferno esiste solo nell’oscurità della notte e della morte. Alla luce del giorno e cioè nella piena coscienza non è in vista nessun mostro reale. Cattive matrigne si rivelano madri arrabbiate che terrorizzavano il bambino. Sentimenti che erano ritenuti vergognosi, pericolosi e inaccettabili si rivelano reazioni naturali a situazioni anormali. Lentamente il paziente riprende possesso del proprio corpo e insieme della propria anima e del proprio sé”:

 

BIBLIOGRAFIA

 

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Lowen, A. Il linguaggio del corpo,  Milano, Feltrinelli, 1978.

Lowen, A. Arrendersi al corpo, Roma, Astrolabio, 1994.

LOWEN,A. La depressione del corpo, Astrolabio,1980.

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Rogers, C. On becoming a person, Houghton Mifflin Company, Boston

Rogers, C. La terapia centrata sul cliente, Martinelli, Firenze, 1970.

Rogers, C. Psicoterapia e relazioni umane, Boringhieri, Torino, 1970.

 

Un approccio con l’adolescente: compiti evolutivi e crisi adolescenziale

Introduzione

L’adolescenza è l’età del cambiamento, come la stessa etimologia della parola implica: “adolescere” significa in latino “crescere”. Tra l’infanzia e l’età adulta, l’adolescenza è un passaggio (1). Non è una malattia, ma una stagione della vita, fatta di turbolenze e di stagnazioni, di progetti che rimangono sogni. L’adolescenza termina ma non passa mai. La sua memoria o il suo strascico si prolungano nelle grandi tappe dell’esistenza.

L’adolescenza come periodo del ciclo di vita ha inizio con la pubertà – intorno ai 10-11 anni – e dovrebbe risolversi verso i 15 – 16 anni con il raggiungimento della capacità di procreare. P. Male distingue tra crisi puberale e crisi giovanile propriamente detta. Nelle ragazze la comparsa dei flussi mestruali data apparentemente con precisione la crisi puberale; nel ragazzo l’esordio è più difficile da definire. La crisi adolescenziale o giovanile propriamente detta fa seguito al periodo di crisi puberale. La sua durata è molto variabile e può arrivare fino ai 25 anni e più (2).

Non sempre, infatti, i cambiamenti somatici e fisiologici coincidono con la ristrutturazione dell’immagine di sé, con le modificazioni cognitive ed emotive e il raggiungimento del pensiero logico formale e autoriflessivo. I tempi della crescita possono variare da individuo ad individuo per una complessità di fattori familiari, socio-culturali e personologici (3).

La crisi adolescenziale può aver luogo anche in età adulta, o non esserci per tutta la vita. In questo caso l’individuo non emergerà da quello stato di dipendenza che caratterizza il periodo dell’infanzia (4).

 

L’adolescente è, per definizione, “chi non è più ma non è ancora” e il nucleo della personalità è ancora disperso, frammentario e fragile. La percezione di sé è segnata dalla velocità della trasformazione e dalla disarmonia del cambiamento fisico. Per la prima volta nella propria storia l’individuo è capace di vedere il cambiamento che lo riguarda e ne sente la portata (5).

E’, quella dell’adolescenza, una fase costruttiva contrassegnata dal bisogno di darsi coerenza, unità, senso di sé. Le accresciute capacità cognitive consentono al soggetto di proiettarsi nel futuro e di vedersi in modo più realistico. Ma può darsi anche che queste nuove abilità facciano luce su una presunta insormontabilità del limite e mantengano lontani dall’esperienza della frustrazione e della sofferenza: questa è la sfida di ogni cambiamento, quando ognuno lascia il noto per l’ignoto e misura le sue aspettative con la prova della realtà. In questo senso, aiutare l’adolescente significa reggere la sospensione.

L’adolescenza va vista nell’accezione di processo di sviluppo, inteso come un procedere per tappe, caratterizzato dal transito dalla fase precedente (infanzia) a quella successiva (età adultà), ma l’adolescenza va vista anche come un periodo che non termina, per passare definitivamente a un’età matura senza problemi e senza crisi, ma che tiene invece aperti sul resto della vita gli apprendimenti della crisi stessa (6).

L’adolescenza sarà allora descrivibile come qualcosa di cui si partecipa profondamente, un’età che non è mai stata abbandonata in modo definitivo e che interroga l’adulto perché parla di desideri e di paure che ci accompagnano per l’esistenza. I problemi che si incontrano per la prima volta nell’adolescenza: scelte, dilemmi, rapporti coi cambiamenti continui, non vengono superati nell’adolescenza ma iniziano di lì a far parte del panorama esistenziale di ognuno. Più che tappa o fase da superare, l’adolescenza si configura anche come una iniziazione ai molteplici colori della vita: piacere, dolore, vicinanza e distacco, contatto e chiusura, incertezza e determinazione, perdita e conquista, insicurezza e certezze.

Il mantenimento dell’identità, la responsabilità, la capacità di lavoro produttivo e di relazioni durevoli, lungi dall’essere mete della maturità, acquisite una volte per tutte con l’esaurirsi dell’adolescenza, rappresentano per la durata della vita il risultato di un continuo movimento di costruzione e decostruzione dell’identità personale.

La crisi va attraversata e non può essere elusa. Va vissuta in tutta la sua drammaticità, con la consapevolezza che si tratta di un dramma necessario.

 

  1. Adolescenza come “crisi per eccesso”

Bara e Mattei (1996) definiscono questo periodo della vita il periodo della “crisi per eccesso”: vale a dire una percezione “esagerata” che l’adolescente ha insieme dei propri bisogni e della realtà. Improvvisamente il bambino sia nei tratti somatici sia fisiologici cambia completamente, si trasforma completamente. “Crisi per eccesso” perché le situazioni che deve affrontare gli appaiono non solo enormi ma catastrofiche. Gli adolescenti hanno dei progetti di vita esasperati ed impossibili che nei casi sfortunati si trasformano in progetto di morte, come nel caso della tossicodipendenza.

L’adolescente in particolare ha un problema di limite, appunto si diceva “crisi per eccesso” perché non ha limiti, il confronto con le frustrazioni è enorme.

Quando non riusciamo più a sopportare quel intervallo tra i desideri e la loro soddisfazione. Ciò può riguardare non solo l’adolescente ma tutti quanti noi. L’annullamento dell’intervallo tra il desiderare e l’ottenere.

Naturalmente la capacità di confrontarsi e sopportare le frustrazioni è una questione chiave, non solo con gli adolescenti o con i tossicodipendenti dove è un fatto evidentissimo, ma vale per tutti.

Porto il caso di un cliente che aveva 35 anni, quindi non era più un ragazzino, aveva tutta una rabbia perché lui aveva chiaro quello che voleva; voleva determinate cose ma non le aveva, e quindi era arrabbiato; era arrabbiato con me, era arrabbiato con la terapia, con la vita, col mondo, con se stesso. Per lui solo il fatto d’avere chiaro solo quello che voleva significava poterlo avere, e se non l’aveva era capace di stare molto male con questo problema. In questo caso, il punto era di lavorare sul principio di realtà e quindi sulla capacità di affrontare le frustrazioni. Quindi il sintomo è che non sopporta le frustrazioni, cioè lei si arrabbia e si deprime pensando che non riesce o non può ottenere quello che è chiaro per lui, questo è il sintomo. Ma dal sintomo bisogna risalire a livello della problematica che è la sua incapacità a convivere con le frustrazioni e salendo ad un livello più alto l’immagine inadeguata che lui ha di sé e della realtà, cioè sul principio di realtà, cioè sulla discrepanza che c’è tra l’ideale e la realtà.

Questa persona si deprime col pensiero “io non ho quello che voglio; come, io ho chiaro tutto e non ho quello che voglio!”. Con questi pensieri e con tale percezione ha sentimenti depressivi (ma potrebbero essere sintomi ansiosi, tossicodipendenza). Questa persona è incapace di convivere con le frustrazioni, quindi incapacità di limite, in altre parole per lui deve essere “tutto e subito”.

Mentre ciò è tipico dell’adolescente, non è funzionale se continua ad essere nell’età adulta. Queste sono le conseguenze del problema, non sono il problema. Andando più a monte nella terapia (cioè andando oltre le conseguenze), il problema vero sta nella percezione della realtà.

Imparare a gestire le frustrazioni significa imparare ad avere un migliore adattamento alla vita. Questo vale per tutti.

L’adolescente rischia. La crisi per eccesso come dicevamo. L’adolescente rischia la vita quando corre con la macchina, col motorino, con la bicicletta, rischia anche quando si affida a dei “falsi capi” che in genere sono molto più grandi di lui, o a dei gruppi o si affida a sette o ad organizzazioni che lo trascinano in qualche modo al fallimento.

 

  1. I compiti evolutivi dell’adolescenza

Che cosa dobbiamo tenere presente nel processo psicologico di un adolescente? Dobbiamo tenere presente che l’adolescente deve effettivamente confrontarsi con molteplici sfide evolutive, tutte difficilissime, che gli permetteranno, se adeguatamente affrontate, di arrivare all’età adulta realizzato e ben funzionante.

Oggi si tende a descrivere l’adolescenza come una fase del ciclo vitale caratterizzata da compiti evolutivi e dal modo dell’adolescente di farvi fronte (coping). I compiti evolutivi, serie di tappe che l’adolescente deve affrontare e superare per poter passare dalla condizione di bambino a quella di adulto, sono stati variamente definiti (7):

  • La capacità di separarsi dalla famiglia e di individuarsi, costruendo una propria immagine di sé;
  • L’inserimento nel gruppo dei coetanei;
  • L’integrazione della sessualità nell’immagine di sé, con la costruzione di un ideale di ruolo sessuale;
  • Lo sviluppo di un’identità sociale;
  • L’avvio di relazioni sentimentali o sessuali.

I compiti evolutivi vanno collocati nel contesto sociale e familiare dell’adolescente.

Ogni adolescente trova il proprio modo e i propri tempi per affrontare questi compiti. Alcuni possono essere in difficoltà in una sola di queste aree di sviluppo, altri possono ritrovarsi bloccati in più d’una di esse. Quando il blocco è generalizzato o persistente ci si trova di fronte non solo ad una perturbazione dello sviluppo, ma ad un vero e proprio disturbo.

In questo saggio mi atterrò allo schema dei compiti evolutivi elaborato da Anna Gagliardi Iorio (8), la quale descrive 4 compiti evolutivi fondamentali:

  1. La differenziazione dai genitori e la conquista dell’autonomia;
  2. La ricerca dei valori sociali;
  3. L’identificazione col proprio sesso;
  4. Le scelte per il proprio futuro.

 

2.1 La differenziazione dai genitori e la conquista dell’autonomia

Il primo e, forse, il più difficile compito evolutivo per l’adolescente è quello della ricerca dell’autonomia, la differenziazione dal genitore che dovrà necessariamente essere disinvestito di quell’onnipotenza e onniscienza di cui il bambino lo aveva investito in quanto necessaria alla sua sicurezza e, quindi, al proprio benessere e alla propria sopravvivenza (9).

Il bambino è “satellizzato” attorno ai genitori, ossia cerca uno status derivato dalla loro accettazione e fonda la stima di sé su quest’accettazione. Questa soluzione tuttavia non è possibile per i bambini che sono rifiutati dai loro genitori o che sono strumentalizzati da essi e non accettati per sé. Lo sviluppo si indirizza quindi in direzioni diverse in funzione della “satellizzazione” o della “non satellizzazione”. Quest’ultima predispone l’individuo a contrarre più tardi disordini specifici della personalità. Per accedere allo status adulto, il bambino satellizzato deve diventare autonomo dai suoi genitori. Questo processo di autonomizzazione, chiamato da Ausubel “desatellizzazione” è il compito principale dell’adolescenza. Richiede un capovolgimento della struttura della personalità e la conquista di uno status autonomo, fondato non più sull’accettazione da parte dei genitori ma sulle realizzazioni del giovane. (10)

La ricerca d’autonomia passa attraverso la ribellione al genitore e si esprime attraverso atteggiamenti di protesta esplicita – a volte aggressiva – o di protesta silenziosa e/o mascherata come: l’isolamento, la chiusura in se stesso, disturbi psicosomatici. La ribellione dell’adolescente è progetto di vita.

Gli stati dell’umore dell’adolescente sono fluttuanti e discontinui, come i comportamenti che spesso appaiono incoerenti e bizzarri. Non c’è da meravigliarsi, ma spesso ci si meraviglia, se atteggiamenti di sprezzante sicurezza sono alternati a comportamenti di grande insicurezza e bisogno di protezione.

L’apatia, l’esaltazione, l’originalità, la svogliatezza, la confusione, sono tra i tratti tipici dell’adolescente e inducono nei genitori o troppo autoritari, che provocano nel figlio risentimento e gli inibiscono la fiducia in se stesso – o troppo permissivi – che creano ambiguità e confusione rispetto alla percezione di se stesso, degli altri, della realtà e impediscono di diventare agente responsabile delle proprie scelte.

Il processo di disinvestimento e differenziazione mettono in gran crisi il genitore. Crisi d’altronde necessaria ed indispensabile per l’evoluzione del bambino e per la sua differenziazione.

Secondo Ausubel, molti fallimenti che si verificano nel processo di emancipazione sono ascrivibili in gran parte ad atteggiamenti educativi errati dei genitori nel tempo precedente l’adolescenza quali l’iperprotezionismo, la sottovalutazione, l’iper- o sottodominazione (11).

Il distacco dai genitori si manifesta anche nel rifiuto di corrispondere alle loro ambizioni e può spingere, come afferma Erikson (12) all’assunzione di una “identità negativa”. L’adolescente diventa proprio ciò che i genitori meno sopportano, un deviante, un tossicodipendente, ecc. La conquista dell’autonomia può richiedere anche una deidealizzazione dei genitori che si esprime nella critica, nella presa di coscienza dei loro difetti e limitazioni, la costruzione di un proprio sistema di valori (13).

Potete capire quanto la facilitazione o meno di questa differenziazione e autonomizzazione da parte dei genitori, favorirà o ritarderà o addirittura impedirà la crescita del ragazzo. Il genitore ha veramente un ruolo molto importante, perché non solo dovrebbe avere queste nozioni ma dovrebbe essere capace di facilitare il ragazzo mentre attraversa questa crisi.

Sarebbe auspicabile che i genitori avessero un ruolo autorevole e assertivo e che nella relazione con il figlio fosse attivo il sistema motivazionale della reciprocità con il quale affrontare i conflitti più o meno gravi che si possono presentare. La modalità di confronto paritetico è più funzionale al processo evolutivo del figlio (14).

Anche i ruoli che la coppia genitoriale gioca all’interno della famiglia sono importanti nel processo d’identificazione dei figli: questi, infatti, possono identificarsi in ruoli scelti per contrasto (il figlio di un padre persecutore potrebbe scegliere di diventare il “salvatore dell’umanità”) o per emulazione sia del genitore dello stesso sesso che del sesso opposto, determinando in positivo o in negativo la sua vita futura.

L’assenza delle figure parentali è altrettanto responsabile d’eventuali disfunzioni nella vita relazionale dell’individuo.

 

2.1.1 La comparsa del “falso capo”

L’adolescenza è il periodo della comparsa del “falso capo“: una figura sostitutiva del genitore, un altro “satellite” (un ragazzo più grande, un mito, un gruppo, un’ideologia) che il giovane adolescente investe di quell’onnipotenza di cui, nell’infanzia, aveva investito il genitore e nel quale cerca quella sicurezza che non ha ancora trovato in se stesso. Ma, anche in questo caso, la delusione sarà inevitabile quando scoprirà che il suo “idolo” non è all’altezza dell’onnipotenza attribuitagli.

Mentre nell’infanzia il genitore fungeva da “base sicura” (quando le cose sono andate per il meglio), nel momento in cui disinveste il genitore, la “base sicura” viene a mancare. Bowlby (15) afferma che la “base sicura” è necessaria all’uomo dalla nascita alla morte. Cambia solamente la tipologia della “base sicura”, cioè il rapporto, che per l’adulto è fatto di reciprocità, mentre per il bambino è fatto d’accudimento.

Quando il ragazzo disinveste, naturalmente viene meno la “base sicura” ma così non potrebbe vivere, perciò va alla ricerca di un’altra “base sicura”, in cui porre la stima e la fiducia che prima riponeva nel genitore; da solo non ce la può fare ancora. Nella foga di questa ricerca di solito, ma non necessariamente, lui investe in quelli che sono definiti “falsi capi”. Per “falsi” non s’intende che per forza devono essere tutti cattivi o vigliacchi ma perché il giovane da, di fatto, al nuovo referente quell’onnipotenza che nessun essere umano può avere. A questo punto le frustrazioni sono inevitabili, anche se tutto va bene, cioè trova la persona adatta ma è un essere umano.

In queste circostanze, avvengono cose drammatiche nelle famiglie. Non solo il ragazzo prende le distanze dai genitori ma anche l’aver scelto ed eletto a loro sostituti persone che loro come genitori non ritengono efficaci, fanno andare in crisi anche i genitori, perché hanno perso il loro potere. Quindi il ragazzo che si trova a fronteggiare questo periodo della delusione, dovrà anche difendersi dalle minacce, dalle accuse, dai rimproveri, dai rinfacci degli adulti.

Questa è il momento della scoperta della fallibilità dell’essere umano. Ma immaginate se un ragazzo non avesse la possibilità, attraverso tanta sofferenza, di scoprire la fallibilità dell’essere umano. Quello che succederebbe all’adolescente sarebbe di credere nella sua infallibilità, quindi avere una percezione di sé inadeguata per eccesso o per difetto. Penserebbe o d’essere onnipotente o di non valere niente se fallisce un compito, non è accettato da qualcuno; avrebbe un’aspettativa disfunzionale nei suoi riguardi. Questa scoperta della fallibilità dell’essere umano comincia a dargli la percezione del principio di realtà (16). Quindi si svolge un processo da una percezione inadeguata a percezioni più evolute e funzionali.

In genere gli adolescenti, sia maschi sia femmine, scelgono capi più grandi di loro. Si vede se questi capi hanno assunto un ruolo di “base sicura” da cosa dicono gli adolescenti, nel senso che si sentono sicuri, si affidano, ecc.

Il tossicodipendente è colui che ha investito troppo in un’organizzazione fallimentare. In questo caso, l’investimento è indirizzato a persone o situazioni a priori del tutto fallimentari, cioè pericolose, disfunzionali; quindi è un fallimento annunciato.

Anche l’adolescente in generale va soggetto a grandi delusioni e frustrazioni perché investe troppo in questo “falso capo”. La differenza che passa tra un adolescente in generale ed un adolescente disfunzionale o un ragazzo tossicodipendente è la scelta del “falso capo”, ma tutti cercano un capo, che poi è chiamato “falso” a priori perché risulta falso. Nel caso del tossicodipendente il “falso capo” è il gruppo, non tanto la droga. Anche un’organizzazione come “Comunione e liberazione” può fungere da “falso capo”, certamente è sempre meglio di un gruppo di tossicodipendenti. Ciò dipende non dalla positività o negatività dell’organizzazione ma perché l’adolescente investe troppo.

Qualunque cosa può fungere da “falso capo”, come può essere una persona (ad es. anche il fidanzato vissuto come l’amore unico al mondo) e ciò per l’eccesso d’onnipotenza attribuita. Il bambino pensa che il genitore sia onnisciente, onnipotente, onnipresente, tutto. Il bambino non capisce che il genitore è un essere umano, pensa che è dio. Infatti nella clinica si riscontra che i bambini che hanno avuto grosse persecuzioni da parte dei genitori (non solo fisiche ma anche psicologiche) non lo riconoscono, lo negano, anche da adulti (17). Dicono “sì, sì però mio padre mi amava”, perché il bambino è ancora in una condizione di percezione della realtà inadeguata. Per il bambino è indispensabile dire, anche se il genitore lo chiude a chiave nella stanza, che suo papà lo vuol bene; comunque il genitore lo deve giustificare, lo deve salvare. Molti bambini si colpevolizzano, pensano che sono loro i cattivi, cioè sviluppano una percezione di sé di inadeguatezza e di non amabilità. Il paradigma è questo: il genitore mi ama, se mi picchia significa che io sono cattivo, quindi io non valgo nulla. Quindi una non amabilità sua e una capacità di amare il genitore… Ma questo è funzionale alla sopravvivenza del bambino, perché se il bambino non pensasse così gli verrebbe a mancare la “base sicura” e lui morirebbe (18). Il problema nasce quando questa percezione funzionale all’età infantile continua fino all’età adulta.

Quando l’adolescente fa quest’investimento su altri e poi un po’ alla volta si rende conto che ha fallito perché non era possibile, torna da sé. Dalla crisi e dall’illusione passa alla delusione; il conflitto che avrà è non solo inevitabile ma è salutare. Cioè tutte queste delusioni e queste crisi sono funzionali al disinvestimento, ancora una volta, dell’onnipotenza dell’altro e alla ricerca della propria identità, alla fiducia nel proprio potere personale; perché quando mamma e papà non sono più buoni, e neppure l’ambiente e il mondo, allora resta solo lui stesso e torna da sé. Ecco perché è molto importante che i genitori stiano vicini e facilitino questo processo di ricerca d’identità. Qui comincia il lavoro sulla propria identità, identità sociale, fisiologica ecc.

Nella letteratura psicologica si è parlato di “identità infranta” rifacendomi anche a quella bellissima immagine che Lacan (19) dà dello specchio infranto, quando lui afferma che se il genitore non riesce a fare da specchio al bambino rimandandogli la sua unità completa, totale, non frantumata questa persona avrà difficoltà a trovare la sua unità, la sua identità sarà infranta.

Allora il senso di fallibilità delle figure di riferimento da al ragazzo molta sofferenza e dolore, però da anche la percezione realistica di se e della realtà.

Tuttavia, per dolorosa che sia, questa delusione è funzionale alla differenziazione e all’evoluzione dell’adolescente, che inizierà così la ricerca della propria identità e autonomia.

Va sottolineato che, in questa fase, la conflittualità è la strada maestra per un’autonomia responsabile e consapevole e che evitare la frustrazione (come molti genitori fanno) può provocare seri disagi e difficoltà nel passaggio alla maturità e nella maturità stessa (ammesso che si raggiunga). Ne consegue che la modalità di comportamento più funzionale di un genitore deve essere quella di un sano attaccamento e di un flessibile accudimento (cioè offerto solo quando richiesto) e di una rispettosa reciprocità (20).

 

2.2 La ricerca dei valori sociali

Il secondo compito evolutivo, anche questo molto difficile, che l’adolescente deve affrontare è quello di acquisire modelli morali accettabili e adatti alla società in cui vive, ma anche accettabili e adatti al suo mondo.

Anche nello svolgimento di questo compito è particolarmente attivo il sistema motivazionale interpersonale dell’agonismo che, se funzionalmente e adeguatamente confrontato dal sistema motivazionale innato della reciprocità dell’adulto, faciliterà il compito, non solo, ma sarà la premessa fondamentale per le future relazioni (21).

La lotta degli adolescenti è integrare i modelli morali che avevano ricevuto in famiglia con il loro mondo: si pensi all’uso dello spinello come condivisione fra gli adolescenti, il farsi crescere i capelli lunghi, il body pirsing, il modo di vestire eccentrico, gli atteggiamenti stravaccati, ecc.

Il quindicenne con i capelli lunghi alle spalle, i jeans laceri, l’orecchino all’orecchio, che viene apostrofato con frasi ironiche, svalutanti la sua persona, o giudicanti il suo valore morale, può incorrere in una confusione di valori e di identità e – in casi estremi – entrare in discontinuità della coscienza.

 

2.3 L’identificazione col proprio sesso

Il terzo compito evolutivo è quello del processo d’identificazione con il ruolo del sesso cui appartiene, ruolo non solo biologico ma socio-culturale. Vale a dire la società impone al maschio o alla femmina: ” un vero uomo deve…”, “una vera donna deve…”.

L’identificazione col proprio sesso dipende molto dai ruoli sociali che fungono da modello e dalle relazioni con i propri genitori. Molto dipende dalla struttura di personalità dei genitori perché nelle famiglie in cui la mamma è vittima del padre, il figlio difficilmente s’identifica con lui. Perché il modello è, “gli uomini fanno sempre soffrire le donne”, così la femmina non s’identificherà mai nella mamma se subisce, perché il modello sarà, “le donne subiscono i comportamenti dei maschi”. Quindi va anche ascoltata la storia della famiglia ed in particolare quella dei genitori.

Il ruolo della coppia genitoriale all’interno di questa crisi è importante. E’ più importante il “come” i genitori ci sono o “come” non ci sono (ad es. nella vita dei genitori separati). La cosa molto importante e significativa non è la presenza, ma la qualità della presenza (22).

I ruoli della coppia genitoriale che giocheranno all’interno della relazione col figlio avranno una grossa importanza perché avranno le seguenti funzioni: il genitore eterologo, vale a dire quello dell’altro sesso, determinerà o influenzerà la qualità di tutte le relazioni future del figlio; mentre il genitore omologo, vale a dire quello dello stesso sesso, favorirà la crescita del figlio per contrasto. Cioè lui confrontandosi potrà avere un modello che se gli piace può seguire, se non gli piace si può opporre. E’ necessario che il giovane non sia ostacolato, non sia punito, non sia giudicato affinché possa fare la sua scelta.

Se i genitori sono assenti nella vita dei figli è un dramma perché loro non avendo questi modelli hanno maggiori difficoltà a trovare la loro identità, perché questo confronto non esiste, però se ci sono e funzionano male anche lì è problematico, per questo dicevo, è importante la qualità della presenza. Devono fare più fatica o devono trovare dei modelli sostitutivi che non sempre funzionano. Tutto ciò determinerà in positivo o in negativo le sue relazioni future.

Nella scelta dell’omosessualità spesso è presente un rifiuto del genitore omologo, cioè nella scelta ci può essere un rifiuto totale della parte maschile. Ma la scelta della parte femminile ha una sua identificazione nella madre e un rifiuto totale del maschile (per atteggiamenti violenti, di sopruso ecc.). Quindi fra le due parti di noi ci identifichiamo, facilitiamo lo sviluppo di una parte del femminino o del mascolino a seconda delle circostanze.

La paura del sesso opposto si sviluppa perché non c’è abbastanza fiducia nella parte propria di ruolo che c’è stata destinata dalla natura; allora non è perché si ha paura dell’altro sesso, così come per la donna omosessuale si dice che ha paura degli uomini. E’ soltanto che ci si è costruito una propria identità basandosi su una figura maschile che è stata carente, che ha contribuito ad un’insicurezza di me, ad una percezione di me d’inadeguatezza, quindi basata su una bassa autostima.

Se io ho visto, per esempio, mia madre sempre vittima e mio padre come uno sfruttatore, un soverchiatore ecc. io posso avere paura di diventare come mio padre e quindi scelgo il ruolo di mia madre, quindi m’identifico di più in mia madre.

Quindi il ruolo del genitore è fondamentale. Il dramma poi è se gli stessi genitori sono stati vittime di un contesto e di un’altra coppia genitoriale con problemi simili.

 

2.4 Le scelte per il proprio futuro

Il quarto compito evolutivo riguarda le scelte per il proprio futuro (scelte professionali, lavorative, ecc.). “Cosa farò da grande?”. Questo è sempre stato uno dei compiti più difficili nella scelta dell’identità sociale, del ruolo sociale che il ragazzo andrà a scegliere e oggi più che mai tale scelta è difficile (23):

1°) per la precarietà e carenza di esperimenti concreti nel campo lavorativo generale;

2) per i modelli disfunzionali che vengono offerti ai ragazzi, per cui per i maschi questa ricerca si pone nei termini di modelli di potenza (per es. il mafioso, la Parigi Dakar, ecc.), e per le femmine la cantante, la ballerina, ecc. che poi per la difficoltà contestuale della società in cui vivono questo ruolo, l’assunzione di questa scelta di ruolo sociale diventa difficilissima.

Anche nella realizzazione di questo compito gioca molto il ruolo del genitore, che può essere pieno di pregiudizi o facilitante per il processo del ragazzo.

E’ questo un compito non meno difficile degli altri, ma che risulterà meno gravoso se l’adolescente può contare su una “base sicura” che gli assicuri fiducia, rispetto e comprensione che fungeranno da effetto Pigmalione, favorendo la fiducia in se stesso, l’autocomprensione e l’autoregolazione.

E’ importante che, anche in questo caso, il genitore sia presente con tutto il rispetto e l’accettazione di cui è capace per aiutarlo a trovare strumenti adeguati alla sua realizzazione e ad integrare i vari frammenti d’esperienza per la costruzione di un sé coeso e unitario.

Nello svolgimento di questi compiti potete capire il ruolo importante e nello stesso tempo difficile che hanno gli adulti, perché i ragazzi hanno comportamenti variabili nell’umore, fluttuanti nelle scelte, dicono una cosa e ne fanno un’altra. Portando tutto all’eccesso appaiono agli adulti inaffidabili. Di fatto, i loro comportamenti autorizzano gli adulti a ritenerli inaffidabili o poco concreti, se non addirittura disfunzionali.

Una difficoltà con cui si deve confrontare l’adulto è il passaggio spesso da stati d’euforia a stati depressivi o d’abbandono. Spesso il genitore di fronte a questi stati in parte si preoccupa ma in parte non approva questi comportamenti fino ad arrabbiarsi.

Gli adolescenti sono in una continua altalena fra progressione e regressione. Quest’altalena si nota nel passare dalla troppa autonomia che in certi momenti vogliono ad una forte dipendenza. I genitori di fronte a quest’altalena ritengono i figli lunatici, capricciosi, incostanti.

In termini teorici possiamo affermare che gli adulti guardano partendo dal loro “sistema di riferimento interno” e non da quello del ragazzo (24). In altre parole, siamo noi che vediamo i ragazzi inadeguati e non capiamo che sono loro che si sentono inadeguati. La realtà è che non è che i ragazzi sono inadeguati come noi li vediamo ma si sentono inadeguati perciò danno quest’immagine. I ragazzi si sentono inadeguati perché il loro concetto di sé è carente, l’autostima è bassa per le difficoltà dei compiti evolutivi che devono affrontare, per i vacillamenti e i fallimenti cui vanno incontro.

Quindi la facilitazione del genitore, ma anche eventualmente dello psicologo, è quella di agevolare a trovare strumenti adeguati alla loro realizzazione, affinché poi possano acquisire una buona autostima.

Il superamento felice di questi passaggi permetterà il raggiungimento di un equilibrio adulto ben funzionante ed una congruenza con la propria tendenza attualizzante (25).

 

  1. Alcuni elementi peculiari nell’approccio con gli adolescenti

Nei colloqui con gli adolescenti un elemento importante e difficile nello stesso tempo è essere in grado di mantenere la “distanza critica” tra sé e l’altro (26). Distanza che va misurata attentamente.

Ci vuole una grande disponibilità e, nello stesso tempo, una notevole capacità di porre dei limiti. Praticamente, ad esempio, essere disponibili significa dire all’adolescente che mi può telefonare anche di notte se è necessario, perché bisogna diventare per l’adolescente una “base sicura”. Oppure alla fine della seduta di 50 minuti vi trattenete dicendo che vi state fermando di più in seduta perché è il tempo di farlo dato che sentite che in quel momento c’è qualcosa d’importante che volete lasciare finire di esprimere (27).

Questa disponibilità però va anche misurata mettendo delle regole.

Non bisogna temere o combattere quello che sente l’adolescente, ma quello che fa. A questo riguardo bisogna fare dei contratti chiari con l’adolescente. Se l’adolescente dice “io non voglio vivere, non ho voglia di far niente, mi sento triste, mi sento sfiduciato, mi sento inadeguato”, non bisogna aver paura di questo, come fanno i genitori, ma bisogna invece “temere” quello che fa, che è un campanello d’allarme. E’ estremamente importante il contratto e la congruenza dello psicologo (28).

Porto il caso di un adolescente che sentendosi molto inadeguato, triste, annoiato afferma che era stato bene il giorno prima, che aveva trovato una soluzione cioè si era ubriacato. Allora alla seconda volta che lui mi raccontava cose di questo genere espressi la mia paura per questo e affermai che era liberissimo di ubriacarsi però se voleva fare terapia con me, doveva smettere d’avere quello che lui chiamava il suo “alleato”.

Se nei racconti gli adolescenti dicono cose di questo tipo si può fare un contratto, perché sono comportamenti autodistruttivi ed è questo che è pericoloso. Allora si possono esprimere le proprie paure ed angosce per questi comportamenti autodistruttivi ridefinendo il contratto, dicendo “tu hai una settimana di tempo per pensarci, puoi continuare a venire oppure smettere, questa è la regola”.

All’inizio può essere utile fare un contratto chiaro perché gli spiego che lui può andare incontro a comportamenti sotterranei d’autodistruzione, che può agire involontariamente comportamenti autodistruttivi. Questo lo dico all’inizio nel contratto poi mi occupo della relazione. Se poi viene fuori una cosa del genere io ridefinisco il contratto.

L’altra cosa, cui ho accennato prima, è quella di dare molta disponibilità; quindi non avendo un setting molto rigido, la mia disponibilità è in particolare quella di dire che mi può chiamare quando e come vuole.

Un altro elemento cui bisogna fare attenzione è la congruenza ma anche la trasparenza del facilitatore (29). La trasparenza è preferibile soppesarla con gli adolescenti. Nel senso che potrebbero emergere delle antipatia in certi momenti nel rapporto con lui, ma a differenza che nel lavoro con gli adulti dove ci si può lavorare in prima istanza, con gli adolescenti non è consigliabile.

Un altro punto è quello di trovare i punti forti dell’adolescente, che possiamo conoscere dal racconto che fa, e allearsi con loro (30). Trovare i punti forti significa, per es., che una persona che va malissimo a scuola può però essere bravissima nel calcio. Allora bisogna interessarsi molto a tali cose dove riesce bene ed ha interesse. In questo modo mi “alleo” con i suoi punti di forza, facendomi coinvolgere in queste cose.

La conferma comportamentale e la fiducia portano all’autocomprensione e all’autoregolazione per poi costruire attraverso l’accettazione di sé incondizionata l’autostima.

All’inizio della relazione terapeutica lo psicologo si trova in una situazione simile a quella del genitore quando il bambino è piccolo: quando il bambino è bisognoso attiva il suo sistema motivazionale dell’essere accudito e il genitore dell’essere accudente. Un cliente va in terapia perché sente che ha bisogno di essere accudito. Ma quando il bambino comincia ad avere 6-7 anni, secondo le sue capacità e la sua autonomia, deve essere investito di quella fiducia per poter cominciare a diventare veramente autonomo. Così è per il cliente, se non si basa il rapporto sulla fiducia.

Il cliente penserà, se lo psicologo continua ad accudirlo, che è quest’ultimo ad avere il potere, che è lui a dover accudire, che lo proteggerà, che lo salverà e ciò è un guaio. Allora è importante che il terapeuta sia consapevole di come funzionano i suoi sistemi motivazionali innati. Un facilitatore efficace deve arrivare ad attivare il sistema motivazionale innato della reciprocità.

Un’altra cosa importantissima da tenere presente è la capacità di allearsi col genitore senza perdere l’alleanza col figlio (31). La maniera migliore per allearsi col genitore è mettere dei limiti e delle regole quali, per esempio:

  • Non ascoltare mai i genitori senza il permesso del figlio;
  • Poter essere disponibile ai colloqui con i genitori, chiedendo al figlio di fissare lui quando e come crede opportuno l’appuntamento col genitore;
  • Se il genitore telefona non comunicare informazioni né spiegazioni e riferirlo al figlio;
  • Chiedere al figlio di invitare, quando si sente, il genitore a partecipare al colloquio.
  • I genitori devono avere delle informazioni e delle spiegazioni che non siano valutazioni del ragazzo e possono essere coinvolti non facendo loro perdere il loro ruolo di genitori, condividendo le loro preoccupazioni, quindi dando loro delle spiegazioni, rassicurandoli per i comportamenti del figlio. Mantenere il ruolo genitoriale significa dare ai genitori dei compiti che non sfruttano il ragazzo e che gli fanno sentire d’avere ancora una continuità col ragazzo.

In genere è il genitore, preoccupatissimo, che chiede l’intervento e lo psicologo deve avere l’abilità di “agganciare” il ragazzo. E’ importante che dopo aver ascoltato i genitori si inviti il ragazzo al colloquio e poi stabilire chi va trattato.

E’ importante anche se si lavora con l’adolescente che il genitore non sia escluso, perché il ragazzo tende ad escludere il genitore, anche se ne soffre pure. Un modo per coinvolgere il genitore è quello di chiedere al ragazzo “che cosa ti piacerebbe che tua madre o tuo padre facesse, che cosa ti aspetti, che cosa vorresti…”.

Circa il concludere la seduta, la richiesta dell’adolescente di continuare a parlare quando il tempo è scaduto va analizzata volta per volta se è una provocazione, un gioco di potere, un ricatto oppure se è veramente che il ragazzo ha bisogno. Ci vuole molta disponibilità e flessibilità ma, a volte, anche molta fermezza.

Aiutare un adolescente con una famiglia disfunzionale significa dare un compito molto grande al ragazzo, colludendo con la sua parte onnipotente. Nel senso che quando la crisi adolescenziale avviene all’interno di una famiglia disfunzionale è bene occuparsi della famiglia disfunzionale e non solo dell’adolescente.

Nel lavoro di gruppo con adolescenti non cambia assolutamente niente rispetto alle sedute individuali, solo che con gli adolescenti è più facile che si venga meno al contratto. Quindi la ridefinizione delle regole del contratto con l’adolescente è molto importante. In particolare con l’adolescente si deve ridefinire il contratto specialmente riguardo al setting: ad esempio, se c’è un acting aut o il ragazzo può alzarsi e andarsene ecc. Bisogna comunicare che non possono agire i sentimenti ma solo verbalizzarli. A volte è necessario con gli adolescenti che si ripetano le condizioni del setting.

Queste sono le condizioni al gruppo d’incontro con gli adolescenti. Poi è esattamente la stessa cosa dei gruppi d’incontro con gli adulti.

 

  1. Il genitore ideale

Tipicamente gli atteggiamenti del genitore sono o troppo autoritari o troppo permissivi. E’ difficile che un genitore riesca ad essere autorevole senza essere autoritario. Il genitore ideale sarebbe il genitore autorevole (32).

Gli atteggiamenti troppo autoritari inducono risentimento nel ragazzo e inibiscono la fiducia in se stessi.

Gli atteggiamenti troppo permissivi creano, invece, nel ragazzo ambiguità e confusione, perché non si capisce qual è il loro ruolo, ed in particolare confusione rispetto alla percezione di sé, perché o si sentono onnipotenti, tutto gli è dovuto, o non sanno dove cominciano e dove finiscono i loro limiti, le loro possibilità; quindi la confusione rispetto alla percezione di se stessi ma anche rispetto agli altri ed alla realtà.

Si capisce che a queste condizioni è difficilissimo diventare agente responsabile delle proprie scelte, perché una scelta responsabile va fatta conoscendo i propri limiti e le proprie responsabilità (ad es. io posso scegliere liberamente di comprarmi una macchina di 20 milioni se io so che 20 milioni li posso pagare).

Un caso di difficoltà con i limiti e le possibilità è quello di un padre che ha comunicato al figlio il messaggio “tu puoi tutto”. Questo può facilitare per alcuni versi ma fa pagare dei prezzi altissimi nella vita, perché così da’ al ragazzo, sì il coraggio di fare però anche fare senza porre dei limiti alle sue possibilità, cioè sentendosi onnipotenti (per es. in una giornata può fare Catania-Roma, Roma-Catania, ecc. e prendere impegni come se non fosse niente, cioè non mette limiti; ci deve pensare, se no può arrivare a non sentire la stanchezza).

E’ importanza dare il limite, se no il genitore può diventare confusivo per il figlio. Quindi l’importante è che il genitore abbia un ruolo autorevole che significa assertivo, e che quindi sappia mettere dei limiti.

Nella relazione è importante che il genitore attivi il sistema motivazionale della reciprocità. Quando il genitore è troppo autoritario attiva il sistema motivazionale agonistico o della competizione, quando il genitore è permissivo attiva troppo il sistema motivazionale dell’accudimento (33).

Un genitore funzionante è consapevole di attivare il suo sistema della reciprocità che gli servirà poi anche per la risoluzione dei conflitti. Nella risoluzione dei conflitti se il genitore è autoritario li risolverà in maniera autoritaristica (sistema 1° “vincitore-perdente”); se è permissivo non verranno risolti affatto, verranno negati (sistema 2° “perdente-vincitore”). Se invece il genitore è autorevole saranno affrontati in maniera adeguata, cioè col sistema 3° “vinvi-vinci”, detto anche “senza perdenti”. Rogers e Gordon condividono la logica del “vinciamo insieme”, cioè che la risoluzione dei conflitti è affrontata efficacemente se si risolve senza perdenti (34).

La condizione educativa ideale, secondo il paradigma rogersiano, è quella in cui rispetto, attenzione all’altro, autenticità e congruenza sono la garanzia di accettazione e sicurezza necessarie per tentare l’attualizzazione. Il bambino e poi il giovane può sintonizzarsi sul suo interno processo formativo e mettere tutto il suo personale impegno e tutta la sua creatività e capacità di iniziativa a servizio della sua formazione.

Compito dei genitori è allora soprattutto quello di creare un clima di rispetto e di accettazione che escluda la minacciosità dei giudizi e rinunci all’uso coercitivo del potere, senza per questo sfociare nel disinteresse e nel permissivismo che renderebbero ancora più insicuro e confuso il bambino o il giovane.

I genitori possono concretamente apprendere a coniugare libertà e disciplina facendo riferimento al paradigma di una profonda accettazione del diritto di ogni individuo a seguire la propria tendenza formativa verso l’autorealizzazione (35).

 

Dott. Maurizio D’Agostino

Pubblicazione presso la Casa editrice CUECM CATANIA

La costituzione della corazza di Maurizio D’Agostino

La corazza o armatura può essere suddivisa in contrazione muscolare naturale o temporanea e in contrazione muscolare permanente o cronica. La prima si verifica in qualsiasi animale vivente quando è minacciato, ma viene abbandonata quando la minaccia cessa di essere presente. La seconda si origina nello stesso modo, ma a causa di minacce continuate è mantenuta e diventa cronica, reagendo infine ai pericoli interni permanenti più che a quelli ambientali. Questo lavoro riguarda la corazza muscolare permanente o cronica.

La costituzione della corazza

La corazza o armatura può essere suddivisa in contrazione muscolare naturale o temporanea e in contrazione muscolare permanente o cronica. La prima si verifica in qualsiasi animale vivente quando è minacciato, ma viene abbandonata quando la minaccia cessa di essere presente. La seconda si origina nello stesso modo, ma a causa di minacce continuate è mantenuta e diventa cronica, reagendo infine ai pericoli interni permanenti più che a quelli ambientali. Questo lavoro riguarda la corazza muscolare permanente o cronica.
Reich postulò che l’uomo si sia corazzato al momento in cui divenne introspettivo; quando cioè percepì di percepire se stesso, e di percepire completamente. Questa consapevolezza dell’auto-percezione come di un oggetto di attenzione produsse una scissione. L’uomo si spaventò e iniziò a corazzarsi contro la paura e lo stupore interni nello sforzo di controllare le sue proprie sensazioni.
Reich dedusse l’origine della corazza dalla sua conoscenza della schizofrenia e dall’osservazione di ciò che chiamò l’ “universale terrore di vivere”. Stare di fronte all’ignoto è sempre una cosa che spaventa, resistere ed esaminarlo è terrorizzante.
La corazza è auto-perpetuante, poichè i genitori corazzati allevano figli corazzati. La causa corrente della corazza è la necessità da parte dei figli di accettare gli atteggiamenti innaturali e le condizioni educative messe in atto dai genitori e da altre persone.
Sebbene la persona sia in grado di liberarsi dalla corazza, le masse non possono farlo senza dei drastici mutamenti nella nostra cultura e nel nostro modo di pensare.
La corazza si sviluppa come l’aspetto somatico della rimozione e coinvolge sempre gruppi di muscoli che costituiscono una unità funzionale.
La corazza si sviluppa in modo regolare, dipende dalla necessità di adattamento, ed ha una disposizione segmentale. Contiene la storia e il significato della sua origine. Se la causa è in un evento traumatico, contiene la memoria degli eventi.
Lo specifico proposito della corazza muscolare cronica è di agire come freno e di aiutare l’individuo ad adattarsi riducendo perciò l’angoscia.
Reich scoprì che la corazza si compone si sette segmenti, che frammentano il corpo e ne distruggono l’unitarietà del funzionamento. Ognuno di questi segmenti ha caratteristiche specifiche pur esercitando un’influenza reciproca. Ogni segmento include l’intero settore rappresentato a quel livello del corpo, cosicchè vi sono numerosi anelli perpendicolari alla colonna vertebrale. In aggiunta agli anelli della corazza, si troverà di solito che una parte del corpo, sinistra o destra, è corazzata più pesantemente dell’altra.
I sette segmenti della corazza sono:
  • Oculare
  • Orale
  • Cervicale
  • Toracico
  • Diaframmatico
  • Addominale
  • Pelvico
Ogni segmento risponde come un tutto ed è più o meno indipendente dagli altri segmenti. Ciascun segmento può non riuscire a dare una risposta completa finchè non sono liberi gli altri segmenti. Alla liberazione di ogni segmento, segmenti già trattati tenderanno a ricorazzarsi ed è perciò necessaria una maggiore attenzione in quanto l’organismo non è abituato al movimento e tenta di ritornare alla sua precedente immobilità. Deve venire abituato in modo graduale alla libera mobilità.
È importante determinare il principale tratto o atteggiamento caratteriale dell’individuo (il filo rosso) poichè esso reagirà a tutti i progressi mediante questo tratto, che diverrà in breve la principale difesa caratteriale.
Il principio terapeutico consiste nell’eliminare la contrazione cronica che interferisce con il libero scorrere dell’energia in ogni parte dell’organismo e restaurare in tal modo il funzionamento naturale.
Affrontiamo, ora, la descrizione dei singoli segmenti della corazza.

 

Il segmento oculare

Il primo e il più alto dei segmenti include il cuoio capelluto, la fronte, gli occhi, le guance, le orecchie e la base del cranio. È un’area intensamente carica, poichè comprende gli organi della vista e dell’udito.
Tendenze disfunzionali
· Incapacità di vedere la realtà globale, rigidità mentale e psichica, tendenza all’unilateralità e al contatto parziale.
· Fuga ed esitamento dei problemi.
· Iperproduzione immaginativa e/o ripetitività fantastica, fantasticherie. Presenza reattive e difensiva del meccanismo di razionalizzazione.
· Difficoltà di cambiamento nonostante l’impegno volontario.
· Confronto con gli altri, competitività repressa, rimossa, compensata, mascheramento di sé.
· Vanità, esibizionismo, per lo più repressi, rimossi o compensati per paura, per insicurezza. Senso di colpa, senso di inferiorità, di incomprensione.
· Tendenza a guardarsi intorno in modo circospetto, paure e timidezza sotto lo sguardo altrui; difficoltà a fissare gli altri negli occhi, sguardo sfuggente, senso di sfida reattivo.
· Invidia, autosqualifica, squalifica e/o ipervalutazione degli altri.
· Difficoltà a creare punti di riferimento interni ed esterni, difficoltà a concentrarsi.
· Repressione dei sentimenti e/o scarsa capacità di gestione delle emozioni e delle reazioni neurovegetative, comportamentali, accresciuti dai vissuti, dal vedere o essere guardati.
· Sfiducia verso gli altri, difficoltà nei contatti sociali e nelle relazioni interpersonali.
· Blocco oculare parziale: affezioni visive, difficoltà di accomodamento, di focalizzazione, incapacità di spaziare.
· Travisamento, distorsione, proiezione, autoriferimento.
· Rapporto disturbato con il proprio corpo, difficoltà di strutturazione del senso di identità.
Il segmento oculare corazzato si evidenzia da uno sguardo piatto, vuoto, fisso, dall’immobilità delle palpebre, della fronte, del cuoio capelluto, da una fissità ai lati del naso, dalla difficoltà al pianto, dall’impossibilità di spalancare gli occhi o di seguire un oggetto in movimento, dalla protrusione dei bulbi oculari. Il tipico sguardo vuoto dello schizofrenico è dovuto ad una grave corazza di questo segmento.
Un certo grado di corazza oculare è presente praticamente in tutti e quando si aggrava oltre un certo grado possono subentrare fenomeni psicotici.
E’ il segmento che contiene il cervello, deputato alla coordinazione di tutte le funzioni vitali. L’influenza di tutte le psicoterapie si esercita a questo livello, compresa l’analisi del carattere. Dal punto di vista della prassi orgonoterapeutica, si invita il paziente a mobilizzare le parti bloccate, gli si chiede di muovere gli occhi, spesso seguendo una penna luminosa, senza bloccare la respirazione. In poche parole si fa in modo che le emozioni (di solito un’enorme paura e una lucida rabbia) vengano prima percepite e poi espresse. Agendo in questo modo la persona acquisisce, tra l’altro, la consapevolezza di essere in grado di fronteggiare le proprie paure, magari per la prima volta nella vita. Questa esperienza porta, gradualmente, ad un’aumentata fiducia in sè stessi e ad un’espansione non solo del segmento in questione ma di tutto il biosistema. Mantenere l’organismo in uno stato espanso è lo strumento principale per fronteggiare lo stato di contrazione cronico indotto dalla corazza.
Solitamente alla fine della seduta gli occhi sono più brillanti ed “aperti”. Il pensiero più lucido ed acuto e, spesso, viene riferito un miglioramento della capacità visiva.
Segni e Sintomi
Le cefalee frontali sono un effetto del sollevamento cronico delle ciglia inteso ad esprimere angoscia o sorpresa. Le cefalee occipitali sono dovute ad uno spasmo dei muscoli occipitali. I sintomi di capogiro sono causati dall’insufficiente corazzatura, che permette il movimento di più energia di quanta ne può essere tollerata. La miopia, il presbitismo, la sordità, eccetera, sono assai legati al corazzamento del segmento oculare, e lo stesso vale per l’incapacità di sentire gli odori. Allo stesso modo crediamo che disturbi specifici come l’orzaiolo, la congiuntivite, la sinusite eccetera, possano essere connessi al corazzamento del segmento oculare. Si verificheranno spesso quando i sentimenti vengono trattenuti, in particolare quando è trattenuto il pianto.

 

Il segmento orale

Il segmento orale comprende la bocca, il mento, la gola, la muscolatura occipitale (nuca superiore).
Le labbra possono essere eccessivamente carnose o presentarsi perennemente contratte, non è raro incontrare una ipertrofia dei masseteri. Contiene emozioni molto intense ed antiche quali il mordere rabbioso, il succhiare avidamente, il gridare. Il riflesso del vomito riesce a smobilizzare questo segmento, anche se, spesso, è necessario che altri segmenti siano liberi affinchè le emozioni qui contenute possano essere espresse. Ad esempio l’impulso al pianto irrefrenabile richiede la partecipazione dei primi tre, a volte quattro segmenti.

 

Tendenze disfunzionali
· Distruttività manifesta o latente, competitività, autoinganno; presenza o meno di compensazioni aggressive positive e autoaffermazione.
· Tendenze egoistiche, scarso contatto con i bisogni degli altri, difficoltà ad esprimere affetto, bisogno di dipendenza, scarsa autonomia.
· Scarsa assertività e intraprendenza e/o iperattivismo superficiale e immaturo.
· Ossessività, cupidigia, avarizia, oppure prodigalità irrazionale, sperpero incontrollato, oppure volitività moderata.
· Inibizione del pianto, della rabbia, delle manifestazioni di affetto, di amore, di tenerezza.
· Insoddisfazione, pessimismo, depressione, fuga dagli impegni o evitamento dei problemi.
· Vittimismo o colpevolizzaizone degli altri, autogiustificazione.
· Costruzione di falsi bisogni e desideri, richieste compensatorie.
· Rifiuto degli altri, rivalsa, ipocrisia, sorriso stereotipato, artificioso, contratto. Difficoltà al contatto fisico, ansia nella relazione. Atteggiamenti e relazioni immature o non durevoli.
· Atteggiamenti di sfida, di difesa intellettuale e rigidità razionale come forme reattive.
· Nervosismo, rabbia, scontrosità, oppure accettazione passiva, buonismo doveristico per rimozione dei conflitti, per rinuncia all’autoaffermazione. Difficoltà a dire si o dire no nelle circostanze opportune.
· Desiderio rimosso di potere e contemporaneamente senso di impotenza; stati di frustrazione. Presenza di modestia e di immodestia.
· Creazione di forti ideali dell’io e conseguente senso di sconfitta per incapacità di realizzazione dei modelli genitoriali e delle richieste implicite o indirette.
· Ricorso alla volontà o alla passività, atteggiamenti velleitari.
· Contestazione, ribellione, protesta, oppure accettazione passiva.
· Verbalizzazione, enfasi, ipercritica o incapacità di esprimersi verbalmente, di comunicare le proprie opinioni, taciturnità.
· Tendenza alla tensione dei muscoli del viso, della nuca, del collo.

 

Segni e Sintomi
Si può osservare un sogghigno stupido, un sorriso sarcastico, o un ghigno sprezzante, oppure la bocca può apparire triste o anche dura e crudele. Il mento può essere cedevole, piatto, oppure proteso in avanti. Una mascella serrata provoca una voce monotona e contenuta. Una gola serrata dà luogo ad una voce piagnucolosa, acuta e debole e ad un respiro rauco. La bocca può essere secca oppure con salivazione eccessiva. In genere il segmento orale trattiene con collera ciò che riguarda il mordere, il gridare, il piangere, il succhiare, e il fare smorfie.
Il suono emerge meccanicamente, ma manca di espressione e vibrazione finchè la mascella è rigida. La rabbia trattenuta è molto spesso connessa alla mascella. Spesso le persone hanno bisogno di avere conati di vomito e di tossire per liberare i sentimenti che hanno “inghiottito”.
Le emicranie sono state associate alla tensione presente nella mascella. Ogni tipo di problemi di denti e gengive è collegato a emozioni represse. Tosse e raffreddare possono far parte di un processo repressivo o liberatorio in questa zona.

 

Il segmento cervicale

Il segmento cervicale comprende la muscolatura bassa del collo superficiale e profonda, il muscolo platisma, la lingua e i muscoli sternocleidomastoidei. Trattiene rabbia e pianto e conferisce un aspetto altero, di distacco dal resto del proprio corpo (emozioni). E’ frequente osservare come le emozioni vengano letteralmente inghiottite. Anche qui il riflesso del vomito allenta la corazza e consente alle emozioni di emergere.
Tendenze disfunzionali
· Strutturazione di difese rigide, egocentrismo, individualismo, narcisismo, esibizionismo, competitività, sfida manifesta o rimossa, oppure prevalenza di comportamenti passivi e rinunciatari.
· Controllo razionale, inibizione dell’io, delle emozioni, tendenza a non perdere la testa.
· Strutturazione di un super-io doveristico, rigido, moralistico. Sentimenti di ambivalenza, atteggiamenti di autocontrollo.
· Orgoglio, vanità, desiderio di potere per lo più rimossi e/o compensati da atteggiamenti di modestia.
· Difficoltà di obbiettività, inclinazione alla critica, al rifiuto, al distacco dagli altri, alla superbia o all’umiltà, al cedimento o all’irrigidimento intellettuale e psicologico.
· Testardaggine o incapacità di mantenere una posizione con determinazione.
· Inclinazione a dare importanza al giudizio esteriore, ad essere sempre a posto di fronte agli altri, a non mostrare aspetti o atteggiamenti ritenuti disdicevoli o inferiori socialmente. Inclinazione a mostrare il meglio di sé e paura di non riuscire.
· Arroganza, presunzione, megalomania, oppure umiltà o squalifica degli altri, disistima di sé, ambizioni manifeste o rimosse.
· Bisogno di affetto, di amore e contemporanea difficoltà a esprimere sentimenti. Scissione relativa tra testa-razionalità e corpo-istinto-pulsione.
· Difficoltà di dare, di andare verso gli altri, di concedersi, di stabilire un rapporto caldo e spontaneo.
· Strumentalizzaione degli altri o incapacità a imporsi. Incapacità di riconoscere i propri difetti ed errori, o tendenza a colpevolizzarsi.
· Rigidità dell’io, dei muscoli del collo e delle spalle, frequenza di affezioni cervicali.
· Ostentazione o mascheramento. Presa di posizione rigide o paura di esporsi.
· Conformazione a ideali esteriori, rigidi, stereotipati, a modelli e convinzioni sociali e a ideologie autoritaristiche o libertarie.
· Distacco emotivo, non coinvolgimento relazionale, senso di superiorità o di inferiorità.

 

Segni e Sintomi
Le principali indicazioni della corazza in questo segmento sono un continuo inghiottire, mutamenti di voce, respiro rauco, tosse, la sensazione di un groppo alla gola, e sensazioni di soffocamento.

 

Il segmento toracico

Il segmento toracico comprende tutti i muscoli intercostali, i grandi muscoli pettorali, i muscoli delle spalle (deltoidi) e il gruppo di muscoli situato sulle e tra le scapole.
Il segmento toracico è uno dei più importanti, anzi di solito è il primo ad essere trattato. Appare quasi sempre in posizione inspiratoria, tenuto alto, accompagnata da incapacità di espirazione piena e naturale. I muscoli intercostali sono contratti (solletico), quelli della schiena e fra le scapole dolenti, contratti ed ipersensibili. Il torace del militare sull’attenti è un calzante esempio di corazza di questo segmento. Le emozioni trattenute sono: pianto straziante, desiderio ardente, rabbia selvaggia. Importanti patologie internistiche quali ipertensione e asma sono dovute alla corazza di questo segmento. Le braccia ne sono funzionalmente un’estensione.

 

Tendenze disfunzionali
· Scissione tra razionalità ed emozioni, difficoltà di partecipazione e scarso contatto con la vita degli altri, oppure con una forte risonanza interiore.
· Difficoltà di autocritica oppure responsabilizzazione eccessiva.
· Difficoltà nell’instaurazione di relazioni autentiche, volubilità dispersiva o bisogno di contatto inespressi.
· Invidia, gelosia, dipendenza affettiva, incapacità di espandersi, di dare, di ricevere, oppure sentimentalismo.
· Rabbia, ambivalenza, insoddisfazione, depressione, ansia, oppure remissione, repressione o contrazione delle emozioni.
· Ostentazione, presunzione, arroganza o nascondimento dell’io.
· Individualismo, non cooperazione, rapporto meccanicistico o non partecipazione coinvolgente.
Segni e Sintomi
Un torace corazzato esprime fondamentalmente restrizione e auto-controllo e darà la sensazione di non essere scosso o toccato dagli eventi. Dove non c’è corazza, i movimenti espressivi del torace e delle braccia danno un senso di libertà e allegria. La corazza tipica è una cronica espansione inspiratoria, come se dopo aver fatto un respiro molto profondo non lo si lasciasse venir fuori, e può essere accompagnato da elevata pressione sanguigna, palpitazione e angoscia. Protratto per lungo tempo, può sviluppare una disposizione per la tubercolosi e la polmonite, oppure verificarsi una dilatazione del cuore. Per il paziente con torace corazzato, l’ira è fredda, il pianto poco virile, e il desiderio fiacco. Le donne corazzate in questo segmento hanno i seni privi di sensibilità e sono disgustate dall’allattamento. L’angoscia connessa può essere fatta uscire premendo sul torace e facendo strillare il paziente.

 

Il segmento diaframmatico

Il segmento diaframmatico comprende il diaframma e gli organi che si trovano sotto di lui: lo stomaco, il fegato, il plesso solare con il pancreas, il fegato e i due fasci muscolari ben visibili lungo la spina dorsale a livello della decima-dodicesima vertebra toracica. (include il diaframma e gli organi sotto di esso. Include un anello contrattile sopra l’epigastrio, e la parte terminale inferiore dello sterno, comprende le costole inferiori della decima, undicesima, dodicesima vertebra toracica. Contiene il diaframma, lo stomaco, il plesso solare, il pancreas, il fegato, la cistifellea, il duodeno, i reni, e due muscoli che circondano le vertebre toraciche inferiori. L’armatura è espressa dalla lordosi della colonna vertebrale. L’espirazione avviene con sforzo e l’addome si gonfia.
È evidenziato da una contrazione a livello dell’epigastrio, della parte terminale dello sterno e delle ultime costole e delle inserzioni diaframmatiche posteriori a livello della decima, undicesima e dodicesima vertebra toracica. Produce lordosi della colonna vertebrale. Il movimento diaframmatico è bloccato ed il funzionamento degli organi è compromesso. È un segmento molto importante nel processo di scorrazzamento e difficile da scorazzare. Divide in due l’organismo, la parte “alta” da quella “bassa”.

 

Tendenze disfunzionali
· Contrazione e non contatto con la parte istintuale-viscerale e con le emozioni ad essa connesse.
· Riduzione della mobilità diaframmatica come segno di ansia, di chiusura e di non comunicazione tra l’alto e il basso, tra la testa e il corpo.
· Comportamento masochistico, paura del dolore, paura di tutto ciò che è nuovo e sconosciuto.
· Paura della punizione, difficoltà a lasciarsi andare, tendenza alla sopportazione o al contrario all’intolleranza, alla implosione o alla esplosione distruttiva.
· Difficoltà nell’abbandonarsi al piacere, alla gioia, alla sessualità.
· Difficoltà di autoaccettazione, nel manifestare amore, e ad entrare in contatto con il mondo.
· Ansia generale per tendenza cronica alla contrazione diaframmatica.
· Instabilità emozionale.
· Senso del dovere o, al contrario, atteggiamenti di deresponsabilizzazione.

 

Segni e Sintomi
I sintomi sono disturbi nervosi dello stomaco, nausea più o meno costante con impossibilità di vomitare, ulcera peptica, disturbi della cistifellea, affezioni del fegato, e diabete. I più importanti organi addominali sono presso il diaframma, e il blocco determina numerose malattie psicosomatiche.
Questo segmento trattiene una collera violenta e crudele.

 

Il segmento addominale

Il segmento addominale comprende il ventre e sulla schiena, le ultime parti dei muscoli che corrono lungo la colonna vertebrale. (muscoli larghi dell’addome, il retto, il traverso dell’addome, e i muscoli del dorso (latissimus dorsi e sacro spinalis).
La corazza del segmento addominale è dovuta alla contrazione spastica dei muscoli retti anteriori e dei traversi e, posteriormente, dall’inserzione bassa del gran dorsale e dei muscoli vicini. I muscoli sono spesso incordati e molto sensibili. Lo scorrazzamento del segmento non presenta particolari difficoltà.

 

Tendenze disfunzionali
· Corazzamento cronico della zona addominale come espressione della tensione costante.
· Creazione di una barriera che impedisce l’energetizzazione del settimo segmento e quindi la possibilità di abbandonarsi.
· Blocco parziale della genitalità e della sessualità con difficoltà di contatto spontaneo. Contatto meccanico, sessualità opportunista o fallico-narcisistica.
· Bacino contratto o aggressivo fallico.
· Presenza di sentimenti di ostilità, di rifiuto, di distruttività.
· Difficoltà di abbandonarsi alla tenerezza, alla gioia, al piacere. Stati di insoddisfazioni.
· Difficoltà di trasformazione e di maturazione interiore.
· Tendenza al rapporto arido, con scarsa capacità di comunicazione e di relazione autentica.

 

Segni e Sintomi
I fianchi corazzati producono prurigine, e trattengono rancore.

 

Il segmento pelvico

Il segmento pelvico comprende praticamente tutti i muscoli della pelvi, i glutei, l’ano, i genitali e gli adduttori superficiali e profondi delle cosce.
Il bacino appare rigido, senza vita. Ogni sorta di patologia a carico degli organi di questo distretto insorge in seguito al suo corazzamento cronico.
Emozionalmente sono contenuti ansia edipica e rabbia sadica sia di tipo anale che di tipo fallico. Un genuino piacere sessuale non può essere provato finchè la corazza pelvica permane. Per l’alto contenuto emozionale ed energetico qui trattenuti il segmento pelvico viene, solitamente, trattato per ultimo. Un organismo cronicamente corazzato non sarebbe in grado di metabolizzare adeguatamente l’improvviso irrompere di questa enorme quantità di energia se non gli si concede la possibilità di adattarsi gradualmente ad una accresciuta vitalità bio-emozionale. Questo è ottenibile solamente con lo scorrazzamento graduale dei vari segmenti secondo un ordine ben preciso che va dal primo, quello oculare, al settimo. Una tale procedura non è arbitraria, ma segue la direzione del flusso energetico. Se la pelvi fosse trattata prematuramente, l’energia andrebbe a scontrarsi immediatamente con il segmento oculare, di cui abbiano già sottolineato l’importanza e che, se ancora corazzato, potrebbe dare luogo a fenomeni psicotici e che, comunque, non sarebbe in grado di integrare tutta questa energia così carica emozionalmente nel funzionamento unitario dell’organismo.

 

Tendenze disfunzionali
· Utilizzazione egoistica e strumentale degli altri.
· Pseudo-genitalità e difficoltà ad abbandonarsi.
· Rabbia trattenuta e atteggiamenti distruttivi.
· Passività, senso di impotenza, di inferiorità o inclinazione al produttivismo come ipercarica energetica e come reazione all’incapacità di abbandono.
· Scarsa creatività e volitività oppure bisogno di emergere e di realizzarsi materialmente.
· Bisogno di tenerezza e di contatto fisico rimossi. Difficoltà di relazione, di comunicazione autentica.
· Insicurezza sessuale, difficoltà a lasciarsi andare al piacere, alla tenerezza, alle emozioni per la presenza di ostilità repressa.
· Tensione e contrazione globale del bacino.
· Difficoltà di autoregolazione, di autogestione delle proprie potenzialità ed energie per ingerenza del super-io.

 

Segni e Sintomi
I sintomi prodotti dal corazzamento pelvico sono costipazione, lombaggine, escrescenza nel retto, cisti ovariche, polipi dell’utero, tumori benigni e maligni, affezioni vaginali, irritabilità della vescica, anestesia della vagina e del pene. Nell’uomo, la bassa energia nella pelvi porta all’impotenza erettiva e all’eiaculazione precoce, e nella donna all’anestesia o vaginismo. I piedi e le gambe possono essere freddi e gonfi, con intorpidimento, sensazioni di formicolio, e varicosi. Questo segmento contiene angoscia e collera.
Ogni segmento, inoltre, è composto da tre strati che, dal più superficiale dal più profondo, sono:
– la facciata
– lo strato secondario o intermedio
– il nucleo
La facciata o strato superficiale è l’aspetto di sè che la persona offre al mondo, l’adattamento sociale finale prodotto dal processo di scorrazzamento. E’ il regno della superficialità, dell’assenza di un contatto vero e profondo con sè e con gli altri. Quello che viene definito il “contatto sostitutivo”.
Lo strato intermedio contiene tutte quelle emozioni distruttive e perverse che sono il risultato dell’inibizione della gratificazione dei bisogni naturali. E’ l’immensa palude dello strato secondario, ciò che, metaforicamente viene chiamato il Male, il Diavolo, ciò che deve essere celato al mondo e a noi stessi.
Quando un impulso naturale trova uno sbarramento al proprio soddisfacimento cerca di “forzare il blocco” e diventa distruttivo. Qualunque espressione naturale, in presenza di corazza, si trasforma in un moto di aggressività patologica.
Quando i paziente entra in pieno contatto con questa sua parte di solito cade in uno stato di sconforto e di disperazione, sente che, per lui, questa è la sua vera natura, l’intima essenza del suo essere, anche se questo non è vero.
Oltre lo strato secondario è presente un terzo strato, dimenticato e ripudiato da molto tempo:
Il nucleo naturale della persona, la struttura naturale, profondamente razionale, dalla cui coartazione prendono vita gli altri due, quello secondario, come espressione immediata al blocco dell’espressione vitale primaria e la facciata quale risultato della ulteriore repressione delle pulsioni patologiche e distorte dello strato intermedio.

BIBLIOGRAFIA
Baker E., L’uomo nella trappola, Ed Astrolabio
Mattei E., Craia V., Il corpo e la vergogna, Edizioni Scientifiche Magi
Totton N., Edmondson E., Terapia reichiana, Ed. Red

Evoluzione del fenomeno di Mobbing di Monica Ghelli

Il fenomeno del Mobbing sta purtroppo divenendo sempre più spesso di difficile identificazione, anche da parte di chi ne è vittima. Per questa ragione le istituzioni, le associazioni e le forze sociali si stanno impegnando attivamente per ampliare la conoscenza del problema e per presentarne alcune soluzioni. Il termine inglese utilizzato per identificare il fenomeno è a questo proposito emblematico: il verbo to mob significa infatti ledere, aggredire, assalire. In questo lavoro, gli Autori hanno analizzato ogni aspetto del fenomeno ponendo maggior attenzione agli aspetti di tutela del benessere e della salute dei lavoratori. Nello specifico vengono chiariti i criteri di identificazione, la legislazione, l’onere probatorio, la sintomatologia, gli strumenti di indagine e la prevenzione.

Introduzione

Il mobbing è comunemente definito come una forma di molestia o violenza psicologica esercitata quasi sempre con intenzionalità lesiva (da parte del mobber), ripetuta in modo iterativo (almeno settimanalmente), con modalità polimorfe; l’azione persecutoria è intrapresa per un periodo determinato (almeno sei mesi) ma con ampia variabilità dipendente dalle modalità di attuazione e dai tratti della personalità dei soggetti, con la finalità o la conseguenza dell’estromissione del soggetto (mobbizzato) da quel posto di lavoro.

A tal proposito, sembra più opportuno parlare di “soglia individuale di resistenza alla violenza psicologica” capace di indurre una condizione di mobbing, che è possibile esprimere come funzione di: intensità della violenza – tempo di esposizione – tratti della personalità (Gilioli et al.). Il termine mobbing, che da qualche tempo è divenuto di uso frequente, deriva dal verbo inglese «to mob», che significa assalire tumultuando in massa, malmenare, aggredire. Fu usato, per la prima volta, dal Konrad Lorenz, biologo inglese dell’Ottocento per indicare il comportamento di alcuni uccelli teso all’esclusione di un membro del gruppo dalla comunità.

E’ stato poi utilizzato dallo studioso tedesco Heinz Leymann, il primo e più autorevole studioso del fenomeno, per indicare tutti quei comportamenti di vero e proprio terrorismo psicologico posti in essere nell’ambiente di lavoro dai superiori (mobbing verticale) o colleghi (mobbing orizzontale) con chiari intenti discriminatori finalizzati ad emarginare progressivamente un lavoratore per indurlo alle dimissioni o facilitarne il licenziamento. In Italia il gruppo di lavoro ISPESL ha definito il mobbing come “forma intenzionale sistematica e duratura di violenza psicologica in ambiente di lavoro, volta alla estromissione del soggetto/i dal processo lavorativo o dal mondo di lavoro”.

La commissione del Ministero della Funzione Pubblica nel 2003 ha poi integrato le definizioni: “Atti e comportamenti di violenza morale o psichica, in occasione di lavoro, ripetuti nel tempo in modo sistematico o abituale che portano a un degrado delle condizioni di lavoro, idoneo a compromettere la salute o la professionalità o la dignità del lavoratore”. Nonostante manchi ancora una definizione unanime, è possibile evidenziare dei criteri che permettono di poter “classificare” il fenomeno del mobbing quali: Conflitto sul luogo di lavoro, durata della singola azione, frequenza, intensità degli attacchi, progressione temporale , intento persecutorio.  

Tipologie di mobbing

A seconda del “mobber” – soggetto che mette in atto la forma di persecuzione – il mobbing si distingue in: Mobbing di tipo verticale: la violenza psicologica viene posta in essere nei confronti della vittima da uno o più superiori ed è possibile distinguerne due specifiche:

  • il bossing o mobbing strategico: azione compiuta dall’azienda o dalla direzione del personale nei confronti di dipendenti divenuti scomodi. Si tratta dunque di una strategia aziendale di riduzione, ringiovanimento o razionalizzazione degli organici (detto anche mobbing pianificato) o operazione di isolamento di elementi ritenuti scomodi per le politiche aziendali.
  • Il bullying: comportamenti vessatori messi in atto da un singolo capo.
  • Mobbing dal basso verso l’alto o botton-up (sia individuale che collettivo): è meno frequente e si verifica quando viene messa in discussione l’autorità di un superiore.
  • Mobbing di tipo orizzontale o emozionale: alterazione delle relazioni interpersonali avviene quando l’azione discriminatoria è messa in atto dai colleghi nei confronti del soggetto colpito. A seconda del numero di lavoratori cui è diretta l’azione i mobbing si può avere: Mobbing individuale: quando oggetto è il singolo lavoratore. Mobbing collettivo: quando colpiti da atti discriminatori sono gruppi di lavoratori (si pensi alle ristrutturazioni aziendali, prepensionamenti, cassa integrazione etc.)  

Azioni mobbizzanti

I due studiosi Leymann ed Hege interpretarono il fenomeno Mobbing secondo la Teoria del conflitto psicosociale. Per Leymann nel processo Mobbing dovevano essere studiati sei fattori:

  1. organizzazione del lavoro
  2. direzione del lavoro
  3. mansioni sul lavoro
  4. dinamica sociale del gruppo
  5. teorie di personalità
  6. eccessiva psicologizzazione

Inoltre andavano studiati i fattori attivati dallo stesso processo, come: Comunicazione, Reputazione, Prestazioni; e le quattro fasi con cui il Mobbing si manifestava, permettendo lo sviluppo di evidenze comportamentali, cliniche e sociali.

1° fase: inizio del conflitto e dell’attacco; la vittima prova disagio.

2° fase: aumento del conflitto, le ostilità diventano più frequenti e più gravi, subentra il “terrore psicologico”.

3° fase: la gestione del personale commette errori ed irregolarità con negazione dei diritti della vittima; i superiori addossano la colpa alla vittima che si sente sempre più male.

4° fase: dequalificazione delle mansioni, trasferimenti, per cui il mobbizzato viene escluso dal mondo del lavoro e dopo un certo periodo di tempo o dà le dimissioni o viene licenziato.

Leymann elaborò un Questionario composto da 45 items in 5 sezioni:

  1. attacchi alla possibilità di comunicare
  2. attacchi alle relazioni sociale
  3. attacchi alla immagine sociale
  4. attacchi alla qualità della condizione professionale e privata
  5. attacchi alla salute; in cui si evidenziavano le principali caratteristiche del Mobbing:
    •  stillicidio lento di persecuzioni, attacchi, umiliazioni
    • continuità delle aggressioni che perdurano nel tempo
    • intensificazione progressiva degli attacchi
    • forza devastante rappresentata dalla lunga durata
    • sito in isolamento, emarginazione, disagio ed infine malattia.

Leymann affermò che per parlare di Mobbing “il processo del terrore” dovevano verificarsi almeno una volta la settimana per un minimo di sei mesi; inoltre sostenne l’importanza della personalità ed il temperamento sia del mobber, colui che attua il Mobbing, sia quella della vittima, ossia del mobbizzato, per una migliore comprensione delle dinamiche di scelta della vittima e delle diverse strategie provocatorie.

Leymann poté inoltre differenziare il Mobbing dai normali conflitti lavorativi responsabili anch’essi di stress ma che non potevano essere riconducibili al Mobbing; definì così alcune condizioni necessarie per l’identificazione:

  • improvvise sparizioni o rotture, senza sostituzione, di strumenti di lavoro come telefoni, computer, lampadine, ecc.;
  • litigi o dissidi con i colleghi sempre più frequenti;
  • vicinanza ad un accanito fumatore, pur sapendo che il soggetto detesta il fumo;
  • conversazioni che si interrompono quando il soggetto si trova nei pressi;
  • esclusione dalle informazioni utili per il suo lavoro;
  • pettegolezzi infondati sul suo conto;
  • incarichi inferiori alla sua qualifica o estranei alle sue competenze;
  • sorveglianza stretta (orari di entrata ed uscita, telefonate, tempo trascorso per il caffè);
  • rimproveri eccessivi;
  • richieste verbali e scritte ignorate;
  • provocazioni;
  • esclusione da attività sociali;
  • deriso per aspetto fisico, patologie, vita privata o comportamenti;
  • retribuzione inferiore rispetto ai pari grado;  e cosi’ via.

In Italia lo psicologo H. Ege, fondatore nel 1996 dell’Associazione “Prima” per la ricerca contro il Mobbing, inizialmente adottò il modello di Leymann, che abbiamo appena visto, ma ben presto si rese conto, a seguito di una ricerca, di non poterlo utilizzare, in quanto la realtà italiana era culturalmente molto differente dal Nord Europa. Elaborò quindi un modello a sei fasi e modificò il Questionario di Leymann per le vittime di Mobbing (Leymann Inventory of Psichological Terrorism). Le 6 fasi del nuovo modello divennero quindi: Condizione zero o condizione predisponente lo sviluppo del Mobbing: il conflitto è fisiologico, accettato; il conflitto è generalizzato, vede tutti contro tutti, non esiste una vittima designata; non c’è volontà di distruggere, ma solo una spinta ad emergere sugli altri.

Fase 1 del conflitto mirato: la vittima è individuata il conflitto generalizzato si dirige verso di essa; l’obiettivo non è solo emergere sugli altri, ma distruggere l’avversario individuato; il conflitto si allarga dal bersaglio lavoro al bersaglio “sfera privata”;

Fase 2 inizio del fenomeno Mobbing: la vittima avverte disagio e fastidio; le relazioni con i colleghi diventano difficili e si inaspriscono; la vittima comincia a porsi domande sul cambiamento;

Fase 3 dei primi sintomi psicosomatici: QUALE Psicologia, 2006, 28 23 il soggetto travagliato, incredulo, isolato comincia ad avere disturbi del sonno, d’ansia, gastroenterici, muscoloscheletrici, cardiocircolatori e sessuali, difficoltà a recarsi al lavoro; l’idea del lavoro diventa prevalente ed ossessiva; primi sintomi di depressione: astenia, svogliatezza, demotivazione, sensi di colpa per non essere capace di migliorare la situazione.

Fase 4 degli errori ed abusi dell’amministrazione del personale: assenze per malattia protratte, ritardi cronici che portano spesso a sanzioni da parte dei superiori; inizia il percorso del Mobbing.

Fase 5 fase dell’aggravamento della salute psicofisica della vittima: il soggetto entra in depressione più grave; la diagnosi di “stato ansioso depressivo” non piace alle aziende, con aggravio della posizione del mobbizzato; sviluppo di idee persecutorie; sviluppo di un possibile “Disturbo Postraumatico da Stress” o di un “Disturbo dell’adattamento” con compromissione del funzionamento sociale o lavorativo; malattie fisiche: quali asma bronchiale, ulcera duodenale, vertigini, cefalee, disturbi del comportamento alimentare e della sfera sessuale; riduzione delle difese immunitarie con maggior facilita’ ad ammalarsi.

Fase 6 esclusione dal mondo del lavoro: dimissioni volontarie; licenziamento; ricorso al prepensionamento; esiti traumatici quali suicidio, omicidio, vendetta sul mobber. In sintesi, Ege, evidenziò tre fattori nell’insorgenza del Mobbing: ambiente entro il quale avvengono i soprusi, comportamento del Mobber, comportamento del mobbizzato.  

Legislazione

Attualmente in Italia ancora non esiste una Legge nazionale sull’argomento nonostante nel corso delle legislature degli ultimi anni siano stati presentati diversi progetti di legge. Con il DM del 27 aprile 2004 il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha però inserito i danni da mobbing nell’elenco delle “malattie per le quali è obbligatoria la denuncia” nel Gruppo 7 – Malattie psichiche e psicosomatiche da disfunzioni dell’organizzazione del lavoro: Disturbo dell’adattamento (DA) e Disturbo Post-traumatico da Stress (DPTS). L’elenco è così costituito: lista I, contenente le malattie la cui origine lavorativa è di elevata probabilità; la lista II, le malattie la cui origine lavorativa è di limitata probabilità; la lista III , le malattie la cui origine lavorativa è possibile. Nel corso di quest’anno si è costituito il Network Nazionale per la Prevenzione del Disagio Psicosociale in Ambito Lavorativo di cui l’ISPESL (Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza del Lavoro) è promotore, con l’obiettivo di tracciare una comune linea di intervento sul disagio lavorativo. In Svezia e in altri paesi europei, quali la Germania e la Norvegia, il fenomeno è stato invece ad oggi ampiamente studiato e regolamentato. Nel 1993 L’Ente Nazionale per la Salute e la Sicurezza svedese ha emanato le disposizioni relative alle misure da adottare contro forme di persecuzioni psicologica degli ambienti di lavoro; un anno dopo il governo promulgò una legge sul mobbing con la quale, oltre che adottare misure di prevenzione, riconobbe il danno psichico come malattia professionale. In Germania è stato stipulato il «Betriebsverfassungsgesetz» (BetrVG) ovvero un accordo sul mobbing nell’area del pubblico impiego del 23 dicembre 1988. La Norvegia ha preferito invece optare per una tutela a livello legislativo del mobbing attraverso l’introduzione di una specifica previsione nella legge sulla tutela dell’ambiente di lavoro del 1977 ad opera dell’art. 12 della legge 24 giugno 1994, n. 41, che così recita: “..I lavoratori non devono essere esposti a molestie o ad altri comportamenti sconvenienti…”.

 

Risarcimento e Onere Probatorio

Di recente attualità assume sempre maggiore importanza la questione del risarcimento al lavoratore oggetto di mobbing: quali danni possano essere risarciti e quali prove debbano essere prodotte. L’INAIL attualmente indennizza il danno alla salute, generato dal “mobbing”, quale danno biologico. La malattia è così valutata: “lesione all’integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico-legale”. Tale danno è considerato “malattia professionale non tabellata”. I possibili danni risarcibili sono: Danno morale – evento negativo penalmente rilevante 1. Danno patrimoniale – danno a beni, quali retribuzione, carriera, professionalità, ecc. 2. Danno esistenziale – danno al valore vita (viene calpestata la personalità e la dignità del lavoratore) 3. Danno biologico – lesione all’integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico legale.  I giudici chiedono una puntuale specificazione dei danni patiti soprattutto della loro reale esistenza, onere a carico del lavoratore che dovrà dimostrare la gravità dei fatti che hanno causato la dequalificazione professionale. Ovvero “quell’insieme di atti e comportamenti ostili, vessatori e di persecuzione psicologica, posti in essere da colleghi e/o dal datore di lavoro e dai superiori gerarchici, nei confronti di un dipendente”. Recentemente sono state emesse le seguenti sentenze in materia:

1) Corte di Cassazione, n° 19965 del 15/09/2006. “In tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamene ne deriva –non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale- non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo”.

2) Corte di Cassazione, n° 20616 del 22/09/2006.

“Il danno da demansionamento non si pone come conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo del datore di lavoro, ma deve essere oggetto di allegazione e prova secondo i principi generali di cui all’art. 2697 del Codice Civile.

3) Tribunale di Milano, 30/09/2006. In termini di ripartizione dell’onere probatorio, incombe sempre sul lavoratore l’onere di dimostrare la sussistenza delle singole voci di danno, tanto di quello biologico, quanto di quello all’immagine professionale ed esistenziale.   Le conseguenze Le conseguenze che possono insorgere sono molteplici e riguardano l’intero sistema organizzativo. Per la vittima può subire infatti: il deterioramento delle relazioni amicali, problemi di salute, perdita di autostima, separazione e divorzio, difficoltà di reinserimento professionale o contenzioso legale Per l’azienda invece: il calo di produttività all’interno dell’azienda, costi per malattia, clima intollerabile, costi per nuovo personale (annunci, selezione, procedure assunzione, formazione).

 

Quadro diagnostico Sono i fattori situali correlati all’azione mobbizzante che risultano essere determinanti per lo sviluppo dell’alterazione del benessere psico-fisico del soggetto e non la personalità premorbosa che può eventualmente essere modificata come esito finale dell’azione mobbizzante” (Giglioli 2000, Hirigoyen, 2000). Nelle vittime si riscontrano spesso gravi ripercussioni sulla salute psicofisica visibili in un ben definito quadro sindromico. Vanno quindi effettuate delle accurate valutazioni cliniche riguardanti: 1. Anamnesi Familiare 2. Anamnesi Occupazionale 3. Sintomatologia4. Anamnesi Sociale (Amicizie, Tempo Libero) 5. Risorse 6. Futuro 7. Farmaci 8. Esame Neurologico 9. Esame Psichico 10. Colloquio Clinico  Una volta effettuata la valutazione si procede con la valutazione psicodiagnostica per la rilevazione di alterazioni dello stato di benessere indotte dalle situazioni di Mobbing:

Alterazioni dell’equilibrio socioemotivo: Depressione – ansia – stato di preallarme – ossessioni – attacchi di panico – isolamento – anestesia reattiva – sensazione di depersonalizzazione. Alterazioni dell’equilibrio psicofisiologico: Cefalea – vertigini – disturbi gastrointestinali – senso di oppressione toracica – tachicardia – manifestazioni dermatologiche – disturbi del sonno – disturbi della sessualità.
Disturbi del comportamento: Disturbi alimentari (anoressia – bulimia); abuso di alcool – fumo – farmaci; reazioni autoaggressive o eteroaggressive; totale passività. Tenendo conto della sistematizzazione nosografica del DSM-IV, le conseguenze sulla salute che possono derivare da una condizione di mobbing dovrebbero essere comprese nell’insieme definito “Reazioni ad Eventi”. Tali reazioni includono il Disturbo dell’Adattamento (DA), il Disturbo Acuto da Stress (DAS) e il Disturbo Post-Traumatico da Stress (DPTS). Nonostante la gravità del quadro psicologico che se ne ricava, bisogna tener presente che in ambito lavorativo esiste un vasto insieme di disturbi psichiatrici classificabili come “reazioni ad eventi”, identificabili, per nesso eziologico, come malattie professionali o malattie correlate al lavoro (work-related), che nulla hanno a che vedere con la condizione di mobbing. Risulta infatti che in Italia solo il 4% dei disturbi stress correlati denunciati siano riconducibili al fenomeno (Gilioli et al., 2000). Circa un terzo della casistica totale è, infine, costituito da casi di patologia psichiatrica comune o di patologia fittizia. In ogni caso, comunque, la diagnosi avviene in seno al lavoro di una équipe multidisciplinare di specialisti che operano in parallelo e coordinati tra loro (Giglioli et al., 2000):

  • Medico del Lavoro anamnesi e analisi dell’organizzazione del lavoro
  • Psicologo del Lavoro, analisi e valutazione dei fattori di rischio trasversali
  • Medico Psichiatra, determinazione della tipologia della reazione ad evento determinatasi e diagnosi psichiatrica (DDA, DAS e DPTS)
  • Psicologo Clinico, l’analisi e valutazione delle manifestazioni psicopatologiche attuali e/o pregresse, somministrazione di batterie di test mirati
  • Medico Legale, valutazione analitica della sussistenza di un nesso di causalità e individuazione di un eventuale danno biologico.

Strumenti di rilevamento soggettivo

Gli strumenti diagnostici che vengono utilizzati solitamente dai Centri Clinici adibiti alla diagnosi e trattamento sono molteplici, si sta cercando però di definire un’unica batteria di test affinché il potenziale mobbizzato possa avere in sede di giudizio un’interpretazione unanime. I test attualmente in uso sono:

  • Questionario per la rilevazione del fenomeno “Mobbing” – CDL
  • Questionario sullo stress da lavoro – OSQ
  • Questionario di personalità – MMPI (o/e 16 PF di Catell, CBA)
  • Test di dinamismo mentale – Matrici progressive di Rave
  • Test proiettivo – il reattivo di disegno di Wartegg (se è necessario anche TAT)
  • Questionario dei disturbi soggettivi – SSQ
  • Questionario del tono del umore – Mood Scale

 

La prevenzione Il maggior impegno da assumere è quello di affrontare il mobbing in una logica di prevenzione, prima ancora che di sanzione, ripensare al modo di gestire il capitale umano ponendo attenzione al benessere organizzativo generale incidendo così in maniera positiva sulla motivazione e sulla produttività. Possiamo distinguere tre tipi di prevenzione: primaria, secondaria e terziaria. Secondo una definizione classica la prevenzione primaria è quella che agisce in assenza di sintomi ed è centrata sulle cause del fenomeno da prevenire e mira principalmente ad aumentare le competenze dei soggetti attraverso una vera e propria Promozione della Salute; la prevenzione secondaria è quella che interviene dopo la comparsa dei primi sintomi e lavora soprattutto su questi attraverso una corretta diagnosi precoce e intervento del fenomeno; la prevenzione terziaria interviene dopo la diffusione e reiterazione di un fenomeno, e punta alla riduzione della progressione delle patologie correlate.

 

Conclusioni Le proposte che avanziamo riguardano principalmente tre aspetti, prima di tutto il miglioramento delle condizioni psicosociali dell’ambiente di lavoro, attraverso checkup organizzativi e monitoraggio continuo. In un secondo momento l’intervento deve orientarsi verso lo sviluppo di una cultura organizzativa i cui standard e valori siano contro il mobbing, anche sviluppando e definendo una legge specifica a cui poter far riferimento. In fine l’interesse dovrebbe focalizzarsi verso la formulazione di una politica contenente orientamenti chiari per interazioni sociali positive, la formazione continua manageriale in questa fase è uno degli strumenti più efficaci che l’organizzazione può utilizzare. Per le organizzazioni in cui ormai il fenomeno si è sviluppato sono previsti interventi a posteriori a supporto dei dipendenti colpiti: • Centri di ascolto (che solitamente rappresentano il primo contatto tra vittima e istituzione). • Gruppi di auto aiuto (per permettere la condivisione del malessere e rompere l’isolamento) • Terapia individuale (necessaria per il sostegno e il ripristino dell’equilibrio emotivo del soggetto).  Naturalmente l’obiettivo successivo che ci proponiamo di raggiungere, in un non lontano futuro, è quello di un’organizzazione sana che sia attenta alle esigenze del singolo e della comunità.

 

Bibliografia Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, (2000), Ricerca sullo Stress correlato al lavoro, ed. italiana a cura del Dipartimento Documentazione, informazione e formazione dell’ISPESL. Andreoni P.E., Barocci G., (1997), “Sicurezza e benessere nel lavoro”, Ed. Psicologia, Via dei sardi 81/83 Roma. Avallone F., Bonaretti. M., (a cura di), (2003), “Benessere organizzativo. Per migliorare la qualità del lavoro nelle amministrazioni pubbliche”. Berra A. Prestipino T., (1982), La psicologia della sicurezza lavorativa, F. Angeli, Milano. Cassitto M.G., (2001), Mobbing in the workplace: new aspects of an old phenomenon, Riv. Medicina del lavoro; Jan-Feb, 92/1, pp.12-24. Cox T. e Griffiths A.J., (1995), The assessment of psychosocial hazards at work, in Shabracq M.J., Winnubst J.A.M. e Copeer C.L., Handbook of Work and Health Psycology, Chichester: Wiley & Sons.

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L’ASCOLTO a cura di Maurizio D’Agostino

L’ascolto è uno degli strumenti più efficaci:

  • invita una persona a parlare dei suoi problemi
  • facilita la catarsi e la liberazione dei suoi sentimenti ed emozioni
  • favorisce la conversazione con la persona che ha un problema
  • favorisce la sua esplorazione dei sentimenti più profondi
  • gli comunica la vostra intenzione di aiutarlo in qualche modo
  • gli comunica che lo accettate così com’è.

Uno dei sistemi migliori per aiutare una persona che ha un problema è quella di restare ad ascoltarla.
Descriveremo 4 modi di ascoltare gli utente per poterli aiutare efficacemente ad affrontare i propri problemi.

1) Ascolto passivo (silenzio)
Il non dire niente di fatto comunica accettazione o tolleranza. Il silenzio, o ascolto passivo, è un efficace messaggio non verbale che può portare gli utenti a sentirsi veramente accettati incoraggiandoli a confidarsi maggiormente. L’utente non può dirvi che cosa lo sta preoccupando se siete voi a parlare.L’ascolto passivo incoraggia a parlare, ma non favorisce una comunicazione circolare o di tipo dialogico. Inoltre pur non interrompendo il processo di comunicazione non da modo di capire se la persona è ascoltata veramente. Mentre comunica un senso di accettazione può dare anche la sensazione di venire giudicati in silenzio.

2) Cenni di attenzione
Se il silenzio sicuramente evita le barriere alla comunicazione che così spesso fanno capire all’utente che i suoi messaggi sono rifiutati o non tollerati, di sicuro non prova che lo state veramente ascoltando e siete attenti. Perciò può essere utile, specialmente durante le pause del discorso, usare dei cenni verbali e non verbali per indicare che state veramente prestando attenzione all’altra persona e la state accettando. Definiamo questi cenni come “cenni di attenzione”. Cenni non verbali come:-cenni del capo;-annuire;-chinarsi in avanti verso l’altra persona;-avvicinarsi;-sorridere;-aggrottare le ciglia;-piegarsi verso; e altri movimenti del corpo se usati appropriatamente fanno capire all’utente che voi lo state realmente ascoltando. Cenni verbali come:-    grugniti psicologici;-    oh!;-si; –    mmm;-Ah!;-Ah sì, eh?

comunicano all’utente che siete comunque attenti, che siete interessati a quello che sta dicendo, e che volete che egli continui a parlare.

Il processo tuttavia è facilitato solo in parte, perché questi cenni non provano che l’altro ha capito veramente la persona.

3) Espressioni facilitanti: espressioni per sbloccare la comunicazione e frasi-invito
Certe volte l’utente ha bisogno di essere ulteriormente incoraggiato a parlare di più, ad andare più a fondo, o persino ad iniziare a parlare. Questi messaggi sono definiti “incoraggiamenti” o “frasi-invito”. Si tratta di risposte che non veicolano le idee, i giudizi o i sentimenti dell’ascoltatore, ma che invitano l’utente a esprimere i propri sentimenti, idee o giudizi. Sono segni di via libera che lo incoraggiano a parlare. Sono molto utili per dimostrare che l’altro ha tempo e volontà di ascoltare, specie all’inizio dell’interazione. Inoltre possono aiutare quando la persona si blocca e non riesce ad andare avanti. Però non bisogna insistere troppo: gli inviti aprono le porte ma non le mantengono aperte. Tali espressioni facilitanti possono risultare inutili e ripetitive se usate troppo spesso.

Alcuni esempi di risposta sono:

  • Capisco
  • Davvero
  • Non mi dire
  • Incredibile
  • Ma guarda un po’
  • Interessante
  • Ma veramente!

Altre espressioni sono più esplicite nel comunicare l’invito a dire di più o a continuare a parlare:

  • raccontami
  • che succede
  • di che si tratta
  • spiegati meglio
  • vorrei sapere cosa ne pensi
  • ti va di parlarne?
  • parliamone
  • cosa vuoi dire
  • dimmi tutto
  • parla, ti ascolto
  • ti ascolto
  • mi pare che tu voglia dire qualcosa
  • mi sembra che sia molto importante per te
  • vorresti dirmi qualcosa di più su questo problema?
  • E’ interessante, continua
  • Sembrerebbe che tu provi dei sentimenti molto forti al riguardo
  • Sono molto interessato a ciò che stai dicendo
  • Che ne diresti di parlarne
  • C’è qualcosa che mi vuoi dire?

E’ da notare che questi messaggi sono costituiti da domande ed affermazioni che non contengono però alcuna valutazione relativa a ciò che viene detto. Queste frasi-invito possono facilitare molto la comunicazione, incoraggiano a iniziare o a continuare un discorso. Inoltre lasciano l’iniziativa all’altro e non gliela sottraggono come fanno invece le domande, i consigli, le istruzioni, le prediche e via dicendo.

Queste frasi-invito impediscono ai vostri sentimenti e ai vostri pensieri di interferire nel processo di comunicazione. Le reazioni, specialmente, dei bambini e degli adolescenti a queste semplici frasi-invito vi sorprenderanno. I giovani saranno incoraggiati ad avvicinarsi di più, ad aprirsi e a far letteralmente sgorgare liberamente i propri sentimenti e le proprie idee.Queste frasi-invito comunicano anche accettazione e rispetto per l’utente in quanto persona; in effetti è come se gli dicessero:

  • -Hai il diritto di esprimere i tuoi stati d’animo
  • -Ti rispetto in quanto persona dotata di idee e sentimenti
  • -Potrei imparare qualcosa da te
  • -Voglio veramente ascoltare il tuo punto di vista
  • -Ritengo che le tue idee meritino di essere ascoltare
  • -Sono interessato a te
  • -Voglio entrare in rapporto con te, conoscerti meglio

Quale persona non sarebbe lieta di sentirsi valorizzata, rispettata, importante, accettata, interessante?

4) Ascolto attivo (feedback) – rimando empatico
Il silenzio, i cenni di attenzione, le espressioni facilitanti hanno dei limiti; limitano notevolmente l’interazione; chi parla, infatti, fa tutto da sé. Inoltre, chi parla non riesce a capire se l’altro lo comprende; sa soltanto che lo sta ascoltando. Tali atteggiamenti di solito non riescono ad andare a fondo del problema e a delinearne le cause. Inoltre, l’utente non può sapere se l’operatore sta accettando lui e il suo messaggio. Sa soltanto che l’operatore ascolta.In breve, questi 3 sistemi di ascolto sono relativamente passivi e non provano che chi sta ascoltando abbia effettivamente capito.

Ciò che viene definito come “ascolto attivo” richiede molta più interazione e molte più prove che chi sta ascoltando non abbia soltanto sentito ma abbia davvero capito.L’ascolto attivo, in quanto opposto all’ascolto passivo (silenzio), comporta l’interazione con l’utente, e fa anche in modo che l’utente abbia delle prove (feedback) che l’operatore lo capisce.

Il rimando empatico è la forma di comunicazione che da:

  • chiara percezione di essere stati capiti sia nei sentimenti che nelle idee
  • chiara percezione di essere stati accettati sia nei sentimenti che nelle idee
  • chiara percezione di essere stati rispettati sia nei sentimenti che nelle idee
  • aiuta ad approfondire la comunicazione
  • abbassa le tensioni emotive, il senso di minaccia e libera dall’ansia
  • aiuta ad accettare come naturali ed umani i propri sentimenti e ad imparare che il sentimento è un amico
  • facilita l’insight (chiara percezione) del reale problema e di conseguenza inizia la risoluzione dello stesso; tuttavia lascia alla persona la responsabilità di trovare una soluzione.

Sul piano relazionale:

  • consolida il rapporto tra i membri dell’interazione, incrementando il mutuo rispetto e la reciproca attenzione all’altro
  • consolida l’alleanza terapeutica; Il feedback implica sempre una relazione autentica e sinceramente partecipata in cui tutto il vissuto esistenziale e professionale dell’altro confluiscono per focalizzarsi in chiarezza percettiva e calore emozionale sul vissuto della persona.

Il parlare è un tentativo di comunicare all’esterno ciò che sta accadendo dentro se stessi. Per comunicare come ci sentiamo dentro o quello che ci sta preoccupando, dobbiamo selezionare un codice, e cioè quello che gli esperti della comunicazione definiscono il processo di “codifica”. Tutti i messaggi verbali sono codici, equivalenti linguistici dei nostri sentimenti, non i sentimenti in se stessi.

Certe volte i messaggi codificati sono abbastanza chiari. “Ho fame” si capisce facilmente. Sfortunatamente i messaggi chiari e lampanti sono abbastanza rari. La maggior parte dei messaggi che le persone inviano sono codificati in modo particolare. Questo significa che il contenuto del messaggio può essere correlato ai sentimenti, ma il sentimento in se stesso non è chiaramente espresso. Invece di dire “ho fame”, A potrebbe anche dire “quando si mangia”, oppure “che ora è”. Presi alla lettera questi messaggi codificati possono essere fraintesi.

Per esempio chi ascolta può interpretare “che ora è?” soltanto come una domanda per sapere l’ora.Ecco alcuni esempi di messaggi non correttamente interpretati dall’insegnante perché sono codificati in un modo particolare, per esempio il codice non identifica chiaramente che cosa sta accadendo allo studente, dentro di lui, cos’è che lo preoccupa, o cos’è che prova. Qual è il vero problema.

Il messaggio codificato:- Si sente rifiutato e non amato                                        “Anna è una stupida snob”- E’ dispiaciuto per i risultati in un progetto artistico      “Io odio l’educazione artistica, è                                                                                                   per femminucce” Dal momento che la maggior parte dei messaggi inviati dai ragazzi è codificata in maniera particolare e quindi difficile da capire, sarebbe pazzesco che l’operatore rispondesse soltanto al codice.

Significherebbe fraintendere completamente il significato reale del messaggio inviato. Questo significa che l’operatore non riesce ad aiutare l’utente perché non potrà mai sapere che cos’è che lo preoccupa. Inoltre rispondere soltanto al codice comunica all’utente che l’operatore non lo capisce, il che provoca anche un ulteriore deterioramento del rapporto tra operatore e utente.

Il più efficace metodo per evitare simili fallimenti nella comunicazione è l’ascolto attivo, un modo di ascoltare che permette di capire ciò che l’utente comunica. L’ascolto attivo, in quanto opposto all’ascolto passivo (silenzio), comporta l’interazione con l’utente, e fa anche in modo che l’utente abbia delle prove (feedback) che l’operatore lo capisce.

Quando l’operatore riceve un messaggio dovrà avviare un processo di “decodifica” per essere in grado di capire il significato del messaggio inviato dall’utente (cioè cosa sta accadendo dentro di lui). Il processo di decodifica potrebbe essere costituito da una supposizione o da una deduzione, perché colui che riceve il messaggio non può sapere con certezza cos’è che sta provando l’utente.

Il processo di decodifica è una fase critica nel processo della comunicazione, infatti non si può essere mai certi che la supposizione sia giusta o sbagliata. Allo stesso modo, l’utente non può essere certo se avete decodificato in maniera più o meno corretta il suo messaggio.

Supponiamo perciò che decidiate di controllare l’attendibilità della vostra decodifica prima di rispondere al suo messaggio. Non dovrete far altro che rispecchiare (feedback) i risultati della vostra decodifica. Ascoltando il feedback, l’utente probabilmente dirà “è giusto, è vero”, oppure “esatto”, “si, è proprio così”. Egli ora sa che voi lo avete ascoltato e capito e la stessa cosa vale per voi. Se il vostro processo di decodifica non ha colto nel segno, il rispecchiamento (feedback) comunica all’utente che la vostra supposizione non è corretta.

Egli molto probabilmente vi correggerà, ricodificando il suo messaggio per riuscire a farsi capire.Questo processo di rispecchiamento (feedback) è ciò che definiamo “ascolto attivo”.

Si tratta dell’ultima fase che completa il processo della comunicazione efficace.

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