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Autore: Hiram

La dissociazione tra patologia e normalità di Elisa Faleppi

La dissociazione tra patologia e normalità di Elisa Faleppi

In senso ampio, il termine dissociazione indica che “due o più processi o contenuti mentali non sono associati o integrati fra loro” (Cardeña, 1994). Storicamente il concetto di dissociazione è stato introdotto per la prima volta alla fine dell’800 da Janet (“désagrégation”), che lo ha definito come “fallimento nell’integrazione di esperienze (percezioni, memorie, pensieri, ecc.) che sono normalmente associate tra loro nel flusso di coscienza” (Janet, 1889). Egli evidenziò un’eziologia traumatica del disturbo, ritenendo infatti che i ricordi traumatici non venissero del tutto assimilati, ma che continuassero ad esistere nel soggetto come idee fisse. Secondo l’interpretazione di Janet, a seguito di tali esperienze traumatiche, alcune funzioni mentali divengono autonome rispetto al controllo centrale, a causa del grave indebolimento delle energie nervose che sostengono il coordinamento delle funzioni mentali stesse. A questo processo passivo della mente Janet dette il nome di “dissociazione”, stato che spiegava alcuni stati di coscienza alterati come le fughe o le amnesie. Janet si riferiva ai differenti stati di coscienza come a personalità alternative attraverso le quali può essere indotta l’ipnosi. L’ipnosi era vista come uno stato alterato della coscienza in cui la reattività alle suggestioni era consistentemente incrementata, e in cui era facilitato il richiamo di ricordi nascosti. Quindi, fin dai primordi, la dissociazione è stata sempre strettamente connessa all’ipnosi e alle risposte dell’ipnosi. Partendo dagli studi e dal modello di Janet, numerosi altri studi hanno utilizzato il costrutto della dissociazione con significati diversi (vedi, per una rassegna, Cardeña, 1994), venendo ad includere fra le esperienze dissociative fenomeni tra loro molto diversi come l’ipnosi, la percezione senza coscienza e i comportamenti automatici (Hilgard, 1986), le forme di memoria implicita (Kihlstrom, 1982), o in relazione a varie forme di psicopatologie (Spiegel et al., 1991) e a risposte cognitive ad eventi traumatici (Cardeña et al., 1993).

In linea con quanto proposto da Cardeña (1994), i significati storicamente assegnati al termine dissociazione sono riconducibili ai seguenti:

  1. Il termine “dissociazione” è usato per caratterizzare sistemi o moduli mentali che non sono accessibili alla coscienza, e che non sono integrati con la memoria, l’identità e la volontà conscie dell’individuo.
  2. La dissociazione è vista come un meccanismo di difesa che provoca svariati fenomeni, come l’amnesia non-organica, o il respingere dolori fisici o psicologici, o altre alterazioni della coscienza, inclusa una cronica perdita di integrazione della personalità, come avviene, ad esempio, con il disturbo dissociativo dell’identità.
  3. La dissociazione, in questa accezione, indica particolari alterazioni dell’esperienza fenomenica o stati di alterazione di coscienza caratterizzati dal senso di scollegamento, mancata integrazione e connessione con se stessi o con l’ambiente esterno e con ciò che in esso accade.

Rientrano in questa definizione fenomeni relativamente normali e frequenti nella popolazione non-clinica quali l’assorbimento, che si riferisce alla tendenza a coinvolgere la propria mente in situazioni di attenzione alterata e altamente focalizzata (Tellegen e Atkinson, 1974), ma anche fenomeni più propriamente clinici, come la depersonalizzazione e la derealizzazione.

Ritornerò su questi argomenti più avanti nell‘articolo, descrivendoli in maniera più dettagliata.

Rispetto a queste formulazioni, la posizione attualmente condivisa circoscrive e limita il significato del termine “dissociazione” ai significati riportati ai punti 2 e 3. Non rientrano invece fra le esperienze dissociative quei processi e quelle dinamiche di funzionamento mentale che avvengono “al di fuori della coscienza”, e che attualmente sono raggruppate sotto il termine di “inconscio cognitivo”.

Come possiamo però notare, nonostante il campo della dissociazione sia oggi maggiormente delimitato, il costrutto della dissociazione rimane un costrutto “semanticamente aperto”, in quanto comprende fenomeni e processi psicologici fra loro molto diversi.

Fra le esperienze dissociative sono infatti compresi sia fenomeni relativamente comuni nella popolazione non-clinica, le cosiddette “esperienze dissociative non-cliniche” o “sub-cliniche” (Kihlstrom, 2005), quali ad esempio l’essere assorbiti da un film o dai propri pensieri a tal punto da non accorgersi di ciò che accade intorno (assorbimento), sia fenomeni clinici che però possono presentarsi in modo transitorio e meno frequente anche nella popolazione non-clinica (come la depersonalizzazione e la derealizzazione), sia fenomeni di natura più propriamente clinica, tipicamente associati a disturbi psicopatologici e psichiatrici (quali l’amnesia psicogena, la fuga dissociativa, il disturbo dissociativo dell’identità, il disturbo di depersonalizzazione o il disturbo dissociativo non altrimenti specificato). Più precisamente, sul versante descrittivo, i fenomeni dissociativi possono infatti presentarsi come:

  1. Sintomi pervasivi di specifiche categorie di disturbi psichiatrici, i disturbi dissociativi.
  2. Sintomi associati a diversi disturbi di natura neurologica o psichiatrica.
  3. Fenomeni, transitori e di modesta entità, presenti nella popolazione non-clinica (dissociazione non-clinica o sub-clinica) (Kihlstrom, 2005).

I disturbi dissociativi
I fenomeni più gravi individuabili nella costellazione delle esperienze dissociative sono quelli presenti nei disturbi dissociativi. Secondo la definizione riportata nel DSM-IV, i disturbi dissociativi rappresentano una distruzione nella normale integrazione di aspetti della coscienza, della memoria, dell’identità e della percezione dell’ambiente. All’interno di questa categoria, sulla base della specifica natura dei sintomi dissociativi, sono stati distinti appunto 5 disturbi:

  1. Amnesia dissociativa, ovvero l’incapacità a ricordare dati personali importanti, di solito di natura traumatica o stressogena, che risulta troppo estesa per essere spiegata come banale tendenza a dimenticare;
  2. Fuga dissociativa, ovvero l’allontanamento inaspettato da casa o dall’abituale posto di lavoro, con incapacità di ricordare il proprio passato oppure uno stato di confusione circa l’identità personale o l’assunzione di una nuova identità (parziale o completa);
  3. Disturbo dissociativo dell’identità, ovvero la presenza di due o più identità o stati di personalità distinti, ciascuno con i suoi modi relativamente costanti di percepire, di relazionarsi, e di pensare nei confronti di se stesso e dell’ambiente;
  4. Disturbo di depersonalizzazione, ovvero l’esperienza persistente o ricorrente di sentirsi distaccato o di sentirsi un osservatore esterno dei propri processi mentali o del proprio corpo (per es. sentirsi come in un sogno);
  5. Disturbo dissociativo non altrimenti specificato, ovvero un disturbo in cui la manifestazione predominante è un sintomo dissociativo, il quale non soddisfa però i criteri per nessuno dei Disturbi Dissociativi specifici.

I sintomi dissociativi
Nonostante le esperienze dissociative siano il sintomo caratteristico dei disturbi dissociativi, esse sono riportate anche in numerosi altri disturbi di natura psicopatologica e psichiatrica, e, seppur meno frequentemente, in alcuni disturbi neurologici. I sintomi dissociativi più frequentemente riportati comprendono:

1) Depersonalizzazione: riguarda l’esperienza di avvertire se stessi come separati o ad un’insormontabile distanza dalle proprie percezioni, azioni, emozioni o pensieri. Ad esempio, l’individuo depersonalizzato può avere l’esperienza di sentirsi fisicamente intorpidito, come paralizzato, o come se la propria coscienza si trovasse distante, separata, dalle proprie percezioni corporee. La persona può avvertire che le azioni del suo corpo avvengano per conto proprio, come se egli potesse solo osservare dall’esterno ciò che gli accade (Simeon e Hollander, 1993). Forse, la forma più intrigante e inusuale di depersonalizzazione è la doppia sindrome, in cui la persona può addirittura interagire con una copia esterna di se stesso, fenomeno che ha affascinato psicologi e scrittori, come, ad esempio, Edgar Allan Poe.

2) Derealizzazione: riguarda l’esperienza di avvertire ciò che ci circonda e i suoi abitanti non abbastanza reali, come se si vivesse in un sogno dove il mondo è privo di sostanza (Cardeña, 1994, in Lynn e Rhue).

3) Assorbimento: riguarda la tendenza a coinvolgere la propria mente in situazioni di attenzione alterata e altamente focalizzata (Tellegen e Atkinson, 1974).

4) Amnesia: riguarda l’esperienza di uno o più episodi di incapacità a ricordare dati personali importanti, di solito di natura traumatica o stressogena, che risulta troppo estesa per essere spiegata come banale tendenza a dimenticare (DSM-IV, American Psychiatric Association, 1994).

Sul versante neurologico, i fenomeni dissociativi sono frequenti in vari disturbi. Ad esempio, è stata confermata da numerosi studi la presenza di sintomi dissociativi nei pazienti epilettici (per una rassegna, si veda Bowman e Coons, 2000), nei pazienti amnesici (per una rassegna, si veda van der Kolk e Fisler, 1995; Dorahy, 2001) ed in soggetti con un’anormale lateralizzazione cerebrale (Stein et al., 1997; Lipsanen et al. 2000).

Anche per quanto riguarda il versante psicopatologico e psichiatrico, i sintomi dissociativi sono riportati in numerosi disturbi. In uno studio condotto da Horen et al. (1995) su un ampio campione della popolazione canadese ospedalizzata, il 29% dei pazienti ha riportato frequenti sintomi dissociativi. Un’analisi più accurata rivela però che i sintomi dissociativi sono più frequentemente associati ad alcuni disturbi piuttosto che ad altri, e che disturbi diversi sono caratterizzati da fenomeni dissociativi diversi.

Fra i disturbi in cui più frequentemente si osservano sintomi dissociativi troviamo i seguenti:

Disturbo post-traumatico da stress.
A seconda del momento di comparsa e delle caratteristiche dei sintomi, alcuni ricercatori hanno suggerito che esistano tre tipi di sintomi dissociativi (van der Kolk et al., 1996). La “dissociazione primaria” è tipica del disturbo post-traumatico da stress; i sintomi più drammatici sono espressione di memorie traumatiche dissociate (incubi, flashbacks, ecc.). Il soggetto è incapace di integrare quello che gli è accaduto nella sua coscienza. Più avanti nello stato traumatico può presentarsi la “dissociazione secondaria”: il soggetto può riportare un distacco mentale dal suo corpo e vedersi come dall’esterno, trovandosi estraneo dai propri sentimenti e dalle proprie emozioni. Sono questi i sintomi cosiddetti “peritraumatici”. Un soggetto con esperienze traumatiche ripetute può sviluppare la “dissociazione terziaria”: egli manifesta numerose identità distinte, che presentano distinte caratteristiche, capacità cognitive e affettività. Un soggetto con questi sintomi può avere il vero e proprio disturbo dissociativo dell’identità (personalità multipla).

Disturbo borderline di personalità.
Molte sono le ricerche che si sono occupate dell’individuazione dei sintomi dissociativi nel disturbo borderline di personalità (Borderline Personalità Disorder, BPD). Ad esempio, Zanarini et al. (2000) hanno somministrato una scala di misura della dissociazione (la Dissociative Experiences Scale, DES; Bernstein e Putnam, 1986) ad un gruppo di 290 pazienti BPD e ad un gruppo di controllo composto da 72 soggetti. Il 32% dei pazienti BPD ha evidenziato un basso livello di dissociazione, il 42% un livello moderato, e il 26% un livello alto. Il gruppo di controllo ha mostrato punteggi significativamente diversi: il 71% ha riportato un basso livello di dissociazione, il 26% un livello moderato e solo il 3% un livello alto. Inoltre, i pazienti PBD hanno manifestato punteggi superiori al gruppo di controllo anche negli items della scala che indicano assorbimento, amnesia e depersonalizzazione. Questi risultati evidenziano chiaramente la considerevole importanza delle esperienze dissociative nei pazienti con diagnosi di BPD.

Schizofrenia e disturbo schizotipico.
Sintomi dissociativi sono stati spesso riscontrati nella schizofrenia e negli altri disturbi dello spettro schizofrenico, come, ad esempio, nel disturbo schizotipico. Ad esempio, Spitzer et al. (1997) hanno valutato i sintomi dissociativi (attraverso la somministrazione della Dissociative Experiences Scale, DES) in 27 pazienti schizofrenici e li hanno confrontati con un gruppo di controllo, non clinico. I pazienti schizofrenici, e in particolare il sottogruppo che riportava con più frequenza sintomi produttivi della malattia, hanno ottenuto punteggi più elevati alla scala di dissociazione.

Disturbo da attacchi di panico
Nel disturbo da attacchi di panico i sintomi dissociativi più frequenti sono soprattutto la depersonalizzazione e la derealizzazione. Per indagare il rapporto tra attacchi di panico ed esperienze dissociative, Ball et al. (1997) hanno sottoposto ad interviste strutturate e ad una batteria di questionari (tra cui la Dissociative Experiences Scale) un totale di 56 pazienti con disturbi d’ansia (13 con solo disturbi di panico, 16 con una comorbidità di panico ed altri disturbi d’ansia e 27 con disturbi d’ansia diversi dal panico). Tutti i pazienti hanno evidenziato la presenza di sintomi dissociativi, e ben il 69% dei soggetti con disturbo di attacchi di panico ha riferito di aver vissuto esperienze di depersonalizzazione e dei derealizzazione.

Disturbo ossessivo-compulsivo.
Numerose ricerche hanno evidenziato la presenza di esperienze dissociative nel disturbo ossessivo-compulsivo (Obsessive Compulsive Disorder, OCD). Ad esempio, una ricerca recente sulla relazione tra OCD e sintomi dissociativi è quella di Lochner et al. (2004), in cui 110 pazienti con diagnosi di OCD e 32 pazienti affetti da tricotillomania sono stati sottoposti alla Dissociative Experiences Scale e al Childhood trauma Questionnaire, allo scopo di verificare se una presenza significativa di sintomi dissociativi in questi soggetti possa essere attribuita a esperienze traumatiche infantili. I risultati hanno dimostrato nella maggior parte dei pazienti con OCD una forte sintomatologia dissociativa, e una correlazione significativa tra abusi infantili ed esperienze dissociative.

Disturbi dell’alimentazione.
I sintomi dissociativi sono stati evidenziati anche in soggetti con diagnosi di disturbi dell’alimentazione. In particolare, il sintomo riscontrato più frequentemente è quello della derealizzazione durante le abbuffate nei pazienti bulimici. Vanderlinden et al. (1993) hanno esplorato la relazione tra le esperienze traumatiche e i fenomeni dissociativi in 98 pazienti con disturbi dell’alimentazione. Le esperienze traumatiche sono state valutate attraverso un questionario e un’intervista clinica, mentre, per la valutazione delle esperienze dissociative, è stato somministrato il Dissociation Questionnaire (DIS-Q). Circa il 25% dei soggetti ha riportato di aver vissuto eventi traumatici nella loro vita, e questo sottogruppo ha evidenziato alti livelli di dissociazione al DIS-Q. Questi dati suggeriscono che le esperienze dissociative indotte da vicende traumatiche possono giocare un importante ruolo nella sintomatologia dei pazienti con disturbi dell’alimentazione. Una correlazione significativa tra dissociazione e disturbi dell’alimentazione è stata confermata anche dallo studio di Covino et al. (1994), in cui sono stati confrontati due gruppi di soggetti, il primo composto da 17 pazienti bulimici normopeso e il secondo da 20 soggetti non-clinici. Valutati attraverso strumenti per la misura della dissociazione e dell’ipnotizzabilità, i soggetti appartenenti al primo gruppo hanno mostrato livelli significativamente più elevati di sintomi dissociativi e di ipnotizzabilità rispetto al gruppo di controllo.

Dissociazione non-clinica o sub-clinica
Numerose ricerche condotte soprattutto a partire dalla metà degli anni ’80, su gruppi di studenti universitari, hanno ampiamente dimostrato che esperienze occasionali di dissociazione costituiscono un fenomeno molto comune anche nella popolazione non-clinica (si veda, per una rassegna, Hunter et al., 2004).

Ad esempio, nello studio di Ross, Joshi e Currie (1990), i risultati raggiunti indicano che le esperienze dissociative sono comuni nella popolazione generale: il 12,8% del loro campione non-clinico mostrava punteggi superiori a 20 alla Dissociative Experiences Scale (DES). Nella DES punteggi superiori a 20 indicano una notevole quantità di esperienze dissociative nella vita di un individuo.

In un’analisi della Dissociative Experiences Scale (DES), Waller et al. (1996) suggeriscono che circa il 3,3% della popolazione generale riporta di aver vissuto esperienze di amnesia o depersonalizzazione (Waller e Ross, 1997).

Globalmente, le esperienze dissociative riscontrate nella popolazione generale comprendono sia esperienze relativamente comuni e “benigne” sia forme transitorie di esperienze dissociative più gravi come la depersonalizzazione.

Più precisamente, le forme quotidiane dissociative “benigne” si riferiscono a quelle situazioni in cui si verifica un’alterazione transitoria e di modesta entità del senso di realtà e del Sé, e comprendono esperienze quali: immergersi nella lettura di un libro tanto da perdere la cognizione del tempo o dello spazio; fare “sogni ad occhi aperti” così vivaci da sembrare veri, e da far perdere momentaneamente il contatto con la realtà; essere temporaneamente ma completamente assorbiti da un pensiero da “perdere” parte di una conversazione.

Le esperienze transitorie di depersonalizzazione comprendono invece quelle situazioni caratteratterizzate, ad esempio, dalla sensazione di “non appartenere al proprio corpo ma di essere fuori di esso”, o la sensazione di “guardarsi allo specchio e non riconoscersi”, oppure la sensazione di “poter agire in modo così diverso in una situazione rispetto ad un’altra da sentirsi quasi come due persone differenti”.

In questo caso, sebbene nel contenuto queste esperienze non differiscano da quelle riportate dai pazienti con disturbi psichiatrici, si tratta comunque di episodi poco frequenti, di modesta durata e intensità e spesso legati a specifiche condizioni psicofisiche.

Ad esempio nello studio condotto da Myers e Grant (1972) su un gruppo di studenti universitari le esperienze di depersonalizzaione riportate dai soggetti si concentravano quasi esclusivamente al momento del risveglio.

Ciò che quindi caratterizza le esperienze dissociative come “normali” nella popolazione non-clinica è la bassa frequenza e intensità di queste esperienze rispetto alle popolazioni cliniche (Roberts, 1960; Myers e Grant, 1972; Trueman, 1984; Moyano et al., 2001), oltre ad una prevalenza di forme di natura “benigna” come l’assorbimento rispetto a forme dissociative più gravi in cui sono presenti disturbi funzionali di memoria, di depersonalizzazione e derealizzazione.

Ciò che connota queste tutte queste esperienze come “dissociative” è comunque il fatto che, anche se di breve durata e infrequenti, comportano una discontinuità nell’esperienza cosciente, un’alterazione della normale funzione integrativa della identità, della memoria e della coscienza, benché il vissuto relativo al sé e alla propria esistenza mantenga appunto un carattere di unità e continuità.

La crescente rilevanza assunta dagli studi sulla dissociazione non-clinica ha portato di fatto ad un vero e proprio spostamento del baricentro della ricerca sulla dissociazione, dalla dissociazione clinica o patologica alle forme di dissociazione non-clinica o sub-clinica.

In termini di ambiti scientifici di ricerca, la questione della dissociazione è diventata infatti dominio non più solo dei clinici ma anche degli psicologi sperimentali e più precisamente cognitivi.

Il riscontro di una ampia diffusione delle esperienze dissociative nella popolazione non-clinica ha portato a ritenere che la dissociazione debba essere intesa quindi come continuum di fenomeni dissociativi (Spiegel, 1963), che da forme “benigne” come l’assorbimento, si intensifica in forme dissociative più gravi come appunto alcuni fenomeni di depersonalizzazione e derealizzazione e amnesia, fino alle forme dissociative maggiori proprie dei disturbi dissociativi riportati nel DSM-IV, in cui si ha una totale rottura del rapporto con la realtà, tanto da non avere più coscienza della propria identità, dei propri ricordi o delle proprie emozioni la sensazione di essere come “separati” dal proprio corpo, vedendosi addirittura fluttuare sopra di esso e la percezione di non avere più il controllo sui propri pensieri e sulle proprie azioni, fino ad udire voci dentro la testa che ordinano cosa fare e cosa no.

Secondo questa ipotesi quindi la dissociazione non sarebbe un fenomeno tutto-o-nulla, ma comprenderebbe sia esperienze quotidiane e comuni a gran parte della popolazione che forme più gravi.

Per indicare questo vasto range di esperienze dissociative, è stato infatti proposto anche il termine “spettro dissociativo”.

Il modello del continuum è anche il modello ispiratore di uno degli strumenti di misura maggiormente utilizzati per misurare la dissociazione, ovvero la Dissociative Experiences Scale (DES) (Bernstein e Putnam, 1986), che si propone di misurare la frequenza di diverse esperienze dissociative.

Secondo gli autori di questo strumento il punteggio ottenuto alla scala consente di ordinare gli individui lungo un continuum, che va da bassi livelli di dissociazione (presenti nella popolazione non-clinica) ad alti livelli di dissociazione (presenti nei pazienti con disturbi dissociativi).

Proprio nell’ambito della ricerca condotta sulla DES nella popolazione non-clinica, alcuni autori hanno messo però in discussione il modello del continuum proposto da Bernstein e Putnam (1986).

In particolare Waller et al. (1996) hanno proposto un modello dimensionale della dissociazione, che ipotizza l’esistenza di due tipi di fenomeni dissociativi: quelli “non patologici”, che comprendono l’assorbimento e il coinvolgimento immaginativo e quelli “patologici” che comprendono forme come l’amnesia dissociativa, la depersonalizzazione, la derealizzazione e le alterazioni di identità.

Secondo il nuovo modello non esisterebbe quindi un continuum nella dissociazione: un individuo può essere o un dissociatore patologico o un dissociatore non patologico e le due condizioni sono ben distinte e nettamente individuabili.

A questo proposito Waller et al. (1996) hanno distinto all’interno della scala DES, una sottoscala comprendente items relativi alla dissociazione patologica.

Questa sottoscala (DES-T) dovrebbe permettere di identificare i dissociatori patologici.

Attualmente comunque la capacità della DES-T di discriminare tra la dissociazione patologica e quella non patologica è ancora oggetto di analisi e critiche (e.g. van Ijzendoorn e Schuengel, 1996; Modestin e Emi, 2004).

Il modello del continuum risulta quindi tuttora prevalente rispetto ad un modello dimensionale.

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I molteplici stati di coscienza nello Yoga e nello sciamanesimo

 I molteplici stati di coscienza nello Yoga e nello sciamanesimo di Pio Filippani Ronconi

Qualsiasi studio che si proponga di sceverare la natura, le tecniche, i fini e le tappe progressive dello Yoga, come anche di quell’insieme di pratiche e di riti estatiche caratterizzano lo Sciamanesimo, si troverà di fronte alla difficoltà di superare il limite puramente descrittivo, ad esempio degli anga dello Yoga o delle fasi di iniziazione e della pratica sciamanica, che ben poco possono rivelare circa la realtà intima – il Wesen – del sistema esoterico o estatico preso in esame.

Si tratta di un problema epistemologico: per intendere questo elemento, che costituisce lo scenario interiore sul quale lo sciamano compie le sue pratiche, occorre penetrare imaginativamente negli stati di coscienza nei lo yogin, il mago” o lo sciamano s’immerge lucido e vegliante, e intendere il rapporto fra questi stati di coscienza – che ritroviamo descritti in una miriade di opere dagli Yogasûtra di Patanjali fino ai Tantra śaiva, vaisnava o śâkta – e il mondo obiettivo spazio-temporale di veglia, per intenderci, quello stesso che viene apparentemente trasceso e messo da parte durante l’impresa estatica, dato che ad un certo momento, alla fine del rito o dell’evocazione, il “portento” si verifica proprio nel comune ambito spazio-temporale e su questo lo si recepisce.

A tale proposito, si può osservare che anziché trattarsi di uno spazio-scenario passivo, quello dello yogin o dello sciamano scaturisce dalla volontà stessa dell’operatore, quella di personificarsi “qui” o “là”, “in questo tempo” o “in quell’altro”, presente o futuro. Lo yogin e, in parte, lo sciamano possono operare sulle cose perché percepiscono il pensiero con cui se le rappresentano, cioè il pensiero “magico” dello yogin viene foggiato dalle discipline del pratyâhara (la abstractio delle facoltà di percezione dallo strumento sensorio), del dhârana (cioè la concentrazione mentale) e del dhyâna (la meditazione estatica).

Si tratta di un problema eminentemente epistemologico, di cui, fra tutte le tradizioni sapienziali, quella dell’India può offrirci la chiave d’interpretazione, poiché in India si è conservato fino al giorno d’oggi e trasmesso in un rigoroso linguaggio filosofico il retaggio di almeno due civiltà, quella postulata come indomediterranea, che si continua ai giorni nostri nella cultura dei tantra e delle sette gnostiche in generale, e quelle del filone vedico che, pur se ridotto ed adattato a nuove esigenze religiose, si perpetua come liturgia nella religioni dell’India e, come fonte autorevole, nella “filosofia dei sei sistemi”, i darśana. Per fare un paragone, è come se, accanto alla filosofia positiva dei Greci si fosse conservata fino ai giorni nostri la sapienza dei Misteri dell’antichità, trascritta in un linguaggio mistico-matematico.

Non soltanto, ma questa “meditazione filosofica” volta alla realizzazione spirituale può, in seguito a recenti studi, vantare una doppia genealogia: quella vedica su accennata, fondata sul culto delle divinità maschili e luminose, che simboleggiano – a livello della meditazione estatica – i poteri luminosi della coscienza, il cui culto sarebbe stato importato in India dalla migrazione arya, e , di fronte a questa, quella che amiamo definire “indomediterranea” per la sua somiglianza con i culti e i misteri della nostra antichità pre-classica, che ha al suo centro puri poteri numinosi personificati nei cosiddetti asura, che nella successiva tradizione indiana diventano semplicemente i démoni  anti-deva, le cui imprese e sconfitte ad opera dei deva e degli eroi dell’epica (vedi il Ramâyaņa, il Mahâbhârata, ecc.) sono alla base della gigantesca mitologia indiana.

E proprio a questi secondi dèi, relegati ad una funzione negativa rispetto ai deva aryi, risale tradizionalmente l’insegnamento ascetico ad esempio del Jainismo, i cui varii Tirthankara, cioè Pontefici, risalgono ad oltre l’850 a.C., data del penultimo di essi, Pârśva, seguito dal Jina nel VI sec. a.C. Anche l’epopea ariana dei Purâna e del Mahâbhârata, a tacere del Râmâyana, serba rispettoso ricordo di questi anti-dèi che regnavano nel sud non-ariano quali, di contro ai deva, possedevano la  âtma-vidyâ, la “scienza del sé stesso”, un poco come un’anticipazione del delfico γνωθι  σεαύτον.

“Dopo la loro sconfitta, Indra il signore degli Âryi chiese ai re Asura Bali, Namuci e Prahlâda: ‘Il vostro regno è stato conquistato, voi siete nelle mani dei vostri nemici, eppure sul vostro volto non vi è traccia di dolore. Quale ne è la ragione?’. Bali, signore dell’âtma-vidyâ, figlio di Virocana, rispose in modo tale da scuotere l’orgoglio di Indra: “O Signore dei Signori! Sono sorpreso dalla tua follia. Adesso tu prosperi e la mia fortuna mi è stata sottratta, ma non si conviene che lodi te stesso di fronte a me’”. (1)

Dal punto di vista storico, il fatto che nell’antichissimo Rg-veda si trovino menzionati alcuni termini denotanti asceti non appartenenti strettamente alla tradizione aryo-vedica, come vātarasana-muni, in alternativa a vātarasana- śramana, Keśin (“dalla lunga chioma”, detto dei maghi volanti a cagione del calore ascetico, il tapas da loro sprigionato, cfr. Rg-veda X, 136), Vrâtya e Arhat, dimostra che la tradizione śramana è con ogni probabilità anteriore a quella introdotta dagli Aryi con i Veda. Si potrebbe anche postulare un rapporto, se non altro tecnico – per la pratica dell’estasi e la realizzazione degli stati superiori della coscienza – con alcune specie di sciamanesimo praticato in Asia Orientale, data anche la coincidenza onomastica di śaman con śramana, quest’ultimo derivato dal verbo √šram = adoprarsi, affaticarsi. (2)

Le tappe della realizzazione interiore del myste, muni o śramana che sia sono accompagnate dalla penetrazione negli strati più profondi della coscienza, laddove egli attua la propria identità con le potenze che reggono, su di un’ottava cosmica, i processi della volontà, quelli stessi che, al livello fisico-sensibile, cui corrisponde la coscienza di veglia, sovraintendono nella compagine umana alle funzioni del ricambio, del movimento nello spazio e della generazione. La capacità, per esempio, che ha uno sciamano di compiere portenti che apparentemente vìolano le leggi della materialità ordinaria dipende dalla sua identificazione – la sua adaequatio, anubhava si direbbe in sanscrito (“diventare la cosa meditata”) – con quel livello di realtà che è soggettivamente un livello di coscienza.

La tradizione indiana, alla quale si è fatto riferimento, annovera quattro livelli di coscienza, che vengono simbolicamente riferiti ad altrettanti momenti dell’articolazione del verbo creatore espresso con il fonema OM (cioè AUM). La Mândukya Upanişad (Upanişad trad. Filippani Ronconi, Boringhieri 1974 III ed., pagg. 527 ss.), che qui cercheremo di riassumere con le parole stesse dell’Autore, così descrive i molteplici stati di coscienza e le corrispondenti condizioni ontologiche:

Om è questo indefettibile brahmanOm è tutto ciò che è; questa Upanişad ne è la spiegazione. Ciò che è esistito, ciò che esiste e ciò che esisterà, tutto ciò è compreso nella Om. Quell’altro, trascendente la tritemporalità, è pur esso designato da Om.

Tutto ciò che è, è invero il brahman (lo spirito universale); questo âtman  (lo spirito individuale) è il brahman; questo âtman ha quattro stati (catuşpat, “quattro piedi”).

La prima condizione è Vaiŝvânara (“comune a tutti gli uomini”), la quale ha come sede lo stato di veglia (jagarita-sthâna); essa ha conoscenza degli oggetti esteriori; ha sette membra, diciannove volti (3) e fruisce del mondo materiale.

La seconda condizione è Taijasa (“sostanziata di luce”, tejas), la cui sede è lo stato di sogno (svapna): essa ha conoscenza degli oggetti interiori; ha sette membra e diciannove bocche ed ha come dominio il mondo della manifestazione sottile.

Allorchè l’essere dormiente non prova più desideri, non è più soggetto a sogni, allora si ha la condizione di sonno profondo (suşupta). Colui che si è identificato a questo stato (ekī-bhūta) è divenuto sintesi di conoscenza, (prajñāna-ghana), si è fatto beatitudine (ânanda-maya) ed ha la beatitudine come campo di esperienza: la coscienza è il suo strumento di conoscenza. Costui è chiamato prajña (“conoscitore assoluto”). Questa è la terza condizione.

Egli è il Signore di tutto, Egli è l’onnisciente; Egli è l’ordinatore interno, matrice del tutto. Egli è l’origine e la fine di tutti gli esistenti.

I saggi pensano che il Quarto che non ha conoscenza né degli oggetti interni né di quelli esterni, né, contemporaneamente, di questi e di quelli, che non è sintesi di conoscenza, poiché non è né conoscente né non conoscente, che è invisibile, non agente, incomprensibile, indefinibile, impensabile, indescrivibile, è la sicura essenza fondamentale dell’âtman, nel quale è totalmente cessata ogni traccia di manifestazione, ed è pienezza di pace e di beatitudine, senza dualità; questo è l’âtman (così deve venir conosciuto).

Egli è l’âtman: riguardo alle lettere è super indefettibile, designato da Om, riguardo alla cui misure (adhi-mâtra) ogni piede del brahman corrisponde ad ogni sua misura, ogni misura sua ad ogni piede del brahman: questi piedi sono le lettere A, U, M.

Vaiŝvânara, la cui sede è lo stato di veglia, è designato dalla lettera A, che è la prima misura (mâtra) del monosillabo Om per il fatto che âpti (“connessione” fra i dati dell’esperienza sensibile) inizia con A. Colui che così conosca consegue (âpnoti) tutti gli oggetti di desiderio ed è il primo (âdi) in ogni impresa.

Taijasa, la cui sede è lo stato di sogno, è designato dalla lettera U, che è la seconda misura, in quanto utkarşa (“elevazione”) rispetto alla dualità di mondo materiale e mondo sottile (sūkşma): esso, invero, sublima (utkarşati) il flusso ininterrotto di conoscenza (jñâna-santati). Colui il quale ciò conosca è in armonia con il Tutto; non uno dei suoi discendenti ignorerà il brahman.

Prajña, la cui sede è lo stato di sonno profondo, è designato dalla lettera M, che è la terza misura, in quanto determina (miti) la “dissoluzione” (apîti, cioè la lisi della conoscenza oggettiva). Colui il quale ciò conosce diventa invero onnipenetrante.

Il Quarto stato (caturtha) è incommensurabile (a-mâtra, in quanto non soggetto ad esperienza), è non-agente, è al di là della manifestazione; esso è assoluta calma (śiva) e trascende la condizione di soggetto ed oggetto. Tale è la lettera Om. Colui il quale così conosca diventa puro âtman (“individuo assoluto”) e, mediante l’âtman (“il sé”) penetra nell’ âtman (“sé come spirito universale”).”

Ora, in particolare, il Quarto stato, al quale corrisponde l’esperienza (vegliante!) della catalessi, non si somma ai precedenti tre stati come loro ultimo, bensì è immanente in ognuno di loro, come atto di pura autoconoscenza  nella realizzata identità di âtman e di brahman, di spirito incarnato e di spirito universale.

Dal punto di vista metafisico, in riassunto, si tratta di ciò:

Il brahman, uscendo dalla sua assolutezza per una sorta di gioco magico – la mâyâ , substrato dell’“Illusione” esistenziale – si attua estravertendosi in quattro diversi livelli di conoscenza, ognuno dei quali contiene in potenza i successivi: l’Essere puro identico a sé stesso corrispondente al quarto stato; il Verbo (Vâk, Para-śabda), come causa, kârana, attraverso le sedici vocali, forme a priori delle sue infinite potenze (śakti) di manifestazione, cui corrisponde nell’uomo ordinario lo stato di sonno profondo; al livello invece di sonno con sogni corrisponde il piano delle forze sottili, sūkşma, come le forze psicofisiche dell’energia vitale volte verso la manifestazione del mondo su piano materiale, sthūla.

Dallo Spirito del Mondo, Mahân âtma, già “inespresso”, avyakta, possibilità di manifestazione in generale, discende la Psiche, Buddhi, che come Colonna di Luce connette il mondo dello spirito con l’anima dell’uomo, nella quale essa si individua come esperienza pensante (manas) ed esperienza riflessa dell’io (ahamkâra). Attorno a queste categorie si organizzano gli strumenti della percezione sensoria (nuddhîndriya), in dipendenza delle rispettive facoltà (karmêndriya) da cui gli universali della Natura obiettivata (tan-mâtra), le quidditates che, alla loro volta, danno luogo agli elementi “fisici”.

In pratica il mondo oggettivo esteriore viene dedotto dallo Spirito Universale interiormente intuito, per cui alla fine dei conti tutto i mondo che si dispiega dinanzi ai nostri sensi è un epifenomeno dello stesso spirito che se lo rappresenta! Questo metafisicamente spiega come i pensiero tradizionale, deducendo il mondo manifesto dallo Spirito che, in ultima analisi, è quello che se lo rappresenta, ammetta di poter operare su quello “magicamente”, partendo dalle facoltà interiori di rappresentazione e di volontà. Queste facoltà operano su diversi piani a seconda dell’energia che la volontà cosciente del praticante mette in funzione.

Di là dal potere logico-discorsivo che coglie il mondo paralizzato nella sua parvenza “minerale” sulla dimensione spazio-temporale, a livello di sogno si ha l’immaginazione, che sperimenta il mondo nella sua realtà di energia pura su di una dimensione di “durata”, cioè di sintesi temporale, non ancora frantumata nella successione degli “attimi” (anu); di là da questa, a livello di sonno profondo, l’asceta sperimenta il mondo come pura “sonorità” (nâda), che si rifrange nelle sedici “vocali” (svâra), “vesti di potenza” dell’assoluto (śakti, le “piccole madri”, mâtrikas, della realtà), il quale costituisce la “quarta” dimensione della realtà, essenziata di pura coscienza autoluminosa (prabhâsvaram cittam), pura immanenza in tutte le possibili forme di coscienza.

Questa concezione relativa alla molteplicità degli stati di coscienza, che fra l’altro è eminentemente sviluppata nella letteratura tantrica dell’India, costituisce la base per la speculazione e la pratica dell’ascesi mahâyâna in India e nel Tibet, con un riflesso immediato sullo sciamanesimo Bon-po, che ne ha pienamente accolto la teoria.

Questa esperienza, più che teoria, dei quattro stati di coscienza è, in pratica, il fondamento epistemologico su cui si basa la meditazione filosofica indiana (anvīkşikī), volta non tanto a raggiungere una spiegazione logica dell’Universo e della nostra esistenza in esso, quanto a sperimentare concretamente il suo significato e la sua efficienza, al fine di ottenere la “liberazione in vita” (jīvân-mukti); liberazione da un’esistenza condizionata dall’Ignoranza (avidyâ), dal dolore (duhkha), malattia e morte.

Ma anche, indipendentemente dal caso del vîra, l’“eroe” che nella pratica dello yoga si propone di conseguire la libertà da tutti i vincoli e l’immortalità, la penetrazione cosciente e desta nei livelli in cui l’uomo comune, il pâsu (l’animale), si assopisce perdendo il senso dell’”io sono”, è la condizione imprenscindibile anche per l’asceta meno qualificato che miri a conseguire le siddhi, i poteri magici.

A questo punto si può formulare l’ ipotesi che tutte quelle tecniche psicofisiche, che caratterizzano le varie Religiones Secundae come lo Sciamanesimo, le forme popolari del Tao-chiao, i culti estatici, che vegetano come forme crepuscolari liturgico-devozionali accanto alle grandi religioni, ad esempio i vari ordini di dervisci nell’Islam (specialmente i Mevlevî ed i Bektashî), attingano quel sapere frammentario ed evanescente che guida le loro pratiche da una remota esperienza di quell’insieme di discipline, le quali nella loro interezza sono tuttora il retaggio curato e filosoficamente giustificato dello Yoga classico e delle altre forme della medesima disciplina che ci sono state trasmesse dai Tantra sia hindu che buddhisti, dagli Âgama dello Śaiva-siddhânta e dal Vajra-yâna mahâyânico. Per loro si tratta di discendere – giovandosi di vari appigli psicofisici: concentrazione mentale su adatti monoideismi e stati alterati di coscienza dovuti ad ingestione di funghi, fumo prolungato, consumo di droghe, ecc. – ad un livello di coscienza profonda profondo, che non è semplicemente mentale, bensì implica differenti dimensioni oggettivamente e strumentali, e su di esso sperimentare non passivamente un’alterazione dell’”appoggio”, se non addirittura ciò che nel Mahâyâna si denomina “la revulsione dell’appoggio”, âśraya-parâvrtti, per cui i rapporto con la realtà fisico-sensibile è causato non più da un passivo determinismo che l’asceta subisce, bensì da una diversa causalità a cui lo sciamano ha accesso. Si tratta, per dirla semplicemente, di animare i poteri dell’immaginazione (non “fantasia”!) sul livello a cui l’uomo comune si assopisce, dell’ispirazione, al livello (per gli altri!) di sonno profondo, ove operano le potenze della volontà con un percorso opposto a quello del pensiero ordinario, e, infine, dell’intuizione, al livello di catalessi, laddove si attua, di là da qualunque possibile cogitazione, l’identità fra soggetto ed oggetto dell’esperienza, la cosmica epopteia (4) dei Misteri antichi.

Fin qui si è cercato di tratteggiare alcuni caratteri psicologici di coincidenza fra lo Yoga e lo Sciamanesimo, per cui rimane il dubbio se alcune forme di Yoga non “classico”, che da millenni si perpetuano nelle scuole settarie, non rappresentino lo sviluppo ambientale di alcune branche di sciamanesimo antico, la cui arcaicità può risalire alla scoperta della fusione dei metalli, data l’importanza, positiva o negativa (vedasi la maledizione contro la professione di fabbro presso i Berberi di contro la posizione quasi regale del fabbro tra Altaici, Malesi ed Estremo-orientali), che assume l’armamentario metallico presso gli Sciamani. Questo potrebbe essere oggetto di uno studio approfondito di natura tecnica, antropologica, sociale, ecc.

Volendo riassumere i caratteri più specificamente comuni delle varie specie di Sciamanesimo si potrà dire che essi sono quelli relativi all’estasi, all’entrata in condizioni non usuali di consapevolezza, allo sviluppo di facoltà extrasensoriali e dei poteri ad esse connessi (siddhi, mna), ciò che ci riporta al tema dei molteplici stati di coscienza che sono alla base dello Yoga, sia quello “classico” che quello praticato dalle numerose sétte gnostiche in India e nel Tibet. Nell’ambito del Vajrayâna e delle scuole da questo derivate nel Tibet (Sahaja-yâna e Kâla-cakra) tali esperienze, che in pratica rivelano diverse dimensioni dell’esperienza cosciente, acquistano una specie di status ontologico, ipostatizzandosi nella triplice ottava di corpo-verbo-mente (kâya, vâk, citta), che corrisponde ai primi tre stati di coscienza postulati, come detto sopra, dalla Mândukya Upanişad o, nell’ambito strettamente soteriologico, dalla realizzazione della quadruplice mudrâ, o dal quadruplice vuoto mediato dall’âśraya-parâvrtti, la “revulsione” dell’appoggio dato dall’esperienza sensibile del  mondo, la quale “revulsione” conduce alla realizzazione del vuoto (śûnyata, tib. ston-pa-ñid) di là dal mondo dell’Illusione esistenziale (mâyâ, tib. Sgyu-maán, ak’rul-snán).

A voler riassumere, a parte la chiesa Bon-po, che ha assorbito i criteri fondamentali dell’avversario Buddhismo e si è perciò organizzata e sistematizzata, lo Sciamanesimo presenta l’immagine di un sapere estremamente arcaico, proprio ad una remotissima cultura, ormai crepuscolare, proprio perché si è rarefatto i tipo umano che la sostentava, per i quale era ancora naturale l’accesso in diverse condizioni spirituali, nelle  quali l’uomo odierno – assiato su di un’esperienza astratta della realtà – perde la coscienza. Si tratta di una fase culturale per la quale diciannove secoli fa Plutarco di Cheronea constatava smarrito la “morte del grande Pan”.

Sulle ali della nostalgia per una sapienza prossima ad estinguersi e pur tuttora vivente fra rade popolazioni disperse, lungi dai percorsi della civiltà moderna, si perpetua ancor oggi la mistica tradizione dei poteri dell’anima ai quali l’iniziazione schiude l’accesso. Si tratta essenzialmente di discendere con rinvigorita consapevolezza negli stati di coscienza medesimi, nei quali la vigile presenza dell’”io” si attenua e sparisce presso l’uomo comune, mentre per l’iniziato si accende nell’acquisto di conoscenze che sono contemporaneamente poteri; primo tra tutti il mistico calore, il tapas, già mentovato nel Rg-veda (X, 136), il tibetano gtun-mo, che permette di trascendere i limiti spaziali e temporali, indi le sei siddhi elencate nei tantra della “mano sinistra” (scrt. Vâma-cara). E’ il mondo delle kha-carînî (tib. mkha agro), le “viaggiatrici nello spazio” dotate di miracolosa e temibile potenza (si pensi alle nostrane streghe volanti attorno al famoso Noce di Benevento).

Resta il dubbio che la condizione animica della “entrata in phronesis” (scrt. Krodha-âveśa, tib. khro-ba), disciplina individuale che permette lo sciogliersi dalla coscienza legata alla percezione del mondo materiale, non sia altro che una “irruzione di stati pre-individuali” con il loro naturale carico astrale nella coscienza di veglia, condizione ben conosciuta nei Tantra ai quali si è alluso più sopra. Degenerazioni di questa pratica possono essere gli stati di amok e di lalat ben conosciuti tra le popolazioni malesi ed indonesiane. Discipline volte alla realizzazione di questa specie di wut sciamanico potrebbero anche essere il furu-tama ed il funa-koshi, praticati in alcune arti marziali giapponesi.

Note

(1)   Acharya Shri Tuls: Prevedic existence of śramana tradition, XXVI International Congress of Orientalists, New Delhi, 4-1-1964)
(2)   Il termine prototurco dovrebbe essere a rigore kami (non si dimentichi che in giapponese kami sono propriamente gli “spiriti”), mentre il mago con funzione regale è detto bek, bekki.
(3)   Le sette membra cono i sette strumenti dell’azione: il mentale, il sole e la luna (corrispondenti ai due occhi), il fuoco (il soffio vitale della bocca), le direzioni dello spazio (l’orecchio), l’atmosfera (i polmoni), l’etere ove sono foggiate le forme (lo stomaco che elabora il cibo per l’accrescimento del corpo), la terra (il corpo umano come materia); le diciannove bocche sono gli strumenti dell’esperienza: i cinque organi di percezione, le cinque facoltà di azione, i cinque soffi vitali, il mentale, l’intelletto, il pensiero associato, l’organo dell’egoità.
(4)   Cioè: contemplazione, il più alto livello nell’iniziazione ai Misteri Eleusini.

Apparso sul numero 3 del primo anno di pubblicazione della rivista simmetria | http://www.simmetria.org

La psicoterapia centrata sulla persona di Peter F. Schmid

La psicoterapia centrata sulla persona. Aspetti e caratteristiche fondamentali di Peter F. Schmid

La Psicoterapia Centrata sulla Persona (anche detta Centrata sul Cliente) è la forma di Psicoterapia Umanistica più nota e diffusa nel mondo. E’ stata fondata da Carl Rogers (1902 – 1987) e dai suoi colleghi negli anni ’40 negli Stati Uniti d’America. Oggi, l’Europa rappresenta il centro principale di interesse per lo sviluppo della teoria e della pratica della Terapia Centrata sulla Persona.
La sua caratteristica peculiare è che pone l’esperienza del cliente, del terapeuta e il presente immediato della loro relazione al centro dell’attenzione. Inoltre, la terapia centrata sulla persona tenta di collocare il suo “lavoro” il più vicino possibile all’esperienza del cliente nella relazione presente. Quindi, è la pratica dell’immagine di un essere umano che comprende l’uomo come persona. L’esperienza dell’individuo viene presa seriamente senza nessuna precondizione, ma semplicemente come egli/ella è nell’immediato; come la persona è divenuta ed è attraverso le sue relazioni; quello che è al presente e come è capace di divenire in futuro. Questo include il divenire della persona, come è nelle relazioni, come è al momento attuale e come riesce a svilupparsi ulteriormente nel suo futuro.
Si dà fiducia alla capacità del cliente di essere capace di vivere la propria vita e di affrontare i problemi contando sulle proprie risorse, nel caso in cui possa vivere una relazione dove siano presenti certe condizioni facilitanti. Tutto ciò comporta la rottura con l’immagine e la funzione tradizionali del terapeuta come esperto dei problemi del cliente.
Al contrario, il terapeuta si considera collaboratore e compagno che cresce insieme al cliente in un processo di incontro da-persona-a-persona. Un’altra caratteristica fondamentale della psicoterapia centrata sulla persona è che la teoria e il linguaggio centrati sulla persona sono vicini all’esperienza colloquiale. Infine, l’incoraggiare apertamente la ricerca continua e lo sviluppo ulteriore della teoria e della pratica, è stata parte della tradizione centrata sulla persona da oltre 60 anni.
Al di là della psicoterapia, l’Approccio Centrato sulla Persona è un modo di essere e di lavorare con le persone in una vasta gamma di ambiti della sfera umana, dove le relazioni interpersonali hanno un ruolo centrale.La Psicoterapia Centrata sulla Persona è un modo di relazionarsi con le persone, da individuo a individuo o in gruppi, che favorisce lo sviluppo della personalità attraverso l’incontro personale. Questo tipo di psicoterapia parte dal presupposto che ogni persona ha la capacità e la tendenza ad utilizzare le proprie risorse in modo costruttivo. Il fatto di vivere in maniera soddisfacente, sia dal punto di vista individuale sia nelle relazioni, viene realizzato attraverso una autocomprensione crescente, e quindi con un’apertura meno difensiva nei confronti del flusso dell’esperienza. Questa tendenza attualizzante delle proprie potenzialità è stimolata e sostenuta dall’incontro da-persona-a-persona. Questo incontro di un altro individuo è una forma di relazione caratterizzata dal rispetto fondamentale ed esplicito del terapeuta.
La qualità della presenza del terapeuta in questo incontro è autentica, congruente, con il riconoscimento (positivo) incondizionato della alterità individuale del cliente, profondamente empatica e non giudicante. Sia il terapeuta che il cliente crescono insieme in questa relazione.
Questi principi generano alcune caratteristiche essenziali alla psicoterapia centrata sulla persona sia nella pratica individuale sia in quella con i gruppi.
Etica
L’etica è fondata sull’esperienza dell’incontro. Questo significa esser chiamati a rispondere ad altre persone in difficoltà, con abilità di responso e solidarietà. Quindi la psicoterapia centrata sulla persona è sempre al contempo un modo di agire individuale, sociale e politico.

Antropologia

L’immagine dell’essere umano che è alla base della comprensione della psicoterapia, fondata com’è sulla visione di uomini e donne in quanto persone, suggerisce la dialettica dell’autonomia e della interconnessione. L’elemento centrale di questa nozione è la fiducia nella tendenza attualizzante come la forza motivazionale che opera in modo costruttivo per conto del cliente in relazioni facilitanti. Essa implica che sono cruciali per questo progetto le condizioni necessarie e sufficienti per il cambiamento terapeutico in psicoterapia descritte da Carl Rogers.
Queste condizioni sono: il contatto psicologico tra il cliente e il terapeuta; il cliente incongruente nella relazione; il terapeuta congruente nella relazione; il terapeuta che sperimenta l’accettazione positiva incondizionata verso il cliente; la comprensione empatica del terapeuta del mondo interiore del cliente e della sua comunicazione; infine l’esperienza del cliente dell’accettazione positiva e dell’empatia almeno ad un livello minimo.
Di conseguenza, queste condizioni non devono essere considerate nè tecniche nè metodi, ma piuttosto un modo di essere del terapeuta con il cliente. Quindi, quando il terapeuta è presente per il cliente, non esiste nessuna agenda terapeutica celata. Il terapeuta accetta il cliente così com’è, nel qui e ora – incluso che cosa ha portato il cliente e il motivo per cui è tale in quel preciso momento e anche le possibilità di ulteriore sviluppo nel suo futuro. Questo esclude la diagnosi e la patologizzazione del cliente ed impedisce che il terapeuta abbia qualsiasi metodo predefinito. Una tale mancanza di categorizzazione invita il terapeuta a sperimentare il cliente come un individuo unico, abbracciandone l’intera persona senza preferenze nè discriminazioni.
Questo favorisce la concettualizzazione degli aspetti di umanità come “prospettive” ugualmente valide (quindi una “prospettiva femminile”) e celebra ogni differenza di genere, di sesso, di abilità diverse, di religione, di cultura, di razza, ecc. Significa, inoltre, che il terapeuta non si concentra solamente sui sentimenti o sull’interazione verbale, ma dà anche spazio e presta attenzione al corpo e allo spirito, alle cognizioni, alle idee, alle emozioni, ecc.

Epistemologia

L’epistemologia si basa sulla empowerment. L’approccio centrato sulla persona si fonda su un’epistemologia fenomenologica. Questa permette una serie di possibilità di comprensione (quindi è costruttivistica) e una varietà di possibilità di realizzare in pratica (quindi è pluralistica). E’ personale e olistica poichè abbraccia l’organismo come un tutto integrato e quindi si interessa della comunicazione dialogica, empatica ed ermeneutica. Ermeneutica nel senso più ampio di comprensione del significato delle comunicazioni personali, non nel senso di interpretazione da parte di un esperto che ha la presunzione di saperne di più dello autore stesso di tale affermazione.
Teoria della personalità e psicologia evolutiva
La psicoterapia viene considerata una forma particolare di sviluppo della personalità e delle relazioni interpersonali. Di conseguenza, i principi dell’approccio possono essere adattati ad altre forme di relazione e ambiti di vita. La teoria centrata sulla persona si focalizza maggiormente sul processo di sviluppo di una persona cosiddetta “sana” – i suoi principi non nascono da una teoria della malattia. Questi principi fondamentali si applicano a tutte le persone indipendentemente dalle categorie come quelle dei “nevrotici”, “psicotici”, “borderliner” o “normali”. Invece di una teoria convenzionale di malattia troviamo una teoria della persona che soffre basata sul potenziale umano, e al posto di una terapia orientata al problema, all’obiettivo o alla soluzione, troviamo una terapia centrata sulla persona.
Lo sviluppo della personalità e l’integrazione determinano una capacità crescente di vivere appieno il momento; di avere un’immagine di sè meno distorta, meno difensiva e più completa (con una percezione più adeguata sia dei fenomeni sia dei cambiamenti dell’esperienza), e di vivere le relazioni in modo più realistico. (La teoria centrata sulla persona si interessa molto di più dei processi che delle strutture). Questo naturalmente coincide con una maggior autodeterminazione e autoresponsabilità. Inoltre, per essere compatibile con i principi fondamentali, con la formazione, ovvero l’educazione di psicoterapeuti nell’approccio centrato sulla persona, questa teoria è radicata nello sviluppo della personalità del terapeuta in formazione, piuttosto che nella formazione e nella pratica di abilità – la parola tedesca “Aus-bildung” denota proprio questo processo del divenire.
Teoria e pratica della terapia
Il terapeuta si focalizza sull’esperienza, la comprensione e la valutazione che il cliente ha del proprio mondo interiore. Il terapeuta segue il cliente attraverso il suo mondo interiore dovunque e in qualunque modo si muova, seguendo il ritmo del cliente. In questo senso, si tratta di un approccio esperienziale e fenomenologico. Il terapeuta è a disposizione del cliente come persona in carne ed ossa e non solo nella veste di terapeuta. E’ di cruciale importanza per lo sviluppo di entrambi, cliente e terapeuta, che la loro attenzione per il presente immediato, sperimentato nella relazione, sia il più possibile scevro da giudizi o interpretazioni. Le attitudini di autenticità, accettazione positiva incondizionata e comprensione empatica sensibile in questo processo, implicano una contrapposizione radicale nei confronti degli approcci centrati sugli esperti (in termini di contenuti e anche di processo) enfatizzando che è la persona in quanto tale, e non le tecniche, nè i metodi, nè le abilità, che costituisce l’agente attivo di cambiamento. Il terapeuta offre un modo di essere con il cliente che rende possibile un processo di comunicazione e di incontro che muove verso la reciprocità e il dialogo.
Le conseguenze pratiche dell’esposizione chiara dei principi terapeutici fondamentali nella forma di “condizioni terapeutiche”, implicano il fatto di poter essere utilizzate come punti di riferimento per assicurare che tutti gli aspetti della pratica (compresi persino quegli aspetti concreti come la strutturazione del setting terapeutico) siano adeguati ai bisogni e alle possibilità del cliente e del terapeuta. Un’altra conseguenza è che la relazione terapeutica ha facoltà di esprimersi in vari modi, verbalmente, con il corpo, con l’ausilio di mezzi espressivi, creativi o artistici, se il cliente lo desidera.Ricerca e sviluppo della teoria
Le riflessioni filosofiche che nascono dal lavoro terapeutico costituiscono una parte importante dello sviluppo della psicoterapia. Questo avviene sia a livello del singolo professionista e del caso, ma anche in termini di psicoterapia in generale. La ricerca continua, compresi gli studi empirici, è necessaria per migliorare la qualità e lo sviluppo ulteriore della pratica di psicoterapia. La psicoterapia centrata sulla persona ha una tradizione di innovazione nella ricerca, sia per lo sviluppo di una miglior comprensione della scienza e della ricerca, sia per la sfida ai paradigmi tradizionali della medicina, della scienza naturale e della ricerca. In termini di una teoria della scienza, un’adeguata comprensione della psicoterapia deve includere le persone impegnate in tale processo e deve essere sviluppata al di là dei concetti tradizionali. La teoria viene continuamente esaminata, sviluppata e possibilmente revisionata alla luce dell’esperienza e della ricerca.
Politica e rilevanza sociale
Professionisti, teorici e ricercatori, sono invitati, o anche esortati, a trovare il proprio modo individuale di interpretare la pratica sulla base di queste convinzioni e attitudini. Questi principi rappresentano più di una teoria della terapia, essi rappresentano una filosofia di vita, entro cui sperimentare in modo responsabile e con il sostegno reciproco. Questo indica una sfida mondiale psicologica, sociale, culturale, politica e – prima di tutto – etica, che non dà spazio alcuno all’ortodossia, al fondamentalismo, nè ad un eclettismo irriflessivo e neppure ad un atteggiamento del tipo, “fai quel che vuoi fintanto lo fai in modo congruente”.
L’approccio centrato sulla persona, al di là della psicoterapia, è una attitudine, un modo di essere in molti ambiti di vita e di lavoro interpersonale. E’ un tipo di approccio che va contro le varie correnti di ZEITGEIST, come ad esempio quelle riguardanti l’efficienza e l’efficacia dei costi che pensano solo in termini di come eliminare i problemi il più velocemente, economicamente e nella maniera meno indolore possibile.

 

Bibliografia consigliata
Rogers, Carl R. (1961) On becoming a person: A therapist’s view of psychotherapy. Boston: Houghton Mifflin.
Rogers, Carl R. (1980) Client-centered psychotherapy. Kaplan, H.I., Freedman, A.M. & Sadock, B.J. (eds.),
Comprehensive textbook of psychiatry, III, Vol.2, Baltimore, M.D: Williams and Wilkins, 3rd ed. 1980, pp.2153-2168.
Schmid, Peter F. (1999) Personzentrierte Psychotherapie. Sonneck, Gernot / Slunecko, Thomas (eds.), Einführung in die Psychotherapie. Stuttgart: UTB fur Wissenschaft – Facultas, pp.168-211; anche: http://www.pfs-online.at
Schmid, Peter F. (2001) “The necessary and sufficient conditions of being person-centered”: On identity, integrity, integration and differentiation of the paradigm. In Watson, J. (Ed.), Client-centered and experiential psychotherapy in the 21st century: Advances in theory, research and practice. Ross-on-Wye: PCCS Books; anche: http://www.pfs-online.at
Thorne, Brian & Lambers, Elke (1998) Person-Centered Therapy: A European Perspective. London: Sage.
Sull’autore
Peter F. Schmid, Univ. Doz. HSProf. Mag. Dr.
Nato nel 1950; Professore Associato all’Università di Graz, Styria; docente in varie università europee; psicoterapeuta centrato sulla persona; esperto teologo e psicologo pastorale; fondatore del corso centrato sulla persona e di altri corsi in Austria dove è condirettore dell’Accademia di Counselling e di Psicoterapia dell’Istituto degli Studi Centrati sulla Persona.
Membro del Direttivo dell’Associazione Mondiale (WAPCEPC) e della Network Europea (NEAPCEPC).
Ha scritto numerosi libri e articoli sull’antropologia e sugli sviluppi dell’Approccio Centrato sulla Persona.
Traduzione di Albero Zucconi – Presidente dell’Istituto dell’Approccio Centrato sulla Persona (IACP) www.iacp.it 

Come evitare l’estinzione? Rifkin e l’empatia di Laura Nuti

“Siamo una specie sociale fatta più per l’empatia che per l’autonomia”. Questo sostiene l’economista Jeremy Rifkin (l’intervista è del New Scientist) che nel suo ultimo libro La Civiltà Empatica illustra i vantaggi -anche economici- che un nuovo modo di intendere l’umanità potrebbe arrecare e mette in guardia verso i rischi che stiamo correndo – e sottovalutando.

“Quando convergono rivoluzioni in campo energetico e comunicativo nascono nuove ere economiche che portano a cambiamenti di coscienza e a un aumento di empatia.” – spiega Rifkin – “Le società agricole che crearono i primi sistemi di irrigazione su scala videro la nascita della scrittura. La coscienza mitologica delle culture orali si trasformò con la scrittura in una teologica. Nel processo l’empatia è aumentata.

Nel XIX secolo nuove energie come carbone e vapore coincisero con grandi innovazioni nel campo della comunicazione e della stampa. Questa sinergia portò alla creazione delle scuole pubbliche e l’alfabetizzazione di massa in Europa e in Nord America. Si passò dalla coscienza teologica a quella ideologica. Lo stesso cambiamento si ebbe con la seconda rivoluzione industriale nel XX secolo che portò alla nascita della coscienza psicologica.

Ogni convergenza di innovazioni nel campo dell’energia e delle tecnologie di comunicazione ha cambiato la nostra coscienza, esteso le nostre reti sociali e espanso la nostra empatia”.

 

Ritengo che ci troviamo al punto di svolta verso una transizione epocale a un’economia «climacica» globale e a un radicale riposizionamento della presenza dell’uomo sul pianeta. L’era della ragione sta per essere sostituita dall’era dell’empatia.

Tratto dal libro La civiltà dell’empatia.

 

Forse la domanda cruciale alla quale l’umanità deve dare una risposta è: possiamo raggiungere l’empatia globale in tempo utile per evitare il crollo della civiltà e salvare la terra?

Il riscaldamento globale è la minaccia più grande che il genere umano si sia mai trovato ad affrontare. Se vogliamo salvarci dall’estinzione dobbiamo abbracciare un nuovo modello di società basato sull’empatia. Parola dell’economista Jeremy Rifkin che nel suo ultimo libro “La Civiltà Empatica” illustra i vantaggi -anche economici- che un nuovo modo di intendere l’umanità potrebbe arrecare e mette in guardia verso i rischi che stiamo correndo – e sottovalutando. L’intervista è del New Scientist.

 

La fine di un’era

Per Rifkin l’età moderna sta per terminare. Sono i fatti a parlare. Nel luglio 2008 il prezzo del petrolio ha raggiunto 147$ al barile e in 30 paesi sono scoppiate lotte per il cibo. Il contraccolpo è arrivato 60 giorni dopo con il crollo dei mercati. La civiltà del petrolio è agli sgoccioli.

 

La terza rivoluzione industriale

Rifkin: “Dobbiamo ripensare le politiche economiche e porre la termodinamica alla base della teoria economica. Il prezzo dell’energia influenza qualsiasi tipo di prodotto creiamo. Allo stesso tempo gli effetti dei cambiamenti climatici stanno danneggiando le economie di molti paesi attraverso drammatici eventi atmosferici che portano alla distruzione di infrastrutture agricole e interi ecosistemi. La terza rivoluzione industriale sarà guidata in parte dalla necessità di rimediare ai danni causati dalle prime due”.

 

Le domande

Rifkin: “Come è possibile che i nostri leader non siano stati capaci di anticipare e provvedere alla fine della seconda rivoluzione industriale? Perché non sono in grado di prendere provvedimenti efficaci circa i cambiamenti climatici quando gli scienziati ci ricordano che è la più grossa minaccia che la nostra specie si è trovata ad affrontare?” si chiede Jeremy Rifkin.

 

Le risposte

Rifkin: “I nostri leader stanno usando idee del XVIII secolo per risolvere i problemi del XXI. L’idea dominante è tuttora quella che gli umani siano esseri razionali, distaccati, che perseguono il proprio interesse e che le nazioni debbano riflettere questa visione. Ma è possibile risolvere i problemi della biosfera e di 7 miliardi di persone se siamo indifferenti, privi di passione e guidati solo dai nostri interessi personali?”

 

Da Homo sapiens a Homo Empathicus

Rifkin: “Molte scoperte recenti in campo biologico, neurologico e antropologico ci offrono un’immagine dell’essere umano diversa rispetto a quella in voga durante l’illuminismo. Per esempio, la scoperta dei neuroni specchio dimostra che siamo una specie sociale fatta più per l’empatia che per l’autonomia”.

 

L’empatia e la storia

“Quando convergono rivoluzioni in campo energetico e comunicativo nascono nuove ere economiche che portano a cambiamenti di coscienza e a un aumento di empatia.” – spiega Rifkin – “Le società agricole che crearono i primi sistemi di irrigazione su scala videro la nascita della scrittura. La coscienza mitologica delle culture orali si trasformò con la scrittura in una teologica. Nel processo l’empatia è aumentata.

Nel XIX secolo nuove energie come carbone e vapore coincisero con grandi innovazioni nel campo della comunicazione e della stampa. Questa sinergia portò alla creazione delle scuole pubbliche e l’alfabetizzazione di massa in Europa e in Nord America. Si passò dalla coscienza teologica a quella ideologica. Lo stesso cambiamento si ebbe con la seconda rivoluzione industriale nel XX secolo che portò alla nascita della coscienza psicologica.

Ogni convergenza di innovazioni nel campo dell’energia e delle tecnologie di comunicazione ha cambiato la nostra coscienza, esteso le nostre reti sociali e espanso la nostra empatia”.

 

Perché Copenaghen 2009 è stato un fallimento?

Rifkin: “I leader continuano a pensare in termini di geopolitica. Se ognuno pensa al profitto della propria nazione non si può trovare una soluzione. Bisognerebbe pensare in termini bio-politici per fare gli interessi della biosfera”.

 

Responsabilità condivisa

Il gioco di squadra sembra essere il solo modo per scampare all’estinzione secondo Rifkin.

Dobbiamo condividere la responsabilità che abbiamo nei confronti della biosfera e dell’umanità. Non basta che ognuno si prenda cura della sua parte. Il tipo di empatia necessario per far avvenire qualcosa del genere è già presente nella nostra cultura allo stato embrionale: basta pensare a quanto velocemente abbiamo empatizzato con gli studenti iraniani e con le vittime del terremoto di Haiti.

“E’ una novità – stiamo pensando come razza umana. Abbiamo ancora una buona dose di xenofobia e pregiudizi ma penso che abbiamo colto la scintilla di qualcosa di nuovo e dobbiamo agganciarci ad essa perché è in gioco la nostra sopravvivenza” – continua Rifkin.

 

Empatia di mercato

Rifkin: “Molti uomini d’affari sostengono che non puoi essere empatico sul mercato. Ma il mercato è un’istituzione secondaria – è un’estensione della cultura. Il mercato è fondato sulla fiducia che è il risultato di un impegno empatico. Il mercato esiste solo se le persone confidano che gli accordi presi verranno onorati. Quando questa fiducia viene meno i mercati collassano ed è quanto sta avvenendo ora. Se, come dicono gli scienziati, la nostra vera natura è quella di Homo Empathicus forse dovremmo iniziare a costruire nuove istituzioni che riflettano l’essenza della nostra natura”.

Traduzione e adattamento di Laura Nuti

ETERE, DIO E IL DIAVOLO di Wilhelm Reich

Ogni vera religione corrisponde all’esperienza cosmica, “oceanica” dell’uomo. Ogni vera religione contiene l’esperienza di un’unità dotata di un’onnipresente potenza, e simultaneamente di una temporanea e penosa separazione da questa potenza. L’eterno desiderio del ritorno alla propria origine (“ritorno al grembo materno”; “ritorno alle braccia di Dio”; ecc.), di essere di nuovo abbracciati dall’ “eterno”, pervade ogni desiderio umano. Sta alle radici delle grandi creazioni intellettuali e artistiche dell’uomo; il nucleo e l’anima dei suoi desideri durante l’adolescenza; pervade tutti i principali scopi dell’organizzazione sociale. E’ come se l’uomo desiderasse comprendere il perchè della sua separazione dall’immenso spazio cosmico; idee come quella del ” peccato ” hanno origine da un tentativo di spiegare tale separazione.

Deve pur esserci una ragione del fatto che non siamo uniti a “DIO”; deve pur esserci una strada per riunirci ad esso, per ritornare, per tornare a casa. Nella lotta tra l’origine cosmica e l’esistenza individuale dell’uomo nacque in un modo o nell’altro, l’idea del “diavolo”. E’ perfettamente la stessa cosa se lo si chiama ” inferno “, o ” hell “, o ” ade “. La stirpe umana non sapeva nulla dell’ “etere ” come entità fisica. Percepiva l’etere come “Dio”, “prana”, “entelechia”, ecc. L’idea di un un “futuro migliore”, ovvero del “paradiso”, era incentrata sull’idea della “unità con Dio “. Ma Dio, simbolo del processo vitale della mente umana, non poteva essere raggiunto, e rimaneva eternamente inaccessibile. Essendo solo una minuscola frazione dell’immenso spazio orgonico cosmico, l’animale, l’uomo, non poteva sperare di raggiungere l’onnicomprensibile creatore.

Ciò che poteva fare, tuttavia, era di sperare nella salvezza attraverso la resurrezione del Messia, che lo avrebbe liberato dai suoi peccati e avrebbe riunito la sua anima con lo spazio orgonico cosmico (” nirvana “, ” ritorno a Dio “). Perchè , ci si potrebbe chiedere, l’uomo non si sentiva unito immediatamente col suo Dio? Perchè si sentiva corrotto? Perchè era necessario la redenzione, come nella religione cristiana, o punizioni severe come nella religione giudaica? Che tipo di realtà sta alla base dell’idea del” diavolo ” e di simili produzioni fantastiche della mente umana? La maggior parte delle filosofie religiose e delle indagini scientifiche sulla religione non sono riuscite a fornire una spiegazione plausibile del diavolo, perch si muovevano all’interno del dominio del pensiero umano dominante, e mai al di fuori di esso.

Non descrivevano nè indagavano il carattere umano dal punto di vista del suo ambiente cosmico, ma, al contrario, spiegavano il cosmico in termini di natura umana. Di conseguenza esisteva un’entità come il diavolo, o qualche altro tipo di essere maligno, intesi come la controparte di Dio. Dio era il bene e il diavolo era il male. Dio era irraggiungibile, inconoscibile, al di là della capacità di comprensione della mente umana; ma l’anima dell’uomo era presa e stretta tra gli artigli del diavolo. Dio e diavolo erano assolutamente opposti. Ambedue le idee scaturivano da gravi errori. Ambedue avevano la loro origine nella struttura del carette umano. Ambedue erano degli ostacoli molto potenti sul cammino dell’uomo che porta alla comprensione della sua vera natura, e alla realizzazione di se stesso. Restavano inaccessibili le seguenti semplici funzioni della vita: i rapporti naturali di lavoro tra gli uomini.

Essi erano in realtà il fondamento dell’esistenza umana, ma l’uomo non lo sapeva. Inoltre egli non capiva e pensava fossero qualcosa di peculiare quando gliene si parlava. D’altro canto, proprio chi non aveva nessun fondamento nell’esistenza umana, il politico, il cavaliere, il re, il rappresentante di Dio di contro al diavolo, ecc, ha posseduto la mente dell’uomo attraverso i secoli. L’uomo attivo aveva una grande responsabilità quando costruiva ponti o guidava treni o educava bambini. In realtà egli aveva questa responsabilità in ogni movimento del suo corpo, ma non lo sapeva. Pensava di non essere nessuno, pensava che solo il suo padrone, il suo giudice o il capo della polizia fossero gravati dalla responsabilità sociale.

L’uomo attivo vedeva la natura funzionare e crescere nei suoi figli attraverso i millenni. Vedeva che i suoi figli nascevano come animaletti forniti di organi genitali e desideri culturali. Ma non capiva il senso di questa realtà, e puniva i suoi bambini perchè erano animali. In verità Dio aveva creato ogni cosa, compresi i genitali. Ovviamente era proprio perchè i genitali funzionavano che erano nati i bambini. Ma d’altronde avere degli organi genitali era una cosa vergognosa, dovuta in certo qual modo ad una istituzione demoniaca; toccarli era peccato grave. Per millenni un’organizzazione terribile potente predicò che il piacere dell’unione genitale era peccaminoso. E l’uomo vi credette; non sentiva il proprio corpo, non aveva fiducia nei propri sensi, trascurò la sua vera origine e smarrì la chiave della sua fecondità.

L’uomo attivo aveva nelle sue mani tutto il potere di cui aveva bisogno per essere veramente libero, ma non lo sapeva e finì con consegnare tale potere ad un padrone. Avrebbe potuto evitare tutte le guerre della storia dell’umanità, ma non sapeva che avrebbe potuto farlo. La sua vita reale era qui, e le sue idee sulla vita erano là. Ciò che faceva percorrere alla vita il suo corso veniva disprezzato: il lavoro manuale, l’amore adolescente, i giochi genitali dei bambini, la gioia della vita. Ciò che era istituito per uccidere la vita veniva invece sommamente onorato: l’imperatore, il gesuita, l’assassinio professionista del popolo. Quando si era acquisita una certa maturità nelle questioni politiche, si votava per un ministro, ma non si votava pro o contro la guerra.
L’uomo era pieno di curiosità sessuale e di miseria; le sue riunioni mondane, le sue edicole e i suoi sogni scoppiavano di ” sesso “. Ma aveva bandito dalle università la conoscenza della convulsione orgastica del plasma e della vita. Cosa significa tutto ciò? Che senso c’è in questo nonsenso? Deve pur esserci un senso, come in ogni tipo di comportamento irrazionale. Non si può far progredire l’esistenza umana biasimando questo o quello per questa o quella colpa.

Non gioverà “non assumersi la responsabilità . Per quel che mi riguarda, non sono d’accordo con i miei amici che criticano correttamente lo status quo delle questioni sociali, ma non risalgono al suo denominatore comune: la struttura umana rivestita di corazza, biologicamente crollata, che produce tale status quo. A rischio di sembrare ” unilaterale “o” fanaticamente aggressivo “, mi azzardo ad asserire che la maggior parte delle filosofie della miseria umana sono costruite sull’evasione da ciò che essenziale. Mi azzardo inoltre ad asserire che ogni essere umano vivente, o che deve ancora nascere, sa, o saprà esattamente, da dove ha origine ogni miseria. Ma, proprio come un agricoltore americano che pensa di essere una nullità ed invece convinto che un ex vicepresidente mistico-confusionario sia qualcuno, ogni essere umano conosce la verità su se stesso e sul suo mondo, ma non si ritiene importante.

Il regno del diavolo è un circolo vizioso. Quanto più accanitamente ci si sforza di uscirne, tanto più vi si rimane impigliati. Questo non è affatto un hon mot o uno scherzo: qualcosa di mortalmente serio. Il diavolo è una funzione essenziale dell’animale rivestito di corazza, dell’uomo. Consideriamo perciò ancora una volta le sue caratteristiche fondamentali. L’uomo rivestito di corazza isolato dal contatto immediato con la natura, le persone e i processi. Perciò sviluppa un contatto sostitutivo, che è fondamentalmente caratterizzato dalla mancanza di autenticità. Quanto più grande è una città, tanto più solitario è l’individuo che vive in essa.

Ogni impulso d’amore incontra la barriera della corazza. Per esprimersi deve aprirsi a forza un varco attraverso quel rigido muro; ma così si trasforma inevitabilmente in crudeltà ed odio. L’impulso d’amore originario apparirà, in connessione con l’impulso d’odio successivo, solo come un atteggiamento generale di esitazione, di ambivalenza, di autodisgusto e di dipendenza da tutto ciò che promette redenzione o scarica di tensione. La corazza del corpo rende inaccessibili le sensazioni organiche fondamentali, e con esse l’autentica sensazione di benessere. Il senso del proprio corpo smarrito, e con esso perduta la naturale fiducia in se stessi: essi sono regolarmente rimpiazzi dall’inganno, da ostentazione di apparenze e da falso orgoglio. La perdita della naturale autopercezione scinde la persona, in tutta l’ampiezza della sua apertura, in due entità opposte e contraddittorie: il corpo qui incompatibile con l’anima o lo spirito là. La “funzione del cervello”, l”intelletto”, viene separata dal resto dell’organismo; quest’ultimo viene “posto in subordine” come l’ “emozione” e l’ “irrazionale”. Quel che è deplorevole in tutto ciò il fatto che, entro il contesto dell’esistenza dell’uomo rivestito di armatura, tutto logico e corretto.

Poichè viene interposto uno strato di malignità tra nucleo naturale (“Dio” , “Gesù”, “il bene”, “l’anima di ognuno”, ecc.) e l’apparenza superficiale, la bontà originaria scissa e diventa inaccessibile. Perciò, del tutto logicamente e correttamente, le emozioni sono considerate ” cattive ” e l’intelletto considerato ” buono “. La coesistenza e la cooperazione di emozioni sane con un intelletto sano sono impensabili. Tutte le istituzioni di un animale umano rivestito di corazza sono innestate su questa dicotomia fondamentale. La funzione vitale si perverte nella funzione mistica, e la ” materia cerebrale ” si perverte nel tipo meccanico di esistenza. Gli istinti “cattivi ” sono tenuti in scacco dai “buoni” costumi. Ancora una volta, questo perfettamente logico e corretto entro la struttura data dal pensiero. Coloro che semplicemente maledicono la struttura moralistica della nostra società senza vederne e comprenderne la logica, fallirebbero miseramente se dovessero assumere la direzione della società e delle masse umane. I cattivi istinti sono riassunti sotto la denominazione: DIAVOLO; le istanze morali sotto la denominazione: DIO.

Così Dio lotta contro il diavolo, e il diavolo eternamente tenta il pover’uomo perchè pecchi contro Dio.

Reich psicanalista

Principi della tecnica psicanalitica del suo tempo

 I principi della tecnica analitica derivavano dalle concezioni teoriche di Freud. Le concezioni teoriche freudiane erano:

  • Ogni nevrosi nasce dal conflitto fra bisogni pulsionali rimossi e forme di difesa dell’Io.
    Principio tecnico derivato:
    Si deve eliminare la rimozione, ossia rendere conscio ciò che è inconscio. In conclusione bisogna interpretare l’inconscio.
  • L’Io ha eretto contro-investimenti per impedire il riaffiorare degli impulsi rimossi agendo con una severa censura contro pensieri e desideri (es. vergogna).
    Principio tecnico derivato:
    eliminare la censura attraverso il metodo delle libere associazioni, ossia seguire la regola fondamentale che esige l’eliminazione della censura.
  • Gli sforzi del paziente a rispettare la regola fondamentale tendono costantemente a fallire a causa della forza dei contro-investimenti. Tali forze sono chiamate resistenze.
    Principio tecnico derivato:
    non si deve rendere conscio l’inconscio in modo diretto ma attraverso lo scioglimento delle resistenze.
  • I desideri e i timori rimossi cercano continuamente di scaricarsi e di ricollegarsi al reale, cioè si tende alla soddisfazione libidinosa. Si può attendere che il paziente utilizzi a tal fine la situazione analitica, ciò determina il transfert.
    Il transfert è l’instaurarsi di un rapporto con l’analista determinato dalle emozioni e dai sentimenti rimossi, ripetendo con ciò i trascorsi infantili. Ma il paziente tende a sostituire alla interpretazione il soddisfacimento, oppure oppone resistenza a riconoscere i suoi atteggiamenti e comportamenti.
    Il transfert diviene esso stesso resistenza.
    Principio tecnico derivato:
    l’analisi del transfert e il suo scioglimento costituiscono uno dei lavori analitici fondamentali e si attua con lo scioglimento delle resistenze transferenziali.

Quelli indicati sono i principi tecnici fondamentali adoperati a quel tempo. Nel Seminario sulla Tecnica diretto da Reich dal 1924 al 1930 emersero notevoli problemi a riguardo della tecnica analitica di allora.

  • Mancanza assoluta di sistematicità nella presentazione dei casi e nel lavoro di ricerca.
  • Gravi insufficienze nelle indicazioni tecniche da seguire.
  • Situazioni analitiche grottesche in cui non si sapeva più cosa fare perché il paziente resisteva.
  • Situazione caotica molto diffusa. Ossia si aveva una grande produzione di materiale in ogni direzione ma senza alcun filo logico di riferimento.
  • L’attendere terapeutico era più dovuto all’incapacità di fare altro che ad una autentica strategia terapeutica.
  • La passività del terapeuta era spesso esasperata da analisti convinti che si dovesse solo tacere.
  • Le resistenze erano affrontate con incoraggiamenti o rimproveri assolutamente inutili e il non produrre risultati faceva affermare che il paziente aveva delle resistenze insormontabili invece di affrontare il proprio fallimento.

Le resistenze erano spesso aggirate perché considerate di intralcio al lavoro analitico. Classificazione dei problemi fatta da Reich nel seminario tecnico   I problemi possono essere raggruppati sotto l’aspetto:

  • TOPICO (topografico)
    DINAMICO
    ECONOMICO
  • Sotto l’aspetto topico ci si riconduce al momento dell’interpretazione, ossia:
    quando interpretare
    che cosa interpretare
  • Sotto l’aspetto dinamico ci si riconduce al problema della struttura da analizzare.
    l’interpretazione deve seguire la strutturazione della nevrosi consentendo, quindi, di interpretare ciò che è carico di affetti, cioè di contenuto emotivo infantile, a vantaggio di ciò che è ancora separato dai rispettivi affetti.

Sotto l’aspetto economico ci si riconduce alla quantità e non solo alla qualità e quindi al problema della fonte energetica e delle cariche energetiche stesse della nevrosi. Ciò comporta la ricerca degli impedimenti alla piena soddisfazione, cioè, dei freni alla libera scarica energetica sessuale.

Proposte di Reich sui problemi della tecnica analitica

 

 INTERPRETAZIONE

  • Una buona impostazione del periodo di introduzione dell’analisi. Il paziente non deve essere disturbato nello sviluppo della sua personalità analitica. Le insicurezze dell’analista in questa fase portano a interpretazioni premature.
  • Evitare sempre e comunque interpretazioni premature, ossia molto profonde ma non ancora agganciate ai corrispondenti affetti rimossi.
  • Evitare le interpretazioni asistematiche. Ossia che non seguono il filo logico della profondità e struttura nevrotica del paziente.
  • Evitare ogni interpretazione del contenuto prima di aver eliminato la resistenza che si oppone al suo affiorare.
  • Evitare ogni interpretazione incoerente. Ossia fatta in presenza di transfert negativo che molto spesso si presenta in forma latente.

Riassumendo, è necessario far comprendere al paziente:

  • Che si difende da qualcosa
  • Come si difende e i mezzi che usa, cioè le sue resistenze
  • Infine contro cosa si difende

 

TRANSFERT

I compiti tecnici riguardanti il transfert enunciati da Freud erano i seguenti:

  • Creazione di un efficace transfert positivo.
  • Utilizzo del transfert positivo per il superamento delle resistenze.
  • Utilizzo del tranfert positivo per far riaffiorare il rimosso ma allo scopo di provocare esplosioni affettive catartiche e abreative.

Reich aggiunge a queste regole ritenute valide alcune considerazioni :

  • Nessun paziente all’inizio può produrre un autentico transfert positivo. Per autentico s’intende una tendenza erotica oggettuale non ambivalente atta a costituire la base di un rapporto intenso con l’analista.
    Ciò non è possibile all’inizio del trattamento a causa di:

    • rimozione sessuale
    • disgregazione degli impulsi libidici oggettuali
    • blocco caratteriale affettivo
  • Il transfert che all’inizio appare positivo generalmente è:
    • transfert positivo reattivo
      cioè è trasformato in amore ciò che invece è odio. Il transfert è negativo latente.
    • transfert di sottomissione
      che nasce dal senso di colpa e da masochismo morale dentro il quale c’è odio rimosso.
    • transfert di desideri narcisistici
      cioè speranza narcisistica che l’analista possa amare, consolare, ammirare.

Tutto ciò che è difesa dell’Io, se è ben elaborato si trasforma presto in transfert negativo palese. Se, invece, non è ben elaborato si trasformerà in una profonda reazione di delusione che trasformandosi in resistenze può far fallire completamente l’analisi.

 

RESISTENZE

Per Reich è innanzitutto fondamentale chiarire che cosa sono, in pratica, le resistenze e che cosa sia il materiale analitico. La Psicanalisi, allora, indicava le cosiddette resistenze palesi, ossia silenzi, ritardi, ostinazioni ecc. Per Reich esistono, e sono anche più importanti molte resistenze latenti, più difficili da riconoscere e camuffate.Per esempio:

  • Eccessiva obbedienza
  • Eccessiva cortesia
  • Totale mancanza di resistenze palesi
  • Eccessiva produzione di ricordi e di materiale inconscio
  • Usare come resistenza le conoscenze acquisite con l’analisi stessa

Ma cos’è il materiale inconscio ?
Per la Psicanalisi è riferito a sogni, associazioni, passi falsi, lapsus ecc.
Reich aggiunge a tutto ciò l’accento sul comportamento, che può essere inoltre espressione di gravi resistenze latenti.Per Reich, quindi, anche il comportamento diviene materiale analitico. In definitiva, tutti gli elementi formali come:

  • Comportamento
    Educazione, cortesia
  • Modo di esprimersi
    Gesticolare, modo di sedersi, strette di mano
  • Lo sguardo
  • Il linguaggio
    Parole volgari, parole e frasi troppo serie, filosofeggiare, sfoggiare conoscenze analitiche
  • La mimica
    Sorrisi, pianto camuffato, accigliamento costante ecc.
  • L’abbigliamento

Diviene tutto materiale analitico.Vediamo ora, come un’eccessiva produzione di materiale può essere, in effetti, una manifestazione di resistenza. Dalla prima resistenza transferenziale si sviluppa tutta una stratificazione di resistenze, che è l’esatta riproduzione della stratificazione caratteriale della nevrosi. L’interpretazione di strati profondi può confondere il processo e interferire nella copia della nevrosi che si srotola nel transfert.Allora il materiale più profondo può essere immolato per salvaguardare qualcosa di più superficiale ma carico d’affetto.Per Reich l’analisi delle resistenze deve essere fatta con coerenza. Se, quindi, il paziente in vari modi fugge da una resistenza, deve essere sempre riportato là da dove è fuggito.Reich definisce barriera narcisistica l’insieme delle resistenze opposte all’analisi. Ad esse si può opporre una educazione all’analisi con interventi attivo-suggestivi o il metodo analitico-caratteriale.

IL METODO ANALITICO CARATTERIALE

Consiste nell’interpretare analiticamente le resistenze nel loro significato attuale. Quindi, per Reich, è necessaria prima l’analisi delle resistenze in chiave attuale. Ad esempio molti pazienti raccontano episodi drammatici della loro vita senza accorgersi che li raccontano sorridendo.In ogni paziente poi, esistono delle resistenze specifiche che non si distinguono per il loro contenuto, ma per il modo specifico di agire e di reagire. Tali resistenze Reich le chiama resistenze caratteriali.Esse sono diverse a parità di contenuto a seconda del carattere del paziente e hanno la loro origine nelle esperienze infantili, esattamente come i sintomi e le fantasie, quindi esprimono le cause della nevrosi.La Psicoanalisi freudiana suddivide le nevrosi in:

  • Nevrosi sintomatiche con prevalenza di sintomi
  • Nevrosi del carattere senza sviluppo di sintomi

Per Reich tale suddivisione non ha senso perché le nevrosi sintomatiche possono svilupparsi solo su una base caratteriale nevrotica. Tuttavia esistono differenze fra sintomo e carattere, e sono:

 

IL SINTOMO

  • È quasi sempre cosciente e percepito come estraneo e disturbante
  • Non presenta razionalizzazioni complete e credibili (giustificazioni)
  • Appare privo di significato (vomito isterico, paralisi isterica, coazione a contare, ecc)
  • E’ determinato da un numero limitato di atteggiamenti inconsci
  • Può apparire improvvisamente.

IL TRATTO CARATTERIALE

  • Non è quasi mai consapevole ed è inserito organicamente nella personalità del paziente
  • È sufficientemente motivato sul piano razionale
  • Appare meno patologico e giustamente motivato
  • Appare composto da molteplici atteggiamenti inconsci concatenati e stratificati fra loro
  • Non appare mai all’improvviso ma ha bisogno di un lungo numero di anni per formarsi.

La stratificazione e il concatenamento di tratti caratteriali formano in definitiva una armatura caratteriale che è l’espressione della difesa narcisistica dell’Io. Essa si estrinseca soprattutto nella resistenza caratteriale di cui abbiamo parlato prima che si esprime come un fattore costante di natura formale a prescindere dai contenuti che nasconde. Essa dipende infatti dal carattere.L’armatura caratteriale ha una funzione molteplice, per esempio da un punto di vista economico, ha il compito di proteggere dagli stimoli interni ed esterni.Nelle compensazioni nevrotiche e nelle formazioni reattive delle resistenze caratteriali viene consumata energia libidinosa e sadica. Quindi viene legata l’angoscia.Per Reich ogni resistenza ha due facce: la difesa dell’Io e la difesa dall’impulso rimosso. L’analisi del carattere, all’inizio, si interessa sempre della difesa dell’Io con l’obiettivo per il paziente di coscientizzare la difesa, evidenziarne i modi e come ultimo passo scoprire da cosa si difende.Questo modo di procedere produce i seguenti vantaggi:

  • Evidenzia il transfert negativo
  • Oggettivizza il carattere sino a farlo percepire come un sintomo
  • Con lo scuotimento del meccanismo narcisistico di protezione, si libera angoscia libidica che può essere utilizzata per completare la crescita genitale dell’individuo.

Per ottenere una valida elaborazione della difesa e della resistenza, essa non va aggirata ma pienamente sviluppata in modo che nella situazione transferenziale ci sia l’aggancio dinamico degli affetti che consente il passaggio dall’attuale all’infantile.In definitiva l’analisi caratteriale pensa prima al come e poi al che cosa.

 

La formazione del carattere

Freud scopre per primo che alcuni tratti caratteriali sono modificazioni ed evoluzioni di tendenze pulsionali primitive, per esempio l’avarizia, è derivata da forze pulsionali erotiche anali.Per Reich il carattere inizia come una forma precisa di superamento del complesso di Edipo.La catena con cui si forma il carattere è la seguente:

  • impulsi e desideri infantili minacciati sono rimossi per paura della punizione.
  • la rimozione causa un ingorgo della libido, cioè un accumulo di energia che non trova la via per scaricarsi.
  • l’ingorgo minaccia la rimozione col rischio di esplosione della pulsione rimossa. Ciò comporta una prima alterazione dell’Io, come per esempio la nascita di atteggiamenti apprensivi che generano angoscia e sono la base delle fobie infantili.
  • Per mantenere la rimozione è necessaria un’alterazione dell’Io e, cioè, l’Io si deve indurire e le rimozioni cementare. In altre parole la difesa deve acquisire un carattere automatico,cronicamente attivo.
  • l’angoscia che si sviluppa, comporta parallelamente lo sviluppo di un meccanismo protettivo contro di essa.

L’indurimento libidico necessario alla formazione del carattere, avviene nelle seguenti fasi:

  • L’Io si identifica con la realtà frustrante, ossia con la persona frustrante.
  • L’Io ritorce contro se stesso l’aggressività mobilitata contro la persona frustrante, quell’aggressività che aveva prodotto l’angoscia.
    (ANGOSCIA = ODIO RIMOSSO-DUE FACCE DELLA STESSA MONETA).
  • L’Io sviluppa atteggiamenti reattivi contro le pulsioni sessuali, impiegando,ora, l’energia degli impulsi stessi per difendersi da essi.
    (es: preti contro il sesso).

L’armatura e la corazzatura dell’Io, quindi, avviene per paura della punizione, a spese dell’energia dell’ES e i suoi contenuti sono rappresentati dai divieti e dai modelli degli educatori frustranti.

Differenze tra i caratteri

Mentre il carattere genitale, (ossia sano), è in sostanza unico, i caratteri nevrotici cambiano in funzione dei differenti fattori che influenzano e deviano il naturale sviluppo di crescita.I fattori influenti sono:

  • Momento di sviluppo della pulsione quando viene frustrata. (inizio, intermedio, finale).
  • Quantità e intensità della frustrazione.
  • Quali pulsioni vengono frustrate.
  • Rapporto tra frustrazioni e concessioni.
  • Sesso della persona principalmente frustrante.
  • Contraddizione fra le stesse frustrazioni.

Ogni frustrazione provoca un ritiro della libido dell’Io, cioè, un rafforzamento del narcisismo secondario.
Ma poichè la persona frustrante è anche amata, si sviluppa un atteggiamento ambivalente che porta all’identificazione.
Il bambino assorbe, allora, i tratti caratteriali della persona frustrante e usa quei tratti rivolgendoli contro la sua pulsione (madre e padre introiettati).Diverso sarà poi il risultato a seconda del momento in cui la pulsione viene frustrata: all’inizio o all’apice del suo sviluppo.
Una pulsione frustrata all’inizio non è più disponibile (rimossa) e ne resta danneggiata l’attività complessiva.
Una pulsione frustrata all’apice invece, non può più essere rimossa ma solo danneggiata.Da un punto di vista dinamico infine, il carattere ha tre funzioni sostanziali:

  • evita l’angoscia di fronte alla realtà.
  • lega l’angoscia da stasi.
  • E’ all’insegna del principio del piacere, infatti serve al soddisfacimento dissimulato delle pulsioni.

Naturalmente il soddisfacimento è indiretto e parziale perchè deriva esclusivamente dalla diminuzione della spinta della pulsione, così come avviene con il sintomo.In conclusione il carattere viene determinato:

  • qualitativamente dal grado di sviluppo della libido, cioè, dal punto specifico di fissazione libidica e
  • conseguentemente dalla quantità di energia della libido fissata.

Da ciò ne deriva una distinzione specifica di tipi caratteriali che possono così essere individuati :

  • CARATTERI DEPRESSIVI (Orali)
  • CARATTERI MASOCHISTI (Anali)
  • CARATTERI GENITALI NARCISISTICI(Fallici)
  • CARATTERI GENITALI INCESTUOSI (Isterici)
  • CARATTERI COATTI

Tali suddivisioni, tuttavia, le vedremo meglio parlando dell’energia e dei livelli energetici del corpo.

 

I tipi caratteriali

Descriverò qui alcuni tipi caratteriali facendo riferimento a Reich, Lowen, Baker. Per ogni tipo farò un’unica descrizione, ma questa sarà in realtà una sintesi dei contributi di questi autori, e di altri ancora, così che possiate avere una visione generale dei vari caratteri.

 

IL CARATTERE ORALE-DEPRESSIVO

Due precisazioni importanti: il tratto orale non è un esclusiva di questa tipologia di carattere, infatti, ogni tipo di carattere nasconde un tratto orale più o meno marcato. Reich, non ha mai descritto un carattere orale.I tratti fondamentali del carattere orale, ossia, del blocco depressivo del II° livello, la bocca, sono:

  • Il fisico alto, sottile, pallido, in generale, un aspetto privo d’energia
  • Il cibo non lo interessa, non ha sapore, ha scarsa importanza
  • E’ quieto, laconico, voce bassa tendente all’esile
  • A volte è caustico e mordace nelle espressioni, ma generalmente incapace di andare fortemente in collera
  • Mostra risentimento, ha poco da dire e si ritira facilmente nel suo guscio
  • Ha un continuo bisogno di essere lodato, incoraggiato e sostenuto
  • E’ incapace di sostenere sforzi prolungati, crede spesso che il mondo lo tratti male perché non vede la propria incapacità
  • Non riesce a far molto ma spesso ha idee grandiose e fantasmatiche
  • Ha una bassa opinione di sé
  • Presenta ostinazione e resistenza ma passiva e immobile
  • Contrae spesso debiti che non riesce a pagare
  • Non trova facilmente lavoro
  • È un tratto tipico dell’alcolista o di chi consuma droghe, soprattutto quelle pesanti.
  • Anche il semplice fumatore di sigarette nasconde un tratto orale depressivo.

IL CARATTERE COATTO

Fisicamente non è atletico come l’isterico, non è sciatto come l’orale, non è pesante come il masochista, non è bello come il fallico – narcisista. Il coatto è scialbo e imbranato. I tratti fondamentali del coatto sono:

  • E’ pignolo e ordinato. Cambiamenti nell’ordine prestabilito gli causano angoscia e disagio
  • Rimugina continuamente e in modo circostanziato. È attento allo stesso modo a cose importanti e a cose secondarie
  • Ha poca elasticità di pensiero e molta logica astratta. In lui è molto più sviluppata la componente critica rispetto a quella creativa
  • È parsimonioso, più spesso avaro
  • Tende a collezionare cose
  • E’ irresoluto e dubbioso, ha un pronunciato contegno e un forte autocontrollo
  • Un tratto importante è che quando ama o quando odia è molto tiepido perché ha un blocco affettivo assai marcato
  • Ha una scissione tra affetto e rappresentazione (può parlare di un esperienza incestuosa senza problemi apparenti)
  • Ha una forte contrattura dell’Io e del corpo che lo fa apparire goffo

IL CARATTERE FALLICO – NARCISISTA

Fisicamente si presenta spesso alto, bello, vincente, ben piantato atleticamente. I tratti fondamentali di questo carattere sono:

  • Sicuro di sè, a volte arrogante e vigoroso
  • Atletico
  • L’espressione facciale rivela durezza, i lineamenti sono mascolini, ma si riscontrano anche fattezze femminili un po’ nascoste
  • Il suo comportamento non è mai strsciante, al contrario ostenta aria di superiorità. E’ freddo e riservato ma a volte anche beffardo e aggressivo
  • Tende a conquistare posizioni di comando e mal sopporta posizioni subalterne, a meno di potersi rivalere su dei sottoposto (per es. nell’esercito)
  • Toccato nella sua vanità reagisce con fredda riservatezza, profondo risentimento o con vivace aggressività
  • Gli uomini fallico-narcisisti hanno una potenza erettiva molto sviluppata, ma in loro è invece molto compromessa la potenza orgastica
  • Ha rapporti con le donne molto disturbati dalla poca considerazione che ha per loro, il fallo è usato in modo vendicativo
  • È una persona molto ricercata per la sua apparenza
  • La donna fallico-narcisista è anch’essa bella nell’apparenza,donna in carriera, è molto efficiente e ha successo. Anche in lei le capacità sessuali sono sviluppate mentre è carente la potenza orgastica.

Esempi di fallico-narcisisti sono Napoleone, Mussolini, Stalin. (Berlusconi)!!

IL CARATTERE ISTERICO

Fu il primo disturbo emotivo nel quale si riconobbe una connotazione sessuale. Molto frequente nel Medioevo e in altre epoche storiche. Rispetto all’Isteria di Freud oggi sono mutate molto le sintomatologie. Differenze sostanziali vi sono tra ciò che la psicoanalisi considera Isteria e come la considerano i reichiani. Per i reichiani è l’anticamera della genitalità. I tratti fondamentali di questo carattere sono:

  • Atteggiamento sessuale invadente
  • Agilità corporea con spiccate sfumature sessuali
  • Per le donne: civetteria nel modo di camminare
  • Per gli uomini: mollezza, esagerata gentilezza, espressione facciale e modi di fare femminili
  • Quando la meta sessuale si avvicina, l’isterico inevitabilmente si ritrae, oppure assume un atteggiamento passivo e apprensivo; tipico dell’isterico è mostrarsi tanto violento prima, quanto passivo dopo, al momento opportuno
  • Non è mai altezzoso, duro o presuntuoso; i suoi movimenti sono morbidi e flessuosi, ondeggianti (non elastici) e sessualmente provocatori
  • E’ incostante, con svolte improvvise nel comportamento e molto suggestionabile
  • Tende ad avere forti reazioni di delusione
  • E’ estremamente angosciato e apprensivo, soprattutto in chiave sessuale
  • L’isterico genitalizza tutto, non sostituisce la genitalità con meccanismi pregenitali; anche dove vi fossero tendenze pregenitali hanno sempre un legame con la genitalità e sono sempre forme rappresentative della genitalità. In altre parole: mentre in altre nevrosi le parti genitali sono rappresentazioni di fissazioni pregenitali, (orali, anali, falliche), nell’isterico esse sono sempre anche genitali
  • E’ sovraccarico di energia sessuale non elaborata, ossia la sua armatura è molto mobile, a rete, continuamente sfuggente, leggera, instabile
  • Il suo comportamento serve a tastare continuamente il terreno per scongiurare i pericoli
  • Il carattere isterico non conosce mai il significato sessuale del suo comportamento. Rifiuta di riconoscerlo, in breve, la sua sessualità non è un moto sessuale, ma esclusivamente la difesa dal sesso
  • Scarica parte della sua angoscia in innervazioni somatiche, quindi presenta spesso una svariata tipologia di sintomi più o meno strani. I sintomi si presentano quando un eccesso d’energia non può essere trattenuto nella corazza.

IL CARATTERE MASOCHISTA

Il masochista percepisce come piacere ciò che dall’individuo normale viene percepito come dispiacere.Freud aveva scoperto che sadismo e masochismo formavano una coppia antitetica. Poi, aveva scoperto che esisteva il sadismo orale, anale, fallico che si esprimeva come mordere, calpestare, perforare. Il sadismo, quindi, nasceva come reazione distruttiva contro la frustrazione della pulsione.In questa concezione il masochismo è una formazione secondaria che consiste nel volgere contro se stesso la distruttività sadica. Ma Freud, abbandona poi tutto questo ribaltando la sua prima concettualizzazione teorica e affermando l’esistenza di una tendenza biologica primaria all’autodistruzione, ossia la pulsione di morte (thanatos) antagonista dell’eros.Reich, quindi, con lo studio e le ricerche sul carattere masochista, trova una risposta diversa, che confuta la teoria della pulsione di morte. Non esiste una pulsione primaria autodistruttiva, ma anche il masochista segue, anche se in modo apparentemente distruttivo, e quindi incomprensibile, il principio del piacere.Infatti il masochista non prova attraverso le percosse un dispiacere, cioè ad es. non si sente umiliato, ma prova il piacere della distensione che, per paura, può provare solo in quelle forme.Descriviamo un poco i tratti salienti del carattere masochista:

  • Una sensazione soggettiva, cronica di sofferenza
  • Tendenza a lamentarsi
  • Tendenza cronica all’autolesionismo
  • Tendenza cronica all’auto- umiliazione
  • Intensa mania di tormentare gli altri, provocazioni infantili continue per farli esplodere, cosa che produce poi la distensione
  • Comportamenti maldestri, senza tatto ecc.
  • Percezione non piacevole dell’aumento dell’eccitazione sessule, come base caratteriale specifica del masochista
  • Atteggiamento spastico molto accentuato, sia psichico che genitale. Inibisce immediatamente e continuamente ogni sensazione seppure accennata di piacere, trasformandola in dispiacere
  • La sensazione di sciogliersi è vissuta dal masochista come l’arrivo di una catastrfe punitiva; l’essere picchiato, quindi, diventa lo strumento della distensione agognata, che è vietato raggiungere con altri mezzi, egli, in tal modo, si discolpa dell’accaduto, cioè la distensione sessuale, di cui è invece colpevole la persona punitrice.

L’analisi del carattere masochista, quindi, confuta la pulsione di morte di Freud. Non esiste una pulsione primaria autodistruttiva, ma il masochismo è una risposta a una grave frustrazione primaria della pulsione sessuale verso il piacere.     

 

L’energia e i sette livelli

Parliamo un poco dell’energia:

  • L’energia è una forza immateriale che pervade tutto l’Universo.
  • L’energia universale è chiamata da Reich orgone ed è presente in ogni dove e in ogni cosa a differenti livelli di densità. Anche gli esseri viventi ne sono permeati e in tal caso l’energia assume il nome di energia biologica, non sostanzialmente differente, però, da quella cosmica.

Il punto di partenza per Reich è rappresentato dall’energia sessuale, già osservata da Freud con la teoria delle pulsioni, che gli permise di scoprire la pulsazione biologica e conseguentemente la pulsazione cosmica universaleL’energia biologica è presente in ogni cellula e in ogni parte del corpo, e, secondo Reich, i liquidi corporei sono il veicolo che le consente di muoversi. (Secondo Antonio Mazzetti, l’energia non ha bisogno di liquidi per muoversi. Si muove anche nel vuoto).I movimenti dell’energia producono dei flussi direzionali nel corpo e sono soprattutto questi a determinare la pulsazione biologica attraverso i flussi centripeti e i flussi centrifughi.L’energia biologica nel suo spostamento può essere ostacolata, deviata, rallentata, rarefatta o accumulata da opposizioni prodotte dal corpo stesso, ossia dalle tensioni croniche dei muscoli, ovvero, da blocchi della corazza muscolare.Reich scoprì, attraverso l’esperienza clinica, che l’allentamento dei rigidi atteggiamenti muscolari, provoca strane sensazioni somatiche come tremiti involontari, pruriti, formicolii, sensazioni di calore o freddo intensi, brividi ed infine ira, angoscia, paura e piacere.Egli scoprì che tali sensazioni non sono conseguenze, cause o fenomeni concomitanti di processi psichici, ma semplicemente quegli stessi processi psichici nell’ambito somatico. Pose così le basi per il concetto di identità funzionale tra psiche e soma, ormai ampiamente accettato sia dai medici, sia dagli psicologi, anche se in misura assai limitata negli effetti.Ricordiamo ancora che, per Reich l’energia è veicolata dal sangue e dal plasma, ossia dai liquidi corporei che rappresentano ben l’80% del corpo. Tuttavia, movimento di liquidi non significa che si muova sicuramente l’energia. Infatti, vi sono casi d’erezione senza alcun piacere, il che dimostra che il sangue affluisce, ma non c’è sufficiente afflusso energetico.L’energia, quindi, e il suo movimento, sono legati all’eccitazione emozionale. Per Reich, quindi:
Movimento energetico = emozioni = identità funzionale.
I blocchi quindi tendono a frenare le emozioni.I blocchi non seguono nel loro formarsi le divisioni dell’anatomia del corpo, ma si dispongono secondo i livelli funzionali dei vari apparati e organi fisici. Reich parla dei blocchi in chiave iperenergetica e ipoenergetica rapportandoli a sette livelli funzionali del corpo. Il fluire energetico del corpo è verticale, sia in ascesa, sia in discesa, mentre i blocchi che vi si oppongono si strutturano orizzontalmente sui sette livelli.I sette livelli, che richiamano alla memoria i sette chakra della filosofia orientale, sono i seguenti tenendo presente che quando si parla di un livello, si includono anche tutti gli organi interni ed esterni del tratto indicato dal livello:

  • 1°. LIVELLO
    Occhi, orecchie, fronte, sopracciglia e naso. Quindi l’attività del vedere, annusare, ascoltare.
  • 2°. LIVELLO
    Bocca, labbra, lingua, palato, denti, gengive, ecc. I masseteri (la muscolatura della bocca), conseguentemente anche l’attività del mangiare, la balbuzie ecc.
  • 3°. LIVELLO
    Collo, gola, epiglottide, tiroide, tonsille. Attività del deglutire.
  • 4°. LIVELLO
    Torace, polmoni, cuore, timo, spalle, braccia.
  • 5°. LIVELLO
    Diaframma, essenziale per la respirazione e per tutti gli organi ad esso relativi: fegato, stomaco, duodeno, pancreas, milza.
  • 6°. LIVELLO
    Addome, con intestino e reni.
  • 7°. LIVELLO
    Bacino, gambe, organi sessuali (maschili e femminili), l’ano, la vescica ecc.

Ad ogni livello la vegetoterapia e Reich fanno corrispondere:

  • Un ben preciso periodo di formazione del blocco relativo al periodo di sviluppo della funzione intaccata.
  • Un ben definito quadro clinico di riferimento.

Determinati actings con l’obiettivo di sciogliere i blocchi per ristrutturare la funzione danneggiata e per far circolare meglio l’energia.     

 

I sette livelli del corpo

Nelle sue ricerche sulla corazza dell’organismo, Wilhelm Reich descrive una distribuzione delle tensioni muscolari secondo zone formate da segmenti orizzontali, sette segmenti o livelli.I sette livelli (gli occhi, la bocca, il collo, il torace, il diaframma, l’addome, il bacino), sono collegati, articolati tra loro in maniera non anatomica ma funzionale.Inoltre i livelli non sono dei divisori, ma come dice Reich, dei punti di riferimento, stadi funzionali “di un sistema vivente unitario la cui funzione plasmatica è ostacolata dagli anelli perpendicolari (i livelli) di una corazza”.Le disfunzioni a questi livelli, cioè i blocchi, compromettono quindi il funzionamento dell’organismo nel suo insieme. Un blocco, in ultima analisi, è la soluzione che l’individuo ha trovato per rimuovere una situazione di conflitto. Poiché certi conflitti producono angoscia non sopportabile, noi evitiamo di sentirla creando un blocco, una stasi energetica che corrisponde a quella situazione conflittuale.Il lavoro terapeutico con i sette livelli scoperti da Wilhelm Reich, fu in seguito sistematizzato da Federico Navarro con Ola Rakness, discepolo e amico personale di Wilhelm Reich, quindi tale lavoro è in linea diretta con quello di Reich.

Gli occhi

  • Il blocco anorgonotico dell’occhio
  • Il blocco iperorgonotico dell’occhio
  • Epilessia, cefalea ed emicrania
  • I disturbi classici della vista

Gli occhi, le orecchie e il naso 

Gli occhi

L’occhio, l’orecchio e il naso appartengono al primo dei sette livelli reichiani, sede di tre sensi: vista, udito e odorato.Lo stadio oculare, scrive Reich, è il primo a svilupparsi nel bambino e quando si verifica un trauma in questa fase ciò può compromettere la visione binoculare. La visione binoculare è necessaria allo sviluppo della prospettiva tridimensionale: l’indispensabile premessa di un pieno contatto con la realtà.Per questo livello, come per gli altri, Federico Navarro distingue tra blocco anorgonotico e iperorgonotico.

Blocco anorgonotico dell’occhio (carenza di energia)

Il blocco anorgonotico è presente nella psicosi. Federico, si rifà qui agli studi di Reich sulla schizofrenia e sui suoi rapporti con il blocco oculare. Reich sosteneva che la psicosi si struttura nei primi giorni di vita, Federico la fa risalire alla vita intrauterina e alla scarsa e limitata circolazione energetica del periodo embrionario e/o fetale.Un blocco “parziale” crea invece un nucleo psicotico, ovvero un terreno in cui nel corso della vita di un individuo può esplodere una psicosi.I fattori scatenanti sono gli stress di particolari fasi di cambiamento (vedi: pubertà, servizio militare, maternità ecc).Il nucleo corrisponde ad una “personalità psicotica” di tipo reattivo, il soggetto non è attivo e creativo, ma reagisce agli stimoli che vengono interpretati in modo esagerato e soggettivo.Stiamo parlando di un uso massiccio della proiezione fino al delirio. Sono individui che si ritirano facilmente nel sonno e nell’isolamento affettivo.Dopo i primi 10 giorni di vita, quindi nel periodo neonatale, secondo Federico, il nucleo psicotico crea la struttura borderline.Ma cosa succede quando il blocco del 1º livello è anorgonotico?
Avviene un ritiro che, dal livello oculare è possibile solo in direzione della base del cervello causando poi i disturbi della coscienza, dissociazione, disorganizzazione, spersonalizzazione e mancanza di contatto.Questo primo livello dovrebbe fin dalla nascita avere un funzionamento unitario perchè la funzione visiva è intimamente legata all’udito e all’olfatto In piú dovrebbe integrarsi con il 2º livello: la bocca, e quando ciò non avviene si crea la prima frattura tra il “pensare” e il “parlare”.Ciò è caratteristico dei malati psicosomatici, essi infatti, non sanno “verbalizzare” le loro emozioni.
Mac Lean sostiene che in entrambi i casi, nella psicosi e nelle malattie psicosomatiche (le biopatie primarie), le tensioni emotive di tali soggetti non sono legate ai processi psichici del neocortex, ma persistono nel cervello limbico.Secondo Federico ciò ci consente di affermare che la malattia psicosomatica può essere vista come una corporizzazione della psicosi.Il ritiro causato dal blocco anorgonotico crea una scissione tra sensazione e percezione e ciò impedisce una valida utilizzazione dei telerecettori (vista, udito, odorato), e se le funzioni sensoriali non si realizzano nel migliore dei modi sin dalla nascita “…vi sarà una percezione iniziale alterata da registrare come engramma basilare distorto”. (Navarro).Ciò impedisce una sana distinzione tra Io e non–Io, a cui si sostituisce, nello psicotico, una tendenza a fondersi con il mondo e a perdere i confini con le tipiche fantasie di dispersione e frantumanzione.Con la Vegetoterapia si può operare in presenza di un nucleo psicotico, qui Federico suggerisce di “corazzare” gradualmente tutti i livelli a partire dal primo (il blocco oculare anorgonotico impedisce la formazione della corazza e quindi dell’Io, non a caso Federico dissente da Baker che parla di carattere oculare).
L’obiettivo è quello di colmare la mancanza di contatto e di fornire il soggetto di un Io “nevrotico”.

Blocco iperorgonotico dell’occhio (eccesso di energia)

Secondo Federico, tra le manifestazioni cliniche di questo blocco vi sono la cefalea, l’emicrania e l’epilessia.

Cefalea ed emicrania

Secondo la medicina psicosomatica la psicopatogenesi della cefalea e dell’emicrania va ricercata in un ostilità bloccata di tipo primario, cioè sarebbero congenite.Secondo la vegetoterapia non esiste un ostilità di tipo primario, bensì una paura primaria a cui il soggetto reagisce, per difesa, con l’ostilità.La dinamica descritta da Federico è questa:
l’emozione primaria della paura nei primi momenti di vita determina una perdita di tono e quindi una vasodilatazione (sistema parasimpatico).La vasodilatazione minaccia il sistema che reagisce, per salvarsi, con una vasocostrizione (sistema simpatico), ciò corrisponde ad una scarica a livello oculare (sguardo fulminante dell’ostilità).I dolori della cefalea e dell’emicrania sono dovuti alla tensione cronica delle terminazioni simpatico muscolari del cranio.Per Federico la cefalea è collegata ad una mancanza di contatto e ad una paura generalizzata più primaria mentre l’emicrania appartiene ad un periodo neonatale successivo ed è, al contrario, legata ad una paura specifica.In particolare si traduce in una ostilità per paura di una figura femminile, se si tratta dell’emisfero cranico sinistro, di una figura maschile per quello destro.

La vegetoterapia oltre a suggerire tutte le terapie che mettono in movimento l’energia: agopuntura, omeopatia ecc., propone il lavoro sugli occhi che sbloccando le emozioni di paura risolve il sintomo.

 

Epilessia

L’epilessia di cui parla Federico è quella detta idiopatica, non collegata, cioè, ad alcun danno organico a carico del cervello.L’attacco epilettico è provocato da un’attività elettrica anomala del cervello. Si tratta di un’anomalia transitoria che può interessare un lobo specifico: frontale, occipitale, parietale, temporale o insulare e che corrisponde poi, dal punto di vista sensoriale o motorio ad una specifica manifestazione dell’individuo.Secondo Federico le definizioni come “essenziale” o “idiopatico”, tanto care alla medicina ufficiale, significano, in realtà: totale ignoranza sulle cause di un disturbo.La vegetoterapia considera l’epilessia come la manifestazione somatica della psicosi, ma mentre lo psicotico ha un blocco anorgonotico agli occhi, l’epilettico ha un blocco iperorgonotico.L’epilettico, nel momento della crisi, scarica il surplus d’energia a carico del distretto oculare diffondendo l’eccesso in un sol colpo all’insieme dei muscoli del corpo.L’epilessia è classificata come:

  • Il grande male
  • Il piccolo male

In entrambe le forme vi è una perdita di coscienza.
Nel grande male la crisi è annunciata da un anomalia dal punto di vista sensoriale o motorio chiamata “aura” (diversa da quella energetica) a cui segue il blocco del respiro, la contrattura dei muscoli e infine la scarica ritmica con la fuoriscita dell’aria fino a quel momento trattenuta.Il piccolo male è caratterizzato da brevi “assenze” durante le quali è raro che l’individuo cada o eccitazioni improvvise che possono portare ad atti violenti (furore epilettico).La madre dell’epilettico è spesso dura e anafettiva ma iperprotettiva ciò determina la problematica psicologica principale di questi soggetti: un enorme bisogno d’amore e un ostilità repressa e trattenuta nei muscoli.La vegetoterapia in presenza di questo disturbo insiste con gli actings del primo livello, che permettono al soggetto di dominare lo spazio e il tempo, proprio l’aspetto che viene perduto nelle crisi.Il lavoro terapeutico riesce a forzare l’attenzione e la presa di coscienza del soggetto sui segni premonitori che anticipano le crisi fino a riuscire ad evitarle.Federico accenna alla base psicologico-emotiva dell’epilessia comprovata dal fatto che l’epilettico non ha mai crisi in situazioni di pericolo, egli deduce così il ruolo fondamentale e l’influenza della situazione ambientale nello scatenarle.In parole semplici: esiste una componente emozionale inaccettabile per il soggetto che prende la strada della crisi; comprenderne l’aspetto dinamico, riconoscerlo, riviverlo e accettarlo possono, insieme al lavoro energetico, risolvere o almeno aiutare a “governare” questo difficile disturbo.

L’epilessia può essere confusa con l’isteria.
L’isterico, a differenza dell’epilettico, quando cade non si fa mai male e quando ha le sue crisi chiude il pungno con il pollice in fuori mentre l’epilettico chiude il pollice nel pugno.

 

Calvizie ed Alopecia

In entrambe le forme si tratta di caduta dei capelli. Ma mentre la calvizie è un processo lento e graduale, l’alopecia è la caduta improvvisa di intere ciocche o “placche” che lasciano aree di pelle nuda apparentemente normali.La calvizie é dovuta ad uno stato di tensione generale e localizzato nelle aree del collo (difesa narcisistica), e della “galea capitis”, il muscolo superficiale del collo.

L’alopecia è la manifestazione somatica di un nucleo psicotico ricollegabile alle fasi d’allattamento.

 

Disturbi classici della vista

Tra i disturbi più classici, dovuti ad una tensione cronica dei muscoli esterni e interni dell’occhio troviamo:

  • L’astigmatismo, in cui la visione è appannata come se gli occhi fossero colmi di lacrime. L’astigmatico “deve sempre fare il punto”
  • La miopia, che costringe i soggetti ad avvicinare gli oggetti per vederli, qui durante l’allattamento la madre è stata “lontana”
  • l’ipermetropia corrisponde ad un difetto nell’accomodazione visiva che non consente la messa a fuoco degli oggetti vicini, sono soggetti che praticano la fuga in avanti perché il presente gli fa paura. È un problema di svezzamento e di “paura dell’estraneo”(Spitz).
  • La presbiopia non è per niente “automatica” dopo i 40 anni! Le sue radici sono da ricercarsi nel periodo in cui il bambino comincia a camminare, quando passa dalla motilità alla mobilità e acquisisce la dimensione spazio-temporale. Se ciò avviene prima che il bambino sia in grado di padroneggiarla egli immobilizzerà gli occhi alla ricerca di un punto d’approdo sicuro.

Le orecchie

Tutti i sensi, a partire dal terzo mese fetale sono attivi. Tuttavia l’udito, nell’ambiente uterino, svolge un ruolo predominante e i suoni, armonici e non, hanno notevole influenza sulla sensibilità del feto.Come per la vista, la funzione uditiva riveste un’importanza fondamentale per una corretta percezione della realtà. Il nervo acustico è strettamente associato ai centri della visione, per questo motivo, quasi sempre, le allucinazioni visive sono accompagnate da allucinazioni uditive.

Il suono può veicolare sensazioni gratificanti e frustranti, quindi la percezione uditiva, può bloccarsi e alterarsi con vari livelli di gravità. La sordità, per esempio, è spesso selettiva, compare cioè solo in certe situazioni.

 

Il naso

Esiste uno stretto rapporto fra l’olfatto e l’emotività. Ciò trova conferma anche nella connessione a livello neurofisiologico tra i nervi responsabili della sensazione olfattiva: i trigemini, facciale e ipoglosso, e l’area limbico-ipotalamica.Molti bambini appena nati, se lasciati tranquilli sulla pancia della madre annusano la madre alla ricerca del seno. L’odore resta poi per molto tempo un elemento di riconoscibilità tra il bambino e i suoi genitori.Altro rapporto importante esiste con la sessualità. Anche se ciò è più evidente nei preliminari d’accoppiamento dei mammiferi.Le cavità nasali sono tappezzate di una mucosa erettile del tutto simile a quella del pene e della clitoride, infatti il tessuto nasale ha caratteristiche erogene analoghe procurandoci piacere se l’odore sentito è gradevole o seducente o dispiacere se è invece ributtante.L’analogia con la sessualità diviene poi una chiave interpretativa importante per i disturbi a carico di quest’area.Le manifestazioni allergiche come le riniti o il raffreddore da fieno sono espressione di una sessualità repressa; alcune persone quando sono sessualmente eccitate, starnutano.Il blocco al naso determina una caratterialità basata su un atteggiamento represso che si traduce in una continua sfida e difficoltà ad essere in contatto con i propri bisogni e con gli altri con il conseguente instaurarsi di pseudo-contatti privi di qualunque spontaneità.Un atteggiamento caratteriale che, secondo Federico, porta raramente questi soggetti verso la psicoterapia.     La bocca e l’oralità

  • La sessualità orale e l’aggressività orale
  • Aspetti caratteriali dell’oralità
  • Aspetti psicopatologici del quadro depressivo
  • L’orale rimosso e l’orale insoddisfatto

 

La bocca e l’oralità

La bocca

Il secondo livello, la bocca, corrisponde alla funzione orale.È attraverso la bocca che il bambino stabilisce il contatto con il mondo, e queste prime esperienze piacevoli o spiacevoli lasceranno un’impronta fondamentale nel modo in cui si relazionerà a se stesso e agli altri.Dal punto di vista anatomico, il secondo livello comprende la bocca, una cavità che termina con l’arco amigdalico e va fino alla gola dove si biforcano i tubi laringeo ed esofageo.La laringe è l’organo della voce; bocca e mascella svolgono un ruolo fondamentale nel processo di vocalizzazione: se sono corazzate, formano una specie di coperchio sul canale espressivo, chiudendo del tutto la voce oppure affievolendola e appiattendola.Un ruolo particolare nel frenare l’espressività vocale è svolto dai muscoli della lingua che si trovano sotto il mento, muscoli che dovrebbero essere rilassati e flessibili, mentre nell’adulto lo sono raramente.Gli annessi della bocca sono i denti, la lingua che è l’organo del gusto, e le ghiandole salivari. La secrezione della saliva è regolata dal SNA: il parasimpatico la fluidifica (fino alla scialorrea, perdita involontaria di saliva dalla bocca, normale nei lattanti fino a 12 mesi circa), il simpaticola la inibisce, come quando si ha paura o ci si arrabbia.I muscoli del segmento orale sono molti e non starò ad elencarveli tutti. Ma è importante sapere che si tratta di fasce muscolari che estendendosi fino al collo interagiscono con i muscoli del torace e delle spalle e ciò spiega il torace incavato, le spalle ruotate e la spinta in avanti della testa, tipici della struttura orale.

Anche la postura della bocca viene influenzata dai blocchi di questo segmento, in particolare mi riferisco alle mascelle che possono essere non allineate, serrate o innaturalmente rilasciate. Ciò implica uno spostamento del mento indietro o in avanti (ostinazione).

 

L’orgasmo orale

La bocca, come dice anche Baker, è l’unico organo che, insieme ai genitali, è in grado di iniziare una convulsione orgastica. Questa è osservabile nel bambino, subito dopo un allattamento caldo e gratificante, come un tremore lieve delle labbra cui segue l’abbandono fiducioso tra le braccia della madre. Notate la similitudine con le fasi della formula dell’orgasmo? (formula T.C.).Ciò è dovuto al fatto che sia la bocca che i genitali possono sovrapporsi e fondersi con un altro organismo.Altra conferma del collegamento tra bocca e genitali la ritroviamo nella vegetoterapia, quando al lavoro sulla bocca corrispondono spesso riflessi a livello del bacino con eccitazione, lubrificazione vaginale o erezione.

Capite, quindi, quanto sia importante per acquisire una genitalità matura, aver superato e soddisfatto la situazione orale di base. Essere passati, cioè, dall’oralità alla genitalità.

 

La sessualità orale

Di sessualità orale abbiamo parlato anche in Briciole di coscienza. Come abbiamo chiarito nel capitolo sulla sessualità non ci riferiamo alle pratiche sessuali conosciute come fellatio o cunnilinctus, ma piuttosto ad un atteggiamento generale connotato da “fame” sessuale, con la quale il soggetto appaga in realtà i suoi insoddisfatti bisogni di affetto, attenzione e riconoscimento.Riguardo alla sessualità sono presenti sostanzialmente due problematiche collegate ad una scarsa o insoddisfacente esperienza di allattamento: una di rimozione della spinta sessuale (frigidità, eiaculazione senza piacere, impotenza), l’altra di bisogno rabbioso (ninfomania, eiaculazione precoce, sesso usato come arma).

Il progresso evolutivo da una sessualità infantile ad una adulta corrisponde, quindi, al passaggio dal bisogno di fare sesso al desiderio di fondersi con un altro essere umano, dal piacere eccitatorio e superficiale alla gioia dell’abbandono.

 

L’aggressività orale

Un altro capitolo deve essere aperto riguardo alla funzione dei denti. Abraham, un contemporaneo di Freud, fu il primo a definire la fase della dentizione come fase sadico-orale.Con ciò voleva stabilire un collegamento fra l’attività di masticare, frantumare e inghiottire e le componenti aggressive e sadiche del bambino. I denti servono per masticare ma sono anche strumenti di difesa, la bocca, così, diviene il primo scenario dell’ambivalenza, in cui piacere e disgusto, rabbia e paura si mescolano generando sentimenti di colpa.Il succhiare, a causa della frustrazione diviene desiderio di mordere, di “divorare” la madre, la paura di essere puniti si trasforma in paura di essere “divorati” da lei.Il desiderio di ringhiare, ruggire e mordere represso a causa della paura della punizione o della derisione può creare una smorfia fissa, artificiale, d’ostilità.Se anche l’espressione facciale della rabbia fosse repressa, potremmo trovarci di fronte ad una persona che sorride sempre, che sorride troppo; in questo caso diviene rivelatrice l’espressione degli occhi che risulteranno, invece, gelidi e freddi.Un altro elemento rivelatore della rabbia o della sua rimozione è la posizione del mento.

La mascella (sez. inferiore), può essere spinta in avanti in una posizione di “rifiuto” che esprime sfida e cocciutaggine; oppure può essere spostata indietro, in atteggiamento succhiante e infantile che sembra dire “sono inoffensivo”.

 

Aspetti caratteriali, psichici e somatici dell’oralità.

Il neonato attraverso l’allattamento appaga il suo bisogno di essere amato, rassicurato, accettato e di potersi abbandonare a questa esperienza in modo fiducioso.Un allattamento insufficente o uno svezzamento brusco si sposterà poi, psicologicamente, oltre che nella fame sessuale di cui abbiamo parlato, anche nella pulsione di essere riconosciuti o nella sete di giustizia, tutti aspetti che derivano da un forte senso d’inadeguatezza e vuoto.

Come dice Lowen : “Si può paragonare il lattante al frutto che matura sull’albero; il capezzolo è l’equivalente del gambo. La naturale separazione del frutto avviene quando è giunto a perfetta maturazione: allora cade al suolo per iniziare un’esistenza indipendente radicandosi alla “madre” terra. È solo il frutto immaturo che presenta una resistenza alla separazione dall’albero… Nel caso del frutto, più è maturo prima della separazione dall’albero più contiene zucchero naturale ed è dolce. Il frutto immaturo è aspro come l’organismo immaturo che troppo presto perde la connessione vitale con la madre. Il carattere orale è aspro e questa asprezza si scopre in tutti gli individui la cui struttura contiene un forte elemento orale”.

 

Depressività

Un allattamento scarso o insoddisfacente genera ciò che Federico Navarro chiama “depressività”, questa condizione è collegata ad un sentimento di perdita che si manifesta spesso con possessività e gelosia.Questa può determinare due diverse risposte, una passiva (dipendenza) con tendenza, in certe situazioni, a deprimersi, l’altra reattiva (aggressività orale) come disposizione a reagire rabbiosamente. La rabbia è, in questo caso, una difesa dalla depressione.La naturale aggressività erotica del lattante quando è frustrata si trasforma in distruttività, il sentimento inconscio di colpa che questa comporta è alla radice di molte malattie dei denti.Vi sono poi alcune sindromi in cui ritroviamo la problematica orale, alcune di queste sono:

  • Anoressia mentale
    Riguarda solitamente giovani in età puberale, è caratterizzata da un forte dimagrimento, vomito, perdita dei peli.
    Gli effetti della denutrizione sui processi biochimici del corpo possono portare alla morte.
    Le stesse alterazioni biochimiche provocano la scomparsa delle mestruazioni, stanchezza e perdita del desiderio sessuale.
    L’anoressica (è molto raro che sia un disturbo maschile), ha una storia di scarso o freddo contatto con la madre, essa fantastica inconsciamente di divorarla, un desiderio che le procura forti sensi di colpa e il bisogno di autopunirsi privandosi della gratificazione orale.
  • Bulimia nervosa
    Le crisi bulimiche sono caratterizzate dal bisogno imperioso e irrinunciabile di ingurgitare grandi quantità di cibo nel minor tempo possibile.
    Se l’anoressia è una difesa dai propri impulsi distruttivi, la bulimia rappresenta il tentativo di divorare la madre, di riempire il vuoto associato alla sua mancanza.
  • Herpes
    È un infezione che si presenta con vescicole dolorose nella bocca, sulle labbra e sugli organi genitali che rappresentano il tentativo di scaricare un ristagno energetico.
    Da un punto di vista dinamico evidenziano una condizione di paura legata al piacere sessuale.
  • Stomatiti, gengiviti, piorree
    Sono tutte legate alla difficoltà di mordere, di usare i denti e dinamicamente di usare la propria aggressività come ad-gredior per affrontare la vita.
    Se a questa si aggiunge la mancanza di appetito o la nausea, che simbolicamente può rappresentare il non voler inghiottire, digerire la realtà, allora ci saranno affezioni a carico dello stomaco e dell’intestino.

Altri aspetti psicopatologici del quadro depressivo

Federico Navarro definisce il periodo neonatale, quello che comincia alla nascita e termina con lo svezzamento, il periodo temperamentale (il “corredo” bio-energetico: una combinazione di fattori endocrini e neurovegetativi), in cui da parte del neonato più che un’intenzionalità vi è una reattività.Secondo Federico un allattamento deficitario influirà sulla formazione dell’Io, (che comincerà solo con lo svezzamento quando l’intenzionalità e la neuromuscolarità faranno entrare il bambino nella caratterialità), che si fisserà al temperamento.Il nucleo psicotico che si può formare in questo periodo, viene bloccato dall’entrata forzata nella caratterialità, tipica di uno svezzamento precoce.Questa, secondo Federico, è la condizione caratteristica della condizione borderline (stato limite); il temperamento del soggetto è sotto controllo, ma può sempre esplodere se crollano le difese dell’Io.La depressione nascosta, riguarda quei soggetti che pur accusando stanchezza, insonnia, inappetenza, non manifestano dal punto di vista dell’umore atteggiamenti di tipo depressivo. In questa condizione, erroneamente chiamata “esaurimento nervoso”, l’aspetto orale è alimentato da un blocco del collo, blocco narcisistico, che induce il soggetto a nutrirsi energeticamente a spese del collo in una condizione di costante tensione che lo fa sentire costantemente affaticato.Il tratto caratteriale orale è presente in tutti gli altri tipi di carattere, in particolare lo ritroviamo nel fallico-narcisista e nell’isterico perchè entrambi spostano l’eccitabilità del bisogno orale insoddisfatto nella fame sessuale.

L’orale rimosso, l’orale insoddisfatto.

Nei modi di reagire dell’orale, che come “carattere” nel senso pieno del termine non esiste, mentre come tratto è presente in ogni tipo caratteriale, si distinguono due aspetti fondamentali tracciati da Baker nel suo L’ uomo nella trappola:L’orale rimosso, o come diremmo noi: il pretenzioso rimosso, generalmente ha una struttura sottile e allungata, (Lowen, nel suo Bionergetica fa l’ipotesi che l’attaccamento che l’orale conserva alla sua condizione infantile, ritardando la conclusione della maturazione, consenta alle ossa lunghe di crescere più del dovuto), è privo d’energia, pallido, e quieto.Parla con la voce bassa ma si esprime in modo caustico e mordace. Ha un continuo bisogno di essere lodato e si aspetta di poter amare senza fare alcuno sforzo.Non chiede mai nulla e sembra accontentarsi di tutto, in realtà nasconde dietro all’alibi dei sensi di colpa un orgoglio ostinato e non trae mai veramente piacere da ciò che riceve. Non prova piacere nel mangiare, nel fumare, nel bere.Si aspetta di essere sostenuto dai membri più capaci della propria famiglia e spesso tende a dipendere a lungo dai propri genitori.L’orale rimosso nega la sua depressione e, come dice Federico, va avanti “serrando i denti”, atteggiamento che è rivelato dalla contrazione cronica dei suoi masseteri e dal fenomeno notturno del digrignare i denti noto come brownismo. Non è un collerico ma è fortemente irritabile e permaloso.L’orale insoddisfatto appare spesso come una persona piena d’energia ma è un comportamento compensativo perchè nel profondo nasconde sempre la situazione depressiva ma ne è consapevole e cerca costantemente di risolverla attraverso il cibo, il fumo o l’alcool o qualunque altra cosa che possa dargli una pur minima soddisfazione a livello orale.È mutevole e imprevedibile, può andare soggetto a momenti di euforia e collera alternati ad abbattimento. La sua pretesa è manifesta, ma non ne è consapevole perchè è bravo dialetticamente a dimostrare la leggittimità delle sue pretese. Chiede molto agli altri ma non è mai contento. È un gran parlatore, ma ama parlare di sé generalmente mettendosi in una luce favorevole, il suo esibizionismo non è di natura fallica ma un mezzo per ottenere attenzione, interesse e amore.Alterna momenti di sopravvalutazione di sé con altri in cui si sente impotente e inadeguato. Ripete spesso “non so cosa voglio”, perché in realtà prova riluttanza ad accettare la realtà e la necessità di lottare nella vita.        Il collo e il narcisismo

  • Il narcisismo
  • Narcisismo e carattere

 

Il collo e il narcisismo

 

Il collo

Con il collo concludiamo i primi tre livelli che chiamiamo pregenitali.Il collo è la sede di importantissimi organi connessi con vari sistemi:

  • Digerente (faringe, esofago);
  • Respiratorio (laringe, trachea, polmoni);
  • Circolatorio (importanti arterie e vene come la carotide e la giugulare);
  • Endocrino (ghiandole vitali come tiroide, paratiroidi, timo)
  • Nervoso periferico (i primi tre gangli che regolano la circolazione, il funzionamento della tiroide, le funzioni cardiaca e polmonare).

I muscoli di questo segmento sono disposti in tre strati:Lo strato profondo è costituito dai muscoli che aderiscono posteriormente e anteriormente alla colonna vertrebrale cervicale.Questi muscoli tengono unite le vertebre cervicali alle clavicole, sterno, coste, scapole.La tensione di questi muscoli profondi può generare un non allineamento delle vertebre (percepibile alla palpazione), è responsabile della morfologia del collo (sottile o grosso, lungo o corto) e della famosa artrosi cervicale.È bene conoscere la differenza fra un cattivo allineamento delle vertebre del collo e una “frattura” dell’allineamento stesso.Quest’ultima è indicativa di una condizione schizoide, che è rilevabile osservando la persona in piedi: all’altezza del collo la linea della colonna si “interrompe” per poi proseguire “spostata” rispetto all’asse della colonna intera.Ovviamente la tensione cronica di questi muscoli è responsabile anche delle cifosi (gobba o arrotondamento in genere nella parte superiore della colonna) o scoliosi (deformità laterale della colonna).Nello Strato medio si trovano i muscoli che anteriormente ricoprono la laringe e la tiroide e che provengono sia dalla mandibola che dal torace.Per produrre suoni, nel pianto, nel riso la laringe deve poter essere mobile, quindi una tensione cronica a questo livello ha le conseguenze che immaginate.La ghiandola tiroide è formata da due lobi posti lateralmente alla trachea. La tiroide svolge un ruolo importantissimo nel controllo del metabolismo, è fondamentale per la crescita ossea e per la rapidità dei processi mentali.La funzionalità della tiroide è controllata dall’ipotalamo e da un’altra ghiandola: l’ipofisi.La condizione ipertiroidea è tipica di soggetti ansiosi ma molto controllati e quindi chiusi e orgogliosi. L’ansia al primo livello li porta a caricare l’ipotalamo che stimolando l’ipofisi aumenta la produzione di calcitonina (calcio) con sintomi neuro-vegetativi come tremito, ipersudorazione, tachicardia ecc.La condizione ipotiroidea porta ad un rallentamento dei processi mentali. La condizione di deficit energetico è caratteristica dello stato borderline che può presentare a volte allucinazioni e fobie.I muscoli del Terzo strato sono rilevanti ai fini della postura del capo.Sono localizzati posteriormente, come ad es. il trapezio e lateralmente, come gli scaleni e lo sternocleidomastoideo. Una condizione riconducibile alla tensione di questi muscoli è il torcicollo. La limitazione dei movimenti del collo corrisponde psicologicamente ad una diminuzione nella capacità del soggetto di “guardarsi intorno”, ad avere un’ottica ristretta e un comportamento rigido che gli fa perdere di vista l’insieme a favore del dettaglio e lo porta su posizioni di egoismo.Inoltre la trazione dei muscoli del collo influenza il torace gonfiando e comprimendo la gabbia toracica soffocando il cuore e compromettendo la capacità amorosa.L’importanza degli organi situati nel collo per la salvaguardia della vita fa sì che il collo rappresenti più di ogni altra parte del soma, l’istinto di conservazione. È il luogo privilegiato della difesa dalla minaccia di annientamento somatico e psichico.Nel collo troviamo i ricordi che fanno riferimento alle situazioni in cui ci hanno mortificato e umiliato. Purtroppo l’integrità psicologica dei bambini è spesso violata costringendoli ad ingoiare “cose” che altrimenti rifiuterebbero.La tensione muscolare di questo segmento rappresenta una difesa inconscia contro la possibilità di essere costretti ad ingoiare qualunque “cosa” inaccettabile proveniente dall’esterno.È anche, al tempo stesso, una difesa o un controllo inconscio contro l’espressione di sentimenti che si teme possano essere inaccettabili per gli altri.Il collo finisce così per rappresentare “il controllo” per eccellenza, una specie di stazione in cui si decide cosa far passare in entrata o in uscita.Nel collo è localizzato il sef-control, che cronicizzato impedisce a causa della rigidità psicologica, (non solo fisica), di potersi concedere e abbandonare a se stessi e all’altro.Da un punto di vista somatopsicodinamico per Federico le infiammazioni a carico della faringe, condotto posto tra la bocca e l’esofago, sono somatizzazioni riconducibili alla difficoltà a “inghiottire” o “digerire” una novità sgradevole.La laringite, invece, (l’apertura delle vie respiratorie), caratterizzata da disfonia o afonia, è collegata ad una situazione affettiva in cui ci s’impedisce di parlare e urlare.

Il narcisismo

Le offese e le umiliazioni del passato sono gli ingredienti della “ferita narcisistica”, la matrice dell’odio vendicativo, come abbiamo visto in altre sezioni di questo sito (Antonio Mazzetti, Laura Rita, Antonio Mercurio).La presenza d’organi indispensabili alla sopravvivenza e il ruolo rilevante del collo nel controllo delle sensazioni, emozioni e sentimenti fa di questo livello il luogo in cui troviamo rappresentati l’orgoglio e il narcisismo.Vi sono un narcisismo primario (fisiologico) e uno secondario (nevrotico).Il narcisismo primario nasce nel periodo in cui il bambino, ormai muscolarmente capace, scopre il suo corpo e il piacere che può darsi da sé.Questo tipo di narcisimo compare in forma inconscia verso i nove mesi, e coscientemente verso i due anni di vita. Siamo nella fase dell’autoerotismo, dell’inizio della masturbazione e della scoperta della propria identità sessuale.Scoprendosi capace di darsi piacere, il bambino scopre due parti di sé:

  • il “me”
    cioè il contatto con se stesso, l’energia auto-indirizzata
  • l'”io”
    cioè il contatto con gli altri, l’energia etero-indirizzata.

Si può dire, quindi, che il bambino scopre se stesso attraverso il piacere che può darsi. Quando questo processo di scoperta è impedito o contrastato l’identità personale non può fondersi e integrarsi armoniosamente con quella del proprio genere sessuale: qui nasce l’ambivalenza e l’omosessualità latente.Il collo rappresenta l’identità personale; il bacino con le pelvi, invece, l’identità sessuale. Tra i due esiste, quindi, un collegamento naturale, ciò fa sì che collegato al blocco del terzo livello vi sia sempre un blocco al settimo: la pelvi.L’impossibilità ad abbandonarsi tipica del blocco narcisistico coinvolgendo il bacino impedisce l’abbandono orgastico e, nelle donne, un facile svolgimento del parto.Dalla repressione del narcisismo primario, nasce Il narcisismo secondario.In altre parole l’energia destinata al contatto con gli altri è ripiegata, reindirizzata reattivamente sull’io che s’ingigantisce. Si crea qui il Super-io primitivo (l’altro si trova nel bacino), e al piacere si sostituisce l’insoddisfazione di sé. Ci sono due Super-Io, uno legato al collo: super-io come ideale dell’io, per cui il soggetto ha paura del proprio giudizio; il secondo super-io è invece legato alla pelvi, e in quel caso il soggetto ha paura dell’opinione degli altri che rappresentano, fantasmaticamente, l’entità autoritaria che giudica il sesso una cosa sporca.

Cominciano, così, auto-richieste sempre più pressanti di perfezione che spingeranno poi il soggetto, all’ambizione, competizione, carrierismo, lo priveranno dell’umiltà e della possibilità di sentire i propri limiti rendendolo sempre più orgoglioso e rigido.

 

Narcisismo e carattere

Il tentativo costante di superare noi stessi e le nostre paure ci fa vivere continuamente in ansia. Quest’ansia stabilisce un’unione naturale tra il collo e il diaframma dove troviamo il MASOCHISMO.Il narcisista ha anche un tratto masochista, perché per la sua brama di potere elabora progetti a lungo termine che impongono sacrifici e lo privano della gioia del presente.Il masochista è anche un narcisista a rovescio. Facendo una vita di sacrifici si sente un martire, un eroe e un santo. Il soggetto per vanitosa presunzione, si “carica” sulla nuca le responsabilità del mondo intero sviluppando così, quello che è conosciuto come il “Complesso di Atlante”. (In anatomia è chiamata “atlante” la prima vertebra cervicale; nella mitologia classica, Atlante è il titano che sorregge l’intera volta celeste).Il tratto narcistico è, con aspetti diversi, presente in ogni tipo caratteriale: orale, coatto, fallico e isterico.La posizione fallico-narcista, per esempio, ha la sua genesi verso i tre anni di età quando il bambino o la bambina si avvicinano edipicamente al genitore di sesso opposto.Quando la richiesta del bambino, che è naturalmente seduttiva ed esibizionistica, è repressa o respinta ciò genera, in lui, una condizione di ambivalenza con desiderio di conquista e vendetta insieme.Quest’angoscia di castrazione fa sì che il fallico-narcista s’identifichi con il fallo, (nelle donne vi è la fantasia di averlo) e che utilizzi la sessualità come un’arma per vendicarsi.

Il torace

  • La ghiandola timo, il cuore, la respirazione
  • Aspetti psichici e somatici del torace

Il torace Gli organi importanti di questo livello sono:

  • La ghiandola timo
  • Il cuore con i suoi annessi
  • L’apparato respiratorio

Il timo

Il TIMO è una ghiandola appartenente al sistema immunitario, è situato nella parte alta del torace, dietro lo sterno ed è formato da due lobi che si uniscono davanti alla trachea. Ogni lobo è formato da tessuto linfatico.Il timo svolge un ruolo importante nella risposta immunitaria a partire dalla dodicesima settimana di gestazione, ma mentre è molto sviluppato nel feto, si atrofizza a poco, a poco nell’infanzia. Nell’adulto è presente ma non ha più alcuna funzione difensiva.Perché questa ghiandola ci interessa? Perché essa, secondo Federico Navarro, rappresenta l’Io biologico.La prima conferma di questa tesi viene dal momento evolutivo in cui il timo si attiva: la dodicesima settimana di gestazione. Questo è anche il periodo in cui si “definisce” l’identità sessuale del fetoAltra analogia è riscontrabile nella particolare funzione del timo: istruire i linfociti affinché apprendano a distinguere le molecole amiche da quelle nemiche, in altre parole, aiutare l’organismo a distinguere il sé dal non-sé (prima definizione dell’Io anche attraverso l’individuazione del non-Io).Federico Navarro ha sempre sostenuto che il fenomeno dell’AIDS non va tanto cercato nell’azione di un virus ma in una condizione sempre più diffusa di “immunodeficienza” (che è la causa, quindi, non l’effetto).Il fatto che colpisca più spesso gli omosessuali, dipende proprio dalla loro difficoltà a riconoscere e incorporare la propria identità biologica.Come reichiani crediamo che l’immunodeficienza non sia altro che l’espressione biologica di un problema che ha le sue radici in una scarsa o confusa identità bio-psichica.Federico descrive due tipi di condizioni, l’ipotimismo con precocità o ritardo della pubertà, fragilità ossea, magrezza e eccitabilità neuro-muscolare e l’ipertimismo con iperproduzione delle cartilagini di coniugazione ossee, precoce crescita dello scheletro.

Il cuore

Il CUORE è un muscolo cavo involontario di forma conica il cui vertice posa sul diaframma.È situato nel torace, tra i polmoni, in uno spazio che si chiama MEDIASTINO (tra lo sterno e la colonna vertebrale), in cui trova posto insieme alla trachea, l’esofago, il timo e i vasi principali. È spostato a sinistra ed è sostenuto dai vasi sanguigni in entrata e in uscita.Il cuore è formato di tre strati, il PERICARDIO che è il sacco che lo racchiude composto da due foglietti, il MIOCARDIO che è il tessuto muscolare contrattile e l’ENDOCARDIO una sottile membrana che tappezza la superficie interna delle cavità cardiache, tutte suscettibili di infiammazioni.Il cuore si presenta suddiviso in due metà da un setto verticale: a destra il cuore venoso, a sinistra il cuore arterioso. Le due metà sono poi ulteriormente divise da una membrana perforata in due cavità: l’atrio, superiormente, e il ventricolo, inferiormente. Il sangue viene pompato per effetto della contrazione (sistole) dall’orecchietta (atrio) al ventricolo che si dilata (diastole) o viceversa.I vasi della circolazione cardiaca sono: le VENE che vanno al cuore (sangue venoso che è povero d’ossigeno e ricco di anidride carbonica), le ARTERIE che partono dal cuore (sangue arterioso ricco di ossigeno) e le CORONARIE (la circolazione propria del cuore).Questi vasi sono ricoperti di tessuto muscolare, soggetto quindi, alle variazioni di tono di cui abbiamo già parlato: con effetto contrattivo per il simpatico e dilatativo per il parasimpatico.La riduzione drastica del diametro dei vasi, a causa di una prevalenza eccessiva del simpatico (contrazione), può impedire l’afflusso del sangue e fenomeni ischemici transitori (angina) o definitivi (infarto).La personalità di questi soggetti, scrive Federico Navarro, è quella di chi antepone il ruolo sociale, il lavoro, l’impegno di fronte agli altri alla propria vita affettiva. Ma in realtà sono persone che pur mostrandosi formalmente autonome e indipendenti, anzi facendosi vanto di ciò, nascondono invece un forte desiderio rimosso di protezione, amore e contatto.La NEVROSI CARDIACA va invece annoverata tra i disturbi funzionali senza alcuna base organica. Questa nevrosi, dice Federico, ricorda al soggetto l’esistenza del suo cuore attraverso palpitazioni, tachicardia, dolori retrosternali, tutte manifestazioni che non alterano in alcun modo l’onda T dell’elettrocardiogramma.Un pensiero costante di queste persone è la paura di morire, in realtà la “morte” che temono è l’abbandono, la separazione, il rifiuto o le ferite al loro narcisismo.Il vantaggio secondario della loro marcata ipocondria, è la richiesta e la risposta d’affetto, e attenzione, che la paura per i propri sintomi provoca.I due tipi di disturbo descritti, quelli con sintomi organici e quelli con sintomi psichici hanno in comune un nucleo orale ansioso, bisogni di contatto e amore, ma in più l’anginoso fugge nel terzo livello, il collo, negando e sostituendo tali bisogni con un ideale dell’Io che finisce per diventare persecutorio e portare al crollo.Nel caso della nevrosi cardiaca può, talvolta, portare sollievo la respirazione. Questa, secondo Navarro, calma la sete di ossigeno e può, quindi, saziare il bisogno di contatto.

La respirazione

Nel quarto livello si trova la maggior parte dell’apparato respiratorio: trachea, bronchi, polmoni. L’attività polmonare assicura gli scambi gassosi tra l’organismo e l’ambiente esterno.Con l’inspirazione si ha l’immissione d’ossigeno (trasportato dai globuli rossi), e con l’espirazione l’espulsione d’anidride carbonica. Ma l’attività respiratoria è importante anche per regolare (insieme ad altri organi, soprattutto i reni), l’equilibrio acido-base o acido-alcalino del sangue.Una respirazione ridotta porta ad una ritenzione dell’anidride carbonica e quindi ad uno spostamento del PH nel senso dell’acidosi, viceversa una condizione di iperventilazione provoca una eliminazione eccessiva dell’anidride carbonica e alla prevalenza dell’alcalosi.Gli acidi sono ioni positivi, gli alcali ioni negativi. Quando vi è equilibrio dinamico i liquidi sono vicini alla neutralità chimica e l’organismo funziona in modo orgonomicamente ottimale.Il Test di Vincent è utilizzato proprio per misurare i parametri del PH e rileva quattro “terreni” energetici:

  • ALCALINO OSSIDATO: biopatie primarie (cancro, AIDS ecc)
  • ACIDO OSSIDATO: biopatie secondarie (diabete, artrite reumatoide ecc.)
  • ACIDO RIDOTTO: malattie somatopsicologiche (ulcera, infarto)
  • ALCALINO RIDOTTO: somatizzazioni

I polmoni sono due visceri voluminosi, vuoti, di forma conica. Nella parte inferiore adattano la loro forma a quella del diaframma. Il polmone destro è più voluminoso del sinistro.Sono avvolti da membrane, le pleure, costituite da due foglietti che determinano uno spazio strettissimo ripieno di liquido che favorisce il movimento dei polmoni, un’infiammazione può aumentare il liquido intramembranoso e ostacolare l’espansione polmonare.Le malattie come bronchiti, polmoniti o anche la tubercolosi, esprimono, per Federico Navarro, la scarica energetica di manifestazioni d’ambivalenza, collegate ad una condizione depressiva.I sentimenti di tristezza e di mancata manifestazione ed elaborazione di vissuti dolorosi e luttuosi portano all’impotenza e alla rabbia, che repressa conduce alla rassegnazione.Nella funzione respiratoria il diaframma svolge un ruolo centrale.Nell’inspirazione, questo muscolo modifica la forma a “cupola” a convessità verso l’alto tipica della sua condizione di riposo, per appiattirsi verso i visceri permettendo l’allungamento e la dilatazione della gabbia toracica.Nell’espirazione, attraverso un fenomeno passivo, torna ad assumere la sua forma di riposo.Il diaframma rappresenta il quinto livello reichiano e nell’articolo dedicato a tale livello lo descriveremo più dettagliatamente.Per concludere il discorso sulla meccanica respiratoria è bene ricordare che sono molti i muscoli che vi partecipano e che influenzano l’ampiezza e la profondità del respiro.

Oltre ai muscoli intercostali e quelli dei distretti superiori (collo, scapole, braccia), particolare importanza rivestono i muscoli che provengono dal bacino, sia anteriormente che posteriormente come ad esempio l’ILEO PSOAS e il QUADRATO DEI LOMBI che si portano fino alla colonna lombare e al margine inferiore della dodicesima costola dove si attacca la porzione posteriore del diaframma.

 

Aspetti psichici e somatici del torace

Nel quarto livello sono incluse anche le braccia, mani comprese. Nel torace troviamo rappresentati, come abbiamo visto, l’identità biologica dell’individuo e l’affettività e, in relazione ad entrambi gli aspetti: l’ambivalenza (sé/non-sé, maschile/femminile, amore/odio).Respirare è “sentire”, di conseguenza limitare la respirazione è limitare il “sentire”. La mobilizzazione del torace libera emozioni quali l’ira, la collera, il dolore, l’angoscia.Il torace può essere bloccato in un atteggiamento cronico d’inspirazione o in quello d’espirazione.Il torace bloccato in un atteggiamento inspiratorio è gonfio e può assumere la tipica forma a “botte”, a volte questo tipo di struttura sottrae energia al ventre che è contratto, alle pelvi e alle gambe che possono apparire ipoorgonotiche.L’ego di queste persone è spesso “gonfio” come il loro petto e il contatto con i sentimenti di tenerezza e affetto scarso. Se volete l’inspirazione cronica corrisponde un po’ a chi “prende” e non restituisce.Il torace bloccato in un atteggiamento espiratorio è stretto e fragile ed esprime debolezza e depressione. A volte il distretto inferiore compensa la carenza energetica di quello superiore con la regione pelvica e le gambe massicci.Al contrario dell’altro tipo l’ego è “sgonfio” e il rifiuto di introdurre aria esprime l’incapacità di prendere dal mondo e di riempirsi.Una bella citazione che ho trovato recita così: un torace libero prende con amore (inspirazione) e dà con amore (espirazione).Altri aspetti morfologici comuni e sono la presenza di una “placca” rigida o molle all’altezza del cuore, un “buco” in corrispondenza dell’apice inferiore dello sterno o la conformazione ad “ali sporgenti” dell’estremità inferiore delle costole toraciche indice di un blocco diaframmatico importante.Il seno può comunicare gradi diversi di vitalità, a seconda che sia ipoorgonotico, quindi esageratamente piccolo, flaccido con capezzoli introflessi, o ipeorgonotico, quindi esageratamente grosso, duro, simbolo spesso di narcisismo.L’ambivalenza sessuale si manifesta talvolta con assenza di peli per gli uomini o presenza nelle donne.Le braccia e le mani costituiscono i canali attraverso i quali sono espresse le emozioni. Possono colpire, accarezzare, abbracciare, afferrare, tenere, dare, protendersi, manipolare, sostenere ecc ecc.La vegetoterapia di Federico Navarro, permette di evidenziare atteggiamenti difensivi di eccessiva chiusura o apertura, debolezza dell’io, incapacità di dire no o di protendersi verso il mondo.      Il diaframma e la respirazione

  • Il diaframma nella vita fetale
  • La respirazione
  • Il blocco diaframmatico

 

Il diaframma e la respirazione

  

Il diaframma nella vita fetale

Se trattiamo il diaframma da un punto di vista della sessualità, rappresenta senz’altro il quinto livello. Ma se pensiamo al ruolo che riveste per la sopravvivenza, allora lo potremmo considerare il LIVELLO ZERO e come tale dovremmo metterlo in relazione alla zona ombelicale.Come dice Federico Navarro, questo muscolo entra in funzione al momento del passaggio dalla vita fetale alla vita extrauterina.
E come dice F. Leboyer, il bambino, se costretto a respirare per non morire, a causa del taglio anticipato del cordone, assocerà la respirazione all’angoscia anziché alla vita.La paura (primo livello) lo porterà istintivamente a frenare una respirazione che gli infuoca i polmoni stabilendo un primo importante collegamento fra la paura e il diaframma.Una notizia recente a proposito della respirazione fetale, dice invece che il diaframma non si contrae per la prima volta alla nascita; è vero comunque che però alla nascita, per la prima volta, il bambino non ha più alternative, non c’è più la madre a respirare per lui.La notizia completa che abbiamo trovato è comunque questa:

  • Uno dei massimi studiosi della vita fetale (Peter W. Nathanielsz) ha compiuto ricerche che hanno dimostrato l’esistenza di movimenti respiratori a partire dal 40º giorno di gestazione. Il feto introduce ed elimina attraverso la trachea piccolissime quantità di liquido. Sembra che i periodi di respirazione siano di 20 minuti circa, con 20 minuti di intervallo, il picco di attività si situa durante la notte. Se, per qualunque ragione attraverso la placenta arriva meno ossigeno, il feto sospende subito i suoi movimenti respiratori. È una forma di difesa, un modo per risparmiare energia.

Il diaframma è stato anche definito “secondo cuore” o “grande bocca” (G.Ferri), termini che evidenziano il ruolo centrale che ha questo muscolo nel metabolismo energetico.Come abbiamo detto parlando del quarto livello, respirare è “sentire”. Il diaframma è il grande distributore d’energia e di sensazioni energetiche, quindi si capisce, perché si impari presto a bloccarlo per difendersi dalle sensazioni spiacevoli e dolorose.

Fin dalla vita fetale l’individuo impara a frenare i movimenti diaframmatici per difendere la propria vita, in seguito lo farà per proteggersi dal senso di perdita e vuoto che provengono dalla zona ombelicale, da quelle che giungono dalla sfera affettiva, e dalle sensazioni sessuali.

 

La respirazione

Il modo in cui respiriamo a volte è rivelatore:

  • La respirazione solo toracica protegge dal vuoto ombelicale
  • La respirazione solo addominale protegge dalle sensazioni che vengono dal cuore
  • La respirazione naturale, non bloccata è quella in cui il torace e la pancia partecipano armoniosamente nella respirazione.

L’inspirazione inizia dalla contrazione della zona centrale del diaframma (tendinea), per propagarsi poi anche alle parti periferiche. In questa prima fase il diaframma modifica la sua forma a “cupola” a convessità verso l’alto, tipica della sua condizione di riposo, per appiattirsi verso i visceri e utilizzando soprattutto i muscoli dell’addome e del bacino (addome, lombi, bacino, cosce), produce una prima dilatazione verticale.Durante quest’allungamento l’addome si gonfia, subito dopo, grazie all’interazione con i distretti muscolari superiori (capo, collo, coste, spalle, scapole ecc), anche il torace si espande sollevandosi e allargandosi.Nell’espirazione, che dovrebbe essere un fenomeno passivo, il diaframma si rilassa abbandonando la pressione sulla zona addominale per tornare verso il torace, la pancia si sgonfia seguita dal torace.Al movimento d’inspirazione ed espirazione dovrebbe seguire una pausa che invece non c’è quasi mai o è fatta tra l’inspirazione e l’espirazione, spesso per la paura associata allo svuotamento dell’aria.La respirazione è un movimento pulsante d’andata e ritorno, è un’onda che dal diaframma si propaga in alto, verso la testa e scende in basso, verso i genitali. Bacino e collo si allungano e allontanano nell’inspirazione, si accorciano e si avvicinano nell’espirazione.

Si può notare come la sequenza descritta è la stessa usata da Reich quando descrive i movimenti orgastici, infatti, i movimenti convulsivi dell’orgasmo ricalcano quelli descritti per la respirazione.

 

Aspetti anatomici e psichici del diaframma

Il diaframma è costituito da una parte periferica muscolare e da una parte centrale tendinea, chiamata centro frenico perché vi arrivano i nervi frenici che danno al diaframma la sua mobilità.Si possono distinguere tre porzioni:

  • Una parte posteriore lombare
  • Una parte anteriore sternale
  • Una parte anteroposteriore costale

Nella parte lombare il diaframma si attacca alle vertebre con due fasci che costituiscono i pilastri mediali. L’incrocio di queste due fibre determina due orifizi che oltre a permettere il passaggio di: aorta, dotto toracico, vena azygos, esofago, consente il transito dei nervi vaghi.A lato del pilastro mediale, con inserzione sulla terza vertebra lombare, c’è un pilastro intermedio, nella fessura tra questo e il pilastro mediale passa il tronco del simpatico e il nervo grande e piccolo splanchico.Sempre in questa zona posteriore c’è il pilastro laterale che però, non si attacca alla colonna lombare ma si aggancia alle arcate fibrose che costituiscono un ispessimento dei fasci dei muscoli ileopsoas e quadrato dei lombi inseriti sulle vertebre lombari e da qui termina alla punta della dodicesima costola.Gli organi interessati al livello diaframmatico sono lo stomaco, il plesso solare, il fegato, la milza, il pancreas, la cistifellea, e in parte, i reni.I disturbi collegati a questo segmento colpiscono soggetti ansiosi o angosciati con uno sfondo depressivo orale, del tipo rimosso piuttosto che insoddisfatto che hanno in più un atteggiamento narcisistico (collo) e di notevole controllo sulla loro paura e ostilità reattiva.Il controllo è una risposta alla minaccia che è insita nel messaggio di chi ci educa, che valorizza tutte le emozioni che si collocano al di sopra del diaframma, mentre tutto ciò che si colloca al di sotto è considerato sporco e sbagliato.Il diaframma diventa un vero e proprio “coperchio” che taglia in due il corpo e l’impedimento alla circolazione energetica che ne deriva apre la strada a varie somatizzazioni e sindromi nevrotiche.In particolare quelle a carico della regione cardiaca come la nevrosi d’angoscia, dell’apparato digestivo con nausee, vomito ricorrente o incapacità a vomitare, diverse problematiche a carico della sfera sessuale come i problemi d’eiaculazione precoce o ritardata, la ninfomania o sul versante opposto la frigidità, lordosi della colonna vertrebrale ecc.Alcuni disturbi specifici descritti da Federico Navarro sono:

  • La gastrite ipoacida (stato depressivo) e l’iperacida che spesso evolve verso l’ulcera.
  • La Pancreatite, la cui forma acuta può essere mortale ed è causata da un “blocco” improvviso del diaframma in posizione intermedia.
  • Il Diabete (biopatia che dipende dal malfunzionamento della componente endocrina del pancreas)
  • Le Coliche renali o epatiche.

 Il blocco diaframmatico

Le manifestazioni emozionali più tipiche del diaframma sono il piacere e l’ansia.Abbiamo già parlato delle conseguenze del blocco diaframmatico sulla respirazione, in particolare, il freno si presenta come difficoltà ad “espirare” che rappresenta il lasciarsi andare.La paura di abbandonarsi al piacere, percepita come paura di morire rappresenta anche, da un punto di vista energetico, la paura dell’orgasmo. Paura di perdere il controllo (il collo) e la coscienza dell’Io.Il bisogno di lasciarsi andare e la paura di farlo si traducono in un conflitto che è percepito come ansia, quando a questo quadro si aggiungono i sensi di colpa l’ansia diviene attesa di una punizione.Il bisogno di una distensione che non può essere trovata nel piacere, si traduce nella spinta inconscia a cercare soluzioni sostitutive. Tali soluzioni, a causa dei sensi di colpa, hanno carattere spiacevole ma permettono di mettere fine allo stato d’attesa e riprendere il respiro.Questa, dice Federico Navarro, è la genesi del masochismo, il cui aspetto caratteriale principale è il blocco diaframmatico.Per il masochista ogni eccitazione risulta sgradita perché non può essere scaricata nell’orgasmo e si trasforma inevitabilmente in ansia o angoscia.L’imperativo è quindi quello di soffocare ogni spontaneità, diventando un gregario, un esecutore. Si tratta del “fare” coattivo, sostitutivo della naturale creatività che è invece il risultato di una piena e appagata condizione genitale.Come abbiamo detto inizialmente tutte le esperienze dolorose si traducono nell’immobilizzazione del muscolo diaframma. E questo a partire dalla nascita, per continuare poi con gli effetti di un’educazione rigida.Tale educazione improntata ai “devo” reprime infatti, per paura, i propri moti spontanei quando questi siano in contrasto con le aspettative dei genitori o degli educatori. Per questa ragione al livello del diaframma è trattenuta anche tutta la rabbia e l’odio frenato e accumulato.Ma come ha descritto Reich, il masochista subisce e tollera ma “fino ad un certo punto”. È il punto massimo fino al quale egli può permettersi di trattenere il fiato in ispirazione, poi è costretto a espirare, cioè “esplodere” e a volte lo fa in modo gravemente distruttivo per sé e gli altri.Dato che abbiamo tutti, a vari livelli, il diaframma bloccato, abbiamo tutti, a vari livelli, un tratto masochistico.Nell’ottica della vegetoterapia, Federico Navarro sottolinea che il diaframma è un livello che riveste un ruolo fondamentale nella corazza. Abbiamo detto qualcosa di simile quando abbiamo parlato del terzo livello, il collo.Tutti i blocchi hanno importanti funzioni difensive, ma il collo e il diaframma sono dighe fondamentali e vanno quindi trattate con il massimo riguardo, perché se forzate prima di aver sufficentemente risolto i livelli precedenti, possono provocare scompensi psicotici.Come per il collo, il lavoro sul diaframma può suscitare resistenze e tentativi di fuga. In particolare con questo segmento la reazione in linea con il tratto masochistico: lamenti, sfiducia nell’analisi, sonnolenza ecc.     L’addome e le emozioni viscerali

  • Aspetti anatomici e psichici dell’addome
  • L’inibizione all’azione

 

L’addome e le emozioni viscerali

 

L’addome

Se nel torace abbiamo collocato il mondo degli affetti, nell’addome metteremo quello delle emozioni “viscerali”.In particolare qui nelle profondità dei visceri ristagnano nascosti, i residui della rabbia: il rancore e il risentimento.Molte espressioni popolari come: “diventare verdi dalla bile”, “rodersi il fegato”, “farsi un fegato così” ecc. o ancora “quello mi sta sullo stomaco”, mettono in relazione questa parte somatica con la memoria dei torti subiti.Una conferma più scientifica viene dalle funzioni degli organi che si trovano in questo segmento. Per esempio quella che il fegato ha, in comune con i reni, di eliminare le scorie, dopo averle assorbite, per evitare gli effetti tossici che queste avrebbero sul corpo se non fossero smaltite.Utilizzando una metafora potremmo considerare il rancore e il risentimento come “scorie” dell’odio che non vengono smaltite e divengono “tossiche”. Altre sensazioni ed emozioni associate al ventre sono l’amarezza, lo struggimento, il vuoto, la mancanza, tutti vissuti collegati all’abbandono, alla perdita, abbinati alla zona ombelicale. Ma anche la tenerezza, l’apertura, il desiderio, la disponibilità, la pazienza.

A questo livello troviamo anche un certo grado di AMBIVALENZA tra il DARE e il TRATTENERE. Le feci sono il primo vero prodotto del bambino, una delle prime occasioni di esercitare la propria volontà, ma il controllo o le ansie che i genitori scaricano sulla sua educazione sfinterica lo privano di questa prerogativa.

 

Aspetti anatomici e psichici dell’addome

I MUSCOLI di questo livello sono:

ANTERIORMENTE

  • Il RETTO DELL’ADDOME, una fascia muscolare che ricopre anteriormente l’addome, che collega in alto lo sterno con le cartillagini del pube, è un muscolo importante per i movimenti coitali e i movimenti espiratori, la contrazione di questo muscolo, responsabile del famoso ventre “piatto”, è considerata esteticamente un valore positivo, mentre nella nostra esperienza è sinonimo di paure sessuali o difesa dal vuoto ombelicale. Non è un caso che uno dei primi segnali quando si fa una vegetoterapia sia la comparsa della cosiddetta “pancetta”.
  • Il TRASVERSO DELL’ADDOME, ricopre antero-lateralmente l’addome, arrivando fin dietro alla schiena.
    Quando si contrae comprime “come una cinghia”, è un muscolo sempre molto contratto, soprattutto se c’è una storia di rabbia repressa. Quasi tutti “sussultano” se vengono toccati in questa zona (solletico, dolore ecc). Anche questo muscolo svolge un ruolo importante nell’espirazione.
  • L’OBLIQUO INTERNO ed ESTERNO rappresentano fasci muscolari che ricoprono a ventaglio tutta la superficie addominale, anch’essi permetto la flessione e il sollevamento del bacino.

POSTERIORMENTE

  • Il GRAN DORSALE è un muscolo piatto che ricopre le porzioni medie e inferiori della schiena, qui Federico colloca la paura di essere attaccati e paragona la funzione difensiva di questi muscoli spesso tesi come un arco, a quella narcisitica del terzo livello, il collo. Questa fascia muscolare, dalla zona lombo-sacrale si collega alle braccia, in particolare alle spalle, la tipica postura “spaventata” delle spalle rialzate, quindi, rende questi muscoli cronicamente contratti. Ha un importante ruolo inspiratorio.
  • Il QUADRATO DEI LOMBI e l’ ILEOPSOAS sono muscoli profondi che delimitano posteriormente la cavità addominale, il primo a partire dalle ossa del bacino (cresta iliaca), l’altro dal femore, entrambi giungono alla colonna lombare e permettono i movimenti basculanti del bacino.

A questo livello troviamo alcuni componenti dell’APPARATO DIGERENTE e dell’APPARATO ESCRETORE.
Le funzioni svolte da questi apparati sono fondamentali per:

  • L’ASSORBIMENTO e l’utilizzo dell’energia;
  • La DIFESA da microrganismi nocivi e la riduzione delle infiammazioni,
  • L’ELIMINAZIONE delle scorie;
  • La REGOLAZIONE dell’equilibrio acido-base (ioni positivi – negativi) e dei liquidi;

Queste funzioni sono regolate dal Sistema Neurovegetativo.
Già Reich (Funzione dell’Orgasmo), aveva evidenziato come nella cavità addominale si trovino i generatori dell’energia bio-psichica, si tratta dei grandi centri del SNA, il PLESSO SOLARE, il PLESSO IPOGASTRICO e il PLESSO GENITALE.
Un vero e proprio “cervello” viscerale che ci fornisce sensazioni vegetative emozionali.Reich parla dell’angoscia addominale (Funzione dell’Orgasmo) e di come i bambini imparano presto a controllarla spingendo il diaframma in basso e comprimendo così il plesso solare tra il diaframma stesso e i muscoli dell’addome.Credo che tutti voi abbiate provato prima o poi gli effetti dell’ansia sui visceri, spesso prima di un incontro importante, che può cambiarci la vita, come un esame, un nuovo lavoro, l’acquisto di una casa avrete sentito la necessità di correre al gabinetto per un’improvvisa diarrea (scarica del parasimpatico che segue ad un’eccesso del simpatico: ansia), oppure sarete stati in preda a dolori lancinanti come se doveste partorire (cambiamento: nascita).Ecco alcuni disturbi tipici legati alla prevalenza del Sistema Simpatico e del Parasimpatico o alla scarica dell’uno seguita dalla compensazione dell’altro:

  • L’ULCERA GASTRICA
    La simpaticotonia cronica provoca un’eccesso degli acidi e una riduzione dell’alcaninità, ciò espone la mucosa dello stomaco all’azione degli acidi, nel frattempo le stesse scariche del simpatico impediscono i movimenti peristaltici così che gli acidi non vengono spinti in avanti ma ristagnano nello stomaco con un effetto che può essere definito di “autodivoramento”.
  • COLITE SPASTICA (sindrome del colon irritabile)
    Questo disturbo molto diffuso (soprattutto nelle donne per le quali forse indica anche castrazione sessuale), riguarda il tratto dell’intestino conosciuto come COLON che circonda come una cornice le anse dell’intestino tenue. Si presenta con stitichezza alternata a diarrea, la prima è legata ad un eccesso del Simpatico, la seconda ad un eccesso del Parasimpatico. Il dolore percepito è crampiforme ed è forse dovuto agli spasmi provocati dall’effetto alternato dei due sistemi sulla muscolatura liscia delle pareti intestinali. Federico Navarro collega questo disturbo ad una depressione reattiva, una combinazione d’insoddisfazione (rabbia) e sfiducia in se stessi.
  • COLITE ULCEROSA
    Colpisce il retto, la porzione finale dell’intestino crasso, e il colon con lesioni. I sintomi sono diarrea, con sangue e muco e forti dolori che precedono l’evacuazione. Questo è un disturbo che Federico Navarro considera psicosomatico e quindi tipico dell’area psicotica o border line. È tipico di persone che hanno paura di perdere il controllo, asessuate, spesso ossessionate dallo sporco e dall’ordine, cercano nel terapeuta sicurezza e autorità, salvo poi sentirlo come troppo esigente e costrittivo.

Altre malattie sono quelle che rappresentano simbolicamente delle castrazioni come l’APPENDICITE e l’ERNIA. Oppure tendenze periodiche alla STIPSI, con prevalenza del simpatico, o DIARREA, con prevalenza invece del parasimpatico.
Le EMORROIDI sono nodi che si formano nei vasi sanguigni dello sfintere anale a causa del suo spasmo cronico.

 

Inibizione all’azione

Dopo aver descritto l’effetto delle componenti neurovegetative sui visceri vorrei riportare, brevemente, uno studio interessante sul fattore endocrino.Si tratta della teoria di un certo Henri Laborit, un medico francese che come tutti gli scienziati che non si sono allineati con le istituzioni scientifiche maggioritarie è stato emarginato e poi recuperato solo più tardi.La sua teoria è nota come SIA, Sistema d’Inibizione all’Azione. Nato diciassette anni più tardi di Reich, Laborit descrive aspetti del comportamento e della fisiologia umana che sono abbastanza in linea con lui, tuttavia, a differenza di Reich, non ha approfondito le componenti inconsce e non ha elaborato alcuna tecnica terapeutica.Il sistema d’inibizione all’azione (SIA), serve ad impedire un’azione quando questa non è utile, cioè quando porterebbe a una punizione o una tensione maggiore invece di diminuire il dolore, oppure non sarebbe più produttiva. È chiaro che impedire un’azione può salvare la vita.L’inibizione però, deve essere breve, lunga quanto basta per riorientarsi e poi deve essere seguita da una nuova azione.Nella ricerca sperimentale di Laborit si mettono gli animali di fronte a situazioni di stress. Gli animali a cui si impedisce di muoversi mostrano disturbi viscerali e segni d’angoscia, come comportamento disorganizzato, mancanza di coordinazione, diarrea. Certi sviluppano un aumento della pressione arteriosa mentre altri mostrano ulcerazioni del tratto gastro-intestinale.Invece gli animali a cui è permesso muoversi mentre sono esposti alle stesse condizioni di stress NON mostrano segni di patologie comportamentali o fisiologiche. S’intende che per azione ci riferiamo alla lotta ma anche alla fuga.Già Hans Selye aveva scoperto che qualsiasi tensione profonda attiva la secrezione di tre ormoni da parte delle ghiandole surrenali, da lui chiamati “ormoni dello stress”, cioè adrenalina, noradrenalina e corticosteroidi.Secondo Seyle questi ormoni, sebbene funzionino come parte del sistema difensivo del corpo, possono produrre un’alterazione fisiologica ogni volta che la loro secrezione è troppo intensa e prolungata.Laborit ha scoperto qualcosa di più, se allo stress segue un movimento attivo è secreta adrenalina che favorisce altro movimento e ripristina l’equilibrio.Al contrario, quando lo stress è accompagnato da prolungata inibizione sono secreti noradrenalina e corticosteroidi e questi ormoni agiscono sul sistema limbico con un effetto a feedback che rinforza l’inibizione creando un circolo vizioso.La continua secrezione di noradrenalina porta all’ipertensione attraverso la compressione arteriosa cronica; la continua secrezione di corticosteroidi, d’altro lato, riduce le capacità di difesa immunologica del corpo.

 

Il bacino e la sessualità (1º parte)

  • Le ricerche di Wilhelm Reich
  • La potenza orgastica
  • l’impotenza orgastica

  

Le ricerche di Wilhelm Reich

Secondo Reich l’uomo è l’unica specie biologica che ha distrutto dentro di sé la naturale funzione sessuale ed è da ciò che derivano le sue sofferenze.Reich scoprì che il piacere si manifesta come una carica elettrica sulla superficie della pelle, maggiore è il piacere più elevata è la carica che rileva il galvanometro.Inizialmente la chiamò energia bio-elettrica, quando però egli capì che non si trattava di un tipo di energia elettrica, la ribattezzò energia dell'”orgone” o energia vitale.In seguito scoprì che quest’energia si irradia oltre la superficie della pelle come un campo energetico.Infine, si accorse che durante le esperienze sessuali soddisfacenti quest’energia è particolarmente concentrata nei genitali e, attraverso l’orgasmo si scarica in tutto il corpo eliminando la stasi e distribuendosi in tutto l’organismo.
La cosa non accade in presenza d’angoscia poiché, in quel caso, non è rilevata alcuna carica sulla pelle e quindi anche nessuna scarica.I genitali possono perciò essere considerati come un organo specializzato della pelle, capace di accumulare e scaricare l’energia ed eliminare la stasi.Ciò è possibile, però, solo in assenza d’angoscia, quando l’organismo può abbandonarsi completamente alle piacevoli sensazioni sessuali attraverso le convulsioni di tutto il corpo e la momentanea perdita di coscienza nota come orgasmo.Il disturbo della naturale funzione sessuale è stato definito da Reich IMPOTENZA ORGASTICA, ed è considerato da lui stesso il fulcro della sessuo-economia, un po’ come il complesso di Edipo per la psicoanalisi.Per la psicoanalisi, i problemi sessuali sono soltanto uno dei sintomi, per Reich sono il nucleo della nevrosi.
I contemporanei di Reich, (e oggi non è cambiato quasi niente), consideravano la potenza erettiva o eiaculatoria come sinonimi di salute genitale, invece secondo Reich, e noi siamo d’accordo, sono solo la premessa indispensabile per il raggiungimento della POTENZA ORGASTICA, ma non corrispondono ad essa.La POTENZA ORGASTICA è infatti:
La capacità di abbandonarsi, senza alcun’inibizione, al flusso dell’energia biologica, la capacità di scaricare l’eccitazione sessuale accumulata, attraverso contrazioni piacevoli involontarie del corpo.Reich, individuò nell’impotenza orgastica il nucleo somatico della nevrosi, i suoi contemporanei lo criticarono affermando di conoscere un gran numero di nevrotici genitalmente sani.Reich si sentì quindi stimolato ad osservare più da vicino questa cosiddetta “salute genitale”. Si accorse così, stupito, che l’analisi meticolosa del comportamento genitale, vantata dagli psicoanalisti dell’epoca, non andava oltre la mera affermazione di aver avuto un rapporto sessuale, un’analisi che andasse più in là era rigorosamente tabù.

Reich decise così di colmare questa lacuna e si dedicò, all’osservazione e descrizione scrupolosa delle fasi dell’incontro sessuale tra individui orgasticamente potenti.

 

La potenza orgastica

Queste sono le fasi descritte da Reich:
Fase del controllo volontario dell’aumento del piacere

  1. L’erezione è piacevole e non dolorosa, l’organo non è sovraeccitato (come nel caso dell’eiaculazione precoce), il sangue affluisce nel genitale femminile attraverso un’abbondante secrezione delle ghiandole genitali e si inumidisce (che manca nella frigidità).
    L’uomo e la donna sono affettuosi, non vi è sadismo, aggressività o inattività e passività. L’attività della donna non si distingue in nulla da quella dell’uomo (la passività della donna, spesso è il risultato delle fantasie masochistiche di essere violentata).
  2. Il piacere si incrementa improvvisamente con la penetrazione, alla sensazione dell’uomo di “venir succhiato” corrisponde la sensazione della donna di “succhiare il pene”.
  3. La spinta aumenta ma non ha alcun carattere sadico è il reciproco, lento, spontaneo, non sforzato strofinamento ad innalzare l’eccitazione che si concentra sul pene e sul glande e, sulle parti posteriori della mucosa vaginale. Il corpo è ancora meno eccitato dei genitali, la coscienza è completamente concentrata sulla percezione del flusso delle sensazioni di piacere al fine di raggiungere la massima tensione prima che inizi l’orgasmo. Le sensazioni di piacere sono tanto più intense, quanto gli strofinamenti sono lenti, delicati e reciprocamente armonizzati. È assente la violenza che distingue l’atteggiamento sadico degli individui con anestesia ai genitali o la fretta nervosa di coloro che soffrono d’eiaculazione precoce.
  4. In questa fase l’interruzione dello strofinamento non è spiacevole, l’eccitazione cade un poco ma non svanisce. Lo strofinamento continuato aumenta l’eccitazione che si estende gradualmente a TUTTO IL CORPO, mentre il genitale rimane allo stesso livello, dopo un improvviso nuovo accrescimento dell’eccitazione genitale comincia la seconda fase.Fase delle contrazioni muscolari involontarie
  5. In questa fase il controllo volontario dell’eccitazione non è più possibile.
    • Aumentano le pulsazioni e vi sono profonde espirazioni.
    • L’eccitazione si concentra sempre più sul genitale, Reich definisce quest’esperienza: irradiazione dell’eccitazione dal genitale.
    • Iniziano contrazioni involontarie dell’intera muscolatura genitale e del pavimento pelvico, si tratta di onde, l’alto dell’onda coincide con la completa penetrazione, il basso con il suo ritiro.
    • L’interruzione dell’atto sessuale è assolutamente spiacevole.
  6. L’eccitazione cresce rapidamente fino all’acme.
  7. Gli strofinamenti, brevemente cessati nel momento dell’ACME “acuta”, si intensificano spontaneamente.
  8. L’acme rappresenta il punto in cui l’eccitazione cambia direzione, dal genitale l’eccitazione orgastica si diffonde in tutto il corpo determinando vivaci contrazioni di tutta la muscolatura del corpo. Questa scarica motoria, è il rifluire dell’eccitazione dal genitale al corpo. Il completo riflusso dell’eccitazione costituisce il soddisfacimento (trasformazione dell’eccitazione nel corpo e scarica dell’apparato genitale).
  9. L’eccitazione diminuisce dolcemente e ad essa si sostituisce una piacevole distensione fisica e psichica. Nei confronti del partner vi sono sentimenti di appagamento, tenerezza, gratitudine.

Riassumendo quindi:
Fase del controllo volontario e dell’aumento del piacere:
erezione nell’uomo, lubrificazione nella donna; preliminari affettuosi, aumento del piacere con la penetrazione; aumento della spinta profonda senza forme sadiche, accrescimento dell’eccitazione genitale.
Fase delle contrazioni involontarie:
movimenti involontari di tutto il corpo e del pavimento pelvico, acme, offuscamento della coscienza, l’eccitazione refluisce in tutto il corpo con una curva molto dolce provocando distensione.

 

L’impotenza orgastica

Come avrete notato la prima fase, descritta da Reich, è prevalentemente sensoria, mentre la seconda è caratterizzata dall’esperienza motoria.Le disfunzioni sessuali possono riguardare la fase sensoria e quindi presentarsi come incapacità di sentire l’eccitazione sessuale.
Di questo gruppo fanno parte tutti i disturbi che implicano una diminuzione del desiderio come l’impotenza erettiva dell’uomo o la frigidità nella donna.Oppure possono riferirsi alla fase motoria e quindi presentarsi come incapacità di raggiungere un acme soddisfacente e quindi ad abbandonarsi pienamente alle convulsioni orgastiche.
Di questo gruppo fanno parte i disturbi come l’eiaculazione prematura o ritardata che si verifica senza sensazione dell’acme nell’uomo, e, nella donna, come anorgasmia, incapacità di giungere all’acme, o di giungervi senza la stimolazione del clitoride.In realtà, i due aspetti della funzione sessuale, quello sensoriale e quello motorio, fanno parte di una risposta unitaria. Reich si è concentrato sull’impotenza orgastica perché ciò che ostacola e inibisce la componente sensoriale ed eccitatoria è comunque la paura del pieno abbandono.Ma è facile per sessuologi e psicologi considerare queste disfunzioni come disturbi, ciò che ha individuato Reich invece, non è così facile da individuare, né da riconoscere.Vi sono eiaculazioni che non sono né precoci né ritardate ma si manifestano prima che avvengano i movimenti involontari, in più le sensazioni sono limitate alla zona genitale o al massimo si estendono leggermente nel bacino e nelle gambe e, soprattutto, non si avverte nessuna dissoluzione della personalità, dell’Ego o delle barriere corporee.Reich ha definito questo disturbo diffusissimo IMPOTENZA ORGASTICA.Quali sono le misure messe in atto per impedire il raggiungimento dell’acme e l’abbandono che segue?Il primo freno nella sessualità riguarda il “movimento”; più ci si muove, infatti, più si prova piacere, quindi per bloccare le sensazioni sessuali si limitano i movimenti sessuali, soprattutto quelli del bacino.Altre “manovre” difensive sono:

  • Trattenere il respiro
  • Non emettere suoni
  • Controllare i movimenti o compiere movimenti disarmonici
  • Inarcare il torace
  • Ritrarre il bacino
  • Serrare o irrigidire le gambe
  • Trattenere lo sfintere anale
  • Fantasticare

 

Il bacino e la sessualità (2º parte)

  • L’impotenza erettiva
  • L’eiaculazione precoce e l’eiaculazione ritardata
  • Frigidità e anorgasmia
  • Vaginismo e dispaurenia
  • I muscoli del segmento pelvico
  • Aspetti psichici e somatici del bacino
  • Il Super-Io secondo Federico Navarro

 

Le disfunzioni sessuali

Prima di descrivere alcuni tipici disturbi sessuali è bene ricordare che quando si presentano sono sempre relazionali, riguardano, cioè, tutti e due i partner, non solo chi evidenzia il problema.Significa, in altre parole, che è bene risolverli insieme, alleati l’uno con l’altro. Oppure, a scopo terapeutico, anche accusandosi proiettivamente, ma per individuare meglio il proprio problema, non per scaricare veramente le colpe sull’altro.

Un’altra precisazione riguarda il carattere temporaneo o episodico di questi disturbi che possono presentarsi come somatizzazioni, reazioni, cioè, ad eventi o vissuti emotivi.

 

L’impotenza erettiva

L’impotenza erettiva si verifica quando il meccanismo vascolare riflesso non riesce a pompare nei corpi cavernosi del pene abbastanza sangue da renderlo rigido ed eretto.Sono molte le possibili spiegazioni, oltre a quelle specifiche relazionali (dinamiche), in generale qui è all’opera l’azione vasocostrittrice del sistema simpatico quindi c’è una condizione d’ansia che si combina spesso con un eccesso dell’eccitazione o con un livello d’eccitazione mal tollerato che scatena la reazione di fuga.

Può esserci paura della vagina quando l’erezione c’è, ma scompare non appena si intende penetrare, o quando si riesce a mantenere l’erezione solo con la manipolazione manuale o orale, chiaro segno di una sessualità pregenitale.

 

L’eiaculazione precoce

L’uomo per il ruolo che ha nel rapporto sessuale non sembra avere problemi di movimento, in realtà i diffusi problemi di eiaculazione precoce dimostrano il contrario. Infatti l’eiaculazione avviene dopo pochissimi movimenti coitali o addirittura prima ancora di penetrare.La dinamica psicologica di questo problema è l’aggressività vendicativa inconscia nei confronti della donna, ciò è reso evidente dalle conseguenze dell’eiaculazione precoce: infatti spesso la compagna non fa in tempo a raggiungere l’orgasmo restando insoddisfatta e scontenta.Il bacino è, appunto, un “bacino” che ha la proprietà di accumulare una gran quantità d’energia, ed è proprio da questa capacità che dipende il grado d’intensità della scarica.

L’eiaculazione precoce, a causa dei blocchi muscolari del bacino, è l’incapacità di innalzare il livello energetico e mantenerlo, in pratica tollerarlo, per un certo tempo.

 

L’eiaculazione ritardata

Il problema dell’eiaculazione ritardata è opposto, perché la difficoltà ad eiaculare può far durare un rapporto anche due o tre ore. Anche qui è presente una dinamica d’aggressività (la compagna ne esce sfinita), con in più una componente sadica sostenuta da un tratto narcisistico.Per quanto riguarda l’aspetto energetico, se nel primo caso abbiamo parlato d’incapacità a caricarsi, qui troviamo la paura di scaricarsi, di abbandonarsi ai movimenti orgasmici involontari.

La perdita del seme è vissuta come una dispersione d’energia vitale e quindi temuta (la filosofia taoista prescriveva la ritenzione del seme, in quanto eiaculare significava invecchiare precocemente).

 

Le disfunzioni sessuali nelle donne

È più difficile parlare delle disfunzioni sessuali dell’universo femminile, nell’uomo tutto sembra più evidente a cominciare dai suoi genitali che trasmettono segnali molto “visibili” quando è eccitato sessualmente. Nella donna, invece, tutto è più nascosto, come i suoi organi genitali. In generale, le donne, quando non siano genitalmente sane o isteriche di copertura (sessualità orale), nascondono il proprio desiderio sessuale.Aiutate dalla minore evidenza dei loro organi genitali, le donne non affrontano seriamente questo come un problema, perseverando così in un atteggiamento di chiusura e rifiuto per partner che, in più, negano, aspettando che sia “lui” a darsi da fare o lamentandosi perché “pensa solo a quello”.Spesso nelle storie delle donne che vivono il sesso come un obbligo c’è la completa assenza d’esperienze di masturbazione, o se c’è qualche episodio questo riguarda solo la manipolazione del clitoride, mai della vagina.Se proponi loro di cominciare ad affrontare il problema masturbandosi, lo fanno con grandi resistenze, si mostrano indifferenti, annoiate. Quando invece, nel farlo cominciano a provare qualche senso di colpa, almeno sanno che la loro indifferenza nasconde, in realtà, paura.La masturbazione è uno strumento fondamentale di conoscenza del proprio corpo e delle proprie sensazioni sessuali, senza la masturbazione, la zona genitale è come anestetizzata, separata dal corpo. Se non si sviluppa la capacità di “darsi” piacere, non può nemmeno attivarsi il desiderio di darlo e riceverlo.

I disturbi più noti in campo femminile sono la totale incapacità di provare la benché minima eccitazione sessuale definita come frigidità, l’assenza d’orgasmo nota come anorgasmia, (o l’incapacità di provare quello vaginale), e le disfunzioni muscolari note come vaginismo e dispareunia.

 

Frigidità e anorgasmia

Frigidità vuol dire “freddezza”, questa non si traduce solo nel disinteresse per il sesso ma corrisponde ad un comportamento freddo, rigido e anaffettivo generale.Queste donne nascondono dietro al rigido controllo delle loro emozioni una gran paura, che controllano mediante l’inibizione totale del desiderio sessuale e di ogni altro bisogno, eccettuato forse quello intellettuale.Nell’anorgasmia è presente il desiderio e l’eccitazione ma questa non raggiunge mai l’acme necessario perché si avvii la fase delle contrazioni orgasmiche involontarie. Le donne anorgasmiche temono di perdere il controllo, vivono la dissoluzione dell’Io, tipica dell’esperienza orgasmica, come una minaccia d’annientamento.Questo non concedersi fino in fondo all’altro corrisponde anche ad un controllo narcisistico e orgoglioso che si traduce in un rifiuto all’altro di cui, però, non sono coscienti, convinte, come sono, di desiderare ardentemente avere l’orgasmo.Le donne che raggiungono l’orgasmo solo con la manipolazione del clitoride hanno invece difficoltà ad acquisire un identità sessuale femminile adulta. Quando c’è potenza orgastica la manipolazione del clitoride è gradita solo nella prima fase, nella seconda può risultare addirittura sgradevole.

L’orgasmo clitorideo, a differenza di quello vaginale, resta circoscritto nell’area dei genitali e produce poco o nessun movimento convulsivo nel resto del corpo.

 

Il vaginismo e la dispareunia

Il vaginismo e la dispareunia sono:
il primo uno spasmo della muscolatura involontaria vulvo-perineale tale da impedire la penetrazione ma anche ogni tipo d’intrusione vaginale.
Il secondo è una contrattura dei muscoli vaginali tale da permettere la penetrazione che però è sentita come molto dolorosa.In tutti e due i casi sono presenti il desiderio, l’eccitazione e la capacità di giungere all’orgasmo clitorideo.Le donne vaginistiche sono fobiche e ansiose, spesso conservano una tenace ignoranza sull’anatomia dei genitali interni. Le donne affette da dispareunia (ma è anche un disturbo maschile) presentano lo stesso arresto nell’evoluzione della loro identità psicosessuale ma hanno, in più, una componente d’ostilità e aggressività nei confronti del partner.Potremmo dire che il primo tipo di donna rifiuta il pene perché è infantile, il secondo lo rifiuta perché è fallica, castrante.Fisiologicamente la vagina, come la bocca (i due tessuti sono composti dallo stesso tipo di cellule), è un organo con un orifizio, ma psicologicamente e emotivamente rappresenta un accesso al corpo della donna, l’uomo che penetra la vagina “entra” anche nel corpo femminile.In un senso più profondo, l’organo sessuale di una donna è tutto il suo corpo. Quando una donna reagisce sessualmente con tutto il corpo, reagisce con un orgasmo vaginale.

L’impossibilità ad accettare la penetrazione rappresenta la difesa estrema da un accesso alle profondità del proprio corpo che è vissuto come minaccioso, pericoloso per la propria integrità psicofisica. Per finire, vorrei aggiungere che, spesso, nella storia di queste donne c’è una madre che le ha allattate con un seno fallico, invadente.

 

I muscoli del segmento pelvico

Gli organi dell’apparato genitale poggiano su un “pavimento” concavo interrotto in corrispondenza degli orifizi degli apparati uro-genitale e digerente.Il PAVIMENTO PELVICO è costituito da più strati:

  • Diaframma pelvico
  • Muscolatura dell’ano (sfintere esterno)
  • Muscolatura della regione uro-genitale

Il DIAFRAMMA PELVICO è costituito da diversi fasci muscolari che collegano le ossa del pube, ileo, ischio al coccige. Il muscolo elevatore dell’ano costituisce la parte più importante del diaframma pelvico con la funzione di sostenere gli organi intrapelvici opponendosi al loro prolasso.

Si compone di due muscoli a destra e sinistra che si incrociano in mezzo e contornano il retto, la prostata nel maschio, e il retto, l’uretra e la vagina nella femmina.

Il blocco questo muscolo è responsabile del vaginismo.

Il MUSCOLO SFINTERE esterno dell’ANO è posto sotto al diaframma pelvico e la sua contrazione determina l’espulsione della materia fecale.

La MUSCOLATURA DELLA REGIONE URO-GENITALE è composta da muscoli importantissimi per la riproduzione e la sessualità. Sono muscoli che regolano la progressione dello sperma nel canale uretrale e la regolazione sfinterica dell’urina, e contribuiscono comprimendo la radice dei corpi cavernosi del pene e del clitoride alla loro rispettiva erezione sia aiutando a sospingere il sangue nei loro corpi cavernosi, sia impedendone il deflusso.

Nel maschio partecipano anche al fenomeno dell’eiaculazione determinando l’espulsione ritmica dello sperma.

 

Aspetti somatici e psichici del bacino

Tra le zone dolenti, e spesso bloccate del bacino, vi sono quelle sopra la sinfisi pubica, e gli adduttori delle cosce, quelli che Federico Navarro chiama i “muscoli della verginità”, tesi e contratti sia nelle donne che negli uomini.L’azione di questi muscoli e di quelli che consentono i movimenti di bascula del bacino (addominali, glutei, cosce, lombari), è responsabile della postura ritratta del bacino, (tanto diffusa e erroneamente considerata sensuale!) chiaro segno di castrazione e paura sessuale, così come di quella inversa, segnale invece di resa, sconfitta.A questo livello, i naturali impulsi verso il piacere, si trasformano a causa dell’armatura, in una specifica angoscia e ira pelvica che è a sua volta rimossa. Riuscire a percepirla e manifestarla può rivelarsi fondamentale per riuscire a sbloccare il bacino.L’angoscia orgastica si presenta allorché le sensazioni orgonotiche possono giungere ai genitali. Questa è spesso una fase difficile, perché l’angoscia dell’orgasmo fa nascere resistenze e paure tenaci.

Si possono avere i sintomi più svariati, diminuisce il desiderio sessuale, si ha paura di scoppiare, di cadere, di non avere coordinazione nelle gambe, si percepisce un senso di vuoto.

 

Il Super-io secondo Federico Navarro

La paura inscritta nel bacino è collegata al Super-io, che Federico Navarro colloca nel bacino e nelle gambe. Federico postula l’esistenza di due Super-io: uno legato al collo, l’altro al bacino.Il Super-io del 3º livello, il collo, ha a che fare con il narcisismo secondario. Si tratta dell'”ideale dell’Io”, che costringe il soggetto a mascherare quegli aspetti di sé che, raffrontati con il modello ideale interno (frutto delle aspettative genitoriali), giudica negativi. Il Super-io nel collo corrisponde, quindi, alla paura del proprio giudizio.Il Super-io del 7º livello, la pelvi e le gambe, corrisponde alla somma delle proibizioni e dei divieti che il soggetto ha subito e introiettato nel periodo dell’educazione sfinterica e della scoperta delle sensazioni sessuali con la masturbazione.Questo Super-io è un entità autoritaria che reprime e castra, essa corrisponde alla paura del giudizio altrui, dell’opinione che gli altri hanno di noi.

La repressione induce a tenere costantemente contratto lo sfintere anale, una tensione che coinvolge quasi tutti i muscoli di questo distretto.

IL NARCISISMO di Ilaria Perletti

Introduzione
L’intento iniziale era quello di cominciare questo mio breve lavoro dando una sintetica ma esaustiva definizione del tema che ho scelto di approfondire: IL NARCISISMO. In realtà un’operazione che mi sembrava così semplice ed al tempo stesso efficace mi ha causato non pochi problemi!
Scartabellando tutti i testi di psicologia di cui sono in possesso, navigando su internet e dando un occhiata alla letteratura e alla poesia, mi sono trovata ad avere tra le mani decine e decine di definizioni SIMILI tra loro ma ognuna per qualche aspetto DIVERSA dall’altra. Ho deciso allora di ridimensionare un po’ il tiro della mia ricerca limitandomi all’area della psicologia. Anche qui, però, i problemi non sono certo diminuiti…limitandomi ad esaminare le teorie di Freud, Kohut, Johnson e Lowen mi sono trovata ad avere a che fare con quattro concezione diverse di narcisismo. Gli autori si trovano pressochè d’accordo circa i tratti fondamentali e superficiali di questo tipo caratteriale (gli stessi che del resto emergono anche dal racconto Ovidiano, il minimo comune denominatore a cui fan riferimento tutti coloro che si cimentano ad approfondire questa tematica) ma, non appena si apprestano ad indicare le cause che portano un individuo a rimanere imprigionato dal culto del proprio corpo o meglio della propria immagine, gli elementi che differenziano una teoria dall’altra si fanno indubbiamente significativi.
L’idea di fare un confronto tra le varie teorie psicologiche del narcisismo nelle quali mi sono imbattuta per poi trarne le mie conclusioni era indubbiamente allettante (specie per una come me che ama incasinarsi la vita) ma poco, veramente poco realizzabile… Soprassedendo sul fatto che le mie nozioni in campo psicologico sono davvero TROPPO limitante e superficiali per aver la pretesa di realizzare un lavoro di questo tipo , il vero problema si porrebbe nel concentrare il tutto in un saggio che non superi le cinque cartelle!(Io che solo per realizzare questa forse inutile introduzione ho già occupato più di mezza pagina…).
Ho quindi ritenuto opportuno concentrare la mia attenzione unicamente sull’interpretazione del fenomeno NARCISISMO a me più nota offerta da Alexander Lowen , medico psicanalista formatosi alla scuola di Wilhelm Reich , non dimenticando però di ribadire, in queste poche righe, che la sua teoria è solo UNA DELLE TANTE esistenti.

 

IL NARCISISMO SECONDO L’INTERPRETAZIONE DI ALEXANDER LOWEN
Nell’introduzione al suo saggio “IL NARCISISMO, l’identità rinnegata” A.Lowen sostiene che si può parlare di “narcisismo” a partire da due diversi livelli:
– IL LIVELLO NARCISISTICO INDIVIDUALE
– IL LIVELLO NARCISISTICO CULTURALE
Nel primo caso il taglio è decisamente clinico-psicologico e sta ad indicare un disturbo della personalità che contraddistingue determinati individui che, tra le altre cose, si caratterizzano per:
– un eccessivo investimento sulla propria immagine a spese del proprio Sé
– una tendenza a sfruttare gli altri per i propri interessi
– un senso di grandiosità (il sentirsi importanti anche immeritatamente)
– il sentirsi unici/speciali
– l’avere fantasie di illimitato successo, potere, bellezza, controllo…
– mancanza di empatia verso gli altri e , in genere , di qualsiasi tipo di sentimento
– ecc…
Nel secondo caso il riferimento è più sociologico-culturale e indica la generale perdita di valori umani all’interno della società. Forse questa ripartizione sui due livelli della nozione di narcisismo può apparire un po’ pedante e scontata, ma, in realtà, è molto importante poichè ci consente di capire perché, negli ultimi anni, il numero di persone affette da disturbi di tipo narcisistico più o meno gravi , è in netta crescita. In una società come quella contemporanea, sempre più caratterizzata dalla manipolazione perpetrata dai media, dalla spettacolarizzazione delle immagini e nella quale valori come la dignità e il rispetto han lasciato lo spazio alla lotta per il successo e il potere, il narcisista si trova bene perché vive lo spettacolo di se stesso proiettato a se stesso. Egli non va oltre le immagini degli altri, il suo è un sapere superficiale, privo di emozioni e sentimenti. Considera la realtà come una estensione di sé, gli altri come uno specchio delle sue esigenze. Vive come una macchina priva di sentimenti e, per questo, spesso ricopre posizioni di tutto rispetto e scala velocemente la salita al successo in un’era dove vige il culto dell’ efficienza .
La nostra è anche l’età delle disillusioni collettive. In una società sempre più aggressiva e violenta, i rapporti personali assumono la forma di scontro e l’uomo preferisce ripararsi dal collettivo, dall’ostilità che lo circonda, ripiegando su se stesso. Questa fuga dal sociale è stata determinante nella nascita della cultura narcisistica tipica della cultura post-moderna. Le forme di aggregazioni vengono a crollare o perdono di significato e l’apertura dell’individuo al mondo avviene solo per obiettivi minimi e strettamente consumistici.

 

A questo punto viene spontaneo chiedersi:
“SE LA SOCIETA’ E LA CULTURA HANNO UN RUOLO DAVVERO COSI’ IMPORTANTE NEL DETERMINARE O MENO LO SVILUPPO DI PERSONALITA’ NARCISISTICHE ALLORA PERCHE’ MOLTI INDIVIDUI NON SONO IN ALCUN MODO TOCCATI DA QUESTO DISTURBO ?”
Questo è di fatto il punto critico della questione nella quale entrano in gioco le diverse interpretazioni PRETTAMENTE psicologiche e nella quale, come ho più in alto anticipato, non è facile trovare accordo tra i diversi autori.
Alexander Lowen introduce la questione facendo riferimento ai cosidetti “CICLI DEL BISOGNO”. Questi cicli ci accompagnano per tutta la vita e vengono chiamati in gioco ogni qual volta ci relazioniamo con qualcuno ; assumono, però, una particolare importanza nel periodo che va da 0 – 6 anni, fase in cui si viene a formare la nostra ARMATURA CARATTERO – MUSCOLARE. In questo delicato periodo , eventuali traumi possono provocare dei “BLOCCHI” all’interno dei cicli del bisogno impedendo al bambino di raggiungere la tappa più importante del circuito ossia quella dell’ APPAGAMENTO. A seconda del momento in cui l’interruzione si verifica e della sua intensità, ci si troverà ad avere a che fare rispettivamente con un bambino schizoide, orale, narcisista, masochista o rigido.
Schematicamente i CICLI del BISOGNO ideati da A.Lowen si presentano nel modo seguente:Nel caso del carattere narcisista il ciclo si interrompe nel passaggio dalla SENTIZIONE a quello dell’EMOZIONE. Si avrà quindi una persona incapace di provare emozioni e in grado di prendere delle decisioni senza tenere minimamente in considerazione l’umanità altrui. Nella nostra cultura, generalmente, non si tende a distinguere ciò che è il sentimento da ciò che è l’emozione. Di fatto c’è solo una sottile differenza tra i due termini, ma questa è molto significativa. L’emozione è, infatti , la fase SUCCESSIVA (il che è evidente anche nei cicli del bisogno) al semplice sentire. Quest’ultimo è uno stato PRETTAMENTE PASSIVO a differenza dello stato emozionale che altro non è che una fase preparatoria all’azione. L’emozione, dunque, ci consente di indirizzare una potenziale azione VERSO QUALCUNO PERCEPITO COME ALTRO DA SE’ E REALMENTE ESISTENTE. Questo non avviene nel carattere narcisista dove gli altri vengono sentiti/percepiti solo come astrazioni mentali e non vengono tenuti in considerazione nelle azioni della vita quotidiana. Proprio per questa ragione, le persone che si rivedono in questo tipo caratteriale, hanno la reputazione di essere molto razionali, fredde,disumane e in grado di far del male agli altri senza provarne il minimo risentimento e senza nemmeno essere coscienti delle conseguenze negative del loro comportamento.

 

MA QUALE TRAUMA PUO’FAR SI CHE UN INDIVIDUO NON SIA PIU’ IN GRADO DI PROVARE EMOZIONI?
Il problema si sviluppa nella prima infanzia. A detta dello stesso Lowen, tutti i suoi pazienti narcisisti sono passati attraverso l’esperienza di essere profondamente umiliati durante l’infanzia dai genitori, che usavano il potere come mezzo di controllo.Il bambino non ha né i mezzi né le forze per contrastare questo “soppruso” e quindi non può far altro che sottomettersi;da questa sconfitta trarrà inevitabilmente questa lezione di vita che lo accompagnerà e indirizzerà durante la fase adulta: ” i rapporti sono governati dal potere: più se ne ha minore è la probabilità di non realizzare ciò che si vuole e di essere umiliati”. Nei narcisisti, quindi, è proprio da questo vissuto di umiliazione che ha origine il desiderio di potenza con la quale sperano di cancellare l’offesa subita. Ogni sfida al loro potere e alla loro immagine rievoca in loro il timore di essere umiliati. L’obiettivo di fondo è quello di trascendere i propri sentimenti di impotenza e dipendenza. Essi però ,come ogni altro uomo, non possono fare a meno di dipendere dagli altri per alcuni aspetti della vita, non essendo in grado di produrre tutto ciò di cui hanno bisogno .Con il potere però comprano o esigono ogni cosa senza rischiare di sentirsi vulnerabili.
Detto cio’ si rischierebbe di credere che ogni uomo ricco, potente, di successo sia per forza di cosa una personalità narcisista. Sebbene sia molto probabile non è una cosa automatica. In realtà molte persone importanti ,benchè siano riuscite ad accumulare notevoli ricchezze e rivestano un ruolo molto rilevante nella gerarchia sociale, conservano nel loro carattere una certa umiltà che poco si sposa con l’idea di grandiosità (spesso spropositata) che ogni narcisista ha di sé.

 

DA DOVE NASCE QUESTA TENDENZA A GONFIARE ALL’ECCESSO LA PROPRIA IMMAGINE?
La risposta si trova nuovamente prendendo in esame i primi anni di vita del bambino. Dopo il suddetto vissuto umiliante d’ impotenza (al quale non di rado segue una vera e propria esperienza di rifiuto/abbandono), il bambino viene sedotto dal genitore di sesso opposto (spesso trascurato dal partner) e portato a sentirsi speciale. Il cedimento alla seduzione è quasi immediato :la promessa di vicinanza e intimità con la madre è particolarmente allettante essendone stato privato fino a quel momento. Non dobbiamo inoltre dimenticare che il bambino, si viene a trovare in questa fase tra i 3 – 6 anni e quindi nel pieno del complesso edipico in cui le sue pulsioni verso la madre diventano fortemente sessualizzate e quindi, l’intimità proposta, assume anche implicazioni sessuali. Il bambino decide dunque di rinunciare alla sua libertà ,di aderire totalmente all’immagine parentale per diventare speciale e superiore come la madre o il padre. Ai suoi occhi il genitore è come un Dio. Lasciandosi forgiare a sua immagine e somiglianza anche lui acquisirà gli stessi attributi.
Tutto ciò implica delle rinunce: dovrà rifiutare il Sé che il genitore ha trovato discutibile ossia i suoi sentimenti corporei e la sua voglia di indipendenza . Ciò induce il bambino ad associare alle sensazioni provenienti dal corpo connotazioni negative ;egli impara ben presto a sopprimerle e negarle e, con la forza della mente, sostituisce il suo Sé reale con un’immagine astratta che lo fa sentire speciale e superiore. In realtà , però, le persone eccezionali non sono felici né han tutto il potere e controllo che credono di possedere. Esse IMMAGINANO una vita e si creano un destino eccezionale sulla base dell’IMMAGINE che hanno di sé.I bisogni reali di una persona, però ,per quanto possano essere rimossi ,nascosti repressi, non possono essere soddisfatti attraverso un’immagine. Per questo, pur non volendo / riuscendo ad ammetterlo a se stessi i narcisisti avvertono sempre in fondo al loro cuore un senso di inadeguatezza / insoddisfazione. L’errore che fanno per tentare di vincere questa sgradevole sensazione è lo stesso che fa il cane che tenta di mordersi la coda : continuano a investire sempre più energia per rafforzare la facciata che si sono costruiti sperando di vincere il loro senso di insicurezza. In realtà, ciò di cui avrebbere veramente bisogno ,sarebbe accettarsi così come sono con i propri sentimenti, la propria corporeità e i propri limiti.
In sintesi si può dire che l’adulto narcisista è stato un bambino manipolato al quale è stato chiesto di rinunciare ai propri bisogni infantili per dare al genitore di sesso opposto l’affetto e l’attenzione che non riceveva più dal partner. Da un lato si esige da lui molto più di ciò che è nelle sue facoltà offrire , dall’altro lato il bambino non può fare a meno di soddisfare il genitore perché perderlo equivarrebbe a un dolore troppo grande e minerebbe la sua stessa sopravvivenza. L’ unica soluzione nelle sue mani è quella di ILLUDERE SE STESSO E IL GENITORE di essere all’altezza di questo compito e modulare il più possibile il suo coinvolgimento emotivo per non farsi sopraffare.

 

COME RICONOSCERE UNA PERSONA NARCISISTA
Quali elementi ci inducono a classificare una persona come affetta da un disturbo narcisistico della personalità? In parte è già stato detto, ma forse è opportuno chiarire un po’ meglio le idee stilando un vero e proprio identikit del TIPO NARCISISTA che prenda in esame non solo le caratteristiche psicologiche (già accennate) ma anche quelle fisiche e energetiche cercando di vedere il legame che le unisce. Non dobbiamo dimenticare , infatti, che Lowen è un sostenitore della psicologia somantica e , in quanto tale , è fermamente convinto che ogni malattia psichica o disturbo della personalità abbia alla base precisi sintomi a livello corporeo.

 

CARATTERISTICHE FISICHE FONDAMENTALI
TESTA: sovraccaricata di tensioni e rigidamente controllata. Gran parte della sua energia, di fatto, viene indirizzata verso l’alto perché il bambino narcisista:
– vuole difendersi dalla tentazione dell’incesto spirituale
– non è in grado di tollerare più e più volte lo strazio della separazione
Benchè i genitori gli ripetano che lo amano la realtà dei fatti non conferma le loro parole.Il bambino si sente confuso perché non sa a quale dei due messaggi credere. Si rifugerà dunque nelle sue convinzioni ,in ciò che gli resta della sua fede (intesa come fiducia nell’attuazione di un progetto positivo) originaria (à TRATTO SCHIZOIDE)
FACCIA: l’espressione facciale rivela frequentemente durezza e lineamente prettamente maschili ma anche spesso, malgrado l’habitus atletico,lineamenti femminili, da fanciulla. La carnagione è liscia e i tratti regolari: sembra non portare i segni del tempo.
OCCHI: tendono a vedere senza guardare.Somigliano in parte agli occhi di uno schizoide / schizofrenico ma, mentre in queste persone lo sguardo è totalmente perso nel vuoto e assente, gli occhi del narcisista non perdono minimamente il contatto con la realtà. Quando ci guardano vedono proprio noi , ma lo fanno come se vedessero la nostra immagine allo specchio. Spesso sono molto seduttivi. Gli occhi di queste persone a volte presentano TRATTI DI ORALITA’ che attraggono gli altri verso di loro.
BOCCA: è riscontrabile una forte tensione a livello di labbra / mascella come se ci si volesse trattenere dal succhiare. Spesso l’espressione è fissa in un sorriso stereotipato e “finto” che non fa trasparire quali sono i reali sentimenti. Quando sono sottoposti a forti tensioni e ci si aspetta da loro una risposta emotiva, non è raro che scoppino in una risata diabolica…un modo come un altro per negare i loro veri sentimenti, per dichiarare che nulla può toccarli /ferirli e che comunque usciranno sempre vincitori.
SPALLE: sono diritte, squadrate e ampie. Le spalle dei narcisisti si sono attrezzate per sopportare il peso / fardello delle responsabilità che hanno dovuto sostenere fin dalla più tenera età.Bioenergeticamente, il blocco alla gola che presentano questi soggetti e che impedisce loro ( tra le altre cose ) di piangere, devia una parte dell’energia orizzontale proprio verso i muscoli delle spalle.
PETTO: si mantiene gonfio in posizione inspiratoria poiché il diaframma resta sempre cronicamente teso. Questo conferisce al soggetto un’ aria di superiorità , potere, arroganza. Questa incapacità di svuotare completamente i polmoni renderà la respirazione debole e insufficiente a nutrire tutto l’organismo.A risentirne sarà indubbiamente la zona pelvica e delle gambe , decisamente sproporzionata rispetto al busto e alle spalle, quasi rattrappita.
BACINO: L’energia si concentra nella parte alta del corpo a discapito di quella più bassa e pelvica.Obiettivo del narcisista del resto è il potere, non il piacere.Si parla per questo di castrazione psicologica.Si comporta e agisce come se fosse sessualmente molto potente , ma , in realtà , la sua potenza può essere commisurata solo al numero di conquiste fatte e di rapporti quotidiani avuti, non in termini di capacità orgastica (di provare piacere).Si può dire che la sua è una potenza erettiva , non sessuale.
GAMBE: sono le classiche gambe di un carattere orale ,”esili” e instabili, non sufficientemente forti per sostenere la parte superiore del corpo tant’è che il narcisista, non avendo la forza di reggersi sulle proprie gambe, ha la necessità di appoggiarsi agli altri manipolandoli.L’insicurezza presente in questa zona deriva in gran parte dal fatto che gli arti inferiori devono fare da piedistallo a un IO non collassato ma espanso.

 

TRATTI PRINCIPALI DELLA PERSONALITA’
– MANCANZA DI SENTIMENTI
– ATTEGGIAMENTO SFRUTTATORIO, CRUDELE E SENZA SCRUPOLI
– ARROGANZA DELL’IO (indipendentem.dalla presenza o meno di autostima)
– FREDDO, SPIETATO, AGGRESSIVO, INSENSIBILE, POCO EMPATICO
– RAZIONALE, CALCOLATORE, INTELLIGENTE, AMBIZIOSO
– EMOTIVAMENTE MORTO
– MANIE DI GRANDEZZA E ONNIPOTENZA:
– ASSENZA DI LIMITI
– EGOCENTRICI / ESIBIZIONISTI / SEDUTTIVI
– CERCANO DI VINCERE LA PAURA / TRISTEZZA CON IL POTERE / CONTROLLO
– INSODDISFAZIONE / INSICUREZZA REPRESSA
ELEMENTI ALLA BASE DEL TIPO CARATTERIALE NARCISISTA
Diritto negato >>>>>>>>>>>>>>>> Ad essere autonomo
Atteggiamento retroflessivo >>>>>>>>>>>>> Non ho bisogno di supporto per essere autonomo
Compromesso dell’Io >>>>>>>>>> >Sono potente,non ho bisogno degli altri
Comport.caratteristico >>>>>>>>>> Cerca di ottenere ciò che gli serve con la manipolaz.
Ideale dell’Io >>>>>>>>>>>>>>>>>Sono il migliore
Illusione di contrazione >>>>>>>>>> Posso ottenere qualsiasi risultato
Illusione di scioglim.>>>>>>>>>>>>>Sarò manipolato,umiliato,sopraffatto

 

Questa scheda, davvero essenziale, pecca indubbiamente di incompletezza. Del resto è impossibile elencare tutte le caratteristiche di un indivuduo narcisista per il semplice fatto che ogni soggetto è un caso a se stante e presenta peculiarità che non appartengono ad altri individui affetti dallo stesso disturbo.Ognuno ha alle spalle una storia di vita diversa, ha subito traumi differenti e si presenta al mondo secondo le reti in cui è cresciuto. A complicare ulteriormente le cose e a rendere ancora di più un narcisista diverso dall’altro si aggiunge il fatto che, Lowen, non considera il narcisismo come qualcosa di unitario; a suo parere esistono diversi gradi di disturbi e di perdita del sé il che ci porta a parlare ,nello specifico,di cinque diversi tipi di personalità che si contraddistinguono ( quantitativamente e qualitativamente) per caratteristiche e gravità.
Essi sono:
  • IL CARATTERE FALLICO NARCISISTA : è un carattere relativamente sano in cui la componente narcisistica è minima e acquisisce una sfumatura prettamente sessuale (da qui la denominazione FALLICO – narcisista). Le energie di questo soggetto vengono spese più che altro nella costruzione di un’ immagine seducente , potente e sicura in grado di attirare a sé il sesso opposto.
  • IL CARATTERE NARCISISTICO: Ha un’immagine di sé ancora più elevata. Si reputa il migliore, il più attraente il più potente indipendentemente dal grado di successo che effettivamente è stato in grado di raggiungere nella sua vita.
  • LA PERSONALITA’ BORDERLINE: come suggerisce lo stesso termine è una persona “al limite”.E’ chiusa tra due posizioni contraddittorie: o si sente grande/forte o si sente privo di valore. Il passaggio da uno stato all’altro può essere repentino poiché , a differenza del carattere narcisista, il suo Io è molto più debole e uno stress emotivo abbastanza forte può distruggere l’immagine di grandiosità che si è costruito.
  • LA PERSONALITA’ PSICOPATICA: è un narcisista a tutti gli effetti con un più marcato senso di disprezzo verso l’umanità e la tendenza a chiudersi in maniera a-sociale. Non ha alcun senso di solidarietà umana il che lo può portare , nel peggiore dei casi , a compiere anche azioni delittuose o sanguinarie. Per questa ragione viene a volte definito sociopatico.
  • LA PERSONALITA’ PARANOIDE: è il grado più elevato di narcisismo e rasenta il carattere megalomane. Il soggetto paranoide è ossessionato dal fatto che tutti lo guardino , parlino di lui , lo perseguitino ecc… E’ convinto di avere poteri straordinari e non ha ben chiaro il confine tra il mondo reale e quello immaginario creato dalla sua mente.

 

CONCLUSIONI
Sono dunque giunta al termine di questo mio elaborato in cui spero di essere riuscita a inquadrare sommariamente i tratti fondamentali del narcisismo. Prima di chiudere volevo fare una piccola riflessione sul perché tra i diversi temi proposti per l’esame ho deciso di approfondire proprio quello relativo al disturbo narcisistico. Come ho già detto nella prima parte di questa relazione il narcisismo è indubbiamente una delle malattie del secolo e , a mio parere ,non viene percepita come tale … anzi viene sottovalutata se non addirittura incentivata . Ciò che è ancora peggio è che riguarda in gran parte i giovani , le future generazioni , e quindi non sembra che con il passare degli anni il fenomeno tenderà a riassorbirsi… giovani che sempre meno peso e attenzione ricevano da questa società se non per essere indotti a comprare ,consumare a ricercare immediate e non faticose forme di successo (vedi Grande Fratello ,Saranno Famosi , ecc…) senza , a volte , avere alle spalle un adeguato bagaglio di valori , consapevolezza , … giovani spesso lasciati un po’ allo sbaraglio fin da piccoli dai genitori ( troppo occupati a far carriera) , e che quindi non riescono a far proprio “IL SENSO DEL LIMITE” indispensabile per dar loro un coerente e solido sistema di regole, per forgiare il loro SuperIo , per non creare in loro un immaginario di onnipotenza…
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO:
Alexander Lowen “IL NARCISISMO , l’identità rinnegata ” Feltrinelli
Alexander Lowen “IL LINGUAGGIO DEL CORPO” Feltrinelli (cap XIV sul carattere fallico- narcisista)
Luciano Marchino ” LA BIOENERGETICA , anima e corpo” Tascabili Xenia
Appunti del corso “corpo , mente e relazione” del professor L. Marchino

Il triangolo primario come indice di assessment perinatale

Il triangolo primario come indice di assessment perinatale di Francesca Dabrassi, Antonio Imbasciati

Dalla diade alla triade: il triangolo primario

Fino a qualche decennio fa la mente era considerata come “data dalla natura”, dovuta alla maturazione del sistema nervoso, la cui origine era posta con l’acquisizione del linguaggio. Ora invece, partendo dagli studi sullo sviluppo cognitivo e emotivo del neonato e dalle numerose ricerche di neuroimaging che si sono susseguite negli anni, sappiamo che la maturazione è un processo che avviene a seguito dell’esperienza e che è la qualità dell’esperienza stessa a determinare il tipo di sviluppo (Imbasciati, 1998, 2007). La genetica determina la macromorfologia del cervello, ma la sua micromorfologia e la sua fisiologia dipendono dal tipo di esperienza che è stata assimilata. Partendo dagli studi relativi all’apprendimento, è stato messo in evidenza come non solo si apprende quanto è stato prima selezionato e modulato dall’“apparato che apprende” (Bion, 1962), ma anche che è l’ambiente interpersonale a svolgere la funzione primaria per l’apprendimento. Una visione moderna dello sviluppo umano riconosce al neonato competenze cognitive e sociali che gli consentono di elaborare informazioni non solo provenienti dalla realtà esterna (Piaget, 1923, 1936), ma anche di creare o mantenere situazioni di interazione con la figura di accudimento, solitamente intesa la madre (Stern, 1974), o meglio ancora con entrambi i genitori (Fivaz-Depeursinge, Corboz-Warnery, 1999).

Le ricerche che si sono focalizzate sui processi di regolazione tra caregiver e bambino hanno messo in luce, a tal proposito, la precocità della sincronia dei ritmi sia nella comunicazione corporea che nelle vocalizzazioni tra genitori e neonato (Trevarthen, 1997), dove quest’ultimo ha parte attiva nella relazione. Da questi studi sono derivati costrutti teorici quali la promozione dell’attenzione focale, considerata il precursore della costruzione di una teoria della mente da parte del bambino (Fogel, 1977; Camaioni, 2003), la responsività dell’adulto nel cogliere i segnali del bambino (Ainsworth e coll. 1978), la capacità di riparazione da parte dell’adulto di rimediare quando compie un errore durante l’interazione con il bambino (Tronick, 1989) e infine la capacità di espressione di affetti positivi (Emde, 1991), che favorisce il riferimento sociale necessario al bambino per orientarsi verso i suoi obiettivi e essere in grado di condividere l’esperienza anche a livello di significati, attraverso quella che viene chiamata la sintonizzazione affettiva (Stern, 1985, 1995) e l’intersoggettività, primaria e secondaria (Trevarthen, 1978).
Questa nuova visione del neonato ha comportato il progressivo affermarsi di un modello teorico e clinico di tipo relazionale, che considera i disturbi psichici dovuti non tanto ad un conflitto intrapsichico – originato dalla fissazione e dalla successiva regressione ad una fase specifica dello sviluppo, in cui l’intensità pulsionale o la distorsione fantasmatica hanno creato un nucleo patologico -, quanto come espressione sintomatica di modelli relazionali interiorizzati disturbati, patologici (Malagoli Togliatti, Zavattini, 2006). Questo si è tradotto in psicopatologia nella necessità di costruire nuovi strumenti di assessment affidabili, in grado di valutare la qualità delle relazioni precoci tra genitori e bambino e rilevare quei casi che possono essere terreno fertile perché si strutturi un disagio psichico del piccolo (Fava Vizziello, 2003).

Nella storia della psicologia e della psicopatologia clinica, anche se sono stati largamente riconosciuti il ruolo dei fattori affettivi e relazionali nello sviluppo fisico, psichico e psicosomatico del bambino, l’unità di osservazione è sempre stata di tipo diadico. Si pensi al paradigma dell’attaccamento di Bowlby (1988), a quello della Bretherthon (1994) per cui il legame che il bambino instaura con la madre “determina” anche la qualità del legame con il padre, alla situazione sperimentale della Strange Situation della Ainsworth (Ainsworth e coll., 1978), all’ottica dell’Adult Attachment della Main (Main, Goldwin, 1998), al concetto di “costellazione materna” di Stern (1995): da tutti si evince l’idea che il bambino tenda a sintonizzarsi naturalmente con un unico caregiver prima di passare a instaurare relazioni più complesse. Il paradigma stesso dell’Infant Research (Sander, 1987; Cicchetti, Cohen, 1995; Trevarthen, 1997) sottolinea ampiamente come fin dai primi giorni di vita la madre e il suo neonato siano disposti ad agire consensualmente e come questa matrice relazionale sia costitutiva dell’esperienza e dei significati interpersonali e personali del neonato, a meno che una deficienza nella relazione di accudimento intacchi la dimensione relazionale della psiche (Sameroff, Emde, 1989; Imbasciati, 1998; Imbasciati, Dabrassi, Cena 2007).
Ma in questo modo è difficile comprendere l’emergere e il formarsi dell’intersoggettività stessa, di quel “senso di noi” (Klein G., 1976) su cui si basa la vita di ognuno. Alcuni autori (Tambelli e coll., 1995; Camaioni, 1996; Howes, 1999) affermano che il presupposto teorico secondo cui il neonato ha inizialmente una capacità di regolare solo le relazioni diadiche per poi accedere, in un secondo momento, a quelle triadiche e alle triangolazioni dipende da un eccessivo riferimento ad un costrutto “madricentrico”, che finora ha influenzato le procedure di ricerca. È come dire che senza un paradigma teorico che possa presupporre l’esistenza della triangolazione e senza strumenti che possano coglierla, difficilmente gli studiosi del settore possono “vederla” e “documentarla”.
L’innovazione delle ricerche sulle relazioni primarie condotte dal gruppo di Losanna, che a partire dagli Ottanta hanno studiato le possibili configurazioni di quello che viene definito il “triangolo primario”, sta proprio nel fatto di aver introdotto lo studio della nascita della triangolarità stessa, ossia di quella capacità da parte del bambino di formare nella propria mente un’idea del “tessuto di relazioni”, in cui è inserito quello che Zavattini (2000) definisce il “senso interno della relazionalità”.

Il gruppo di Losanna, coordinato da Fivaz-Depeursinge e Corboz-Warnery (1993), parte dal presupposto che per studiare la famiglia non è possibile soffermarsi solo sulle sue componenti diadiche, ma la si deve considerare come un insieme unico, un’unica unità. Il concetto di “triangolo primario”, così come concepito, nasce all’interno di una cornice teorica che associa la teoria dei sistemi con il paradigma etologico-microanalitico, oltre che con gli studi dell’Infant Research (Sander, 1987; Cicchetti, Cohen, 1995; Trevarthen, 1997) e quelli di Stern sulla “sintonizzazione affettiva” e sulla costruzione del “Sé intersoggettivo” (Stern, 1985). Lo scopo principale di questo nuovo modello è quello di superare i limiti teorici e metodologici messi in evidenza da Hinde e Stevenson-Hinde (1998) e da Emde (1991) degli studi che, prima di loro, si sono interessati di studiare la triadificazione. Questi ultimi, infatti, hanno cercato di indagare la triade attraverso lo studio delle diadi che la compongono (madre-bambino, padre-bambino, madre-padre) e si sono focalizzati sulle influenze che ogni membro della famiglia aveva sull’altro. Invece, il concetto di “triangolo primario” parte dalla considerazione sistemica che “tutto è una proprietà emergente” e che, quindi, la triade deve essere osservata come un insieme complessivo, in cui le modalità di partecipazione dei diversi attori possono essere fatte variare sistematicamente.

Una particolare attenzione viene rivolta alla prospettiva di comunicazione: le due autrici, Fivaz-Depeursinge e Corboz-Warnery (1993), sottolineano come lo scopo dei dialoghi precoci sia quello di condividere gli affetti positivi, espressi in modo predominante dalla comunicazione non verbale. Quest’ultima viene concepita come organizzata gerarchicamente in livelli con differenziazione crescente, dalle modalità più contestuali a quelle più testuali, dalla disponibilità all’interazione (che si esprime a livello della parte inferiore e superiore del corpo) all’attenzione reciproca (che si manifesta a livello della testa e dello sguardo) fino al coinvolgimento espressivo (manifestazioni facciali e dello sguardo). Anche se l’influenzamento procede in entrambi i sensi, l’ordinamento gerarchico implica che gli influenzamenti che procedono dal contesto al testo siano dominanti nel determinare il risultato dell’interazione. In particolare, le interazioni che vanno dal corpo verso lo sguardo sono dominanti rispetto a quelle che vanno dallo sguardo verso il corpo.
In questo modo è possibile identificare un pattern comunicativo, che nel momento in cui risultasse disfunzionale darebbe la possibilità di progettare un precoce intervento terapeutico che favorisca un’evoluzione familiare migliore.

Il triangolo primario… come strumento di assessment neonatale

Sulla base delle considerazioni teoriche sopra riportate, le autrici Fivaz-Depeursinge e Corboz-Warnery hanno quindi sviluppato uno strumento di assessment per valutare le famiglie nel primo anno di vita del bambino: il Lausanne Trilogue Play (LTP – Fivaz-Depeursinge, Corboz-Warnery, 1999). Il setting dell’LTP consente l’osservazione sistematica delle interazioni familiari nella relazione triadica tra il padre, la madre e il bambino. L’obiettivo del gioco triadico è quello di permettere ai tre componenti della famiglia di condividere momenti piacevoli e raggiungere momenti di condivisione sul piano intersoggettivo. L’LTP prevede quattro parti:

1) nella prima parte uno dei due genitori gioca con il bambino, mentre l’altro è semplicemente presente (2+1);

2) nella seconda parte è previsto uno scambio di ruoli tra i genitori: il genitore che in precedenza aveva assunto una posizione periferica gioca ora con il bambino, mentre il primo ricopre il ruolo passivo (2+1);

3) nella terza parte i tre membri della famiglia giocano insieme (3-insieme);

4) infine, nella quarta parte i genitori devono interagire tra di loro senza coinvolgere il bambino. Le quattro situazioni sono ordinate secondo una progressione naturale per determinare una scena di gioco triadico che fosse simile ad una situazione di scambio narrativo.

Il setting prevede che i membri della famiglia siano disposti su delle sedie posizionate come se fossero ai vertici di un triangolo equilatero in modo che entrambi i genitori abbiano una posizione “pari” rispetto al bambino. Il bambino è posto su uno speciale seggiolino adattabile per dimensioni e inclinazione, ruotabile in modo da essere orientato di fronte a ciascun genitore, o posizionato al centro in modo da rimanere di fronte ad entrambi i genitori contemporaneamente. La procedura può essere utilizzata con bambini che hanno età diverse: quelli di un anno sono posizionati in un seggiolone e hanno a disposizione giocattoli adatti per il gioco simbolico; quelli più grandini, che stanno seduti su una sedia normale, hanno una serie di bambole con cui devono creare una storia con l’aiuto dei loro genitori. È prevista un’applicazione anche durante il periodo della gravidanza e in questo caso viene richiesto ai genitori di “simulare” la prima interazione al momento della nascita con il loro bambino (personificato da una bambola). La famiglia è lasciata libera di decidere sia la durata complessiva del gioco sia quando passare da una fase all’altra, anche se viene invitata a rimanere entro la durata di 10-15 minuti. Le modalità con cui vengono prese queste decisioni rivela molte cose sulla coordinazione dei genitori.

L’obiettivo del gioco triadico, come abbiamo detto in precedenza, è quello di indagare la capacità di regolazione affettiva, condivisione e responsività empatica. Si parte dal presupposto che le relazioni hanno due versanti che sono tra di loro interconnesse: il versante interattivo che riguarda il comportamento osservabile ed è costituito da pattern di azioni e segnali tra i partner, quello intersoggettivo che riguarda il lato psichico intimo e comprende le intenzioni, i sentimenti e i significati condivisi tra i membri della famiglia. La famiglia viene considerata come un sistema costituito da una sottounità strutturante (co-genitoriale) e da una evolutiva (il bambino). La funzione della componente strutturante è di facilitare e guidare lo sviluppo del bambino, quella della componente evolutiva è di crescere e incrementare la propria autonomia.

Per raggiungere lo scopo triadico i membri della famiglia devono soddisfare tre funzioni tra loro interrelate: la partecipazione, l’organizzazione e la focalizzazione. A seconda del grado di coordinazione che raggiungono nel lavorare insieme per la realizzazione del compito, le relazioni nella famiglia possono essere descritte in termini di “Alleanza Familiare”. Più le interazioni sono coordinate, più l’alleanza familiare risulta essere funzionale e questo tende a promuovere lo sviluppo socio-emotivo del bambino; nel caso opposto l’alleanza familiare risulta problematica, chiusa in schemi di reciprocità negative, con la conseguenza che il conflitto tra i genitori si esplicita sul bambino stesso e/o con la sua esclusione. In base a queste considerazioni, sono state evidenziate cinque tipi di alleanze familiari:

Alleanza familiare cooperativa: i tre membri sono sintonizzati tra loro, condividono momenti di comunicazione affettiva, generalmente piacevoli o, comunque, i genitori sono in grado di mettere in atto stati riparativi sia nella figurazione tre-insieme sia in ciascuna delle altre configurazioni. Le alleanze di tipo cooperativo sono non facilmente riscontrabili nella normalità statistica della popolazione: si osservano di solito oltre il limite superiore del range normale.

Alleanza familiare in tensione più (+): i membri della famiglia non sono sintonizzati a livello emotivo l’uno con l’altro. A questo livello si valuta se è tuttavia presente una comprensione empatica o se il clima affettivo è troppo negativo perché i genitori riescano ad aiutare adeguatamente il bambino a regolare i propri affetti: tendenzialmente si osserva una iperstimolazione o una ipostimolazione da parte loro.

Alleanza familiare in tensione meno (-): uno dei membri della famiglia sta rivolgendo la propria attenzione altrove e non all’obiettivo del gioco, impedendo così il raggiungimento di un focus condiviso e mantenuto.

Alleanza familiare collusiva: non tutti i membri sono nel proprio ruolo perché uno di essi sta interferendo o si sta astenendo oppure non vi è coordinazione nella terza fase, quella in cui è prevista l’interazione tutti e tre insieme. Spesso si osserva che il bambino ha un’“attenzione monogenitoriale”, cioè si rivolge unicamente ad uno dei due genitori. Di solito una situazione simile è tipica delle famiglie in cui è presente un conflitto non negoziabile tra i genitori e in cui il bambino ha assunto il ruolo di capro espiatorio o di mediatore (McHale, Fivaz-Depeursinge, 1999).

Alleanza familiare disturbata: i membri della famiglia non sono tutti inclusi nell’interazione e in questo caso non vi è la possibilità di raggiungere l’obiettivo. Ad esempio, i genitori possono sistemare il bambino nel seggiolino in modo inadeguato, impedendogli in questo modo di interagire (holding inappropriato).

Spesso accade in questi casi che il malessere espresso dal bambino viene interpretato come risultato del maltrattamento da parte dell’altro genitore o come rifiuto da parte del bambino stesso. Questo tipo di alleanza si osserva spesso nelle famiglie in cui è presente una psicopatologia grave dei genitori, non sempre diagnosticata, in cui si ha un’inversione di ruoli e il bambino assume una posizione “genitorializzata” (Boszormenyi-Nagy, Sparks, 1973).

I risultati delle ricerche condotte con il paradigma dell’LTP hanno evidenziato un numero sufficiente di precursori delle strategie triangolari del bambino tanto da mettere in discussione la visione classica dello sviluppo (Fivaz-Depeursinge e coll., 1999): i bambini non solo discriminano le diverse configurazioni distribuendo in modo differenziato gli sguardi, ma la maggior parte di essi già a tre mesi alterna l’orientamento dello sguardo tra i due genitori diverse volte durante la seduta. Inoltre, nelle alleanze sufficientemente funzionali, pare che queste coordinazioni triangolari dello sguardo si verifichino principalmente nella situazione “tre-insieme” e durante le transizioni tra le diverse situazioni. La continuità di tali capacità interattive triadiche precoci nello sviluppo ha consentito di ipotizzare un percorso evolutivo di queste almeno parallelo e indipendente rispetto al percorso di quelle diadiche. Infine, sembra che il tipo di alleanza familiare che si instaura risulta abbastanza stabile non solo durante il primo anno di vita del bambino, ma anche fino ai 18 mesi di età (Fivaz-Depeursinge, Corboz-Warnery, 1999; Favez, Frascarolo, 2002; Weber, 2002).

La procedura viene registrata e la codifica (Grille d’Evaluation Triadique du Centre de la Famille, GETCEF – Fivaz-Depeursinge e coll., 2002) viene fatta attraverso l’analisi dei filmati basata sull’osservazione delle scale “partecipazione”, “organizzazione”, “attenzione focale”, composte a loro volta da variabili graduate su scala Likert a 3 punti (range 0-2). Ognuna delle variabili viene valutata per ogni parte della procedura e i singoli punteggi sommati a formare il punteggio globale di “Alleanza familiare” (range 0-48) (Carneiro e coll., 2006). La codifica viene svolta da almeno due osservatori che devono dare un giudizio sulla base del sistema di codifica. Per questa ragione è importante che gli osservatori siano sottoposti ad un training specifico che li formi a rilevare e giudicare le variabili considerate. È importante inoltre che sia calcolata l’attendibilità dei punteggi attribuiti attraverso il calcolo dell’indice k di Cohen, attraverso il quale è possibile calcolare la probabilità di accordo non imputabile al caso. Nelle ricerche finora condotte la validità del sistema e l’attendibilità delle codifiche sono risultate soddisfacenti.

Infine, l’utilizzo della registrazione permette l’utilizzo clinico del video feedback: i genitori possono rivedere il filmato e in tal modo si promuove ed accresce la loro consapevolezza delle loro modalità di interazione, positive e negative (McDonough, 1993; Bakermans-Kranenburg e coll., 1998; Downing, Ziegenhain, 2001). Il video feedback fornisce una doppia prospettiva sul funzionamento familiare: l’esperienza dell’interazione in tempo reale e quella rivista a distanza di tempo. Lo stesso accade anche per il terapeuta. È previsto anche un intervento diretto sulle interazioni, condotto all’interno del setting della consulenza e/o attraverso prescrizioni o rituali, che devono essere eseguiti a casa nel periodo che intercorre tra le sedute (Imber-Black, Roberts, 1992), con lo scopo di innescare dei cambiamenti nei pattern di interazione problematici. È particolarmente indicato quando i genitori hanno una modalità di funzionamento alessitimica e sono poco inclini alla riflessione o quando la procedura non è stata vissuta come un’esperienza particolarmente positiva per loro.

Una critica che si potrebbe porre è che gli interventi si concentrano sulle modalità di comportamento, di condivisione e il grado di coordinamento della famiglia (“famiglia praticante” – Reiss, 1989) e non si interviene, invece, su quella che è la cosiddetta “memoria delle relazioni” che risiede principalmente nei modelli operativi interni (Bowlby, 1980), ovvero sulla “famiglia rappresentata”. Secondo Reiss (1989) è solo attraverso l’osservazione che si può accedere all’intersoggettività e gli schemi interattivi sono il punto di ingresso obbligatorio per arrivare alle rappresentazioni. Stern (1995) sostiene che l’interazione è “la scena in cui si manifestano le rappresentazioni dei genitori… Analogamente, l’interazione è la scena in cui agiscono le rappresentazioni del bambino che influenzano direttamente i genitori”. In questo senso la descrizione delle interazioni triangolari può essere considerato il primo passo per indagare un campo così complesso come quello delle rappresentazioni (Simonelli e coll., 2009). Per questo motivo Fivaz-Depeursinge, Corboz-Warnery (1999) considerano gli schemi interattivi che si possono osservare attraverso l’LTP come delle pratiche coordinate familiari che, secondo Reiss (1989) “riallineano la rappresentazione individuale con le pratiche di gruppo”. Seguendo le famiglie nel corso del primo anno di vita del bambino, è possibile osservare come queste ritualizzano lo svolgimento della procedura e come i genitori facciano partecipare il bambino alle loro pratiche. In questo modo è possibile misurare la regolazione degli affetti, la capacità responsiva di tipo empatico e il modo in cui questi fattori sono legati alle motivazioni di calore, affettività e intersoggettività.

Come possiamo evincere da queste brevi descrizioni, il Lausanne Trilogue Play (LTP) può essere considerato uno strumento di osservazione, diagnosi e intervento, in grado di valutare e fornire una classificazione della dimensione relazionale che caratterizza il disagio o il disturbo psicopatologico durante lo sviluppo del bambino e dell’adolescente, prendendo in considerazione non solo il rapporto madre-figlio, su cui si focalizzano altri strumenti sopracitati, ma il rapporto con entrambi i genitori. In questo modo i professionisti che lavorano nell’ambito della genitorialità avranno non solo una visione della relazione diadica che ciascun genitore instaura con il proprio figlio ma anche di quella triadica, con la possibilità di valutare quanto il senso di cooperazione e di coinvolgimento influenzi e favorisca lo sviluppo del bambino. Sappiamo dalla letteratura come il livello diadico e quello triadico contribuiscono in modo diverso al funzionamento familiare (si confronti McHale, Cowan, 1996; McHale, Fivaz-Depeursinge, 1999) e, pertanto, è importante avere una valutazione di entrambe le modalità di interazione familiare.

Il triangolo primario… come strumento di assessment anche prenatale

Come abbiamo detto in precedenza, gli studi finora condotti (Favez e coll., 2006a, b) mostrano che il tipo di alleanza familiare che si instaura tra la triade rimane stabile per tutto il primo anno e mezzo del bambino (Weber, 2002): poche ricerche hanno invece cercato di indagare quando queste modalità di funzionamento si caratterizzano, se alla nascita del bambino stesso o, come invece è ipotizzabile, prima, durante il periodo della gravidanza, nella fase di transizione alla genitorialità (Carneiro e coll., 2006). Sebbene la gravidanza rappresenti un evento naturale del ciclo di vita della donna, in particolare la prima gravidanza si configura come una fase critica – una “crisi evolutiva” -, che implica profondi cambiamenti psicologici, somatici e sociali (Deutsch, 1945; Bibring, 1959, 1961; Pines, 1972, 1982; Ammaniti, 1992). Stern (1995) definisce “costellazione materna” questa condizione di riorganizzazione della vita psichica della donna, caratterizzata da profondi cambiamenti delle rappresentazioni di sé come persona, moglie, figlia, madre.

L’attesa di un bambino è un periodo di “trasparenza psichica” per la donna incinta (Bydlowski, 1997), ma anche di riadattamento delle relazioni all’interno della famiglia: entrambi i genitori si preparano psicologicamente alla genitorialità e alla relazione con il bambino atteso, attraverso la costruzione progressiva di un’immagine del bambino, il cosiddetto “bambino nella testa”, “bambino nella notte”, “bambino immaginario” (Soulé, 1982; Vegetti Finzi, 1995; Bydlowski, 1997), che poi dovrà fare i conti con il “bambino reale” alla nascita. Nonostante questo, le ricerche si sono principalmente focalizzate su quelle che sono le rappresentazioni materne sul bambino in pancia, mostrando come esse siano predittive della relazione madre-bambino dopo la nascita. Pochi sono invece i lavori che hanno indagato le rappresentazioni paterne e, ancora meno, quelli relativi alle rappresentazioni dei due genitori insieme. Si può citare la ricerca di Bürgin e Von Klitrig (1995) che mostra come le rappresentazioni triangolari dei genitori (padre e madre) durante la gravidanza siano predittive del posto che essi offriranno al bambino nelle interazioni triadiche a quattro mesi dopo la nascita.

Altri studi hanno messo in luce l’influenza della relazione coniugale (Gottman, Katz, 1989; Cowan, Cowan, 1992) o l’impatto della coppia genitoriale – per distinguerla dalla coppia coniugale (Katz, Gottman, 1996; McHale, Cowan, 1996; McHale, Fivaz-Depeursinge, 1999) – sullo sviluppo del bambino. Questo concetto, chiamato co-genitorialità, è stato sottolineato anche dalla teoria di Minuchin (1974) e si riferisce alla qualità dell’accordo tra adulti nel loro ruolo di genitori (McHale, Cowan, 1996; Belsky, Kelly, 1994).

Anche se dai risultati delle ricerche emerge come la relazione coniugale abbia un impatto sulla qualità di parenting, in realtà non tutte le coppie con difficoltà coniugali agiscono il conflitto nel contesto della co-genitorialità o anche non tutte le coppie con difficoltà co-genitoriali hanno problemi a livello coniugale. Alcune ricerche hanno però dimostrato che il “calore familiare”, inteso come la manifestazione di affetto e tenerezza tra i genitori e verso il bambino, ha correlazioni forti con lo sviluppo socio-emotivo del bambino e con le successive interazioni con i pari (McHale, Cowan, 1996; McHale e coll., 1997; McHale, Fivaz-Depeursinge, 1999). Ritornando al periodo prenatale, un recente studio di McHale (McHale e coll., 2002) ha mostrato una forte associazione tra le aspettative prenatali dei genitori sul futuro processo familiare e il funzionamento co-genitoriale osservato nelle interazioni triadiche dopo la nascita.

Supponendo quindi che le co-parentage si fondi già durante la gravidanza, Carneiro e i suoi collaboratori (2006) hanno cercato il modo di predire da questo periodo la qualità dell’alleanza genitoriale una volta che il bambino è nato, utilizzando il paradigma dell’LTP (adattandolo per la situazione prenatale). Se l’alleanza familiare è già in formazione tra i genitori durante la gravidanza, si tratta allora di osservare la cooperazione, definita “alleanza prenatale co-genitoriale”, tra i futuri genitori a proposito del figlio che dovrà nascere. In questo caso ai futuri genitori viene chiesto di immaginare e simulare il loro primo incontro con il proprio bimbo, rappresentato da una bambola che ha il corpo di un neonato, ma senza un volto definito.

L’alleanza prenatale co-genitoriale è stata valutata dagli autori (Carneiro e coll., 2006) utilizzando cinque scale: a) la giocosità co-genitoriale, cioè la capacità da parte della coppia di creare uno spazio giocoso e di co-costruire un gioco; b) la struttura del gioco, cioè la capacità della coppia di strutturare i quattro momenti del gioco in base alla consegna; c) i comportamenti genitoriali intuitivi individuati dalla letteratura (Papousek, Papousek, 1987) nell’holding e orientamento “en face”, nella distanza di dialogo, nel baby-talk e/o nei sorrisi diretti al bambino, nello accarezzare e/o nel cullare, nell’esplorazione del corpo del bambino e, infine, nella preoccupazione per il benessere del bambino; d) la cooperazione di coppia, cioè il grado di cooperazione attiva tra i genitori durante il gioco, a livello comportamentale; e) il calore familiare, cioè il grado di affetto e umorismo condiviso dai partner durante il gioco.
È stato anche valutata la soddisfazione coniugale a livello prenatale utilizzando la Dyadic Adjustment Scale (DAS – Spanier, 1976) e l’alleanza familiare postnatale utilizzando l’LTP postnatale presentato in precedenza.

Dai risultati di questo importante studio è emersa una correlazione significativa tra il grado di coordinazione della coppia a livello prenatale e il livello di coordinazione familiare postnatale. In particolare, le dimensioni che sono risultate significativamente correlate con l’LTP postnatale sono state i “comportamenti intuitivi genitoriali” e il “calore familiare”, cioè quelle importanti nella coordinazione con il bambino reale. Tra l’altro il fatto che entrambi i genitori siano in grado di attivare i “comportamenti intuivi” prima della nascita, fa pensare rispetto all’idea diffusa del cosiddetto istinto materno. È vero che i padri che partecipano a questo tipo di ricerche sono poco rappresentativi dei padri in generale perché più motivati, ma è altrettanto vero che quando i padri si ritrovano nel ruolo di caregiver primario mostrano le competenze genitoriali necessarie (Palmeri, 1989). In linea con questa lettura, alcuni autori (Lamb, Oppenheim, 1989) sostengono l’idea che il motivo per cui le madri risultano più sensibili, in sintonia e capaci di adeguarsi maggiormente ai bisogni del loro bambino solo perché se ne occupano di più rispetto ai padri.

Inoltre, è emersa anche una correlazione significativa tra la soddisfazione coniugale e l’alleanza co-genitoriale prenatale, ma solo per i mariti. Wang e Crane (2001) hanno interpretato queste differenze in termini di ruolo che gli uomini hanno rispetto alle donne nella maggior parte delle culture: mentre le madri sono considerate le principali caretaker dei loro bambini, i padri hanno invece principalmente la responsabilità del sostegno economico della famiglia. Pertanto, secondo questi autori, le madri tendono ad impegnarsi di più nelle relazioni co-genitoriali e genitoriali, a dispetto della soddisfazione coniugale, mentre solo i padri con un’alta soddisfazione coniugale si impegnano di più anche in quella genitoriale. In questo studio (Carneiro e coll., 2006) è emerso che la soddisfazione coniugale misurata a livello prenatale è correlata con l’alleanza co-genitoriale prenatale; non si è però trovata la stessa relazione con l’alleanza familiare postnatale (anche se bisogna dire che non è stata misurata la soddisfazione coniugale a livello postnatale).

I risultati di questo studio hanno dimostrato la necessità quindi di sviluppare strumenti di assessment che indagano la famiglia anche a livello prenatale, in moda da poter essere in grado di rilevare le risorse e le vulnerabilità della famiglia prima dell’arrivo del primo figlio e, quindi, di poter intervenire in un’ottica di prevenzione. Lo strumento può essere utilizzato sia come procedura di valutazione clinica, sia come vero e proprio intervento terapeutico (Corboz-Warnery, Fivaz-Depeursinge, 2001; Fivaz-Depeursinge e coll., 2004).

Conclusioni

Come abbiamo visto, il progressivo affermarsi di un modello teorico e clinico di tipo relazionale ha posto la necessità di individuare nuovi strumenti di valutazione delle relazioni precoci tra genitori e bambino. Da un’analisi critica delle ricerche finora condotte sembra che il Lausanne Trilogue Play (LTP) risponda a questa esigenza in quanto è in grado di fornire una visione globale delle dinamiche familiari, mettendo in luce quali sono i limiti e le risorse del funzionamento relazionale. A partire da quello strumento è stato possibile costruire una metodologia di osservazione standardizzata del gioco a tre applicabile in vari contesti di intercento clinico (LTPc – Lausanne Trilogue Play clinico; Malagoli Togliatti, Mazzoni, 2006). Attraverso l’LTPc è possibile valutare sia la corrispondenza tra l’emergenza soggettiva psicopatologica del figlio e la disfunzionalità familiare, sia la corrispondenza tra la gravità della disfunzionalità familiare e i diversi tipi di intervento terapeutico (Mazzoni e coll., 2006). L’LTPc è stato utilizzato anche nell’ambito della tutela del minore, nelle separazioni conflittuali, come strumento in grado di rilevare i diversi livelli di problematicità della famiglia e, pertanto, poter individuare gli interventi più efficaci (Malagoli Togliatti, Lubrano Lavadera, 2006). Per una rassegna di tutte queste applicazioni si veda Malagoli Togliatti, Mazzoni (2006).
Dalla rassegna di studi presentata in questa occasione, siamo convinti che il Lausanne Trilogue Play possa essere considerato un valido strumento di assessment perinatale in grado di individuare già nel periodo della gravidanza, e quindi intervenire a livello preventivo, quelle famiglie più a rischio, che possono risultare non adeguate, se non addirittura dannose, per lo sviluppo fisico, psichico e psicosomatico del bambino. Inoltre, la possibilità di poter applicare lo strumento anche nel periodo postnatale permette agli operatori dell’area perinatale di seguire i cambiamenti all’interno del sistema familiare stesso, valutare quale tipo di interventi a sostegno della genitorialità è il più adatto e verificarne l’efficacia.

 

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L’intersoggettività primaria, riconosciuta solo da alcuni autori (Meltzoff, Moore, 1995), caratterizzerebbe già le prime interazioni precoci e consisterebbe in una capacità (innata) a condividere le sensazioni e gli stati mentali altrui. Gli autori basano i loro presupposti su quegli esperimenti da cui si evince la capacità dei neonati di imitare e usare manifestazioni non verbali in una sorta di “proto-conversazioni”, dimostrando la capacità di variare tempi e intensità della comunicazione insieme ai loro partner e una sensibilità alle capacità materne di rispecchiare i loro affetti. L’intersoggettività secondaria emergerebbe, invece, tra i 9 mesi e la fine del primo anno di vita del neonato e implicherebbe la capacità di condividere con altri attenzione e intenzioni, e quindi la capacità di istituire una comunicazione referenziale (Bretherton, 1992; Tomasello, 1995).
Il concetto di triangolazione viene utilizzato sia nella teoria psicodinamica che nella teoria dei sistemi familiari: nella prima il termine fa riferimento all’esperienza edipica soggettiva del bambino di esclusione dalla relazione dei genitori; nella seconda fa riferimento al processo problematico in cui un bambino viene preso nella relazione conflittuale dei suoi genitori al fine di deviarne la tensione.
Termine con cui veniva indicata la triangolazione sul piano comportamentale.
La funzione di holding (Winnicott, 1989) viene definita come quella capacità del genitore di sostenere e contenere mentalmente e fisicamente i bisogni del bambino, dando loro un’interpretazione e una risposta adeguata.

Tratto da http://www.psychomedia.it

L’esperienza relazionale nella prima infanzia di Elisabetta Greco

Questo lavoro nasce come un tentativo di raccogliere e sintetizzare i numerosi studi compiuti nell’ambito dell’infant research ed in particolare quelli che descrivono i primi mesi di vita del bambino e il ruolo che l’ambiente d’accudimento ha sull’organizzazione psichica del neonato.
L’interesse per quest’area della psicologia dello sviluppo nasce dalle vaste possibilità offerte dai risultati di queste ricerche all’evoluzione di concetti psicoanalitici tradizionali ed alla conseguente applicabilità clinica.
In passato concezioni antiquate dello sviluppo infantile si basavano su di un sistema teorico facente riferimento ad un modello intrapsichico; l’assunto dominante di gran parte della letteratura psicologica e psicoanalitica dell’età evolutiva considerava il bambino come un organismo relativamente passivo, le cui azioni e reazioni apparivano finalizzate primariamente alla riduzione degli stimoli.
Dalla formulazione freudiana di una sequenza di fasi di sviluppo, centrata sulla costellazione edipica e sul passaggio da una condizione infantile di assoluta dipendenza dall’oggetto ad una progressiva maturità del soggetto, relativamente autonomo rispetto ai suoi oggetti primari, si è passati ad una concezione evolutiva relazionale che implica la necessità di osservare il bambino all’interno della rete interattiva che lo circonda.
Il bambino non è un essere indifferenziato; piuttosto, possiede tutta una serie di competenze innate che promuovono lo sviluppo di un sistema interattivo che si realizza nelle relazioni d’accudimento significative.
Fin dai più precoci momenti dello sviluppo l’oggetto non può più essere considerato, come per Freud, l’unico potenziale strumento per una scarica pulsionale, bensì l’essenziale regolatore di reciproche interazioni volte a promuovere e a favorire lo sviluppo di un senso di Sé.
Attualmente, nell’osservazione del bambino si indaga sul tipo di esperienza che il neonato fa nel momento stesso dell’acquisizione di nuove competenze e cioè l’esperienza soggettiva del neonato durante le interazioni sociali, quando e come sperimenta affetti, comprende gli altri e sé stesso.

Sameroff propone un’ottica secondo cui lo sviluppo di ogni persona è configurabile come un sistema regolato su due versanti principali, interno ed esterno, biologico e sociale. La componente biologica, espressione di un genotipo che fornisce la base per l’organizzazione comportamentale, domina alcune fasi dello sviluppo e dello svolgersi dell’esistenza, quali lo stadio prenatale e postnatale, la pubertà e la vecchiaia. Nei periodi intermedi sembra svolgere una regolazione silente.
Il sistema sociale interagisce con la medesima intensità in tutte le fasi della crescita e per tutta la vita di un individuo, incarnato progressivamente dalle figure genitoriali, dalla famiglia, dalla società, operando con l’individuo per la formazione di modelli adattativi di funzionamento. Le relazioni hanno quindi un ruolo di primaria importanza, essendo lo strumento con cui si attuano le regolazioni evolutive che modificano le esperienze infantili in sintonia con le trasformazioni corporee e comportamentali. Attraverso scambi con i sistemi di regolazione i bambini acquisiscono via via competenze di autoregolazione biologica e comportamentale, rimanendo comunque per l’intero corso della vita ancorati a contesti interni ed esterni.
Esistono vari livelli di regolazione, quelle che più ci interessano ai fini di questo lavoro sono le microregolazioni. Sono quei fenomeni descritti da altri studiosi tra cui Stern come “sintonizzazioni”, di cui parleremo in seguito. Si tratta di eventi in gran parte automatici, al di fuori della consapevolezza che riguardano momenti interattivi tra il bambino e le figure di accudimento.
“Nella prima infanzia il percorso comune di queste regolazioni è attraverso il comportamento delle figure parentali, e soprattutto le prime figure di accudimento nelle loro relazioni con l’infante. Così le prime relazioni diventano cruciali nello sviluppo degli adattamenti normali o anormali dell’infante.” (Sameroff 1989, p. 40)

In un’analoga prospettiva sistemica o organizzativa si pone Sander, la cui opera affronta le principali questioni della psicologia dello sviluppo, proponendo ipotesi evolutive in grado di spiegare il processo di emergenza del Sé nel neonato e di comprenderne il ruolo formativo delle relazioni sociali.
All’ipotesi di un Sé neonatale organizzatore di atteggiamenti, aspettative e sensazioni in un neonato il cui SNC è ancora in pieno sviluppo, Sander sostituisce l’idea che il nucleo organizzante fin dalla nascita sia da rintracciare nel sistema diadico madre-bambino, organizzato su comportamenti di regolazione reciproca che gradualmente, con una partecipazione del bambino sempre crescente, permettono l’emergenza di funzioni autoregolative.
In altre parole l’organizzazione diadica madre-bambino precede e dà origine a quell’insieme di comportamenti, sensazioni, aspettative e significati che costituiscono il Sè del neonato. Il progressivo sviluppo dell’autoregolazione influenza successivamente l’adattamento, l’esperienza ed il comportamento sociale del bambino.
Secondo l’ottica di Sander il bambino e le figure di accudimento che lo circondano costituiscono un sistema vivente la cui coerenza è mantenuta da un reciproco ed ininterrotto flusso di scambi. La tendenza all’interazione che permette l’effettuarsi degli scambi tra “l’individuo ed il suo ambiente” è considerata una motivazione innata (primary activity) e necessaria al mantenimento della vita stessa. L’organizzazione e l’evoluzione del sistema sono garantite da continue trasformazioni e modificazioni degli individui costitutivi del sistema, mediate da processi di regolazione reciproca.
Infatti, la maturazione del SNC del bambino consente la costante introduzione nel sistema diadico di nuove configurazioni comportamentali e capacità funzionali. Le progressive competenze dell’infante, quale individuo determinante le proprie azioni, pongono la madre in condizioni di modificare parallelamente il proprio comportamento in sintonia con quello del bambino e di sperimentare risposte diverse alle sue attuali necessità.
Ciascun sistema diadico assume delle specifiche modalità di trasformazione, caratteristiche solo di quella coppia madre-bambino e tutti i cambiamenti e gli equilibri conquistati sono il frutto di una mediazione riuscita.

Stern si è dedicato a costruire una teoria che tenesse conto dell’esperienza soggettiva del bambino, ha tentato di descrivere l’emergenza e lo sviluppo normale del senso di Sè del bambino quale principio organizzatore dell’esperienza.
La premessa è che fin dai primi giorni, e forse anche prima della nascita, molto prima quindi dell’autoconsapevolezza e del linguaggio, esista nel neonato una qualche forma di senso di Sé e dell’altro. Un Sé, diciamo, preverbale.
Per “senso” Stern intende una semplice coscienza, da distinguere dalla consapevolezza autoriflessiva; non pensiero formulato ma esperienza vissuta. Parlando del “Sé”, Stern fa riferimento ad “uno schema stabile di consapevolezza che si presenta solo in occasione di azioni o di processi mentali dell’infante” . Ad esempio l’esperienza di essere agenti, di avere un’intenzione, il senso di coesione fisica, di continuità temporale. Si tratta di sentimenti di Sé fondamentali nel mondo interpersonale normale del bambino.
Stern sostiene che già durante le prime settimane di vita, il bambino può sperimentare un’organizzazione in via di formazione.
Il bambino, nelle prime settimane di vita è un essere molto attivo, con una ben delineata tendenza alla ricerca di stimolazioni sensoriali, tale da giustificare l’ipotesi di una spinta motivazionale organizzata.
E’ stato infatti dimostrato che il neonato trascorre parte del proprio tempo in uno stato di veglia vigile. Durante questi momenti, il neonato sembra impegnato ad apprendere i rapporti tra le esperienze sensoriali. Esplora l’ambiente e discrimina le stimolazioni che predilige fra tutte quelle che gli vengono offerte, (visive, gustative, olfattive, di intimità corporea, ecc.), adoperandosi poi per ripeterle, il che suggerisce che sia in grado di formarsi schemi organizzati.
Il neonato dimostra una tendenza innata a formulare ipotesi sul mondo che lo circonda ed a verificarle, da cui gli deriva la capacità di confrontare esperienze diverse ed individuarne le caratteristiche comuni. La componente affettiva dell’esperienza è fondamentale ed inscindibile da quella percettiva. In altre parole non è possibile separare i processi cognitivi da quelli affettivi con i loro caratteri costanti e variabili.
Ci si potrebbe domandare se, ed in che modo, il bambino sia capace di integrare ed associare esperienze sensoriali distinte.
La scoperta più rilevante ai fini di una comprensione della capacità del neonato di formare rappresentazioni riguarda la sua abilità di ricevere informazioni in una modalità sensoriale specifica e di tradurle in modalità sensoriali diverse. Questa capacità, chiamata percezione amodale, comincia con la vita mentale ed indica la necessità di formare rappresentazioni astratte delle qualità primarie della percezione.
I bambini sono in grado di percepire con ogni modalità sensoriale le qualità amodali di un comportamento umano espressivo, di rappresentarle astrattamente e trasferirle in altre modalità. Cogliere le caratteristiche più globali delle modalità sensoriali diverse, ridurle in forma di modelli è la capacità emergente del bambino che attribuisce così un ordine alle cose e acquisisce una consapevolezza circa le caratteristiche di forma, intensità e schemi temporali.
L’ipotesi di Stern è che a livello preverbale e presimbolico, al di fuori quindi di ogni consapevolezza, l’esperienza di riscontrare coincidenze tra modalità percettive diverse produca una sensazione di familiarità. L’esperienza presente e quella già vissuta sono messe in relazione. Questo permette al bambino di costruirsi un’esperienza integrata di Sé e degli altri ed in queste prime settimane di vita il processo stesso dell’integrazione delle percezioni contribuisce alla formazione del senso di Sé.

Fra i due ed i sei mesi di vita, il bambino ha già formato le basi per un basilare senso di Sé. E’ necessario prendere in considerazione quattro aspetti dell’esperienza presenti in questo periodo per poter parlare di Sè in senso clinico.
Ci riferiamo al sentimento di avere un Sé agente, di avere un Sé coeso, al senso di continuità e, in ultimo, al senso di una propria affettività.
Questi sono gli elementi essenziali per la formazione di un senso di Sé nucleare non verbale e l’ipotesi presentata da Stern è che si costituiscano tutti nei primi sei mesi di vita.
Cosa si intende esattamente per ognuno di questi elementi?
Il Sé agente si riferisce all’esperienza che il bambino fa di essere l’autore delle proprie azioni; il senso di coesione è la sensazione di essere un’entità fisica intera, provvista di confini e sede di un’azione integrata; per continuità si intende il senso di durata, la continuità con il proprio passato e l’esperienza di continuare ad essere Sé stessi, pur cambiando; per senso di una propria affettività, infine, si intende la capacità di sperimentare stati intimi con qualità affettive.
Insieme, le quattro componenti del Sé nucleare forniscono il senso di fare esperienza degli eventi ed è per questo motivo che una compromissione del normale sviluppo di ognuno di questi sensi può provocare danni di notevole rilevanza clinica.
Un fragile senso del Sè agente può portare alla formazione di pensieri paranoidei riguardanti il controllo della propria mente e delle proprie azioni. La vulnerabilità nel sentimento di coesione favorirà l’insorgenza di una sintomatologia con crisi di depersonalizzazione e dissociazione ed intense paure di frammentazione. Un difettoso senso di continuità può essere all’origine di episodi psicotici di scissione e di fuga ed la carenza di un solido senso di affettività esporrà l’individuo a disturbi affettivi, ad anedonia, ecc.

Tra i nove e i dodici mesi si verificano diversi cambiamenti nelle capacità motorie, mnestiche, percettive, che portano il bambino alla scoperta di avere una mente, o meglio alla percezione di una propria vita interiore, di propri contenuti che possono essere condivisi con gli altri.
I bambini, in questa fase dello sviluppo, mostrano di voler condividere con la madre o con altri adulti significativi tutta una serie di stati mentali, quali l’attenzione, le intenzioni e gli stati affettivi, che non necessitano di un linguaggio verbale per poter essere comunicati, né di autoconsapevolezza o autoriflessione.
Possiamo descrivere la condivisione di stati affettivi servendoci dell’esperimento di Emde del finto percipizio.
Si fa camminare carponi un bambino su una superficie che mostra in un punto una discontinuità visiva, cioè un finto precipizio, appunto. La madre è presente e guarda tranquillamente il figlio. Il bambino avanza fino a quando non si trova in prossimità del “precipizio”, interrompendo la sua marcia e mostrando segni di timore ed incertezza. A questo punto guarda la madre e, se legge sul suo viso un’espressione tranquilla, rassicurante o incoraggiante, prosegue in avanti superando l’ostacolo. Se la madre, su richiesta dello sperimentatore, mostra un atteggiamento apprensivo o contrariato quando il bambino si strova sul ciglio del finto burrone, questi reagirà esitando, assumendo un’espressione angosciata e mettendosi a piangere. Il bambino si serve dell’emozionalità della madre per regolare la propria ed è in grado di rilevare una discrepanza tra il proprio stato affettivo e l’emozione presente sul viso dell’altra persona.

Quando, intorno ai quindici-diciotto mesi, compare l’uso del linguaggio, il bambino comincia ad usare simboli e ad oggettivare sé stesso, indicandosi quando si vede allo specchio, utilizzando pronomi personali per autodefinirsi ed entrando nel mondo del gioco simbolico. Successivamente, verso i tre anni, il bambino acquisisce anche una funzione narrativa.

Parliamo adesso di qui fenomeni che permettono ad un individuo di conoscere lo stato psichico di un altro. Si tratta, quindi, di una comunicazione di tipo non verbale che permette a due persone coinvolte in un rapporto di scambiarsi reciproche informazioni sul proprio esperire psichico.
Quando uno dei due individui coinvolti nell’evento è un lattante risulta evidente che questo processo non è mediato dall’uso del linguaggio.
Questo fenomeno, chiamato “sintonizzazione affettiva”, è fondante nella relazione genitore-bambino ed è alla base di quell’altro processo descritto dagli psicoanalisti come “empatia”, che richiede però la mediazione successiva di processi cognitivi.
Le sintonizzazioni avvengono in gran parte al di fuori di ogni consapevolezza, al contrario l’empatia consta di diversi stadi sequenziali di cui solo il primo, la risonanza emotiva, è in comune con il fenomeno della sintonizzazione. Gli altri (l’astrazione della conoscenza empatica dall’esperienza della risonanza emotiva; l’integrazione della conoscenza empatica astratta in una risposta empatica; una transitoria identificazione di ruolo), sono processi che necessitano di una elaborazione cognitiva per arrivare verso la conoscenza ed una risposta empatica.
Il mezzo universale perchè un soggetto conosca lo stato psichico di un altro, ed è costituito prinicipalmente dalle interazioni affettive.
E’ così che si possono spiegare una serie di fenomeni che si osservano comunemente nelle interazioni tra individui, indice di scambi e di influenze psichiche reciproche, quali appunto l’empatia, la condivisione di stati d’intimità o le interazioni fantasmatiche reciproche.
L’esperire psichico di una persona deve manifestarsi per mezzo di un comportamento e questo deve, poi, tradursi per risultare comprensibile ad un altra persona.
In che modo quindi avviene quella comunicazione per cui è possibile “entrare dentro” l’eperienza soggettiva di un altro e farglielo sapere?
Stern sottolinea che l’imitazione di un comportamento non basta per il raggiungimento di questo obiettivo, non garantisce lo scambio intersoggettivo degli stati affettivi.
L’attenta osservazione della costituzione delle interazioni e dei dialoghi sociali tra madre e bambino nei primi nove mesi di vita ha dimostrato che il comportamento della madre trascende, in genere, la semplice imitazione e ripropone, invece, una forma di corrispondenza transmodale. Non è la manifestazione comportamentale esterna ad essere corrisposta ma un qualche aspetto di essa che ne riflette lo stato d’animo. In altri termini, il referente sembra essere lo stato interno dell’individuo, inferito o direttamente appreso.
Per sintonizzazione affettiva si intende quella “realizzazione di condotte che esprimono la qualità corrispondente al sentimento di condivisione di uno stato affettivo, senza che ci sia imitazione dell’espressione comportamentale esatta dello stato interno.” (Stern 1989c, pp. 164-178)
Le sintonizzazioni consentono dunque di spostare l’attenzione da un comportamento esterno, manifesto, allo stato d’animo che sottende quel comportamento.
Analizzando quali aspetti di un comportamento sia possibile corrispondere senza che avvenga un’imitazione formale, Stern propone di considerare tre categorie descrittive principali: l’intensità, la forma e la durata, ognuna con le rispettive variazioni di contorno, (parametri utilizzati nella descrizione di fenomeni fisici cinematici).
Abbiamo già descritto, nel bambino, la capacità di percezione e di trasferimento di una percezione sensoriale specifica ad una diversa modalità sensoriale, cioè le qualità della percezione amodale. E’ per mezzo di un meccanismo simile che può verificarsi un fenomeno di sintonizzazione degli affetti. Le caratteristiche descrittive di un comportamento, quali la forma, la scansione temporale e l’intensità, vengono percepite in maniera amodale. La percezione dello stato psichico di un altro non può avvenire, tuttavia, in termini di intensità, tempo e forma; piuttosto, sono le qualità affettive degli eventi che vengono percepite: il vigore di un gesto, l’ampiezza di un movimento, l’intensità di una risata, gli affetti vitali di un comportamento.
Quindi, le qualità percettive vengono convertite in qualità affettive.
E’ un processo per la maggior parte inconsapevole ed ininterrotto, che si verifica grazie alle qualità sensibili dell’esperienza che possono essere viste in termini di esplosioni, ritiri, precipitazioni, ecc., e non solo per categorie affettive discrete.
E’ difficile raccogliere esperienze dirette di un’avvenuta sintonizzazione osservando una normale interazione madre-bambino, poichè la sintonizzazione affettiva è un processo silente, che non provoca reazioni emotive evidenti né nel bambino, né nella madre, se non nei momenti in cui risulta perturbata od impedita. Queste affermazioni sono valide in tutti i casi in cui i comportamenti di sintonizzazione sono la norma; insieme ad altri aspetti dinamici della regolazione reciproca essi sono i paramentri con cui valutare la funzionalità di una relazione.
La comunione interpersonale creata da ripetuti comportamenti di sintonizzazione, consente al bambino di riconoscere che gli stati d’animo interni sono esperienze affettive condivisibili.

Nei primi mesi di vita il neonato è in grado di individuare ed analizzare le caratteristiche di uno stimolo percepito attraverso modalità sensoriali diverse; cerca differenze, coglie analogie tra le percezioni e le mette in relazione tra loro. La capacità di estrapolare le caratteristiche di un evento percettivo fornisce al bambino la possibilità di organizzare la propria esperienza secondo rudimentali aspetti di ordine, stabilità ed invarianza.
Le competenze percettive e mnestiche dei neonati depongono a favore dello sviluppo di tali capacità rappresentative già durante il primo anno di vita.
Attualmente, sono emerse diverse evidenze circa la costituzione di una capacità di rappresentazione presimbolica.
L’ipotesi più diffusa è che il bambino, percependo uno stimolo, possa astrarne un modello, memorizzarlo e rievocarlo come termine di confronto quando lo stimolo si ripresenta.
E’ probabile che i bambini utilizzino queste iniziali capacità rappresentative all’interno di contesti interattivi, sviluppando aspettative rispetto ai primi eventi sociali.
Dopo la seconda o la terza volta che un evento o un momento d’interazione si ripete, il bambino può identificarne gli aspetti invarianti. Sviluppa cioè delle aspettative in base a regole evinte dalla ricorrenza o meno di un evento in un determinato contesto.
In altre parole, prima di accedere al pensiero simbolico, il bambino è capace di formare rappresentazioni dei diversi caratteri che distinguono un’interazione: l’andamento temporale dei comportamenti propri ed altrui, la presenza o l’assenza di corrispondenze e di reciprocità, le caratteristiche spaziali dei movimenti interattivi, (avvicinamento-avvicinamento, avvicinamento-ritiro), le espressioni affettive del volto.
Si forma la rappresentazione dell’intera struttura interattiva, cioè del modello di una regolazione reciproca organizzato secondo paramentri temporali, spaziali ed affettivi.

Stern parte dal presupposto che le rappresentazioni dei modelli di relazione siano il frutto di interazioni reali fra due o più persone, cioè originino da qualcosa che realmente è avvenuto tra due persone.
Ciò è in netto contrasto con le concezioni psicoanalitiche classiche che ne attribuiscono l’origine ad una realtà fantastica, cioè ad un retaggio psichico innato. E’ probabile che l’esperienza soggettiva sia costruita ed interpretata dal neonato, ma all’interno di una relazione reale madre-bambino, “senza distorsioni significative dovute all’ontogenesi intrinseca della fantasia.” (Stern 1989d, p.65)
Stern cerca di individuare le unità di base dell’esperienza soggettiva che possono essere organizzate in rappresentazioni.
La prima unità è il momento interattivo vissuto, un evento oggettivo ed un’esperienza soggettiva discreta che sono insieme codificati e memorizzati come ricordo di un’esperienza autobiografica nell’area degli eventi interpersonali. Si formano quindi delle tracce mnestiche di specifici eventi esperiti soggettivamente, cioè memorie episodiche.
La memoria attua il ruolo fondamentale di formare prototopi astratti dalla molteplicità di eventi interattivi reali; in altri termini costruisce modelli per classi di eventi e consente così la definizione delle unità esperenziali.
Le prime rappresentazioni consistono in momenti vissuti, memorizzati ed organizzati in categorie funzionali che aiutano il bambino ad interpretare il flusso interattivo e gli forniscono una guida per l’azione ed i sentimenti. Attraverso il costituirsi di categorie generali d’interazione, il bambino crea quindi delle aspettative sulla base di generalizzazioni piuttosto che di eventi discreti.
E’ dunque probabile che ogni nuovo momento interattivo confermi o modifichi leggermente la generalizzazione, senza dover essere conservato in memoria come evento specifico.
L’organizzazione per categorie porta alla formazione di memorie protototipiche, rappresentazioni dei caratteri invarianti che costituiscono vari momenti vissuti e ricordati. L’insieme di vari momenti porta alla formazione di sequenze, anch’esse memorizzate. Ci saranno dunque sequenze che riguardano il gioco, i momenti in cui vengono nutriti, lavati, messi a dormire, ecc.
Il risultato è la costituzione di una sorta di codice interno formato dall’integrazione di molti momenti e sequenze centrati su un unico tema significativo, per esempio l’area motivazionale dell’attaccamento o di alcune esigenze fisiologiche o altri sistemi motivazionali (vedi Nota). Il bambino si costruisce così un modello operativo interno per ogni area motivazionale, organizzandone le rappresentazioni e non i contenuti.

[Nota: sistema motivazionale.
Utilizziamo il termine “sistema motivazionale” con il significato proposto da Lichtenberg J.D. (1989) Psicoanalisi e sistemi motivazionali. Tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano 1995.
Lichtenberg scrive: “La mia tesi è che la motivazione sia (…) concettualizzabile come una serie di sistemi volti a promuovere la realizzazione e la regolazione dei bisogni di base. Ho delineato cinque sistemi (Sameroff, 1983) ognuno dei quali comprende aspetti motivazionali e funzionali distinti. Ogni sistema motivazionale è un’entità psicologica (con probabili correlati neurofisiologici). Ogni sistema è costruito attorno a un bisogno fondamentale. Ogni sistema è basato su comportamenti chiaramente osservabili, che inziano nel periodo neonatale. I cinque sistemi motivazionali sono: 1) il bisogno di regolazione fisica di esigenze fisiologiche; 2) il bisogno di attaccamento-affiliazione; 3) il bisogno esplorativo-assertivo; 4) il bisogno di reagire avversivamente attraverso l’antagonismo o il ritiro, e 5) il bisogno di piacere sensuale e di eccitazione sessuale. Nel corso dell’infanzia ogni sistema contribuisce alla regolazione del Sé, in interazioni mutualmente regolate con le persone che si prendono cura del bambino. Nei diversi periodi della vita, i bisogni fondamentali e le richieste, i desideri, le mete e gli obiettivi che derivano da quei bisogni all’interno di ogni sistema motivazionale possono essere riorganizzati in differenti gerarchie indicate da preferenze coscienti e inconsce, da scelte e da tendenze differenti. Momento per momento, l’attività di ognuno dei sistemi può intensificarsi tanto da costituire l’aspetto motivazionale prevalente del Sé. (…) le motivazioni hanno origine soltanto dall’esperienza vissuta. Basate sulla particolare esperienza vissuta, le motivazioni possono, o meno, raggiungere la vitalità ottimale. Indipendentemente dai bisogni biofisiologici e dai modelli innati di risposta neurofisiologica sottesi alle motivazioni psicologiche, la vitalità dell’esperienza motivazionale dipenderà inizialmente dalle modalità degli scambi affettivi tra il bambino e la persona che lo accudisce. In seguito, lo sviluppo della rappresentazione simbolica rende possibile, in misura maggiore, la riorganizzazione flessibile, individuale dell’esperienza vissuta.” (pp. 7-8). “In ogni sistema gli affetti ricoprono un ruolo fondamentale ampliando le esperienze motivazionali nel loro dispiegarsi, fornendo obiettivi esperienziali alle mete motivazionali. Così, per essere esatti, ogni sistema non è un sistema motivazionale ma un sistema motivazionale-funzionale (Stechler, comunicazione personale, 1985). Le motivazioni inevitabilmente fanno appello alle funzioni strumentali guidate dagli affetti. Le possibilità funzionali con amplificazione affettiva fanno appello alle motivazioni. Per semplicità di liguaggio, parlerò di sistemi motivazionali anziché di sistemi motivazionali-funzionali.” (p. 13). La teoria di Lichtenberg rappresenta un contributo importante alla revisione delle tradizionali teorie della motivazione, che considerano ogni motivo umano riconducibile, in ultima analisi, al gioco dinamico di due pulsioni fondamentali antinomiche. Lichtenberg prevede che la motivazione umana sia sì innata, ma di natura emotivo-conoscitiva e non energetico-pulsionale, basata su bisogni di base. In quest’ultima affermazione Lichtenberg si discosta dalle teorie evolutive motivazionali di Emde, poichè le condidera centrate sulle capacità funzionali dell’individuo e non intorno ai bisogni di base. Risulta comunque evidente, ad un’attenta lettura, che le teorie motivazionali di Lichtenberg e di Emde presentano molti punti di contatto ed a volte si sovrappongono. Entrambi, infatti, ritengono che l’essere umano sia dall’inizio motivato a percepire, sentire, agire, apprendere ed impegnarsi, attravarso la regolazione del Sé, in un mutuo sistema di regolazione dell’interazione. La teoria motivazionale di Emde, specificamente riferita alle prime fasi dello sviluppo infantile, verrà esposta in dettaglio più avanti.]

Non solo esistono modelli operativi interni differenti per ciascuna area motivazionale, ma perfino all’interno dello stesso sistema si ritrovano modelli diversi a seconda delle varie figure d’accudimento; il bambino può dunque sviluppare modelli operativi interni diversi con la madre, con il padre, con il nonno o la nonna, ecc.
L’organizzazione rappresentazionale successiva è la creazione di un modello narrativo, che emerge intorno al terzo anno di vita e costituisce il racconto che l’individuo è in grado di costruire a partire dal proprio modello operativo interno. I due modelli si discostano per la rispettiva, differente natura intrinseca. Il modello operativo interno è inconscio, non verbale, privato e costituito di eventi esperiti soggettivamente; il modello narrativo è generalmente conscio, verbale, sociale e costituito di parole riferite all’esperienza.
Il modello operativo interno e quello narrativo coesistono per tutta la vita in maniera parallela per ogni sistema regolativo. Possono trovarsi in armonia o in disarmonia e nella clinica dei nostri pazienti è frequente il riscontro di casi in cui la traduzione verbale si discosta completamente dalla rappresentazione inconscia.
Nel modello narrativo possono integrarsi elementi che non fanno parte dell’esperienza diretta dell’individuo e provengono invece da storie raccontate, quasi sempre derivanti dall’ambiente familiare. Le esperienze dirette ed indirette si fondono in un’unica costruzione e creano quelle fantasie di strutture interattive mai vissute nella realtà.
Il modello narrativo differisce dal modello operativo interno anche per la diversa regolazione che fornisce; nel raccontare esperienze interattive vissute, la storia che ne emerge può agire sulla rappresentazione degli stessi eventi, operando una regolazione od una modifica. E’ quello che avviene normalmente nel contesto di qualsiasi trattamento psicoterapico.

Sembra quindi che le prime rappresentazioni riguardino le modalità di reciproca interazione che il bambino sperimenta con la propria madre.
Le strutture precoci di regolazione reciproca, cioè le interazioni con cui ogni partner influenza il comportamento dell’altro, creano delle aspettative nel bambino. Le modalità di interazione ricorrenti che il bambino impara a conoscere e quindi a prevedere, divengono strutturanti per sua psiche e partecipano alla formazione di “rappresentazioni di interazioni”. Le prime rappresentazione del bambino sono rappresentazioni di processi interattivi: l’esperienza di un Sé agente in relazione ad un altro agente, piuttosto che rappresentazioni di un Sé o di un’altro separati. Un tale modello di rappresentazioni interattive implica che in un contesto sociale l’esperienza di Sé e dell’altro emergano insieme, simultaneamente ed inestricabilmente legate.
Le osservazioni con telecamere analizzate da Beebe e Lachmann che filmano le interazioni faccia-a-faccia di bambini di pochi mesi con le loro madri dimostrano che sia la madre che il bambino modificano inconsapevolmente la durata dei propri comportamenti o delle pause per instaurare un “ritmo condiviso”, descritto da Stern come una sorta di danza interattiva.
E’ assai probabile che la reciprocità riscontrata nelle interazioni permetta la trasmissione delle emozioni e la percezione degli stati emotivi altrui.
Il bambino sembra quindi poter ricreare dentro di sé lo stato interno della madre e partecipare al suo stato soggettivo. Questo fenomeno avviene in ogni correlazione, sia essa positiva o negativa, e forma precoci rappresentazioni di esperienze di sincronizzazione che daranno origine a future rappresentazioni simboliche di Sé, dell’altro e di “Sé con l’altro”. I casi di condivisione armonica sono fonte di stati affettivi di piacere.
Nei casi di cattiva regolazione il bambino deve far fronte ad una stimolazione materna non ottimale. Le interazione si stabiliscono secondo modelli di “inseguimento-evitamento” generati da un iperstimolazione materna che provoca manovre elusive nel bambino. E’ osservabile un alto livello di influenza reciproca che provoca, tuttavia, stati affettivi connotati negativamente ed impedisce al bambino di sperimentare la figura d’accudimento come l’ “altro regolatore del Sé”. La relazione è sempre in atto; quello che non può verificarsi in questi casi è una buona sintonia che permette di sviluppare rappresentazioni di regolazioni armoniche. Nei casi in cui il deragliamento sia il modello predominante nella relazione diadica, il bambino astrarrà dalle rappresentazioni presimboliche un Sé con l’altro non in sintonia.

Lo studio particolareggiato dei movimenti espressivi del neonato permette di formulare ipotesi circa i meccanismi motori connessi al coordinamento degli affetti ed i loro processi evolutivi. Fin dalla nascita il bambino sembra capace di compiere tutti i movimenti elementari relativi alle espressioni umane e molti pattern espressivi.
Tali osservazioni evidenziano il ruolo della comunicazione affettiva nella formazione e nel mantenimento delle relazioni sociali attraverso numerosi comportamenti di modellamento e controllo reciproco. Tra le principali funzioni svolte dalle emozioni c’è quindi quella di promuovere e regolare le relazioni interpersonali.

Ma l’apporto innovativo degli studi sull’infanzia è stato quello di considerare gli affetti non solo come segnali intermittenti di situazioni traumatiche ma come strutture stabili a livello intrapsichico, presenti nella vita del bambino come in quella delle sue figure d’accudimento, in grado di guidare l’esperienza soggettiva ed il comportamento all’interno dei contesti interattivi.
Gli affetti, per la loro funzione comunicativa interpersonale, sono reputati elementi adattativi essenziali per la sopravvivenza e lo sviluppo e forniscono al bambino la possibilità di stabilire ed incentivare le interazioni sociali con il mondo adulto. Non diventano segnali conseguentemente ad eventi di socializzazione, ma rappresentano essi stessi i segnali che permettono alla socializzazione di avere inizio.
La stretta connessione tra affetti ed esperienze interattive formulata da Emde consente la formulazione di nuove ipotesi motivazionali circa lo sviluppo del bambino.
Emde propone un’ampia revisione della motivazione del Sé prerappresentazionale e del suo nucleo affettivo, ponendo in primo piano le capacità funzionali riscontrabili in ogni individuo dalle epoche più precoci della vita.
Esistono nell’infanzia aspetti motivazionali di base verso attività, auto-regolazione, adattamento sociale, monitoraggio affettivo, considerati funzioni regolatrici specie-specifiche, preprogrammate biologicamente in senso evolutivo. Quando un bambino esprime queste spinte motivazionali nel contesto di una relazione con una figura d’accudimento emotivamente disponibile, egli avrà la possibilità di sviluppare importanti strutture psicologiche nei primi tre anni di vita.
Emde ha attribuito un’importanza particolare alle emozioni, ipotizzando lo sviluppo di un nucleo affettivo del Sé in ognuno di noi. Le emozioni sono universalmente rappresentate, precocemente identificabili e persistenti durante tutta la durata della vita. Forniscono un nucleo di continuità dell’esperienza del Sé durante la crescita, che permette di mantenere il sentimento di essere sé Stessi nonostante tutti i cambiamenti maturativi. Ma l’esistenza di un nucleo affettivo comune all’intera specie umana consente anche di capire gli altri e di essere empatici.
La disponibilità emotiva delle figure di accudimento significative negli scambi affettivi con il bambino sembra essere il fattore che maggiormente promuove la crescita nelle prime fasi di vita e si manifesta attraverso funzioni di regolazione che assicurano l’equilibrio emotivo del bambino, impediscono stati emotivi estremi e garantiscono l’esplorazione ottimale in un contesto di sicurezza.
Scambi soddisfacenti di segnali emotivi tra il bambino e la propria madre hanno la funzione di comunicare bisogni, intenzioni e soddisfazioni e favoriscono funzioni di apprendimento ed esplorazione.
Quando la disponibilità emotiva della figura d’accudimento non è ottimale, il ruolo organizzativo dell’affettività, nel controllare i segnali emozionali propri ed altrui, può provocare disturbi evolutivi. Per esempio, un’esperienza troppo dolorosa, può provocare un’esclusione difensiva dell’informazione, specialmente nei casi in cui la figura d’accudimento disconfermi la sofferenza del bambino.
Il nucleo affettivo biologicamente organizzato del bambino comincia quindi a funzionare all’interno della relazione con la figura d’accudimento e risulta influenzato dalla disponibilità emotiva di quest’ultima.
In un contesto di disponibilità il bambino sviluppa un senso di sicurezza e di efficacia nell’espressione di interessi, curiosità e desideri di esplorazione, e si dimostra in grado di padroneggiare le esperienze.
Gli scambi emotivi, la condivisione di significati, l’interiorizzazione di un senso di reciprocità con gli altri permettono anche lo svipuppo del sentimento dell’empatia.
Pur avendo una componente maturazionale indipendente dall’apprendimento, è assai probabile che l’empatia sia favorevolmente influenzata dalla qualità delle esperienze empatiche durante l’accudimento. Anche l’empatia, come la disponibilità emotiva da parte delle figure d’accudimento significative, è un processo di regolazione affettiva ed è soggetta, in quanto tale, a disturbi di regolazione (sottoregolazione, iperregolazione, regolazione incostante o inconsistente).
Secondo Emde è evidente la funzione sociale che gli affetti svolgono nell’infanzia partecipando al processo epigenetico ed evolutivo. Egli afferma che le emozioni infantili si sono evolute non soltanto allo scopo di manifestare stati di bisogno, ma anche al fine di aumentare le interazioni sociali. Il neonato umano, senza dubbio, è pre-programmato in modo complesso, grazie alla sua dotazione genetica, alla segnalazione sociale affettiva, alla reciprocità sociale affettiva e all’apprendimento sociale in generale. Hamburg (1963) ha ipotizzato che “le emozioni umane si siano evolute in quanto hanno presentato un vantaggio selettivo nel facilitare i legami interindividuali e la partecipazione alla vita di gruppo. (…) egli considera la vita di gruppo come un potente meccanismo adattativo, che ha operato durante il corso dell’evoluzione, in modo tale da far avvertire ai primati come piacevole la formazione di legami interindividuali e come spiacevole la rottura di questi legami; in effetti la rottura di questi legami si accompagna a profonde modificazioni psicofisiologiche e alla messa in atto di comportamenti finalizzati alla ricostruzione di relazioni strette.” (Hamburg 1963, pp. 300-315)

Concluderei qui dicendo che gli studi sull’infanzia hanno portato alla formulazione di un modello evolutivo che reputa il bambino, alla nascita, un essere altamente organizzato, dotato di capacità osservabili soggette a maturazione.
L’emergere dell’organizzazione interna è strettamente considerato in termini di relazioni e di processi, la complessità dei quali rivela la presenza di strutture motivazionali innate preprogrammate.
La prospettiva organizzativa-relazionale rintraccia infatti le origini del Sé nell’organizzazione e nella regolazione del sistema diadico: madre e bambino sono motivati ad impegnarsi in regolazioni del Sé conformi alle esigenze di reciproca regolazione di un sistema interazionale.
Un’esperienza di disturbo nella regolazione reciproca provoca forti allarmi affettivi nel sistema diadico di accudimento. Gli affetti rappresentano quindi un codice di segnalazione emotiva e permettono lo stabilirsi e la regolazione del coinvolgimento interpersonale.
“Risulta chiaro che ciò che conta perchè il bambino possa sviluppare una fiduciosa partecipazione all’esistenza e all’attività sono la qualità e la fiducia del controllo affettivo in una relazione con uno o più adulti significativi.” (Trevarthen 1990, p.107)
Inoltre i modelli emergenti di autoregolazione sono strettamente connessi ai successivi modelli di adattamento sociale. Il modo in cui il bambino organizza, interpreta e crea l’esperienza, ed il modo in cui forma nuove relazioni sono quindi il prodotto delle precedenti relazioni.

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Tratto da http://www.psychomedia.it

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