Skip to main content

Autore: Hiram

Comportamento psicopatico e personalità psicopatica di Alexander Lowen

1.

Le dinamiche psichiche e fisiche che stanno alla base della personalità psicopatica sono state permolto tempo una sfida alla mia capacità di capire. In “Le dinamiche fisiche della struttura caratteriale”pubblicato nel 1958, ho fatto riferimento a questo tipo di carattere e ho dichiarato che ungiorno lo avrei approfondito. Mi ci sono voluti tutti questi anni per giungere a una certa comprensionedi questo problema. Nel mio nuovo libro Bioenergetica (1), la personalità psicopatica è definitacome uno dei principali tipi di carattere, e ne sono delineate le dinamiche energetiche di base el’eziologia. Ma questo non basta. C’è un grande bisogno di comprendere la psicopatia in profonditàe di far fare un balzo in avanti al nostro patrimonio di conoscenza su questo argomento. Ci troviamoinfatti di fronte a un numero crescente di persone con personalità psicopatica o che manifestanocomportamenti psicopatici, e questo è di particolare difficoltà per i terapeuti. Sfortunatamente il termine “psicopatico” porta con sé una connotazione di obbrobrio che rendedifficile guardare al problema in modo imparziale. Per molto tempo, il concetto di psicopatia è statoassociato, nel sentire comune, a un comportamento antisociale, e questo aspetto ha finito perdominarne le raffigurazioni cliniche. Ecco perché 1’Associazione Americana di Psichiatria, perdescrivere una persona che ha comportamenti irrazionali contro la società, ha sostituito il termine“psicopatico” con il termine “sociopatico”. Ma così facendo si escludono molti aspetti del comportamentopsicopatico dal concetto di malattia emozionale. Tale comportamento, come vedremo trabreve, è un evidente disturbo del funzionamento mentale, come denota la parola “psicopatico”.Manterrò quindi il termine psicopatico per tale comportamento e userò “sociopatico” solo per descrivereun comportamento apertamente antisociale.Qual è il comportamento psicopatico? Ci sono alcuni aspetti ben conosciuti di tale comportamento,per esempio quando una persona mente continuamente mostrando di non avere alcuna considerazioneper la differenza tra il vero ed il falso. Potremmo chiamare costui un mentitore psicopatico,intendendo che egli crede alle sue menzogne e che non sa distinguere il vero dal falso. Per lui veroe falso sono la medesima cosa, il che in realtà equivale a dire che tutto è una menzogna. Non c’ènessuna verità e così egli non è cosciente di dire una menzogna, in altri termini potremmo affermareche il mentitore psicopatico crede a ciò che dice senza metterlo in dubbio.Un altro aspetto del comportamento psicopatico è la quasi totale indifferenza per i sentimenti e lasensibilità degli altri. Egli potrà fare o dire cose che feriranno un altro e tuttavia rimanere inconsapevoledell’effetto delle sue azioni. Potrebbe a ragione negare l’intento, ma va oltre e ne nega il significatoevidente.Ci è anche familiare l’idea che la persona psicopatica non ha coscienza, non fa nessuna distinzionetra giusto e sbagliato, buono o cattivo. Di conseguenza, quindi, egli non ha nessun senso di colpa.Perciò in casi estremi lo psicopatico arriverà a rubare o a truffare, come se facesse la cosa più naturale.Certamente sa che rubare è sbagliato ma non vede il proprio comportamento in questa luce.A causa di queste caratteristiche della loro personalità, gli psicopatici possono notoriamente passareanche per brave persone. Possono farvi credere che ciò che essi dicono è vero, forse perché locredono essi stessi, o perché non credono nulla. Possono convincervi della loro innocenza anchequando siete stati testimoni personalmente della loro azione scorretta. E possono sopraffarvi con laloro incredibile apertura.Così voi siete beffati. Un giorno vi rendete conto di essere stati incastrati e allora riconoscetel’altro come un truffatore, un ladro o uno psicopatico. Siete furiosi sia nei suoi confronti che neivostri, dal momento che non avreste mai immaginato di essere così sciocchi.Quanto è comune un simile comportamento? Nella sua forma estrema è abbastanza comune.L’anno scorso abbiamo assistito allo spettacolo di un presidente che come da noi si dice “mentivatra i denti in pubblico” in modo così convincente che moltissima gente gli ha creduto. Non c’èdubbio che Nixon presentasse tutte le caratteristiche descritte sopra. Ma non era solo. Molti deisuoi collaboratori si comportavano esattamente come lui.Quando analizziamo le dinamiche che rendono possibile un simile atteggiamento, vediamo che essesono piuttosto diffuse nella nostra cultura. Non tutti sono psicopatici ma in moltissime personeesistono tendenze a un comportamento di questo genere. La menzogna avanza continuamente conun così scarso riguardo per la verità che c’è da chiedersi se le persone siano consapevoli di mentire.L’indifferenza e l’insensibilità per le questioni morali sono tipiche di molte persone nella nostrasocietà. Problemi di coscienza? Macché! Il motto è: se puoi liberatene, questo è ciò che conta. Einventare una messinscena per influenzare la gente è la strategia accettata per ottenere successo.

2.

Per comprendere il comportamento psicopatico si deve tenere conto delle sue manifestazioni estreme,per il semplice fatto che in questi casi il problema vi si manifesta in maniera più evidente.Non sembra strano che una persona possa credere alle proprie menzogne anche quando queste sonodel tutto evidenti? Ho sentito persone del genere raccontare delle fandonie senza un briciolo dievidenza che potesse sostenerle. Non ne erano consapevoli? Dove era finita la loro sensibilità? La risposta potrebbe essere che l’avevano perduta. Ma dall’esperienza che ho di queste persone possodire che non era così. Una persona che perde i propri sensi è uno schizofrenico, non uno psicopatico. Possiamo concludere soltanto dicendo che lo psicopatico non crede ai propri sensi, o a ciò che ipropri sensi gli dicono.L’unica spiegazione che ha “senso” è che l’individuo psicopatico crede implicitamente alle sue idee,ma nega la validità dei suoi sensi. Mettiamola in questi termini. Ciò che si verifica nella propriatesta è reale, ciò che capita fuori dalla propria testa è irreale. Questo è esattamente il contrariodel modo di funzionare di un individuo normale. Noi confrontiamo le nostre idee con una realtàesterna e non viceversa. Se sono le idee a dare validità alla realtà, allora non esiste menzogna, dal momento che non c’èuna verità oggettiva. Non c’è modo di distinguere ciò che è menzogna da ciò che è verità. Diciamo che questa persona è senza scrupoli e senza coscienza. Ma termini simili non hanno alcunsignificato nel suo modo di agire. Se vi rimorde la coscienza, ciò denota che qualche voce profondaall’interno di voi vi chiama a render conto. Nello psicopatico non c’è nessuna voce profonda.Essa è stata negata e annullata ora è muta. Quindi egli non ha scrupoli perché non c’è nulla dentrodi lui che sfidi la voce della sua mente. Niente lo preoccupa, niente entra in conflitto con le sue idee,non ci sono sensazioni che lo turbino, né sentimenti che lo disturbino.Se è indifferente o insensibile nei vostri confronti, è perché veramente voi non esistete. Per lui nonsiete altro che un’immagine nella sua mente e le sue reazioni sono nei confronti di questa immaginee non nei confronti di una persona cosciente in carne ed ossa. Può distruggervi impunementeperché tutto ciò che lui in questo caso sta facendo è cancellare un’immagine nella sua mente. Unopsicopatico è inumano, per come noi consideriamo l’umanità: ecco perché fa piuttosto paura.Naturalmente neppure lui esiste per sé, se non come un’immagine che ha nella propria testa. Questaimmagine è per lui molto importante, perché tutta la sua energia vitale è focalizzata su di essae tutti i suoi sforzi sono diretti a rinforzarla. Egli è pienamente identificato con la propria immaginee quando l’immagine crolla, come nel caso di Nixon, tutto ciò che rimane è il relitto di una persona.Ci sono un certo numero di immagini nel repertorio psicopatico. La più tipica è l’immagine di potere.Costui ha bisogno di vedersi potente e si sforzerà con tutto il suo essere e con tutti i mezzi adattiper accumulare potere. Non di rado ci riuscirà come ci hanno mostrato sia Nixon che Hitler.In altri casi la sua immagine può essere un’immagine di gioventù o di bellezza o di sessualità. Maqualunque sia l’immagine, la spinta nella vita dello psicopatico sarai volta a darle tutte le caratteristichedi realtà.La cosa sembra nel complesso piuttosto folle e personalmente credo che ci sia una vena di follianella personalità psicopatica. Ma di questo parleremo più avanti. Qui stiamo cercando di comprenderele dinamiche del suo comportamento.La realtà che lo psicopatico nega non scompare solo per il fatto che egli la neghi. Egli può viverecompletamente nella sua testa ma ha anche un corpo. Cosa ne è di questo corpo?Ditemi a quale immagine è legato e vi descriverò il suo corpo. Se è un’immagine di potere avrà uncorpo che sembrerà potente. Se è un’immagine di gioventù avrà un corpo dalle sembianze giovanili.Oppure, se è un’immagine di sessualità, il suo corpo apparirà la più alta espressione di sessualità.Egli è inconsapevole del proprio corpo; sa che c’è ma ha valore solo come strumento della propriamente o come espressione della propria immagine.Ci sono anche delle immagini segrete non direttamente manifeste nella forma e nell’espressionecorporea. Non tutti gli individui legati a un’immagine di potere hanno un corpo che sembra potente.Può verificarsi anche l’opposto. Viene subito in mente l’immagine di Napoleone. Era chiamatoanche “il piccolo caporale” dal momento che era molto basso ma nello stesso tempo l’uomo piùpotente d’Europa. Ricordo un giovane, alto solo l metro e 55 circa, che guidava l’auto più grandeche circolante in Europa in un periodo in cui la benzina era razionata. Ed era solo uno studente.Egli doveva vederci grande nella sua mente. Nei casi in cui la maggioranza di noi direbbe “sei diuno, mezza dozzina di un altro” per indicare un’uguaglianza di scelta, egli diceva sempre “dodicidi uno, una dozzina di un altro”. Se la sua apparenza fisica va contro l’immagine che egli ha di sé,lo psicopatico nega semplicemente la realtà del corpo. È davvero solo l’immagine che conta.Nella personalità psicopatica ciò che manca sono i sentimenti. Egli non prova quei sentimenti comuniche danno significato e direzione alla vita della maggior parte delle persone. Egli non sentealcun desiderio o bisogno degli altri e perciò non si sente respinto o tradito. Non sente la tristezza,quindi non puoi sentire nessuna rabbia reale. Non ammetterà nemmeno di aver paura: egli nega diaver paura. Si metterà spesso incautamente in situazioni pericolose, forse per provare a se stesso dinon avere paura. È l’assenza di sentimenti che rende lo psicopatico inumano. In chiunque, nellamisura in cui i sentimenti vengono a mancare, c’è una corrispondente mancanza di umanità.Tuttavia lo psicopatico può allestire una messa in scena di sentimenti che possono passare per autentici.Può apparire arrabbiato nel caso in cui la sua immagine sia attaccata o egli sia frustrato neltentativo di proiettarla. Può apparire triste nel caso in cui la sua immagine sia respinta, ma cercatedi farlo piangere e constaterete che la sua tristezza è solo superficiale. Le emozioni più profondeche provengono dall’intimo di una persona, come quella voce interiore che noi chiamiamo coscienza,sono tagliate fuori dalla sua consapevolezza.Non è che sia incapace di sentimenti, è incapace di riconoscerli e di esprimerli. La differenza è sottilema importante. In terapia si può osservare che il suo corpo risponde con dei movimenti chepossono essere identificati come sentimenti potenziali. A volte sembra che stia per piangere o perarrabbiarsi, ma subito dopo negherà di aver sentito qualcosa. Il blocco deve essere nella connessionetra testa e corpo. La testa rifiuta di ammettere che il corpo ha la sua propria vita. Essa ammetteràsolo le risposte del corpo che si adattano all’immagine. Tutte le altre saranno negate, respinte,tagliate fuori.Che cosa lo conduce in terapia? 3. Uno psicopatico al 100% non ricorrerà mai a una terapia. Egli non presta fede né ha fiducia a sufficienzanegli altri per chiedere a qualcuno di aiutarlo. Non possiede inoltre il senso di un’identitàcon altre persone e questa mancanza lo rende asociale. Uno psicopatico autentico è in realtà un sociopatico.Ha tagliato fuori se stesso da qualunque relazione significativa con gli altri e ha strutturatose stesso contro le persone e la società. Anche quando gli viene offerto aiuto egli lo stravolgeper adattarlo alle proprie mire psicopatiche. Un buono studio su questo carattere è fornito in Maskof Sanity di Cleckley (2). Per Cleckley queste persone sono in realtà folli ma la loro facciata o mascheraè talmente convincente che la loro malattia mentale non può essere provata.Non vediamo dunque uno psicopatico puro in terapia. Vediamo pazienti nel cui carattere la dinamicapsicopatica è l’elemento dominante, ma non l’intero quadro. Vediamo anche molti pazientinel cui carattere ci sono forti tendenze psicopatiche. Non essendo psicopatici puri essi sono soggettiall’ansia e alla depressione. La loro ansia deriva dal conflitto tra l’immagine e i sentimenti. Essidevono avere dei sentimenti altrimenti non potrebbe esserci l’ansia. La depressione è la direttaconseguenza del collasso dell’immagine o dell’illusione, ma questo può capitare solo quandol’immagine non domina l’intera personalità. Un altro disturbo che emerge è una mancanza di sentimento.Spesso tuttavia questo viene accennato piuttosto che presentato come il serio problemache in effetti è. D’altra parte il desiderio di avere sentimento è di per sé un sentimento e infatti inpersone con assenza totale di sentimento non c’è nessun desiderio di sentimento.Le persone vengono in terapia con diversi livelli di psicopatia nella loro personalità. Tra un caso el’altro ci può essere una notevole diversità. Ecco un bell’esempio di psicopatico di razza pura chemi consultò molti anni fa. Era vice-presidente di una grande agenzia pubblicitaria e venne da mesu raccomandazione di un suo socio di affari che io avevo aiutato. Voleva scrivere un romanzo mane era incapace, per questo pensava che avrei potuto aiutarlo. La prima cosa che fece nel mio ufficiofu quella di piantare i suoi due piedi sul mio tavolo e di stravaccarsi sulla sedia come se fossestato a casa sua. Io lo lasciai fare mentre parlavamo. Ovviamente non potevo aiutarlo. Credo di averglifatto capire che generalmente se qualcuno non riesce a scrivere un libro è perché non ha nullada dire. Penso che fosse attratto da me perché venne per tre sedute. Naturalmente non pagò ilconto quando glielo mandai. Ma ricordandomi chi era, dopo una settimana gli spedii un’altra letterain cui asserivo che se il conto non fosse stato pagato entro 5 giorni l’avrei girato al mio legaleper la riscossione. Ricevetti in risposta un assegno con la nota: “come hai potuto farlo?”Abbiamo detto che le persone vengono in terapia non solo per stare meglio ma per essere aiutate arealizzare con successo i propri schemi di comportamento. Vogliono soddisfare la propria immaginesegreta, il che è un’espressione dell’elemento psicopatico presente nella loro personalità. Mapensate che vengano a dirvelo? Oh no! Apparentemente si fanno guidare dalle vostre idee di saluteemozionale mentre nel loro intimo vi fanno resistenza. Se mettete in rilievo la loro resistenza lanegano e così la terapia non prosegue oltre. Stanno forse mentendo o vi stanno abbindolando? No,loro non sono consapevoli di mentire o di ingannare, come d’altra parte non lo è nemmeno lo psicopaticopuro. Solo che in questo caso non c’è un modo obbiettivo per verificare la verità delle loroasserzioni circa il loro intento, ed è solo nel momento in cui l’immagine segreta viene fuori chela manipolazione diviene chiara.La maggior parte delle persone ci crede in tutta onestà: non vuole manipolare, desidera essereschietta. Queste persone non sono psicopatiche, ma quando saranno soggette a uno stress tale dasentirsi intrappolate la tendenza psicopatica presente nella loro personalità comincerà ad agire. Alloramentiranno per sostenere la loro immagine, senza alcun rimorso perché crederanno di dire ilvero. La loro immagine è più reale della loro evidente espressione corporea. In quel momento inoltre esse saranno completamente insensibili nei vostri confronti perché non vi vedranno.L’immagine, infatti, li acceca. Se lo stress sarà meno minaccioso, esse manipoleranno la situazioneper evitare di essere intrappolate. È strano come la voce della coscienza scompaia quando qualcunosi sente minacciato, a torto o a ragione.Un’osservazione apparentemente critica può far emergere le tendenze psicopatiche. La persona difenderàil proprio comportamento ancora prima di aver valutato la validità della vostra osservazione.E, nel caso sia gravemente psicopatica, continuerà a proclamarsi innocente e vi accuserà di ostilità,gelosia, manipolazione, e così via. 

Psicopatia e pazzia

La tendenza a negare e proiettare della personalità psicopatica induce a sospettare la presenza di unelemento paranoide in questa struttura caratteriale, e io personalmente non ho dubbi in proposito.Questa tendenza, secondo me, costituisce la sua follia: una follia che se ne sta nascosta sotto la superficiee minaccia continuamente di erompere fuori dalla maschera di equilibrio. Si manifesta nelcaso dello psicopatico assassino il cui gesto è folle ma il cui comportamento dopo il gesto omicidaè assolutamente normale. Sta alla base dell’agire del falsario o del malversatore che ha la convinzionedi essere stato truffato o defraudato. Ed è un meccanismo paranoide quello che causa le azioniantisociali.Lo psicopatico deve continuamente utilizzare le proprie facoltà mentali per tenere sotto controllola propria dose di follia. Questo significa che la sua mente lavora senza sosta. Chiedere a una personadel genere di lasciar andare la testa, cioè di permettere alle proprie sensazioni di emergere,equivale a chiederle di impazzire, di diventare folle. Qui possiamo ricollegarci a R.D. Laing quandoafferma che è possibile che una persona debba lasciarsi impazzire affinché possa emergere ilsuo vero sé. Ciò comporta una certa paura. La paura di una pazzia sottostante spingerà qualsiasiindividuo verso un atteggiamento psicopatico di difesa.Non si può capire questo concetto dell’atteggiamento psicopatico di difesa contro la pazzia senzauna conoscenza degli elementi dinamici di un crollo psicotico. Ci sono due fattori importanti: unoè un Io debole e insicuro perché non è identificato con il corpo e non è integrato con i sentimenti.La vulnerabilità nei confronti di una attacco psicotico di questo tipo è descritta in Il tradimento delcorpo (3). L’altro fattore è un flusso di sentimenti che non possono essere integrati dall’Io. I sentimentipotrebbero essere paura, rabbia, sessualità o desiderio: ciò che conta è che il sentimento ètraboccante. Ogni situazione che indebolisce un Io insicuro, e nello stesso tempo fa emergere fortisentimenti, può produrre una rottura.L’attacco psicotico è preannunciato da una sensazione di confusione che conduce a uno stato di estraneamento.La realtà diventa nebulosa. L’individuo è come in trance. In questo stato egli puòesprimere ciò che sente trasformando il sentimento in azione. Può uccidere qualcuno o uccidersi,può chiudersi in un armadio, strapparsi i capelli per l’angoscia o diventare come morto nel tentativodi fermare le sensazioni. In quest’ultimo caso diventa catatonico. In tutti i casi la sua mente nonè più connessa con le sue azioni: egli l’ha dissociata e separata dal corpo e dai sentimenti.La difesa psicopatica è volta a garantire che i sentimenti non raggiungano un’intensità tale da minacciarela sopraffazione dell’Io. Un modo per far ciò consiste nel tagliar fuori ogni impulso inmodo da non far crescere mai la carica dell’organismo. Un secondo modo consiste nell’attutire lesensazioni per mezzo di alcool o droghe. E il terzo modo consiste nel negare ogni significato airapporti evitando con ciò la possibilità di sentimenti. Tutti questi mezzi e altri ancora sono utilizzatidallo psicopatico per impedire a se stesso di sentire. Egli è in grado di provare solo dei sentimentiastratti a livello cosmico e diventare così un mistico. A questo livello può parlare di sentimentima sta parlando di astrazioni o di spiriti e non dei sentimenti dei comuni mortali la cui vita è unalotta per i piaceri semplici e la gioia di vivere.Questo è il risultato del fatto che lo psicopatico manca di senso d’umanità. A livello della sua psicopatiaegli è inumano. Egli non può e non oserebbe mai mettersi nelle condizioni di un essereumano.Ma cosa significa essere umano? Significa fondamentalmente essere debole in condizione di bisogno.Negli aspetti più importanti della vita, un essere umano è debole. Egli non ha chiesto di venireal mondo e non ha nessun controllo su quando morirà. Non può scegliere colei o colui di cui siinnamorerà. Non è padrone del proprio destino. La sua debolezza è tollerabile poiché tutti gli esseriumani condividono lo stesso destino e ognuno ha bisogno degli altri per opporsi alle tenebre, perstar lontano dal freddo, per dare un senso all’esistenza. Ognuno di noi ha bisogno degli altri perprocurarsi la luce, il calore, l’eccitazione e la sfida. Solo all’interno di una comunità umana possiamoosare affrontare il terrore dell’ignoto. Rispetto a tali bisogni umani lo psicopatico non costituisceun’eccezione.Anche lui ha bisogno degli altri. Tuttavia non osa e non può riconoscere questo bisogno. È troppopericoloso. Tra breve esamineremo perché è così. Qui cerchiamo di esaminare in che modo egliaffronta questo problema.Quasi sempre si osserva che lo psicopatico è circondato da seguaci. Egli ha bisogno di seguaci eutilizzerà ogni espediente per riuscire ad averne. Illuderà, affascinerà, sedurrà, alletterà gli altri inmodo che abbiano bisogno di lui. Eg1i conosce le loro paure e le loro debolezze, dal momento chesono anche le sue, e sosterrà, prometterà e proclamerà di essere la loro luce, il loro calore, il lorostimolo e la loro opportunità. Egli si propone come uno al di sopra degli altri dal momento che nonha bisogno di nessuno. E sembra essere al di sopra perché non è turbato dalle umane paure. Coloroche sono disperati, spaventati o perduti si rivolgeranno a lui come a un salvatore. Non ha forse eglimostrato di sapersi ergere al di sopra degli umani affanni?Qualcuno potrebbe chiedere: non esistono psicopatici senza seguaci? La risposta è no. Lo psicopaticodeve avere almeno un seguace, un fedele, uno schiavo: potrebbe essere la sua donna, la suaprostituta, il suo amante omosessuale. Ma deve sempre avere qualcuno che abbia bisogno di lui.Lui non può essere solo. Sono gli altri a fornirgli quel contatto umano di cui ha bisogno, ma allesue condizioni: aver bisogno di lui, dipendere da lui, venerarlo.Naturalmente il gioco regge fino a che il seguace non dice al leader: “tu hai bisogno di me tantoquanto io ho bisogno di te, se non di più. Tu hai paura della vita e della morte tanto quanto me, senon di più. Sei così spaventato che non oseresti mai ammettere il tuo bisogno”. Personalmente nonmi sentirei di ipotizzare che grazie a un tale confronto lo psicopatico potrebbe riacquistare consapevolezza.Tuttavia potrebbe essere un grave colpo per la sua abilità di incantare altre persone debolie spaventate della propria debolezza. 5. In che modo lo psicopatico ha imboccato questa strada? Perché ha così paura di avere bisogno?Quali eventi hanno distorto la sua mente?Tutti gli individui iniziano la propria vita in una condizione di debolezza e di bisogno. La vita diun neonato dipende dagli altri. Rispetto a ciò il cucciolo dell’uomo non è diverso dai piccoli degliuccelli e dei mammiferi. Senza la protezione, la sicurezza, la cura e il nutrimento dei genitori questipiccoli non sopravviverebbero. È una strada a senso unico: i genitori danno e i figli ricevono. Inseguito questi faranno altrettanto con i propri figli. E così il fiume della vita continuerà sempre ascorrere dai monti verso il mare.Se vedessimo un fiume scorrere verso la montagna credo che dubiteremmo dei nostri sensi. Sicuramentediremmo “non può essere, è una pazzia”. C’è un ordine naturale della vita. Ma cosa puòpensare un bambino nel momento in cui si rende conto che i ruoli si sono capovolti? E che la madreconta sul figlio per essere sostenuta e soddisfatta? Molte volte ho sentito pazienti affermare:“sono stato una madre per mia madre”.Il capovolgimento di questo ordine naturale provoca una catastrofe incredibile nella personalità delbambino. La personalità di un bambino durante lo sviluppo è soggetta a molti stress e tensioniprima di diventare forte abbastanza da affrontare la realtà in modo adulto. Uno dei maggiori stressè la situazione edipica. Ogni bambino prova un’attrazione per il genitore di sesso opposto e sperimentaun precoce inizio di sessualità dai tre ai sei anni. Ciò va di pari passo allo sviluppo dei primidenti da latte, un’altra manifestazione di precoce maturità. Questi primi denti cadono quando comincianoa spuntare quelli permanenti. Analogamente il primo sboccio sessuale declina per prepararela strada alla sessualità permanente della pubertà.Queste prime esperienze, sessuali e d’altro genere, costituiscono un considerevole stress per ilbambino, ma egli è biologicamente preparato a gestirle. Ciò che invece non può gestire è la sessualitàadulta. I suoi sentimenti sessuali per un genitore sono fenomeni naturali: i sentimenti sessualidi un genitore adulto nei confronti di un bambino sono innaturali come un fiume che scorra versola sorgente. Noi possiamo pompare l’acqua e dirigerla verso la collina, ma sappiamo che ciò è operadell’uomo, non della natura. In che modo un bambino può fronteggiare la sessualità di un genitorediretta verso di lui, cioè ciò che si definisce il comportamento seduttivo del genitore?Egli non può dire a suo padre o a sua madre “fermati, così non va, i tuoi sentimenti sessuali devonoessere diretti nei confronti del tuo partner e non del tuo bambino”. Non può dirlo per due ordinidi motivi: l) il bambino all’inizio non è consapevole di ciò che sta succedendo, generalmente la seduzionecomincia piuttosto presto, sovente prima dei tre anni; 2) il bambino risponde istintivamentealla seduzione con interesse ed eccitazione, dopo tutto è un’espressione d’amore, sebbene fuoriluogo e distruttiva: e in molti casi, se non in tutti, il bambino ha subito in precedenza qualche privazionerispetto alle attenzioni e all’affetto di cui aveva bisogno, ed essendo quindi affamato di attenzionie affetto risponde all’invito seduttivo.Questa risposta del bambino alla seduzione, determina una trasformazione improvvisa della situazioneda esperienza immaginaria a esperienza reale. Non è più un’idea nella mente del bambino.Essa è diventata una vera relazione sessuale, anche se non agita. Ciò è inevitabile per il bambino,dato che per lui sentimento e azione sono strettamente associati. La situazione reale determina unvero e proprio triangolo. Ora c’è una minaccia da parte del genitore dello stesso sesso che è vissutocome rivale.Il bambino è intrappolato. Non può rivolgersi al genitore dello stesso sesso per chiedere aiuto perchéper l’appunto lui lo biasimerebbe. Cedere alla seduzione è insensato. Egli è biologicamente incapacedi integrare la sessualità di un adulto. Ma non può respingere il genitore seduttivo a cui oraè legato. L’unica possibilità consiste nell’accettare la situazione e nell’imparare le regole del gioco.Il primo passo consiste nell’eliminare le sensazioni sessuali in modo da non poter essere tentatodalla follia dell’incesto. All’età di sei anni, per esempio, non essere tormentato da un desiderio chenon può essere soddisfatto. Ciò gli è possibile contraendo il ventre e ritirando energia e sensazionidalla parte bassa del corpo. Questo crea la tipica struttura corporea dello psicopatico con la suaparte superiore sovrasviluppata e la parte inferiore sottosviluppata. Essendo tuttavia sottopostoall’eccitazione seduttiva egli deve trovare un modo in cui scaricare tale eccitazione. Questo è ottenutograzie a un’attività forsennata e a un’intraprendenza compulsiva. Il dottor J. Bellis ha puntualizzatol’ipermotilità della personalità psicopatica.Queste difese del corpo sono strettamente connesse al tentativo di affrontare la negando ogni sensazionesessuale nei confronti del genitore di sesso opposto. La negazione è tanto ampia da coprirenon solo la risposta proibita ma anche i naturali, innocenti e dolci sentimenti del bambino. Con lanegazione di questi sentimenti egli nega anche ogni bisogno rispetto al genitore di sesso opposto.È stato infatti il bisogno di contatto con lui a renderlo vulnerabile.La negazione è una difesa psichica, ma per essere effettiva e sicura deve essere strutturata nel corpo.Essa si struttura come un anello di tensione alla base della testa che impedisce che qualsiasieccitazione proveniente dal corpo raggiunga la testa. In effetti, dal punto di vista delle percezioni,la testa è tanto separata dal corpo che una persona del genere può dire “non sento niente”. Inoltrequesta tensione spezza il flusso d’energia verso gli occhi, tanto che la persona può anche affermare:“non vedo niente”. Il non vedere annulla la realtà obiettiva e lascia l’individuo con una realtàfatta solo delle sue idee e delle sue immagini.Coloro che tra voi hanno familiarità con le mie idee circa la schizofrenia e la condizione schizoidetrattate in Il Tradimento del Corpo (4), ricorderanno che ho descritto un analogo anello di tensionein questi casi. Ci sono differenze e somiglianze tra queste due condizioni. Nella personalità psicopatical’anello di tensione elimina le funzioni espressive ma lascia relativamente intatte quellemotorie.La differenza tra la condizione schizoide e quella psicopatica è chiarita nel modo migliore dalla distinzioneche esiste tra terrore e orrore. Consideriamo la condizione schizoide quella di un individuoagghiacciato dal terrore. Il terrore è la paura della persona di essere annientata qualora affermiil proprio diritto di esistere. È segno di un’esperienza di rifiuto avvenuta generalmente nella primissimainfanzia. Lo psicopatico invece non è minacciato di annientamento ma di castrazione perle sue risposte sessuali. Egli viene sedotto e poi svergognato. È intrappolato in un incubo di orrore.La situazione è incredibile e non ha senso in relazione ai sentimenti originari di amore e al desideriodi contatto. Essa ha un’aria di irrealtà e come farebbe con un incubo il bambino cerca di farlauscire dalla propria mente. Raccomanderei vivamente di leggere la mia monografia sull’orrore percapire queste distinzioni.Ci sono altri fattori che entrano a far parte dell’eziologia della psicopatia. Il bambino è soggetto auna considerevole manipolazione, che spesso arriva a un vero lavaggio del cervello, nella misurain cui i genitori o un genitore cercano di instillare nella mente del bambino un’immagine di comeessi lo vogliono. C’è spesso nella famiglia una lotta di potere di cui il bambino è consapevole e incui egli viene usato da uno dei genitori contro l’altro. Una madre si servirà per esempio del figlioper umiliare il marito, dicendo: “Spero che tu non diventi come tuo padre”. Ciò lascia supporre chedovrebbe essere forse come sua madre. O un padre che sente che in casa ha la peggio cercherà diattirare le simpatie della figlia e in virtù di ciò la porrà sottilmente contro la madre. Parlerò in unaltro contesto dei fattori sociali che corrodono e minano l’armonia e la stabilità delle relazioni familiarie finiscono per preparare il terreno che genera la psicopatia e la schizofrenia.Se volete avere una chiara rappresentazione delle relazioni perverse che possono esserci tra madree figlio andate a vedere il film Alice non abita più qui. Credo che rimarrete scioccati dal comportamentocosì evidentemente seduttivo della madre. Il linguaggio tra loro è davvero incredibile.Stranamente la maggior parte delle persone che ha visto il film lo ha trovato attraente, il che mi risultaincomprensibile. 6. 

La strategia psicopatica

L’eliminazione delle sensazioni sessuali, non necessariamente di quelle genitali, il ritiro della propriaenergia verso l’alto, specie nella testa, e la negazione di ogni sentimento costituiscono il primopasso dei processi di difesa del carattere psicopatico. Se il bambino si fermasse a questo punto sisentirebbe isolato, avendo perduto la propria connessione vitale con i genitori. L’isolamento portaal ritiro verso l’interno e allo sviluppo di una vita immaginaria che prenda il posto di una realtà intollerabilee inconcepibile. Il risultato finale potrebbe così essere uno stato autistico sfociante nellaschizofrenia. Qualche relazione con una figura genitoriale deve essere ristabilita. Questo può essereottenuto in due modi: il bambino o diventa succube rispetto al genitore seduttivo, senza tuttaviacoinvolgimento emotivo – per esempio lasciandosi strumentalizzare – oppure diviene lui stesso lafigura dominante. Lo psicopatico più autentico segue la seconda strada ed è proprio questa che ioesaminerò in questa sede.Lo psicopatico autentico ritorna dal genitore seduttivo ma lo fa invertendo i ruoli. Diventa seduttivoe promette soddisfazione al genitore senza mai concederla. È una manovra astuta. Essendo riuscitoa negare e a eliminare il proprio sentimento di bisogno, il bambino diventa obiettivo. A questopunto può vedere i bisogni del genitore seduttivo e sfruttarli a proprio vantaggio. Esattamentecome lo era stato lui, ora anche il genitore è intrappolato dal proprio bisogno. Il bambino impara iruoli di questo gioco. Si può promettere di tutto quando è impossibile mantenere le promesse.Questo è importante da capire. La promessa è un’esca irresistibile proprio finché è impossibile lasoddisfazione. Questa seduzione è la logica conseguenza della natura della situazione. Quando ungenitore è seduttivo nei confronti del figlio, quel genitore non vuole nessun contatto sessuale realecon il bambino. Sicuramente negherebbe di avere un’intenzione del genere e sarebbe vero. In questepersone, infatti, il tabù dell’incesto è molto potente. Se il bambino facesse un’aperta avancesessuale nei confronti del genitore sarebbe certamente respinto con severità. Perfino il normalecontatto fisico diviene sospetto. Ciò che il genitore vuole è solo l’eccitazione, sfortunatamente aspese dell’integrità morale e fisica del bambino. Se la soddisfazione divenisse la normale conclusionedel rapporto, l’eccitazione scomparirebbe.Il bambino diventa uno psicopatico in virtù del fatto che si mette a giocare questo gioco. Promettedi essere un bambino ideale per essere l’amore della sua mamma o del suo papà ma alla fine deluderàil genitore. Naturalmente non appena il genitore resterà deluso il bambino farà una nuovapromessa, che adescherà il genitore in maniera ancora più efficace a causa della precedente delusione.Gestendo sia la promessa che la minaccia di una delusione egli riesce ad ottenere dal genitorequalsiasi cosa voglia: in effetti lo ha in pugno.Finché, grazie a questa strategia, riesce a tenerlo in pugno, è protetto da un duplice pericolo: dauna parte l’isolamento e il ritiro nella depressione e nella follia, e dall’altra la resa all’impulsoproibito che lo condurrebbe all’incesto e alla follia nello stesso tempo. Il suo bisogno di contatto edi relazione viene soddisfatto anche se in modo perverso. In questa relazione i due individui nonsono legati l’uno all’altro da sentimenti reciproci, ma sono invischiati l’un l’altro dal loro bisognodi giocare il gioco.La promessa che il bambino fa, raramente è espressa a parole. Essa è contenuta nella sua immaginedi sé, che può o meno manifestarsi nella forma del corpo. Trova espressione nei suoi modi, nellasua postura, negli atteggiamenti e nel tono di voce. Una parte della personalità del bambino tentadi essere all’altezza dell’immagine, un’altra parte si ribella. La forza di queste due parti varia daindividuo a individuo. In alcuni la ribellione è molto forte e in questo caso l’individuo agiràall’esterno i sentimenti negativi nell’intento di negare l’immagine. In altri la ribellione è repressa.Per ogni singolo caso i fattori quantitativi sono unici e vanno valutati mediante un’attenta analisidella storia della persona. Inoltre il grado di psicopatia presente in ogni singola personalità varia inrelazione alle lusinghe e alle pressioni di cui il bambino è stato fatto oggetto.Ci sono psicopatici che raggiungono posizioni di prestigio nella politica e negli affari, mentre altridiventano criminali e assassini. Alcuni raggiungono il successo, ma la maggior parte di loro sonofalliti, piccoli truffatori, uomini contro, giocatori d’azzardo, ruffiani, avventurieri e via dicendo.Naturalmente porremo la nostra attenzione sugli esempi più manifesti, perché sono i più interessantida studiare e da interpretare, ma sarebbe un grave errore guardare al problema della psicopatiacome se fosse limitato alle sue manifestazioni più ovvie. Si possono trovare psicopatici o personecon forti tendenze psicopatiche in ogni campo delle attività umane, anche la nostra professionedi psichiatri o psicoterapeuti non ne è immune.Da cosa si riconosce uno psicopatico o un comportamento psicopatico? Questa domanda meritaqualche osservazione. Collegata a questa domanda ce n’è un’altra relativa a coloro che da lui sifanno ingannare, alle sue vittime, ai suoi seguaci. Chi si fa irretire dallo psicopatico? E come maici sono persone così vulnerabili? 7. 

Il simulatore e il credulone

Ho parlato dello psicopatico come di una persona che fa promesse non intenzionato a mantenere.Questo significa che così facendo perde la sua integrità. Questo è un termine appropriato, ma richiedeuna definizione. Possiamo capire cos’è l’integrità solo esaminando la personalità psicopaticadal punto di vista bioenergetico.Ho notato che il problema di base non è l’incapacità di sentire o di avere sensazioni fisiche, ma lanegazione del corpo, dei sentimenti e delle sensazioni. Naturalmente la negazione dell’Io rispettoalla funzione percettiva crea una mancanza di sentimenti a livello percettivo, ma tale mancanza èdiversa da quella presente nella condizione schizoide. La negazione da parte dell’Io è una condizionepatologica nell’apparato psichico, il che giustifica il termine “psicopatico”. Nella schizofreniaabbiamo a che fare con una scissione o dissociazione. Il sentimento in questo caso non è negato,però non c’è connessione. Anche l’individuo schizofrenico perde la propria integrità ma lo scusiamodal momento che non si vanta di tale mancanza a differenza di quel che fa lo psicopatico.Tra non molto ritornerò su questa osservazione.Nella struttura psicopatica la mancanza d’integrità è causata dalla mente che si è rivolta contro ilcorpo o, per meglio dire, dal pensiero che nega i sentimenti. La mancanza d’integrità è manifestatafisicamente a livello corporeo. La testa non è connessa dal punto di vista energetico con il resto delcorpo. A volte essa non si adatta al corpo. Talvolta vediamo la testa di un bambino su un corpomaturo o la testa di un adulto su un corpo che sembra infantile. Talvolta è una testa piccola su uncorpo grande o viceversa. La causa di questa sproporzione è l’anello di tensione presente alla basedel cranio. Un’altra caratteristica fisica è rappresentata dalla tendenza a tenersi su, verso l’alto, indirezione opposta alla terra: di conseguenza i piedi non sono energeticamente connessi al suolo.Spesso questo tenersi verso l’alto gonfia la parte superiore del corpo, tanto che essa risulta notevolmentesproporzionata rispetto alla parte inferiore. In ogni caso, il carattere psicopatico non èconnesso con i propri piedi. In lui è fortemente disturbata la funzione di essere ben radicato(grounded) nella realtà e nella terra.Altre due funzioni fisiche sono disturbate in modo tipico. In primo luogo la genitalità. Essa non èconnessa alla sessualità del corpo, che resta tagliato fuori da qualsiasi sentimento di amore. Perquesto motivo lo psicopatico non conosce la differenza che passa tra fottere e fare l’amore, propriocome non conosce la differenza che c’è tra mentire e dire la verità. Reclamerà che non vi è alcunadifferenza perché davvero egli non la può percepire. Non sto condannando l’individuo che fa delsesso senza amore o per lo meno non più di quanto biasimo una persona che mente. Ciò che vogliosottolineare è che è proprio dello psicopatico non riconoscere e non sentire la differenza.A livello fisico la spaccatura tra sessualità e genitalità è causata da un anello di tensione intornoalla radice del pene. Stanley Keleman mi ha chiesto di descrivere questo tipo di tensione. Non ricordose lo collegasse a una problematica psicopatica. In realtà si tratta di una forma psicologica dicastrazione in relazione alla situazione edipica. Lo stesso anello di tensione è presente nella donna.Per superare la seduzione incestuosa il bambino allontana le sensazioni sessuali dal proprio bacino,non dai propri genitali. Lavorando in questa zona è possibile palpare questa tensione evocando unanotevole ansietà. Questo è il tallone di Achille della struttura psicopatica.La seconda funzione che è disturbata in questa struttura è la vista. Precedentemente ho detto che lopsicopatico non vi vede. Siete solo un’immane nella sua mente. La sua percezione visiva è intatta,così la vostra immagine viene registrata nella sua retina. Ma vedere è molto più che la registrazionedi un’immagine. È una funzione sensoriale che significa che egli ha la sensazione di voi. Comportaun riconoscimento. In relazione a questo aspetto è molto interessante notare che in Africa alcunepopolazioni primitive usano l’espressione “ti vedo” come formula di saluto. In effetti ciò significa“ti riconosco come una persona”. È interessante inoltre vedere a questo punto la differenzatra il disturbo visivo schizofrenico e quello psicopatico. In Il Tradimento del Corpo(5) ho puntualizzatoche l’individuo schizoide vede ma non guarda. Il guardare è un processo attivo che richiedeuna messa a fuoco degli occhi per ricevere l’immagine. Normalmente quando una persona vi guardavi tocca energeticamente con i suoi occhi, essa stabilisce un contatto con gli occhi. Nella strutturaschizoide questa funzione è bloccata. Lo psicopatico invece vi guarda, può anche fissarvi con isuoi occhi ma il contatto è limitato, perché il suo sguardo è diffidente o controllato. Nella personalitàparanoide lo sguardo diffidente ha spesso una qualità indagatrice. Lo psicopatico, invece, perquanto vi guardi in realtà non vi vede. La sua mente nega la realtà dei suoi sensi, egli non può abbandonarele proprie immagini preconcette.Queste caratteristiche fisiche della mancanza di integrità nella personalità psicopatica sono inconfondibili.Tuttavia per essere riconosciute richiedono una notevole esperienza. Dobbiamo necessariamenteaffidarci a un’analisi del suo comportamento e delle sue attitudini prima di poterci fidaredelle nostre impressioni.A livello psicologico la mancanza di integrità è riflessa nella mancanza di principi morali. Nellanostra attuale cultura un’espressione come “principi morali” può sembrare fuori moda e connessa auna mentalità autoritaria. Nella nostra ribellione contro principi imposti, ci lasciamo sfuggire checi sono dei principi naturali. La sincerità è uno di questi principi. I bambini piccoli sono naturalmentesinceri. Nessuno glielo ha insegnato. Più tardi impareranno a dire bugie ma si può sperareche non perderanno la capacità di distinguere una menzogna da una verità. E si può sperare che siatterranno al principio che l’onestà è la miglior politica.Ho discusso la natura dei principi nell’ultimo capitolo di Bioenergetica(6). Ho sostenuto che i principisi sviluppano quando sentimenti e pensieri sono integrati. Questa integrazione nella strutturapsicopatica è andata perduta perché ogni sentimento che non funzioni come confermadell’immagine o che non si accordi con i pensieri viene negato. Si può dire quindi che lo psicopaticoè una persona senza principi. Questa è la natura essenziale della sua struttura caratteriale. Ilcorollario di questa considerazione è che ogni persona il cui comportamento non è governato daprincipi morali interni è uno psicopatico.Lo psicopatico usa il potere come propria guida e propria meta. Ciò per noi non è una novità. Giàda tempo sappiamo che la psicopatia è caratterizzata da una spinta verso il potere. Spesso ciò è apertamentedichiarato: in molti casi invece è coperto con arte da una facciata di giustizia, moralità,rettitudine, e così via. Non scordiamo che lo psicopatico è un grande simulatore. Egli sa come giocareil gioco e allestire lo spettacolo. Come possiamo distinguere tra simulazione e realtà, tra unadichiarazione di principi e un comportamento realmente guidato da principi morali?Per fare questa distinzione possiamo ricorrere a diversi criteri. Un uomo di principi evita posizionidi potere e le rifiuta quando gli vengono offerte. Il potere corrompe l’anima e mina facilmente iprincipi di chi lo detiene. Lo psicopatico invece accoglie il potere in nome dei propri principi. Finoa che punto si può essere disonesti? Potrei approfondire qui il discorso ma ciò ci porterebbe troppolontano.Un altro criterio di individuazione è la massima secondo cui il fine giustifica i mezzi. Questa è unamassima psicopatica. I politici rivoluzionari usano proclamarla e sotto la sua egida spesso commettonoazioni veramente disumane. Anche molti uomini d’affari se ne fanno in segreto portabandierae la adottano nella pratica, e se non sono dei fuorilegge sono comunque falsi e disonesti. Èuna dottrina perniciosa. Chiunque la segua agisce da psicopatico. Una rapida analisi servirà a chiarirnela natura psicopatica.Il fine è sempre un’idea preconcetta, è sempre un’immagine del futuro, un traguardo non ancorarealizzato. Non sono contro i traguardi, i fini o le immagini. Avere un traguardo non è psicopatico.Lo è però usare ogni mezzo pur di raggiungerlo. Significa sacrificare i propri principi e negare ipropri sentimenti. E questa è l’attitudine più evidente di una personalità psicopatica.Si può paragonare il fine alla testa, giacché la testa è il limite estremo del corpo. I mezzi sarebberoil resto del corpo che ne costituisce il sostegno. È il corpo che è al servizio della testa o la testa cheè al servizio del corpo? Credo che voi sappiate a questo punto quale dei due atteggiamenti consideropsicopatico.Un terzo criterio per riconoscere un comportamento psicopatico è l’assenza di umanità. Ne ho fattomenzione prima ma merita una spiegazione. Tutti sappiamo quanto sia difficile nella nostra culturaessere aperti, franchi e onesti. Essere fedele ai propri principi costituisce sempre una lotta in unasocietà che ha perso una tale visione dell’uomo. Sappiamo inoltre che gli esseri umani non sonocreature perfette. È tipico di una persona franca da un lato scegliere per sé elevate norme di vita,dall’altro essere comprensiva e tollerante rispetto alle debolezze e agli errori degli esseri umani.Gli psicopatici non hanno questo tipo di umanità e non solo non l’hanno ma persino la disprezzano.Essi sono al di sopra delle comuni debolezze umane, essi sono speciali. Questo senso di esserespeciali comporta inoltre un’arroganza che offende la sensibilità umana. Secondo me questa è lacaratteristica tipica dello psicopatico.A questo punto cosa si può dire di coloro che invece sono i gabbati, i creduloni, le vittime di costoro?Un mio paziente li definì “i succhiatori”. Evidentemente ce ne sono in giro tantissimi.Il succhiatore è una persona che è in cerca di lusinghe e promesse e per questo resta attaccataall’amo. La parola “succhiatore” denota una componente orale della personalità. Una mancanza dipienezza. Nella nostra cultura questa mancanza è molto diffusa dato che l’allattamento al seno costituisceun fenomeno raro. Questo elemento tuttavia non è sufficiente a spiegare la credulonità delsucchiatore, che deriva dalla relazione con un genitore psicopatico che promette, non mantiene epoi promette ancora.“Se sarai una brava bambina la mamma ti vorrà bene”. Così tu ci provi ma in realtà non serve.L’amore non arriva. Sei frustrata e diventi inquieta e irritabile. Ne nasce uno scontro e tu vienirimproverata; a questo punto piangi e di nuovo ti viene rifatta la promessa. “Se sarai una buonabambina la mamma ti vorrà bene”. Ma che possibilità di scelta può avere un bambino? Deve crederealla promessa perché ha bisogno di aiuto ed è dipendente. Egli deve credere nella possibilitàdi amore. Il bambino non sa che un amore condizionato non è amore, che una promessa di amorenon è che un gesto vuoto. Non si dovrebbe promettere di sentire perché i sentimenti non sono soggettia un controllo conscio. È il tipo di promessa che non può essere mantenuta e pertanto è unastrategia psicopatica.Strategie psicopatiche da parte del genitore possono a volte dar luogo a risposte psicopatiche daparte del bambino. Per un bambino è impossibile essere ciò che il genitore vuole. Nessun bambinopuò essere tanto buono da sottomettersi ai desideri dei genitori senza sentire ribellione contro diloro. È lo sforzo di essere buono che crea il cattivo. Nella misura in cui a una persona è concessodi essere ciò che naturalmente è, non esistono né il buono né il cattivo, né sottomissione né ribellione.Il problema della psicopatia comunque non sta nel come o nel perché si è sviluppata, ma nei motiviper cui persiste. Quali sono i fattori economici della personalità che fanno perdurare nella maturitàl’atteggiamento di credulità? Perché una persona non rientra pienamente in possesso delle propriefacoltà mentali e dei propri sensi dopo che è uscita dalla situazione di seduzione e di rifiutodella sua infanzia? Risponderò a questa domanda nel prossimo paragrafo. 8.

Trattamento della psicopatia

Tutti voi avete sentito dire quanto sia difficile trattare un carattere psicopatico. Ciò non dovrebbecostituire una sorpresa. Visto che sappiamo che costui non crede in nulla, è irrazionale da parte nostraaspettarci che egli possa avere fiducia nella terapia e nel terapeuta. Comunque, se viene in terapia,vuol dire che è disperato, che ha bisogno di aiuto, ne sia colpevole o meno. Significa inoltreche ha una certa sensazione che le cose non gli vadano bene e un’impressione di infelicità.Lo sbaglio peggiore che un terapeuta potrebbe commettere in tali circostanze è promettergli aiuto.Non appena uno psicopatico riesce a estorcere una promessa si riattivano le sue difese psicopatiche.Conosce questo gioco molto bene e può giocarlo meglio del terapeuta. Sa bene che non potetesalvarlo e in questa luce non vi considera certamente diverso da lui. Se gli farete una promessa, eglimetterà in dubbio che voi abbiate qualcosa da offrirgli e si ritirerà non appena sarà stufo del vostrogioco terapeutico. Il ruolo terapeutico si presta molto bene a essere usato per rinforzare lacondizione psicopatica.Dal momento che molte persone nella nostra cultura hanno qualche grado di psicopatia nella loropersonalità è norma saggia per un terapeuta non fare promesse di alcun genere. Io ho adottato lapolitica di non richiedere a una persona che viene da me in terapia che si impegni per il futuro. Imiei pazienti sono liberi di lasciare la terapia. Anch’io sono libero di interromperla qualora il rapportonon sia soddisfacente. Naturalmente discuteremo dei nostri dubbi e delle nostre diffidenze,ma la mia esperienza mi dice che se lo psicopatico sente che la terapia non gli è di aiuto o non glioffre niente di reale, eg1i rimarrà. Secondo questa linea, se si sente che i1 cliente ha chiare tendenzepsicopatiche è meglio esprimere immediatamente i propri dubbi rispetto all’efficacia della terapia:i1 solo fatto di prendere una persona del genere in terapia senza esprimere i propri dubbi equivalea costruire una promessa implicita di aiuto, il che costituisce un bel rischio.È possibile evitare un tale esito mettendo a fuoco i problemi del nostro cliente sia a livello fisicosia a livello psichico. Possiamo evidenziare i disturbi presenti a livello corporeo aiutandolo a entrarein contatto con essi. Ma senza volerne modificare nessuno, perché questo è qualcosa che nonpossiamo fare. Un’onesta affermazione potrebbe essere “È il tuo corpo ed io non sono in grado difare questo per te”. Il che è assolutamente vero. Non possiamo respirare al posto dell’altro e nonpossiamo sentire al posto dell’altro. E non possiamo “raddrizzare” la sua personalità contorta. Possiamoevidenziare la stortura e spiegargli perché ciò è avvenuto, ma non possiamo pretendere cheegli accetti le nostre spiegazioni.Nell’aiutare una persona a capire il suo modo di essere è importante sapere quali sono quelli chenoi chiamiamo i vantaggi secondari della malattia. A livello psicologico questi vantaggi suppostitengono una persona inchiodata al suo modo nevrotico di funzionare. Alla fine del precedente paragrafoho chiesto: “quali sono i fattori che fanno permanere l’atteggiamento di credulità nella maturità?”Potremmo cominciare con questa domanda: cosa lega lo psicopatico al suo modo di vitaanche quando si rende conto, così come noi, che è un modo frustrante, fallimentare e vuoto? La rispostaè: “1’essere speciale”. Per il credulone è il desiderio di essere speciale, generalmente accompagnatodall’immagine segreta di essere speciale.Lo psicopatico è una persona che si considera speciale. La situazione seduttiva che ha creato ilproblema lo ha convinto di essere davvero tale. Infatti egli era speciale per il suo genitore seduttivo,che aveva bisogno di lui e lo usava tanto emozionalmente quanto sessualmente, e ciò gli ha dato1’idea di avere il potere di soddisfare il proprio genitore. Una posizione molto pericolosa per unbambino, perché risveglia e rinforza il suo senso infantile di onnipotenza in un momento della suavita in cui dovrebbe muoversi verso 1’indipendenza, la separazione e la realtà.Non vorrei esagerare affermando che un bambino in questa situazione può essere visto come unpiccolo dio. Ed è possibile anche che sia stato davvero adorato come un dio dal proprio genitore,che però lo ha anche usato e ha abusato di lui.Questo modo di vedere lo psicopatico probabilmente vi sorprenderà, ma osserviamo queste analogie:un dio non può commettere errori, non ha coscienza, non crede ad altro che a se stesso, un dioè al di sopra di ogni considerazione di giustizia ed errore, verità e menzogna. È al di sopra delledebolezze e della vulnerabilità umana. Proprio come lo psicopatico. Non ha bisogno degli altri, sonogli altri ad aver bisogno di lui. È onnipotente, proprio come crede di essere uno psicopatico.A questo punto sarebbe interessante esaminare la storia di alcuni psicopatici famosi come Mansone Hitler. Credo si scoprirebbe che nel profondo essi si considerassero simili a dei, mentre ciò chenoi vediamo in loro è il diavolo. Riserverò tuttavia questa analisi a un’altra occasione.Io non ho mai lavorato con individui psicopatici di questo genere. I miei clienti sono persone comuniche rispettano le leggi, anche se in quasi ognuno di loro ho trovato l’immagine e il desideriosegreti di essere speciali. E mi stupisce molto che nella nostra cultura ci sia qualcuno che non cel’abbia. Alcuni lo ammettono apertamente. Essi vogliono essere trattati da me come persone speciali.Si risentono se li tratto come il resto dei miei pazienti. Altri non ne sono consapevoli ma iosono sicuro che ciò è presente in loro.Nel musical The Fantastiks l’ingenua protagonista cantava una canzone in cui chiedeva di esserespeciale. Questo era il suo più profondo desiderio. Essere speciale: che immagine! Essa ripagaquasi di tutte le pene che si sono subite. Sfortunatamente la realizzazione di ciò è anche la causadella propria sofferenza. Eh si! Vorremmo essere liberi dalle pene e dalle sofferenze, ma non vogliamoabbandonare l’immagine di essere speciali.Alcuni anni fa il dottor George Greenberg tenne per l’istituto una conferenza sulla famiglia, in cuiaffermò che il ruolo della famiglia consiste nel dare al bambino la sensazione di essere speciale.Non ho mai dimenticato quella osservazione. Al momento rimasi impressionato dalla sagacia diquell’asserzione e pensai che effettivamente quello fosse il lato positivo del ruolo della famiglia.Probabilmente ero ancora molto legato alla mia immagine di essere speciale, un’immagine a cuimi appigliavo, come in seguito capii. Oggi vedo in tutt’altra luce l’essere speciale, cioè comel’ostacolo più grande che si frappone al raggiungimento della salute emozionale.Lavorando su questo problema con i miei pazienti chiedo loro cosa significhi “essere speciali”.Ogni persona ha una sua particolare immagine. Una donna, per esempio, una volta mi disse: “Hosempre pensato di essere speciale. Mi è sempre stato detto che avrei potuto ottenere tutto ciò chevolevo se mi fossi impegnata duramente, e io mi sono convinta di ciò. Non è forse questo lo stiledi vita americano? Sono riuscita a ottenere molto, ma ciò non ha funzionato per ciò che concernel’amore e la sessualità. Una volta invece uno psichiatra mi disse: “Per me essere speciale significaconoscere i segreti della vita delle persone, io sono seduto dietro le quinte come un regista o unproduttore che sa tutto su ciò che accadrà”.Per un’altra paziente schizofrenica, l’essere speciale si identificava con l’essere ammalata. Duranteil lavoro che svolsi con lei ebbi modo di constatare che si trattava di una persona molto capace, mache la sua caratteristica speciale consisteva proprio nella negazione della propria forza e delle proprieabilità. Lei teneva nascoste queste qualità probabilmente per qualche altra persona specialeche l’avrebbe desiderata e amata. Non era stata questa negazione ad aver causato il suo malessere.Quella donna non simulava di star male, stava realmente male. La negazione le impediva di ritornarea star bene.Ma diamo un’occhiata all’altro lato della medaglia. Cosa significa non essere speciale, essere unapersona comune, uno cioè come tutti gli altri? Io uso spesso con i miei pazienti il confronto traquesti due atteggiamenti e constato spesso in loro una certa meraviglia nel trovarsi di fronte a questoparagone.Ciò che è comune a tutte le persone è il loro corpo, che è fatto e funziona in maniera simile a quellodegli altri. La persona speciale deve negare la propria identificazione con il corpo, perché ciòequivarrebbe a rendersi simile a qualunque altro. Deve inoltre negare i propri sentimenti perchéanch’essi sono simili a quelli degli altri. Ognuno ama, odia, si adira, si rattrista, prova paura, e cosìvia. La persona speciale, invece, è identificata con i propri pensieri e le proprie immagini, che ineffetti sono unici. Comune a tutta l’umanità e persino agli animali è la sessualità. Essere specialisignifica abbandonare la propria sessualità.Il fatto di essere speciale mette una persona in una situazione di isolamento poiché noi ci rivolgiamoalla gente di tutti i giorni come a gente normale. Questo non è un termine spregiativo, eccettoche per le persone che vedono un segno di valore nell’essere speciali. Le persone normali sono incontatto tra loro, appartengono alla razza umana, condividono le battaglie comuni, non sono sole.La persona speciale invece non è legata o vincolata a chi la fa sentire speciale. Questo diventamolto chiaro nel corso della terapia. Il bambino che non è stato speciale è libero. La persona specialenon solo sta appartata rispetto agli altri ma è al di sopra di essi. Ho già parlato precedentementedi quest’aspetto della psicopatia. Le persone comuni sono radicate nella realtà della vita.Mentre le persone speciali sono destinate a vivere in disparte un destino speciale, la gente normaleride e piange, prova dolore e piacere, conosce gioia e dolore. In poche parole essa vive la propriavita, mentre la persona speciale immagina la propria vita.C’è una qualità che associamo al termine comunee che manca nella persona speciale: il sensocomune. È la mancanza del senso comune che rende la persona credulona, proprio come è la negazionedel senso comune che spinge lo psicopatico a investire la sua vita e le sue energie nell’inutiletentativo di soddisfare un’illusione.Ricordate la storia del gabbiano di Jonathan Livingstone? Anche lui era un uccello “speciale”. Nonera interessato ai gridi ed alle gazzarre degli altri gabbiani. Non voleva partecipare alle loro battaglieper un misero pezzo di pesce. Lui era superiore. Mentre gli altri uccelli erano contenti di vivereentro i limiti di una vita ordinaria, egli era ossessionato dall’idea di trascendere quei limiti. Ecosì se ne andò via da solo per diventare un puro spirito interessato solo al puro amore (senza sesso,beninteso).Cosa scegliereste voi? Lo psicopatico non ha scelto di essere speciale; è stato forzato a sacrificarela sua sessualità, e al suo posto gli è stata offerta l’immagine di essere speciale. Non è stato unbuon affare, ma purtroppo non aveva altre scelte. Dopo aver concluso quest’affare non è disposto arinunciarvi, dal momento che non gli può venir resa la sua sessualità. Ma se non rinunceràall’immagine di essere speciale non avrà nessuna possibilità di ritrovare la propria sessualità.Prima di concludere la mia dissertazione sull’essere speciali voglio aggiungere che ogni personaha delle doti naturali speciali. Ognuno di noi è unico con le proprie capacità e le proprie attitudinidiverse da quelle deg1i altri. Ma questo non ci fa sentire speciali, dal momento che riconosciamoche l’essere unici e l’avere doti speciali è cosa comune a tutte le persone, e non cerchiamo la nostraidentità nella nostra specialità ma piuttosto nella nostra normalità. Si può dire “sono un uomooppure sono una donna” o “sono un americano”. Quando ciò accade ci si sorprenderà nel constatareche la propria identità deriva da un’eredità comune. Per molte persone può essere di aiuto riuscirea vedere il problema espresso chiaramente in questi termini. Qualsiasi sia il livello di salute presentein una persona essa vorrà lottare per i propri sentimenti e per la propria sessualità.Dal punto di vista terapeutico il problema della psicopatia può essere affrontato a due livelli. Attraversoil lavoro fisico con il corpo la persona può essere aiutata a entrare in contatto con i suoisentimenti e con la sua sessualità. Questo richiede una focalizzazione della sottostante ansia sessuale,vale a dire la paura della castrazione. Il lavoro psicologico d’altro canto aiuta la persona avedere l’inganno di cui è stata fatto oggetto e le illusioni a cui ciò ha dato origine. 9.

Conclusione

Lo psicopatico ha fama di essere un manipolatore. Tutte le sue manipolazioni e manovre hanno loscopo di farlo apparire speciale agli occhi degli altri. Tutti coloro che manipolano gli altri hannonella loro testa questa intenzione, e tutti coloro che hanno l’immagine segreta di essere speciali sonodei manipolatori.Fare promesse che non possono essere mantenute equivale a manipolare. Il campo politico è pienodi tali persone, oggigiorno. Ma anche il campo della terapia non è immune da tali elementi psicopatici.Tutti gli approcci che vi promettono di salvarvi, di soddisfarvi, di farvi realizzare, e così via,sono delle manipolazioni che hanno il fine di far considerare il loro promotore come un individuospeciale. Lui ha le risposte. Lui conosce il modo. Lui può dire o mostrarvi come fare. E le personecadono in queste promesse perché sono smarrite e disperate; ma diventano preda di questa genteanche perché nel loro intimo si considerano anch’esse speciali. A loro non importa se altri su quellastessa strada hanno raccolto solo fallimenti. Loro si rifiutano di vederli. Credono che ciò che accadràa loro sarà diverso perché sono speciali.Non so se il mio libro Bioenergetica (7) rientra in questa categoria. Spero di no. Io non vi hopromesso nulla. Ho solo cercato di condividere con voi il mio punto di vista rispetto a1 problemiche abbiamo in comune.

Da una lezione tenuta da Lowen alla Community Church di New York nel novembre 1975 Per gentile concessione dell’Institute for Bioenergetic Analysis 

 

(1)   Alexander Lowen, Bioenergetica, Feltrinelli, Milano 1983 (n.d.r.) (2) Hevey Cleckley, The Mask of Sanity: An Attempt to Clarify Some Issues About the So-Called Psychopathic Personality,Mosby, St. Louis, 1976 (n.d.r.) (3) Alexander Lowen, Il tradimento del corpo, Edizioni Mediterranee, Roma, 1982 (n.d.r.)(4) op. cit. (n.d.r.)(5) op. cit. (n.d.r.)(6) op. cit. (n.d.r.)

(7) op. cit. (n.d.r.)

Traduzione di Antonella Jurillia cura di Luciano Marchino e Monique Mizrahil 

Osho parla di Wilhelm Reich

Wilhelm Reich è uno dei nomi più importanti nel mondo della psicologia. Forse egli è secondo solo a Sigmund Freud. Era il discepolo più giovane di Sigmund Freud, e prima di rispondere alla tua domanda, vorrei ricordare l’unico incidente nella vita di Sigmund Freud che ha un sapore Zen… È qualcosa che è sempre stato presente intorno ai grandi maestri, ma non ce lo si aspetterebbe nella vita di Sigmund Freud. Voglio ricordarvi questo episodio per un motivo molto importante… rivela, infatti, che perfino un uomo come Sigmund Freud, ha il potenziale per diventare un mistico. Il fatto che egli si sia lasciato scappare questa opportunità, è un’altra storia.

Wilhelm Reich continuava a scrivere lettere a Sigmund Freud… era giovane — forse era sui trentacinque… metà degli anni di Sigmund Freud – e Sigmund Freud non aveva interesse in una persona così giovane. Lavorava da anni, i suoi colleghi erano tutti vecchi, e il suo movimento era diventato internazionale. Quindi, non riusciva più a prendere nuovi studenti e nuove responsabilità, e rifiutava. Fu così che rifiutò il suo miglior allievo.

Ma Wilhelm Reich era tedesco, testardo. Non lo si poteva rifiutare impunemente. Egli si presentò comunque a un appuntamento, sebbene fosse stato cancellato. Bussò alla porta, e Sigmund Freud, in persona, gli aprì. Si guardarono, e ci fu un attimo di silenzio.

Sigmund Freud disse: “Ma io ho annullato questo appuntamento.” E Wilhelm Reich ribatté: “Ma io no… e mi sembra ovvio che un appuntamento preveda l’incontro di due persone… quindi entrambi lo devono annullare! Per ciò che mi riguarda, io sono ancora disponibile, e ritenevo di dovermi presentare ugualmente, perché io non ho affatto annullato il nostro incontro.”

Sigmund Freud guardò di nuovo Wilhelm Reich, come se esitasse o soppesasse il da farsi… “Che fare con costui?” Gli disse: “Io sono vecchio. Lei è troppo giovane; io non sarò in grado di terminare il mio insegnamento. Ed è possibile che lei non vada d’accordo con me, perché apparteniamo a due diverse generazioni. Perché perdere tempo? Inizi da solo, lei ha la mia benedizione”.

Con le lacrime agli occhi Wilhelm Reich ringraziò Sigmund Freud e tornò a casa. Poi conobbe le energie dell’uomo, capì come funziona la mente, i livelli di coscienza… Fu un bene che venisse rifiutato, perché in questo modo, aprì una porta totalmente nuova, e continuò per il resto della sua vita a ringraziare Sigmund Freud: “Se non mi avesse rifiutato, sarei divenuto un semplice seguace. In quel momento fui ferito, ma gli sono immensamente obbligato per avermi lasciato camminare da solo. Ho dovuto partire da zero, ma ho preso una direzione del tutto differente, e ora posso capire che tutto il lavoro di Sigmund Freud consiste nell’analisi dei sogni e non ha nulla a che vedere con la realtà.” I sogni sono solo ombre. Tuttalpiù la psicoanalisi vi può dare dei sogni normali, può aiutarvi a evitare gli incubi. Ma più di questo non accade.

Wilhelm Reich iniziò a lavorare sull’energia dell’uomo. Naturalmente, se si lavora sull’energia umana, prima o poi si entra in contatto con la sorgente di tutto – cioè l’energia sessuale. Nel momento in cui egli toccò il tema dell’energia sessuale, tutte le religioni lo condannarono. Il governo fu contro di lui; gli psicologi gli si opposero, e la sua situazione divenne molto strana.

Egli era giunto a sperimentare che quando due amanti si avvicinano l’uno all’altro, se è presente l’amore, si sprigiona una forza magnetica. Se esso non è presente, si ha solo l’incontro tra due corpi, ma mai di due energie.

Reich aveva una mente scientifica. Costruì una camera dentro la quale due persone potevano fare l’amore. Egli pensava che l’energia creata dall’amore, potesse essere catturata e poi riutilizzata. Ebbene, questa è una faccenda intricata. Reich non poté dimostrare niente: la camera era vuota. Non c’era modo di materializzare l’energia biologica, tuttavia egli raccolse ogni possibile prova sperimentale. Se qualcuno soffriva di impotenza, Reich lo faceva entrare nella camera, e la sua impotenza spariva – perlomeno per alcuni giorni – come se la sua batteria si fosse ricaricata.

Era una prova indiretta, ma qualcosa era successo: nella camera era avvenuto qualcosa… la camera non era vuota. Egli diceva agli amanti: “Anche se non fate all’amore, è sufficiente che stiate sdraiati, vi stringiate teneramente, vi fondiate l’uno nell’altro.” Il suo lavoro era strano, difficile… ed era reso ancor più difficile dalla società, perché immediatamente tutti lo condannarono, lo accusarono di operare con il diavolo – proprio come dicono di me! – sostenevano che bisognasse rinunziare al sesso, mentre lui insegnava pratiche strane.

Queste pratiche mostrano il suo genio. Egli non aveva alcuna idea del tantra, non era mai stato in Oriente. Ma le pratiche che scoprì, sono vecchie di diecimila anni… Reich le riscoprì, ed esistono migliaia di testimonianze di persone guarite da lui… perché iniziò a curare altri pazienti, non solo quelli affetti da disturbi sessuali.

Poiché l’energia sessuale è energia pura, può assumere le forme più diverse: può diventare la vostra intelligenza, essa può diventare il vostro silenzio… e lui iniziò a curare la gente. La cura era semplice: si limitava a metterli in quella camera, dove rimanevano per quindici, venti minuti… e con alcune sedute, venivano guariti. Ma la scienza medica era contro di lui, dicevano: “Quest’uomo non è abilitato ad esercitare come medico.” Ecco come è cieca la legge. Quest’uomo aveva curato migliaia di persone da malattie strane, che non erano curabili dalla medicina comune, dalla medicina ufficiale, ma di ciò non si tenne conto. La questione era se lui avesse i titoli: “È abilitato ad esercitare quella professione?”

Wilhelm Reich rispose: “Io non uso la medicina. io non prescrivo nessuna cura. Tutta la medicina è in quella camera. Se la volete chiamare medicina, in tal caso le facoltà di medicina delle vostre università dovranno dimostrare quale tipo di medicina esista lì dentro. Ma quando vi dico di osservare ciò che ho scoperto, voi pensate che io sia pazzo, e quando curo la gente, dite che sono un criminale. Io non ho fatto del male a nessuno”.

Ma la scienza medica, la chiesa cristiana, il governo – tutti lo citarono in giudizio. È facile dare il via a un processo: le basi possono essere false, infondate, ma in questo modo, potete perseguitare qualcuno per anni. Egli fu denunciato dalle istituzioni più diverse… divenne tesissimo, e non c’era nessuno a sostenerlo, nemmeno i suoi colleghi. Erano tutti contro di lui, perché la loro psicoanalisi sarebbe morta se la sua camera orgonica si fosse affermata. La medicina non è pronta ad accettare chi non abbia titoli medici.

I suoi amici lo abbandonarono. E Reich cadde nella più profonda disperazione. Aveva fatto una scoperta di grande importanza per l’umanità, e ciò nonostante non riusciva a convincere nessuno. La sola cosa di cui tutti erano convinti era che fosse pazzo. La gente si limitava a ridere, a disegnare vignette umoristiche, a denunciarlo al tribunale. Alla fine, fu imprigionato, perché esercitava come medico, senza averne la qualifica.

Potete vedere l’astuzia degli uomini: egli non praticava la medicina, praticava la guarigione – questo lo si poteva affermare; ma non si poteva dire che praticasse la medicina. Egli non faceva del male a nessuno, ed era pronto a collaborare con qualsiasi ricercatore. Era disponibile a parlare con tutti della sua scoperta, nei minimi dettagli. Ma le sue scoperte andavano contro il mondo cristiano; le sue scoperte andavano contro la cosiddetta moralità. Le sue scoperte andavano contro la vostra intera struttura sociale, la struttura dell’istruzione, la struttura politica.

Reich è stato uno dei più grandi rivoluzionari di tutti i tempi, ed è rimasto sconosciuto, nessuno ne ha rispetto, nessuno lo ricorda. E in carcere devono averlo torturato in modo terribile.

Non era un uomo che potesse crollare facilmente, era una persona davvero integra, e la gente che lo conobbe, testimonia che fosse raro trovare persone come lui, così forti, profondamente radicate nell’esistenza, con un ottimo “grounding”. Tuttavia, in carcere impazzì. Io sospetto che lo abbiano fatto impazzire. È molto facile portare qualcuno alla follia, quando tutto il potere è nelle vostre mani, e l’altra persona è assolutamente inerme. Quando impazzì… questo è il mondo: quando era all’apice della sua fama, aveva amici, colleghi e una donna bellissima che lo amava. Ma quando uscì di prigione, la donna chiese il divorzio, gli amici sparirono, e i colleghi dissero chiaramente di non volere avere a che fare con lui, perché era sufficiente per creare sospetti. È triste che sia morto, ma voglio aggiungere che fu costretto a morire. Se boicottate una persona al punto di renderla un’isola nel grande oceano dell’umanità: create distanze, la isolate, le impedite di comunicare con tutti; e se tutti pensano che sia matta… è naturale che la sua voglia di vivere svanisca. Reich si chiuse in se stesso e morì.

Ed è strano che, dopo la sua morte, il suo lavoro sia rimasto al punto in cui lo ha lasciato. Ha in sé un immenso potenziale. Deve essere portato avanti, e lo si deve portare avanti, insieme al tantra.

Io definisco Wilhelm Reich un moderno maestro di tantra, anche se non ne era consapevole. Forse, nelle sue vite passate, aveva conosciuto i segreti del tantra — perché il suo lavoro conteneva tutti quei segreti. Non ci crederete, ma in India in un’epoca lontana, duemila anni fa, vivevano duecentomila seguaci di un particolare gruppo tantrico. Essi vivevano nudi. Le coppie usavano un’unica gonna, una semplice gonna, molto larga, che li avvolgeva; era fatta di una seta speciale che impediva il passaggio, sia verso l’interno che verso l’esterno, di qualsiasi tipo di energia. Essi andavano a pregare o a fare qualsiasi altra cosa… ma rimanevano sempre insieme, nudi, avvolti nella loro gonna.

In questo modo, tentavano un esperimento di grande interesse per l’umanità, che consiste nel fondere e mescolare la bioelettricità femminile e quella maschile. Infatti, il semplice incontro di questa bioelettricità, può aiutarvi ad andare in profonda meditazione senza molto sforzo, per contrastare i vostri pensieri.

Essi formavano centomila coppie e Raja Bhoj, che a quel tempo era il re del paese, era su tutte le furie: “Tutto questo distruggerà la nostra moralità, corromperà i nostri figli. I bambini li vedranno e chiederanno: ‘che razza di gente è mai questa? Vivono nudi, nella stessa gonna!’ Questa gente corromperà irrimediabilmente la nostra religione e la nostra tradizione.” Bhoj decise di ucciderli tutti. Centomila coppie – e questo significa duecentomila persone – furono uccise in tutto il paese, furono bruciate vive. Non una sola coppia fu lasciata vivere; i loro libri furono bruciati, i loro templi furono dati alle fiamme. non è mai accaduto, prima o dopo di allora, che una tradizione fosse distrutta così brutalmente, in modo così inumano.

Tuttavia, quando si solleva l’argomento “sesso”, subito si disturba quanti hanno il potere, perché nessuno di coloro che detiene il potere vuole che la gente viva la propria sessualità nella sua totalità. Essi vogliono che viviate la vostra sessualità al minimo, perché se vivete al minimo delle vostre potenzialità, potete essere mantenuti in schiavitù. Se vivete al massimo di voi stessi, siete potentissimi, siete intelligenza allo stato puro… siete simili a rocce, e nessuno può distruggervi. Chiunque provi a distruggervi, viene distrutto.

Wilhelm Reich verrà rivalutato, perché ciò che faceva era assolutamente scientifico. Nessuna cristianità può impedirlo, nessun governo può impedirlo. E forse…

Moltissimi dei miei sannyasin conoscono la psicologia, la psicoanalisi, la psicologia analitica, e diverse altre scuole… forse alcuni dei miei sannyasin inizieranno a lavorare su Wilhelm Reich.Egli è dei nostri.

Io gli conferisco il sannyas alla memoria.

Tratto da: “Sermon in Stones”, settima sessione, 6 Dicembre 1986

Principi della tecnica psicanalitica del suo tempo

Principi della tecnica psicanalitica del suo tempo

I principi della tecnica analitica derivavano dalle concezioni teoriche di Freud. Le concezioni teoriche freudiane erano:

  • Ogni nevrosi nasce dal conflitto fra bisogni pulsionali rimossi e forme di difesa dell’Io.
    Principio tecnico derivato:
    Si deve eliminare la rimozione, ossia rendere conscio ciò che è inconscio. In conclusione bisogna interpretare l’inconscio.
  • L’Io ha eretto contro-investimenti per impedire il riaffiorare degli impulsi rimossi agendo con una severa censura contro pensieri e desideri (es. vergogna).
    Principio tecnico derivato:
    eliminare la censura attraverso il metodo delle libere associazioni, ossia seguire la regola fondamentale che esige l’eliminazione della censura.
  • Gli sforzi del paziente a rispettare la regola fondamentale tendono costantemente a fallire a causa della forza dei contro-investimenti. Tali forze sono chiamate resistenze.
    Principio tecnico derivato:
    non si deve rendere conscio l’inconscio in modo diretto ma attraverso lo scioglimento delle resistenze.
  • I desideri e i timori rimossi cercano continuamente di scaricarsi e di ricollegarsi al reale, cioè si tende alla soddisfazione libidinosa. Si può attendere che il paziente utilizzi a tal fine la situazione analitica, ciò determina il transfert.
    Il transfert è l’instaurarsi di un rapporto con l’analista determinato dalle emozioni e dai sentimenti rimossi, ripetendo con ciò i trascorsi infantili. Ma il paziente tende a sostituire alla interpretazione il soddisfacimento, oppure oppone resistenza a riconoscere i suoi atteggiamenti e comportamenti.
    Il transfert diviene esso stesso resistenza.
    Principio tecnico derivato:
    l’analisi del transfert e il suo scioglimento costituiscono uno dei lavori analitici fondamentali e si attua con lo scioglimento delle resistenze transferenziali.

Quelli indicati sono i principi tecnici fondamentali adoperati a quel tempo. Nel Seminario sulla Tecnica diretto da Reich dal 1924 al 1930 emersero notevoli problemi a riguardo della tecnica analitica di allora.

  • Mancanza assoluta di sistematicità nella presentazione dei casi e nel lavoro di ricerca.
  • Gravi insufficienze nelle indicazioni tecniche da seguire.
  • Situazioni analitiche grottesche in cui non si sapeva più cosa fare perché il paziente resisteva.
  • Situazione caotica molto diffusa. Ossia si aveva una grande produzione di materiale in ogni direzione ma senza alcun filo logico di riferimento.
  • L’attendere terapeutico era più dovuto all’incapacità di fare altro che ad una autentica strategia terapeutica.
  • La passività del terapeuta era spesso esasperata da analisti convinti che si dovesse solo tacere.
  • Le resistenze erano affrontate con incoraggiamenti o rimproveri assolutamente inutili e il non produrre risultati faceva affermare che il paziente aveva delle resistenze insormontabili invece di affrontare il proprio fallimento.

Le resistenze erano spesso aggirate perché considerate di intralcio al lavoro analitico. Classificazione dei problemi fatta da Reich nel seminario tecnico I problemi possono essere raggruppati sotto l’aspetto:

  • TOPICO (topografico)
    DINAMICO
    ECONOMICO
  • Sotto l’aspetto topico ci si riconduce al momento dell’interpretazione, ossia:
    quando interpretare
    che cosa interpretare
  • Sotto l’aspetto dinamico ci si riconduce al problema della struttura da analizzare.
    l’interpretazione deve seguire la strutturazione della nevrosi consentendo, quindi, di interpretare ciò che è carico di affetti, cioè di contenuto emotivo infantile, a vantaggio di ciò che è ancora separato dai rispettivi affetti.

Sotto l’aspetto economico ci si riconduce alla quantità e non solo alla qualità e quindi al problema della fonte energetica e delle cariche energetiche stesse della nevrosi. Ciò comporta la ricerca degli impedimenti alla piena soddisfazione, cioè, dei freni alla libera scarica energetica sessuale.

Proposte di Reich sui problemi della tecnica analitica

 

INTERPRETAZIONE

  • Una buona impostazione del periodo di introduzione dell’analisi. Il paziente non deve essere disturbato nello sviluppo della sua personalità analitica. Le insicurezze dell’analista in questa fase portano a interpretazioni premature.
  • Evitare sempre e comunque interpretazioni premature, ossia molto profonde ma non ancora agganciate ai corrispondenti affetti rimossi.
  • Evitare le interpretazioni asistematiche. Ossia che non seguono il filo logico della profondità e struttura nevrotica del paziente.
  • Evitare ogni interpretazione del contenuto prima di aver eliminato la resistenza che si oppone al suo affiorare.
  • Evitare ogni interpretazione incoerente. Ossia fatta in presenza di transfert negativo che molto spesso si presenta in forma latente.

Riassumendo, è necessario far comprendere al paziente:

  • Che si difende da qualcosa
  • Come si difende e i mezzi che usa, cioè le sue resistenze
  • Infine contro cosa si difende

TRANSFERT
I compiti tecnici riguardanti il transfert enunciati da Freud erano i seguenti:

  • Creazione di un efficace transfert positivo.
  • Utilizzo del transfert positivo per il superamento delle resistenze.
  • Utilizzo del tranfert positivo per far riaffiorare il rimosso ma allo scopo di provocare esplosioni affettive catartiche e abreative.

Reich aggiunge a queste regole ritenute valide alcune considerazioni:

  • Nessun paziente all’inizio può produrre un autentico transfert positivo. Per autentico s’intende una tendenza erotica oggettuale non ambivalente atta a costituire la base di un rapporto intenso con l’analista.
    Ciò non è possibile all’inizio del trattamento a causa di:

    • rimozione sessuale
    • disgregazione degli impulsi libidici oggettuali
    • blocco caratteriale affettivo
  • Il transfert che all’inizio appare positivo generalmente è:
    • transfert positivo reattivo
      cioè è trasformato in amore ciò che invece è odio. Il transfert è negativo latente.
    • transfert di sottomissione
      che nasce dal senso di colpa e da masochismo morale dentro il quale c’è odio rimosso.
    • transfert di desideri narcisistici
      cioè speranza narcisistica che l’analista possa amare, consolare, ammirare.

Tutto ciò che è difesa dell’Io, se è ben elaborato si trasforma presto in transfert negativo palese. Se, invece, non è ben elaborato si trasformerà in una profonda reazione di delusione che trasformandosi in resistenze può far fallire completamente l’analisi.

 

RESISTENZE
Per Reich è innanzitutto fondamentale chiarire che cosa sono, in pratica, le resistenze e che cosa sia il materiale analitico. La Psicanalisi, allora, indicava le cosiddette resistenze palesi, ossia silenzi, ritardi, ostinazioni ecc. Per Reich esistono, e sono anche più importanti molte resistenze latenti, più difficili da riconoscere e camuffate.Per esempio:

  • Eccessiva obbedienza
  • Eccessiva cortesia
  • Totale mancanza di resistenze palesi
  • Eccessiva produzione di ricordi e di materiale inconscio
  • Usare come resistenza le conoscenze acquisite con l’analisi stessa

Ma cos’è il materiale inconscio?
Per la Psicanalisi è riferito a sogni, associazioni, passi falsi, lapsus ecc. Reich aggiunge a tutto ciò l’accento sul comportamento, che può essere inoltre espressione di gravi resistenze latenti.Per Reich, quindi, anche il comportamento diviene materiale analitico. In definitiva, tutti gli elementi formali come:

  • Comportamento
  • Educazione, cortesia
  • Modo di esprimersi
  • Gesticolare, modo di sedersi, strette di mano
  • Lo sguardo
  • Il linguaggio
  • Parole volgari, parole e frasi troppo serie, filosofeggiare, sfoggiare conoscenze analitiche
  • La mimica
  • Sorrisi, pianto camuffato, accigliamento costante ecc.
  • L’abbigliamento

Diviene tutto materiale analitico.Vediamo ora, come un’eccessiva produzione di materiale può essere, in effetti, una manifestazione di resistenza. Dalla prima resistenza transferenziale si sviluppa tutta una stratificazione di resistenze, che è l’esatta riproduzione della stratificazione caratteriale della nevrosi. L’interpretazione di strati profondi può confondere il processo e interferire nella copia della nevrosi che si srotola nel transfert.Allora il materiale più profondo può essere immolato per salvaguardare qualcosa di più superficiale ma carico d’affetto.Per Reich l’analisi delle resistenze deve essere fatta con coerenza. Se, quindi, il paziente in vari modi fugge da una resistenza, deve essere sempre riportato là da dove è fuggito.Reich definisce barriera narcisistica l’insieme delle resistenze opposte all’analisi. Ad esse si può opporre una educazione all’analisi con interventi attivo-suggestivi o il metodo analitico-caratteriale.

IL METODO ANALITICO CARATTERIALE
Consiste nell’interpretare analiticamente le resistenze nel loro significato attuale. Quindi, per Reich, è necessaria prima l’analisi delle resistenze in chiave attuale. Ad esempio molti pazienti raccontano episodi drammatici della loro vita senza accorgersi che li raccontano sorridendo.In ogni paziente poi, esistono delle resistenze specifiche che non si distinguono per il loro contenuto, ma per il modo specifico di agire e di reagire. Tali resistenze Reich le chiama resistenze caratteriali.Esse sono diverse a parità di contenuto a seconda del carattere del paziente e hanno la loro origine nelle esperienze infantili, esattamente come i sintomi e le fantasie, quindi esprimono le cause della nevrosi.La Psicoanalisi freudiana suddivide le nevrosi in:

  • Nevrosi sintomatiche con prevalenza di sintomi
  • Nevrosi del carattere senza sviluppo di sintomi

Per Reich tale suddivisione non ha senso perché le nevrosi sintomatiche possono svilupparsi solo su una base caratteriale nevrotica. Tuttavia esistono differenze fra sintomo e carattere, e sono:

IL SINTOMO

  • È quasi sempre cosciente e percepito come estraneo e disturbante
  • Non presenta razionalizzazioni complete e credibili (giustificazioni)
  • Appare privo di significato (vomito isterico, paralisi isterica, coazione a contare, ecc)
  • E’ determinato da un numero limitato di atteggiamenti inconsci
  • Può apparire improvvisamente.

IL TRATTO CARATTERIALE

  • Non è quasi mai consapevole ed è inserito organicamente nella personalità del paziente
  • È sufficientemente motivato sul piano razionale
  • Appare meno patologico e giustamente motivato
  • Appare composto da molteplici atteggiamenti inconsci concatenati e stratificati fra loro
  • Non appare mai all’improvviso ma ha bisogno di un lungo numero di anni per formarsi.

La stratificazione e il concatenamento di tratti caratteriali formano in definitiva una armatura caratteriale che è l’espressione della difesa narcisistica dell’Io. Essa si estrinseca soprattutto nella resistenza caratteriale di cui abbiamo parlato prima che si esprime come un fattore costante di natura formale a prescindere dai contenuti che nasconde. Essa dipende infatti dal carattere.L’armatura caratteriale ha una funzione molteplice, per esempio da un punto di vista economico, ha il compito di proteggere dagli stimoli interni ed esterni.Nelle compensazioni nevrotiche e nelle formazioni reattive delle resistenze caratteriali viene consumata energia libidinosa e sadica. Quindi viene legata l’angoscia.Per Reich ogni resistenza ha due facce: la difesa dell’Io e la difesa dall’impulso rimosso. L’analisi del carattere, all’inizio, si interessa sempre della difesa dell’Io con l’obiettivo per il paziente di coscientizzare la difesa, evidenziarne i modi e come ultimo passo scoprire da cosa si difende. Questo modo di procedere produce i seguenti vantaggi:

  • Evidenzia il transfert negativo
  • Oggettivizza il carattere sino a farlo percepire come un sintomo
  • Con lo scuotimento del meccanismo narcisistico di protezione, si libera angoscia libidica che può essere utilizzata per completare la crescita genitale dell’individuo.

Per ottenere una valida elaborazione della difesa e della resistenza, essa non va aggirata ma pienamente sviluppata in modo che nella situazione transferenziale ci sia l’aggancio dinamico degli affetti che consente il passaggio dall’attuale all’infantile.In definitiva l’analisi caratteriale pensa prima al come e poi al che cosa.

 

La formazione del carattere
Freud scopre per primo che alcuni tratti caratteriali sono modificazioni ed evoluzioni di tendenze pulsionali primitive, per esempio l’avarizia, è derivata da forze pulsionali erotiche anali.Per Reich il carattere inizia come una forma precisa di superamento del complesso di Edipo. La catena con cui si forma il carattere è la seguente:

  • impulsi e desideri infantili minacciati sono rimossi per paura della punizione.
  • la rimozione causa un ingorgo della libido, cioè un accumulo di energia che non trova la via per scaricarsi.
  • l’ingorgo minaccia la rimozione col rischio di esplosione della pulsione rimossa. Ciò comporta una prima alterazione dell’Io, come per esempio la nascita di atteggiamenti apprensivi che generano angoscia e sono la base delle fobie infantili.
  • Per mantenere la rimozione è necessaria un’alterazione dell’Io e, cioè, l’Io si deve indurire e le rimozioni cementare. In altre parole la difesa deve acquisire un carattere automatico,cronicamente attivo.
  • l’angoscia che si sviluppa, comporta parallelamente lo sviluppo di un meccanismo protettivo contro di essa.

L’indurimento libidico necessario alla formazione del carattere, avviene nelle seguenti fasi:

  • L’Io si identifica con la realtà frustrante, ossia con la persona frustrante.
  • L’Io ritorce contro se stesso l’aggressività mobilitata contro la persona frustrante, quell’aggressività che aveva prodotto l’angoscia.
    (ANGOSCIA = ODIO RIMOSSO-DUE FACCE DELLA STESSA MONETA).
  • L’Io sviluppa atteggiamenti reattivi contro le pulsioni sessuali, impiegando,ora, l’energia degli impulsi stessi per difendersi da essi.
    (es: preti contro il sesso).

L’armatura e la corazzatura dell’Io, quindi, avviene per paura della punizione, a spese dell’energia dell’ES e i suoi contenuti sono rappresentati dai divieti e dai modelli degli educatori frustranti.

Differenze tra i caratteri
Mentre il carattere genitale, (ossia sano), è in sostanza unico, i caratteri nevrotici cambiano in funzione dei differenti fattori che influenzano e deviano il naturale sviluppo di crescita.I fattori influenti sono:

  • Momento di sviluppo della pulsione quando viene frustrata. (inizio, intermedio, finale).
  • Quantità e intensità della frustrazione.
  • Quali pulsioni vengono frustrate.
  • Rapporto tra frustrazioni e concessioni.
  • Sesso della persona principalmente frustrante.
  • Contraddizione fra le stesse frustrazioni.

Ogni frustrazione provoca un ritiro della libido dell’Io, cioè, un rafforzamento del narcisismo secondario.
Ma poichè la persona frustrante è anche amata, si sviluppa un atteggiamento ambivalente che porta all’identificazione.
Il bambino assorbe, allora, i tratti caratteriali della persona frustrante e usa quei tratti rivolgendoli contro la sua pulsione (madre e padre introiettati).Diverso sarà poi il risultato a seconda del momento in cui la pulsione viene frustrata: all’inizio o all’apice del suo sviluppo.
Una pulsione frustrata all’inizio non è più disponibile (rimossa) e ne resta danneggiata l’attività complessiva.
Una pulsione frustrata all’apice invece, non può più essere rimossa ma solo danneggiata.Da un punto di vista dinamico infine, il carattere ha tre funzioni sostanziali:

  • evita l’angoscia di fronte alla realtà.
  • lega l’angoscia da stasi.
  • E’ all’insegna del principio del piacere, infatti serve al soddisfacimento dissimulato delle pulsioni.

Naturalmente il soddisfacimento è indiretto e parziale perchè deriva esclusivamente dalla diminuzione della spinta della pulsione, così come avviene con il sintomo.In conclusione il carattere viene determinato:

  • qualitativamente dal grado di sviluppo della libido, cioè, dal punto specifico di fissazione libidica e
    conseguentemente dalla quantità di energia della libido fissata.

Da ciò ne deriva una distinzione specifica di tipi caratteriali che possono così essere individuati:

  • CARATTERI DEPRESSIVI (Orali)
  • CARATTERI MASOCHISTI (Anali)
  • CARATTERI GENITALI NARCISISTICI(Fallici)
  • CARATTERI GENITALI INCESTUOSI (Isterici)
  • CARATTERI COATTI

Tali suddivisioni, tuttavia, le vedremo meglio parlando dell’energia e dei livelli energetici del corpo.

I tipi caratteriali
Descriverò qui alcuni tipi caratteriali facendo riferimento a Reich, Lowen, Baker. Per ogni tipo farò un’unica descrizione, ma questa sarà in realtà una sintesi dei contributi di questi autori, e di altri ancora, così che possiate avere una visione generale dei vari caratteri.

IL CARATTERE ORALE-DEPRESSIVO
Due precisazioni importanti: il tratto orale non è un esclusiva di questa tipologia di carattere, infatti, ogni tipo di carattere nasconde un tratto orale più o meno marcato. Reich, non ha mai descritto un carattere orale.I tratti fondamentali del carattere orale, ossia, del blocco depressivo del II° livello, la bocca, sono:

Il fisico alto, sottile, pallido, in generale, un aspetto privo d’energia
Il cibo non lo interessa, non ha sapore, ha scarsa importanza
E’ quieto, laconico, voce bassa tendente all’esile
A volte è caustico e mordace nelle espressioni, ma generalmente incapace di andare fortemente in collera
Mostra risentimento, ha poco da dire e si ritira facilmente nel suo guscio
Ha un continuo bisogno di essere lodato, incoraggiato e sostenuto
E’ incapace di sostenere sforzi prolungati, crede spesso che il mondo lo tratti male perché non vede la propria incapacità
Non riesce a far molto ma spesso ha idee grandiose e fantasmatiche
Ha una bassa opinione di sé
Presenta ostinazione e resistenza ma passiva e immobile
Contrae spesso debiti che non riesce a pagare
Non trova facilmente lavoro
È un tratto tipico dell’alcolista o di chi consuma droghe, soprattutto quelle pesanti.
Anche il semplice fumatore di sigarette nasconde un tratto orale depressivo.

IL CARATTERE COATTO

Fisicamente non è atletico come l’isterico, non è sciatto come l’orale, non è pesante come il masochista, non è bello come il fallico – narcisista. Il coatto è scialbo e imbranato. I tratti fondamentali del coatto sono:

E’ pignolo e ordinato. Cambiamenti nell’ordine prestabilito gli causano angoscia e disagio
Rimugina continuamente e in modo circostanziato. È attento allo stesso modo a cose importanti e a cose secondarie
Ha poca elasticità di pensiero e molta logica astratta. In lui è molto più sviluppata la componente critica rispetto a quella creativa
È parsimonioso, più spesso avaro
Tende a collezionare cose
E’ irresoluto e dubbioso, ha un pronunciato contegno e un forte autocontrollo
Un tratto importante è che quando ama o quando odia è molto tiepido perché ha un blocco affettivo assai marcato
Ha una scissione tra affetto e rappresentazione (può parlare di un esperienza incestuosa senza problemi apparenti)
Ha una forte contrattura dell’Io e del corpo che lo fa apparire goffo

IL CARATTERE FALLICO – NARCISISTA

Fisicamente si presenta spesso alto, bello, vincente, ben piantato atleticamente. I tratti fondamentali di questo carattere sono:

Sicuro di sè, a volte arrogante e vigoroso
Atletico
L’espressione facciale rivela durezza, i lineamenti sono mascolini, ma si riscontrano anche fattezze femminili un po’ nascoste
Il suo comportamento non è mai strsciante, al contrario ostenta aria di superiorità. E’ freddo e riservato ma a volte anche beffardo e aggressivo
Tende a conquistare posizioni di comando e mal sopporta posizioni subalterne, a meno di potersi rivalere su dei sottoposto (per es. nell’esercito)
Toccato nella sua vanità reagisce con fredda riservatezza, profondo risentimento o con vivace aggressività
Gli uomini fallico-narcisisti hanno una potenza erettiva molto sviluppata, ma in loro è invece molto compromessa la potenza orgastica
Ha rapporti con le donne molto disturbati dalla poca considerazione che ha per loro, il fallo è usato in modo vendicativo
È una persona molto ricercata per la sua apparenza
La donna fallico-narcisista è anch’essa bella nell’apparenza,donna in carriera, è molto efficiente e ha successo. Anche in lei le capacità sessuali sono sviluppate mentre è carente la potenza orgastica.

Esempi di fallico-narcisisti sono Napoleone, Mussolini, Stalin. (Berlusconi)!!
IL CARATTERE ISTERICO

Fu il primo disturbo emotivo nel quale si riconobbe una connotazione sessuale. Molto frequente nel Medioevo e in altre epoche storiche. Rispetto all’Isteria di Freud oggi sono mutate molto le sintomatologie. Differenze sostanziali vi sono tra ciò che la psicoanalisi considera Isteria e come la considerano i reichiani. Per i reichiani è l’anticamera della genitalità. I tratti fondamentali di questo carattere sono:

Atteggiamento sessuale invadente
Agilità corporea con spiccate sfumature sessuali
Per le donne: civetteria nel modo di camminare
Per gli uomini: mollezza, esagerata gentilezza, espressione facciale e modi di fare femminili
Quando la meta sessuale si avvicina, l’isterico inevitabilmente si ritrae, oppure assume un atteggiamento passivo e apprensivo; tipico dell’isterico è mostrarsi tanto violento prima, quanto passivo dopo, al momento opportuno
Non è mai altezzoso, duro o presuntuoso; i suoi movimenti sono morbidi e flessuosi, ondeggianti (non elastici) e sessualmente provocatori
E’ incostante, con svolte improvvise nel comportamento e molto suggestionabile
Tende ad avere forti reazioni di delusione
E’ estremamente angosciato e apprensivo, soprattutto in chiave sessuale
L’isterico genitalizza tutto, non sostituisce la genitalità con meccanismi pregenitali; anche dove vi fossero tendenze pregenitali hanno sempre un legame con la genitalità e sono sempre forme rappresentative della genitalità. In altre parole: mentre in altre nevrosi le parti genitali sono rappresentazioni di fissazioni pregenitali, (orali, anali, falliche), nell’isterico esse sono sempre anche genitali
E’ sovraccarico di energia sessuale non elaborata, ossia la sua armatura è molto mobile, a rete, continuamente sfuggente, leggera, instabile
Il suo comportamento serve a tastare continuamente il terreno per scongiurare i pericoli
Il carattere isterico non conosce mai il significato sessuale del suo comportamento. Rifiuta di riconoscerlo, in breve, la sua sessualità non è un moto sessuale, ma esclusivamente la difesa dal sesso
Scarica parte della sua angoscia in innervazioni somatiche, quindi presenta spesso una svariata tipologia di sintomi più o meno strani. I sintomi si presentano quando un eccesso d’energia non può essere trattenuto nella corazza.

IL CARATTERE MASOCHISTA

Il masochista percepisce come piacere ciò che dall’individuo normale viene percepito come dispiacere.Freud aveva scoperto che sadismo e masochismo formavano una coppia antitetica. Poi, aveva scoperto che esisteva il sadismo orale, anale, fallico che si esprimeva come mordere, calpestare, perforare. Il sadismo, quindi, nasceva come reazione distruttiva contro la frustrazione della pulsione.In questa concezione il masochismo è una formazione secondaria che consiste nel volgere contro se stesso la distruttività sadica. Ma Freud, abbandona poi tutto questo ribaltando la sua prima concettualizzazione teorica e affermando l’esistenza di una tendenza biologica primaria all’autodistruzione, ossia la pulsione di morte (thanatos) antagonista dell’eros.Reich, quindi, con lo studio e le ricerche sul carattere masochista, trova una risposta diversa, che confuta la teoria della pulsione di morte. Non esiste una pulsione primaria autodistruttiva, ma anche il masochista segue, anche se in modo apparentemente distruttivo, e quindi incomprensibile, il principio del piacere.Infatti il masochista non prova attraverso le percosse un dispiacere, cioè ad es. non si sente umiliato, ma prova il piacere della distensione che, per paura, può provare solo in quelle forme.Descriviamo un poco i tratti salienti del carattere masochista:

Una sensazione soggettiva, cronica di sofferenza
Tendenza a lamentarsi
Tendenza cronica all’autolesionismo
Tendenza cronica all’auto- umiliazione
Intensa mania di tormentare gli altri, provocazioni infantili continue per farli esplodere, cosa che produce poi la distensione
Comportamenti maldestri, senza tatto ecc.
Percezione non piacevole dell’aumento dell’eccitazione sessule, come base caratteriale specifica del masochista
Atteggiamento spastico molto accentuato, sia psichico che genitale. Inibisce immediatamente e continuamente ogni sensazione seppure accennata di piacere, trasformandola in dispiacere
La sensazione di sciogliersi è vissuta dal masochista come l’arrivo di una catastrfe punitiva; l’essere picchiato, quindi, diventa lo strumento della distensione agognata, che è vietato raggiungere con altri mezzi, egli, in tal modo, si discolpa dell’accaduto, cioè la distensione sessuale, di cui è invece colpevole la persona punitrice.

L’analisi del carattere masochista, quindi, confuta la pulsione di morte di Freud. Non esiste una pulsione primaria autodistruttiva, ma il masochismo è una risposta a una grave frustrazione primaria della pulsione sessuale verso il piacere.

L’energia e i sette livelli

 

 

 

Parliamo un poco dell’energia:

L’energia è una forza immateriale che pervade tutto l’Universo.
L’energia universale è chiamata da Reich orgone ed è presente in ogni dove e in ogni cosa a differenti livelli di densità. Anche gli esseri viventi ne sono permeati e in tal caso l’energia assume il nome di energia biologica, non sostanzialmente differente, però, da quella cosmica.

Il punto di partenza per Reich è rappresentato dall’energia sessuale, già osservata da Freud con la teoria delle pulsioni, che gli permise di scoprire la pulsazione biologica e conseguentemente la pulsazione cosmica universaleL’energia biologica è presente in ogni cellula e in ogni parte del corpo, e, secondo Reich, i liquidi corporei sono il veicolo che le consente di muoversi. (Secondo Antonio Mazzetti, l’energia non ha bisogno di liquidi per muoversi. Si muove anche nel vuoto).I movimenti dell’energia producono dei flussi direzionali nel corpo e sono soprattutto questi a determinare la pulsazione biologica attraverso i flussi centripeti e i flussi centrifughi.L’energia biologica nel suo spostamento può essere ostacolata, deviata, rallentata, rarefatta o accumulata da opposizioni prodotte dal corpo stesso, ossia dalle tensioni croniche dei muscoli, ovvero, da blocchi della corazza muscolare.Reich scoprì, attraverso l’esperienza clinica, che l’allentamento dei rigidi atteggiamenti muscolari, provoca strane sensazioni somatiche come tremiti involontari, pruriti, formicolii, sensazioni di calore o freddo intensi, brividi ed infine ira, angoscia, paura e piacere.Egli scoprì che tali sensazioni non sono conseguenze, cause o fenomeni concomitanti di processi psichici, ma semplicemente quegli stessi processi psichici nell’ambito somatico. Pose così le basi per il concetto di identità funzionale tra psiche e soma, ormai ampiamente accettato sia dai medici, sia dagli psicologi, anche se in misura assai limitata negli effetti.Ricordiamo ancora che, per Reich l’energia è veicolata dal sangue e dal plasma, ossia dai liquidi corporei che rappresentano ben l’80% del corpo. Tuttavia, movimento di liquidi non significa che si muova sicuramente l’energia. Infatti, vi sono casi d’erezione senza alcun piacere, il che dimostra che il sangue affluisce, ma non c’è sufficiente afflusso energetico.L’energia, quindi, e il suo movimento, sono legati all’eccitazione emozionale. Per Reich, quindi:
Movimento energetico = emozioni = identità funzionale.
I blocchi quindi tendono a frenare le emozioni.I blocchi non seguono nel loro formarsi le divisioni dell’anatomia del corpo, ma si dispongono secondo i livelli funzionali dei vari apparati e organi fisici. Reich parla dei blocchi in chiave iperenergetica e ipoenergetica rapportandoli a sette livelli funzionali del corpo. Il fluire energetico del corpo è verticale, sia in ascesa, sia in discesa, mentre i blocchi che vi si oppongono si strutturano orizzontalmente sui sette livelli.I sette livelli, che richiamano alla memoria i sette chakra della filosofia orientale, sono i seguenti tenendo presente che quando si parla di un livello, si includono anche tutti gli organi interni ed esterni del tratto indicato dal livello:

1°. LIVELLO
Occhi, orecchie, fronte, sopracciglia e naso. Quindi l’attività del vedere, annusare, ascoltare.
2°. LIVELLO
Bocca, labbra, lingua, palato, denti, gengive, ecc. I masseteri (la muscolatura della bocca), conseguentemente anche l’attività del mangiare, la balbuzie ecc.
3°. LIVELLO
Collo, gola, epiglottide, tiroide, tonsille. Attività del deglutire.
4°. LIVELLO
Torace, polmoni, cuore, timo, spalle, braccia.
5°. LIVELLO
Diaframma, essenziale per la respirazione e per tutti gli organi ad esso relativi: fegato, stomaco, duodeno, pancreas, milza.
6°. LIVELLO
Addome, con intestino e reni.
7°. LIVELLO
Bacino, gambe, organi sessuali (maschili e femminili), l’ano, la vescica ecc.

Ad ogni livello la vegetoterapia e Reich fanno corrispondere:

Un ben preciso periodo di formazione del blocco relativo al periodo di sviluppo della funzione intaccata.
Un ben definito quadro clinico di riferimento.

Determinati actings con l’obiettivo di sciogliere i blocchi per ristrutturare la funzione danneggiata e per far circolare meglio l’energia.

I sette livelli del corpo

 

 

 

Nelle sue ricerche sulla corazza dell’organismo, Wilhelm Reich descrive una distribuzione delle tensioni muscolari secondo zone formate da segmenti orizzontali, sette segmenti o livelli.I sette livelli (gli occhi, la bocca, il collo, il torace, il diaframma, l’addome, il bacino), sono collegati, articolati tra loro in maniera non anatomica ma funzionale.Inoltre i livelli non sono dei divisori, ma come dice Reich, dei punti di riferimento, stadi funzionali “di un sistema vivente unitario la cui funzione plasmatica è ostacolata dagli anelli perpendicolari (i livelli) di una corazza”.Le disfunzioni a questi livelli, cioè i blocchi, compromettono quindi il funzionamento dell’organismo nel suo insieme. Un blocco, in ultima analisi, è la soluzione che l’individuo ha trovato per rimuovere una situazione di conflitto. Poiché certi conflitti producono angoscia non sopportabile, noi evitiamo di sentirla creando un blocco, una stasi energetica che corrisponde a quella situazione conflittuale.Il lavoro terapeutico con i sette livelli scoperti da Wilhelm Reich, fu in seguito sistematizzato da Federico Navarro con Ola Rakness, discepolo e amico personale di Wilhelm Reich, quindi tale lavoro è in linea diretta con quello di Reich.

 

Gli occhi

Il blocco anorgonotico dell’occhio
Il blocco iperorgonotico dell’occhio
Epilessia, cefalea ed emicrania
I disturbi classici della vista

Gli occhi, le orecchie e il naso
Gli occhi.

L’occhio, l’orecchio e il naso appartengono al primo dei sette livelli reichiani, sede di tre sensi: vista, udito e odorato.Lo stadio oculare, scrive Reich, è il primo a svilupparsi nel bambino e quando si verifica un trauma in questa fase ciò può compromettere la visione binoculare. La visione binoculare è necessaria allo sviluppo della prospettiva tridimensionale: l’indispensabile premessa di un pieno contatto con la realtà.Per questo livello, come per gli altri, Federico Navarro distingue tra blocco anorgonotico e iperorgonotico.
Blocco anorgonotico dell’occhio (carenza di energia)

Il blocco anorgonotico è presente nella psicosi. Federico, si rifà qui agli studi di Reich sulla schizofrenia e sui suoi rapporti con il blocco oculare. Reich sosteneva che la psicosi si struttura nei primi giorni di vita, Federico la fa risalire alla vita intrauterina e alla scarsa e limitata circolazione energetica del periodo embrionario e/o fetale.Un blocco “parziale” crea invece un nucleo psicotico, ovvero un terreno in cui nel corso della vita di un individuo può esplodere una psicosi.I fattori scatenanti sono gli stress di particolari fasi di cambiamento (vedi: pubertà, servizio militare, maternità ecc).Il nucleo corrisponde ad una “personalità psicotica” di tipo reattivo, il soggetto non è attivo e creativo, ma reagisce agli stimoli che vengono interpretati in modo esagerato e soggettivo.Stiamo parlando di un uso massiccio della proiezione fino al delirio. Sono individui che si ritirano facilmente nel sonno e nell’isolamento affettivo.Dopo i primi 10 giorni di vita, quindi nel periodo neonatale, secondo Federico, il nucleo psicotico crea la struttura borderline.Ma cosa succede quando il blocco del 1º livello è anorgonotico?
Avviene un ritiro che, dal livello oculare è possibile solo in direzione della base del cervello causando poi i disturbi della coscienza, dissociazione, disorganizzazione, spersonalizzazione e mancanza di contatto.Questo primo livello dovrebbe fin dalla nascita avere un funzionamento unitario perchè la funzione visiva è intimamente legata all’udito e all’olfatto In piú dovrebbe integrarsi con il 2º livello: la bocca, e quando ciò non avviene si crea la prima frattura tra il “pensare” e il “parlare”.Ciò è caratteristico dei malati psicosomatici, essi infatti, non sanno “verbalizzare” le loro emozioni.
Mac Lean sostiene che in entrambi i casi, nella psicosi e nelle malattie psicosomatiche (le biopatie primarie), le tensioni emotive di tali soggetti non sono legate ai processi psichici del neocortex, ma persistono nel cervello limbico.Secondo Federico ciò ci consente di affermare che la malattia psicosomatica può essere vista come una corporizzazione della psicosi.Il ritiro causato dal blocco anorgonotico crea una scissione tra sensazione e percezione e ciò impedisce una valida utilizzazione dei telerecettori (vista, udito, odorato), e se le funzioni sensoriali non si realizzano nel migliore dei modi sin dalla nascita “…vi sarà una percezione iniziale alterata da registrare come engramma basilare distorto”. (Navarro).Ciò impedisce una sana distinzione tra Io e non–Io, a cui si sostituisce, nello psicotico, una tendenza a fondersi con il mondo e a perdere i confini con le tipiche fantasie di dispersione e frantumanzione.Con la Vegetoterapia si può operare in presenza di un nucleo psicotico, qui Federico suggerisce di “corazzare” gradualmente tutti i livelli a partire dal primo (il blocco oculare anorgonotico impedisce la formazione della corazza e quindi dell’Io, non a caso Federico dissente da Baker che parla di carattere oculare).
L’obiettivo è quello di colmare la mancanza di contatto e di fornire il soggetto di un Io “nevrotico”.
Blocco iperorgonotico dell’occhio (eccesso di energia)

Secondo Federico, tra le manifestazioni cliniche di questo blocco vi sono la cefalea, l’emicrania e l’epilessia.
Cefalea ed emicrania.

Secondo la medicina psicosomatica la psicopatogenesi della cefalea e dell’emicrania va ricercata in un ostilità bloccata di tipo primario, cioè sarebbero congenite.Secondo la vegetoterapia non esiste un ostilità di tipo primario, bensì una paura primaria a cui il soggetto reagisce, per difesa, con l’ostilità.La dinamica descritta da Federico è questa:
l’emozione primaria della paura nei primi momenti di vita determina una perdita di tono e quindi una vasodilatazione (sistema parasimpatico).La vasodilatazione minaccia il sistema che reagisce, per salvarsi, con una vasocostrizione (sistema simpatico), ciò corrisponde ad una scarica a livello oculare (sguardo fulminante dell’ostilità).I dolori della cefalea e dell’emicrania sono dovuti alla tensione cronica delle terminazioni simpatico muscolari del cranio.Per Federico la cefalea è collegata ad una mancanza di contatto e ad una paura generalizzata più primaria mentre l’emicrania appartiene ad un periodo neonatale successivo ed è, al contrario, legata ad una paura specifica.In particolare si traduce in una ostilità per paura di una figura femminile, se si tratta dell’emisfero cranico sinistro, di una figura maschile per quello destro.

La vegetoterapia oltre a suggerire tutte le terapie che mettono in movimento l’energia: agopuntura, omeopatia ecc., propone il lavoro sugli occhi che sbloccando le emozioni di paura risolve il sintomo.

Epilessia.

L’epilessia di cui parla Federico è quella detta idiopatica, non collegata, cioè, ad alcun danno organico a carico del cervello.L’attacco epilettico è provocato da un’attività elettrica anomala del cervello. Si tratta di un’anomalia transitoria che può interessare un lobo specifico: frontale, occipitale, parietale, temporale o insulare e che corrisponde poi, dal punto di vista sensoriale o motorio ad una specifica manifestazione dell’individuo.Secondo Federico le definizioni come “essenziale” o “idiopatico”, tanto care alla medicina ufficiale, significano, in realtà: totale ignoranza sulle cause di un disturbo.La vegetoterapia considera l’epilessia come la manifestazione somatica della psicosi, ma mentre lo psicotico ha un blocco anorgonotico agli occhi, l’epilettico ha un blocco iperorgonotico.L’epilettico, nel momento della crisi, scarica il surplus d’energia a carico del distretto oculare diffondendo l’eccesso in un sol colpo all’insieme dei muscoli del corpo.L’epilessia è classificata come:

Il grande male
Il piccolo male

In entrambe le forme vi è una perdita di coscienza.
Nel grande male la crisi è annunciata da un anomalia dal punto di vista sensoriale o motorio chiamata “aura” (diversa da quella energetica) a cui segue il blocco del respiro, la contrattura dei muscoli e infine la scarica ritmica con la fuoriscita dell’aria fino a quel momento trattenuta.Il piccolo male è caratterizzato da brevi “assenze” durante le quali è raro che l’individuo cada o eccitazioni improvvise che possono portare ad atti violenti (furore epilettico).La madre dell’epilettico è spesso dura e anafettiva ma iperprotettiva ciò determina la problematica psicologica principale di questi soggetti: un enorme bisogno d’amore e un ostilità repressa e trattenuta nei muscoli.La vegetoterapia in presenza di questo disturbo insiste con gli actings del primo livello, che permettono al soggetto di dominare lo spazio e il tempo, proprio l’aspetto che viene perduto nelle crisi.Il lavoro terapeutico riesce a forzare l’attenzione e la presa di coscienza del soggetto sui segni premonitori che anticipano le crisi fino a riuscire ad evitarle.Federico accenna alla base psicologico-emotiva dell’epilessia comprovata dal fatto che l’epilettico non ha mai crisi in situazioni di pericolo, egli deduce così il ruolo fondamentale e l’influenza della situazione ambientale nello scatenarle.In parole semplici: esiste una componente emozionale inaccettabile per il soggetto che prende la strada della crisi; comprenderne l’aspetto dinamico, riconoscerlo, riviverlo e accettarlo possono, insieme al lavoro energetico, risolvere o almeno aiutare a “governare” questo difficile disturbo.

L’epilessia può essere confusa con l’isteria.
L’isterico, a differenza dell’epilettico, quando cade non si fa mai male e quando ha le sue crisi chiude il pungno con il pollice in fuori mentre l’epilettico chiude il pollice nel pugno.

Calvizie ed Alopecia

In entrambe le forme si tratta di caduta dei capelli. Ma mentre la calvizie è un processo lento e graduale, l’alopecia è la caduta improvvisa di intere ciocche o “placche” che lasciano aree di pelle nuda apparentemente normali.La calvizie é dovuta ad uno stato di tensione generale e localizzato nelle aree del collo (difesa narcisistica), e della “galea capitis”, il muscolo superficiale del collo.

L’alopecia è la manifestazione somatica di un nucleo psicotico ricollegabile alle fasi d’allattamento.

Disturbi classici della vista

Tra i disturbi più classici, dovuti ad una tensione cronica dei muscoli esterni e interni dell’occhio troviamo:

L’astigmatismo, in cui la visione è appannata come se gli occhi fossero colmi di lacrime. L’astigmatico “deve sempre fare il punto”
La miopia, che costringe i soggetti ad avvicinare gli oggetti per vederli, qui durante l’allattamento la madre è stata “lontana”
l’ipermetropia corrisponde ad un difetto nell’accomodazione visiva che non consente la messa a fuoco degli oggetti vicini, sono soggetti che praticano la fuga in avanti perché il presente gli fa paura. È un problema di svezzamento e di “paura dell’estraneo”(Spitz).
La presbiopia non è per niente “automatica” dopo i 40 anni! Le sue radici sono da ricercarsi nel periodo in cui il bambino comincia a camminare, quando passa dalla motilità alla mobilità e acquisisce la dimensione spazio-temporale. Se ciò avviene prima che il bambino sia in grado di padroneggiarla egli immobilizzerà gli occhi alla ricerca di un punto d’approdo sicuro.

Le orecchie

Tutti i sensi, a partire dal terzo mese fetale sono attivi. Tuttavia l’udito, nell’ambiente uterino, svolge un ruolo predominante e i suoni, armonici e non, hanno notevole influenza sulla sensibilità del feto.Come per la vista, la funzione uditiva riveste un’importanza fondamentale per una corretta percezione della realtà. Il nervo acustico è strettamente associato ai centri della visione, per questo motivo, quasi sempre, le allucinazioni visive sono accompagnate da allucinazioni uditive.

Il suono può veicolare sensazioni gratificanti e frustranti, quindi la percezione uditiva, può bloccarsi e alterarsi con vari livelli di gravità. La sordità, per esempio, è spesso selettiva, compare cioè solo in certe situazioni.

Il naso.

Esiste uno stretto rapporto fra l’olfatto e l’emotività. Ciò trova conferma anche nella connessione a livello neurofisiologico tra i nervi responsabili della sensazione olfattiva: i trigemini, facciale e ipoglosso, e l’area limbico-ipotalamica.Molti bambini appena nati, se lasciati tranquilli sulla pancia della madre annusano la madre alla ricerca del seno. L’odore resta poi per molto tempo un elemento di riconoscibilità tra il bambino e i suoi genitori.Altro rapporto importante esiste con la sessualità. Anche se ciò è più evidente nei preliminari d’accoppiamento dei mammiferi.Le cavità nasali sono tappezzate di una mucosa erettile del tutto simile a quella del pene e della clitoride, infatti il tessuto nasale ha caratteristiche erogene analoghe procurandoci piacere se l’odore sentito è gradevole o seducente o dispiacere se è invece ributtante.L’analogia con la sessualità diviene poi una chiave interpretativa importante per i disturbi a carico di quest’area.Le manifestazioni allergiche come le riniti o il raffreddore da fieno sono espressione di una sessualità repressa; alcune persone quando sono sessualmente eccitate, starnutano.Il blocco al naso determina una caratterialità basata su un atteggiamento represso che si traduce in una continua sfida e difficoltà ad essere in contatto con i propri bisogni e con gli altri con il conseguente instaurarsi di pseudo-contatti privi di qualunque spontaneità.Un atteggiamento caratteriale che, secondo Federico, porta raramente questi soggetti verso la psicoterapia. La bocca e l’oralità

La sessualità orale e l’aggressività orale
Aspetti caratteriali dell’oralità
Aspetti psicopatologici del quadro depressivo
L’orale rimosso e l’orale insoddisfatto

 

La bocca e l’oralità

La bocca

Il secondo livello, la bocca, corrisponde alla funzione orale.È attraverso la bocca che il bambino stabilisce il contatto con il mondo, e queste prime esperienze piacevoli o spiacevoli lasceranno un’impronta fondamentale nel modo in cui si relazionerà a se stesso e agli altri.Dal punto di vista anatomico, il secondo livello comprende la bocca, una cavità che termina con l’arco amigdalico e va fino alla gola dove si biforcano i tubi laringeo ed esofageo.La laringe è l’organo della voce; bocca e mascella svolgono un ruolo fondamentale nel processo di vocalizzazione: se sono corazzate, formano una specie di coperchio sul canale espressivo, chiudendo del tutto la voce oppure affievolendola e appiattendola.Un ruolo particolare nel frenare l’espressività vocale è svolto dai muscoli della lingua che si trovano sotto il mento, muscoli che dovrebbero essere rilassati e flessibili, mentre nell’adulto lo sono raramente.Gli annessi della bocca sono i denti, la lingua che è l’organo del gusto, e le ghiandole salivari. La secrezione della saliva è regolata dal SNA: il parasimpatico la fluidifica (fino alla scialorrea, perdita involontaria di saliva dalla bocca, normale nei lattanti fino a 12 mesi circa), il simpaticola la inibisce, come quando si ha paura o ci si arrabbia.I muscoli del segmento orale sono molti e non starò ad elencarveli tutti. Ma è importante sapere che si tratta di fasce muscolari che estendendosi fino al collo interagiscono con i muscoli del torace e delle spalle e ciò spiega il torace incavato, le spalle ruotate e la spinta in avanti della testa, tipici della struttura orale.

Anche la postura della bocca viene influenzata dai blocchi di questo segmento, in particolare mi riferisco alle mascelle che possono essere non allineate, serrate o innaturalmente rilasciate. Ciò implica uno spostamento del mento indietro o in avanti (ostinazione).

L’orgasmo orale

La bocca, come dice anche Baker, è l’unico organo che, insieme ai genitali, è in grado di iniziare una convulsione orgastica. Questa è osservabile nel bambino, subito dopo un allattamento caldo e gratificante, come un tremore lieve delle labbra cui segue l’abbandono fiducioso tra le braccia della madre. Notate la similitudine con le fasi della formula dell’orgasmo? (formula T.C.).Ciò è dovuto al fatto che sia la bocca che i genitali possono sovrapporsi e fondersi con un altro organismo.Altra conferma del collegamento tra bocca e genitali la ritroviamo nella vegetoterapia, quando al lavoro sulla bocca corrispondono spesso riflessi a livello del bacino con eccitazione, lubrificazione vaginale o erezione.

Capite, quindi, quanto sia importante per acquisire una genitalità matura, aver superato e soddisfatto la situazione orale di base. Essere passati, cioè, dall’oralità alla genitalità.

La sessualità orale

Di sessualità orale abbiamo parlato anche in Briciole di coscienza. Come abbiamo chiarito nel capitolo sulla sessualità non ci riferiamo alle pratiche sessuali conosciute come fellatio o cunnilinctus, ma piuttosto ad un atteggiamento generale connotato da “fame” sessuale, con la quale il soggetto appaga in realtà i suoi insoddisfatti bisogni di affetto, attenzione e riconoscimento.Riguardo alla sessualità sono presenti sostanzialmente due problematiche collegate ad una scarsa o insoddisfacente esperienza di allattamento: una di rimozione della spinta sessuale (frigidità, eiaculazione senza piacere, impotenza), l’altra di bisogno rabbioso (ninfomania, eiaculazione precoce, sesso usato come arma).

Il progresso evolutivo da una sessualità infantile ad una adulta corrisponde, quindi, al passaggio dal bisogno di fare sesso al desiderio di fondersi con un altro essere umano, dal piacere eccitatorio e superficiale alla gioia dell’abbandono.

L’aggressività orale

Un altro capitolo deve essere aperto riguardo alla funzione dei denti. Abraham, un contemporaneo di Freud, fu il primo a definire la fase della dentizione come fase sadico-orale.Con ciò voleva stabilire un collegamento fra l’attività di masticare, frantumare e inghiottire e le componenti aggressive e sadiche del bambino. I denti servono per masticare ma sono anche strumenti di difesa, la bocca, così, diviene il primo scenario dell’ambivalenza, in cui piacere e disgusto, rabbia e paura si mescolano generando sentimenti di colpa.Il succhiare, a causa della frustrazione diviene desiderio di mordere, di “divorare” la madre, la paura di essere puniti si trasforma in paura di essere “divorati” da lei.Il desiderio di ringhiare, ruggire e mordere represso a causa della paura della punizione o della derisione può creare una smorfia fissa, artificiale, d’ostilità.Se anche l’espressione facciale della rabbia fosse repressa, potremmo trovarci di fronte ad una persona che sorride sempre, che sorride troppo; in questo caso diviene rivelatrice l’espressione degli occhi che risulteranno, invece, gelidi e freddi.Un altro elemento rivelatore della rabbia o della sua rimozione è la posizione del mento.

La mascella (sez. inferiore), può essere spinta in avanti in una posizione di “rifiuto” che esprime sfida e cocciutaggine; oppure può essere spostata indietro, in atteggiamento succhiante e infantile che sembra dire “sono inoffensivo”.

Aspetti caratteriali, psichici e somatici dell’oralità.

Il neonato attraverso l’allattamento appaga il suo bisogno di essere amato, rassicurato, accettato e di potersi abbandonare a questa esperienza in modo fiducioso.Un allattamento insufficente o uno svezzamento brusco si sposterà poi, psicologicamente, oltre che nella fame sessuale di cui abbiamo parlato, anche nella pulsione di essere riconosciuti o nella sete di giustizia, tutti aspetti che derivano da un forte senso d’inadeguatezza e vuoto.

Come dice Lowen : “Si può paragonare il lattante al frutto che matura sull’albero; il capezzolo è l’equivalente del gambo. La naturale separazione del frutto avviene quando è giunto a perfetta maturazione: allora cade al suolo per iniziare un’esistenza indipendente radicandosi alla “madre” terra. È solo il frutto immaturo che presenta una resistenza alla separazione dall’albero… Nel caso del frutto, più è maturo prima della separazione dall’albero più contiene zucchero naturale ed è dolce. Il frutto immaturo è aspro come l’organismo immaturo che troppo presto perde la connessione vitale con la madre. Il carattere orale è aspro e questa asprezza si scopre in tutti gli individui la cui struttura contiene un forte elemento orale”.

Depressività

Un allattamento scarso o insoddisfacente genera ciò che Federico Navarro chiama “depressività”, questa condizione è collegata ad un sentimento di perdita che si manifesta spesso con possessività e gelosia.Questa può determinare due diverse risposte, una passiva (dipendenza) con tendenza, in certe situazioni, a deprimersi, l’altra reattiva (aggressività orale) come disposizione a reagire rabbiosamente. La rabbia è, in questo caso, una difesa dalla depressione.La naturale aggressività erotica del lattante quando è frustrata si trasforma in distruttività, il sentimento inconscio di colpa che questa comporta è alla radice di molte malattie dei denti.Vi sono poi alcune sindromi in cui ritroviamo la problematica orale, alcune di queste sono:

Anoressia mentale
Riguarda solitamente giovani in età puberale, è caratterizzata da un forte dimagrimento, vomito, perdita dei peli.
Gli effetti della denutrizione sui processi biochimici del corpo possono portare alla morte.
Le stesse alterazioni biochimiche provocano la scomparsa delle mestruazioni, stanchezza e perdita del desiderio sessuale.
L’anoressica (è molto raro che sia un disturbo maschile), ha una storia di scarso o freddo contatto con la madre, essa fantastica inconsciamente di divorarla, un desiderio che le procura forti sensi di colpa e il bisogno di autopunirsi privandosi della gratificazione orale.
Bulimia nervosa
Le crisi bulimiche sono caratterizzate dal bisogno imperioso e irrinunciabile di ingurgitare grandi quantità di cibo nel minor tempo possibile.
Se l’anoressia è una difesa dai propri impulsi distruttivi, la bulimia rappresenta il tentativo di divorare la madre, di riempire il vuoto associato alla sua mancanza.
Herpes
È un infezione che si presenta con vescicole dolorose nella bocca, sulle labbra e sugli organi genitali che rappresentano il tentativo di scaricare un ristagno energetico.
Da un punto di vista dinamico evidenziano una condizione di paura legata al piacere sessuale.
Stomatiti, gengiviti, piorree
Sono tutte legate alla difficoltà di mordere, di usare i denti e dinamicamente di usare la propria aggressività come ad-gredior per affrontare la vita.
Se a questa si aggiunge la mancanza di appetito o la nausea, che simbolicamente può rappresentare il non voler inghiottire, digerire la realtà, allora ci saranno affezioni a carico dello stomaco e dell’intestino.

Altri aspetti psicopatologici del quadro depressivo

Federico Navarro definisce il periodo neonatale, quello che comincia alla nascita e termina con lo svezzamento, il periodo temperamentale (il “corredo” bio-energetico: una combinazione di fattori endocrini e neurovegetativi), in cui da parte del neonato più che un’intenzionalità vi è una reattività.Secondo Federico un allattamento deficitario influirà sulla formazione dell’Io, (che comincerà solo con lo svezzamento quando l’intenzionalità e la neuromuscolarità faranno entrare il bambino nella caratterialità), che si fisserà al temperamento.Il nucleo psicotico che si può formare in questo periodo, viene bloccato dall’entrata forzata nella caratterialità, tipica di uno svezzamento precoce.Questa, secondo Federico, è la condizione caratteristica della condizione borderline (stato limite); il temperamento del soggetto è sotto controllo, ma può sempre esplodere se crollano le difese dell’Io.La depressione nascosta, riguarda quei soggetti che pur accusando stanchezza, insonnia, inappetenza, non manifestano dal punto di vista dell’umore atteggiamenti di tipo depressivo. In questa condizione, erroneamente chiamata “esaurimento nervoso”, l’aspetto orale è alimentato da un blocco del collo, blocco narcisistico, che induce il soggetto a nutrirsi energeticamente a spese del collo in una condizione di costante tensione che lo fa sentire costantemente affaticato.Il tratto caratteriale orale è presente in tutti gli altri tipi di carattere, in particolare lo ritroviamo nel fallico-narcisista e nell’isterico perchè entrambi spostano l’eccitabilità del bisogno orale insoddisfatto nella fame sessuale.
L’orale rimosso, l’orale insoddisfatto.

Nei modi di reagire dell’orale, che come “carattere” nel senso pieno del termine non esiste, mentre come tratto è presente in ogni tipo caratteriale, si distinguono due aspetti fondamentali tracciati da Baker nel suo L’ uomo nella trappola:L’orale rimosso, o come diremmo noi: il pretenzioso rimosso, generalmente ha una struttura sottile e allungata, (Lowen, nel suo Bionergetica fa l’ipotesi che l’attaccamento che l’orale conserva alla sua condizione infantile, ritardando la conclusione della maturazione, consenta alle ossa lunghe di crescere più del dovuto), è privo d’energia, pallido, e quieto.Parla con la voce bassa ma si esprime in modo caustico e mordace. Ha un continuo bisogno di essere lodato e si aspetta di poter amare senza fare alcuno sforzo.Non chiede mai nulla e sembra accontentarsi di tutto, in realtà nasconde dietro all’alibi dei sensi di colpa un orgoglio ostinato e non trae mai veramente piacere da ciò che riceve. Non prova piacere nel mangiare, nel fumare, nel bere.Si aspetta di essere sostenuto dai membri più capaci della propria famiglia e spesso tende a dipendere a lungo dai propri genitori.L’orale rimosso nega la sua depressione e, come dice Federico, va avanti “serrando i denti”, atteggiamento che è rivelato dalla contrazione cronica dei suoi masseteri e dal fenomeno notturno del digrignare i denti noto come brownismo. Non è un collerico ma è fortemente irritabile e permaloso.L’orale insoddisfatto appare spesso come una persona piena d’energia ma è un comportamento compensativo perchè nel profondo nasconde sempre la situazione depressiva ma ne è consapevole e cerca costantemente di risolverla attraverso il cibo, il fumo o l’alcool o qualunque altra cosa che possa dargli una pur minima soddisfazione a livello orale.È mutevole e imprevedibile, può andare soggetto a momenti di euforia e collera alternati ad abbattimento. La sua pretesa è manifesta, ma non ne è consapevole perchè è bravo dialetticamente a dimostrare la leggittimità delle sue pretese. Chiede molto agli altri ma non è mai contento. È un gran parlatore, ma ama parlare di sé generalmente mettendosi in una luce favorevole, il suo esibizionismo non è di natura fallica ma un mezzo per ottenere attenzione, interesse e amore.Alterna momenti di sopravvalutazione di sé con altri in cui si sente impotente e inadeguato. Ripete spesso “non so cosa voglio”, perché in realtà prova riluttanza ad accettare la realtà e la necessità di lottare nella vita. Il collo e il narcisismo

Il narcisismo
Narcisismo e carattere

Il collo e il narcisismo

Il collo

Con il collo concludiamo i primi tre livelli che chiamiamo pregenitali.Il collo è la sede di importantissimi organi connessi con vari sistemi:

Digerente (faringe, esofago);
Respiratorio (laringe, trachea, polmoni);
Circolatorio (importanti arterie e vene come la carotide e la giugulare);
Endocrino (ghiandole vitali come tiroide, paratiroidi, timo)
Nervoso periferico (i primi tre gangli che regolano la circolazione, il funzionamento della tiroide, le funzioni cardiaca e polmonare).

I muscoli di questo segmento sono disposti in tre strati:Lo strato profondo è costituito dai muscoli che aderiscono posteriormente e anteriormente alla colonna vertrebrale cervicale.Questi muscoli tengono unite le vertebre cervicali alle clavicole, sterno, coste, scapole.La tensione di questi muscoli profondi può generare un non allineamento delle vertebre (percepibile alla palpazione), è responsabile della morfologia del collo (sottile o grosso, lungo o corto) e della famosa artrosi cervicale.È bene conoscere la differenza fra un cattivo allineamento delle vertebre del collo e una “frattura” dell’allineamento stesso.Quest’ultima è indicativa di una condizione schizoide, che è rilevabile osservando la persona in piedi: all’altezza del collo la linea della colonna si “interrompe” per poi proseguire “spostata” rispetto all’asse della colonna intera.Ovviamente la tensione cronica di questi muscoli è responsabile anche delle cifosi (gobba o arrotondamento in genere nella parte superiore della colonna) o scoliosi (deformità laterale della colonna).Nello Strato medio si trovano i muscoli che anteriormente ricoprono la laringe e la tiroide e che provengono sia dalla mandibola che dal torace.Per produrre suoni, nel pianto, nel riso la laringe deve poter essere mobile, quindi una tensione cronica a questo livello ha le conseguenze che immaginate.La ghiandola tiroide è formata da due lobi posti lateralmente alla trachea. La tiroide svolge un ruolo importantissimo nel controllo del metabolismo, è fondamentale per la crescita ossea e per la rapidità dei processi mentali.La funzionalità della tiroide è controllata dall’ipotalamo e da un’altra ghiandola: l’ipofisi.La condizione ipertiroidea è tipica di soggetti ansiosi ma molto controllati e quindi chiusi e orgogliosi. L’ansia al primo livello li porta a caricare l’ipotalamo che stimolando l’ipofisi aumenta la produzione di calcitonina (calcio) con sintomi neuro-vegetativi come tremito, ipersudorazione, tachicardia ecc.La condizione ipotiroidea porta ad un rallentamento dei processi mentali. La condizione di deficit energetico è caratteristica dello stato borderline che può presentare a volte allucinazioni e fobie.I muscoli del Terzo strato sono rilevanti ai fini della postura del capo.Sono localizzati posteriormente, come ad es. il trapezio e lateralmente, come gli scaleni e lo sternocleidomastoideo. Una condizione riconducibile alla tensione di questi muscoli è il torcicollo. La limitazione dei movimenti del collo corrisponde psicologicamente ad una diminuzione nella capacità del soggetto di “guardarsi intorno”, ad avere un’ottica ristretta e un comportamento rigido che gli fa perdere di vista l’insieme a favore del dettaglio e lo porta su posizioni di egoismo.Inoltre la trazione dei muscoli del collo influenza il torace gonfiando e comprimendo la gabbia toracica soffocando il cuore e compromettendo la capacità amorosa.L’importanza degli organi situati nel collo per la salvaguardia della vita fa sì che il collo rappresenti più di ogni altra parte del soma, l’istinto di conservazione. È il luogo privilegiato della difesa dalla minaccia di annientamento somatico e psichico.Nel collo troviamo i ricordi che fanno riferimento alle situazioni in cui ci hanno mortificato e umiliato. Purtroppo l’integrità psicologica dei bambini è spesso violata costringendoli ad ingoiare “cose” che altrimenti rifiuterebbero.La tensione muscolare di questo segmento rappresenta una difesa inconscia contro la possibilità di essere costretti ad ingoiare qualunque “cosa” inaccettabile proveniente dall’esterno.È anche, al tempo stesso, una difesa o un controllo inconscio contro l’espressione di sentimenti che si teme possano essere inaccettabili per gli altri.Il collo finisce così per rappresentare “il controllo” per eccellenza, una specie di stazione in cui si decide cosa far passare in entrata o in uscita.Nel collo è localizzato il sef-control, che cronicizzato impedisce a causa della rigidità psicologica, (non solo fisica), di potersi concedere e abbandonare a se stessi e all’altro.Da un punto di vista somatopsicodinamico per Federico le infiammazioni a carico della faringe, condotto posto tra la bocca e l’esofago, sono somatizzazioni riconducibili alla difficoltà a “inghiottire” o “digerire” una novità sgradevole.La laringite, invece, (l’apertura delle vie respiratorie), caratterizzata da disfonia o afonia, è collegata ad una situazione affettiva in cui ci s’impedisce di parlare e urlare.
Il narcisismo

Le offese e le umiliazioni del passato sono gli ingredienti della “ferita narcisistica”, la matrice dell’odio vendicativo, come abbiamo visto in altre sezioni di questo sito (Antonio Mazzetti, Laura Rita, Antonio Mercurio).La presenza d’organi indispensabili alla sopravvivenza e il ruolo rilevante del collo nel controllo delle sensazioni, emozioni e sentimenti fa di questo livello il luogo in cui troviamo rappresentati l’orgoglio e il narcisismo.Vi sono un narcisismo primario (fisiologico) e uno secondario (nevrotico).Il narcisismo primario nasce nel periodo in cui il bambino, ormai muscolarmente capace, scopre il suo corpo e il piacere che può darsi da sé.Questo tipo di narcisimo compare in forma inconscia verso i nove mesi, e coscientemente verso i due anni di vita. Siamo nella fase dell’autoerotismo, dell’inizio della masturbazione e della scoperta della propria identità sessuale.Scoprendosi capace di darsi piacere, il bambino scopre due parti di sé:

il “me”
cioè il contatto con se stesso, l’energia auto-indirizzata
l'”io”
cioè il contatto con gli altri, l’energia etero-indirizzata.

Si può dire, quindi, che il bambino scopre se stesso attraverso il piacere che può darsi. Quando questo processo di scoperta è impedito o contrastato l’identità personale non può fondersi e integrarsi armoniosamente con quella del proprio genere sessuale: qui nasce l’ambivalenza e l’omosessualità latente.Il collo rappresenta l’identità personale; il bacino con le pelvi, invece, l’identità sessuale. Tra i due esiste, quindi, un collegamento naturale, ciò fa sì che collegato al blocco del terzo livello vi sia sempre un blocco al settimo: la pelvi.L’impossibilità ad abbandonarsi tipica del blocco narcisistico coinvolgendo il bacino impedisce l’abbandono orgastico e, nelle donne, un facile svolgimento del parto.Dalla repressione del narcisismo primario, nasce Il narcisismo secondario.In altre parole l’energia destinata al contatto con gli altri è ripiegata, reindirizzata reattivamente sull’io che s’ingigantisce. Si crea qui il Super-io primitivo (l’altro si trova nel bacino), e al piacere si sostituisce l’insoddisfazione di sé. Ci sono due Super-Io, uno legato al collo: super-io come ideale dell’io, per cui il soggetto ha paura del proprio giudizio; il secondo super-io è invece legato alla pelvi, e in quel caso il soggetto ha paura dell’opinione degli altri che rappresentano, fantasmaticamente, l’entità autoritaria che giudica il sesso una cosa sporca.

Cominciano, così, auto-richieste sempre più pressanti di perfezione che spingeranno poi il soggetto, all’ambizione, competizione, carrierismo, lo priveranno dell’umiltà e della possibilità di sentire i propri limiti rendendolo sempre più orgoglioso e rigido.

Narcisismo e carattere

Il tentativo costante di superare noi stessi e le nostre paure ci fa vivere continuamente in ansia. Quest’ansia stabilisce un’unione naturale tra il collo e il diaframma dove troviamo il MASOCHISMO.Il narcisista ha anche un tratto masochista, perché per la sua brama di potere elabora progetti a lungo termine che impongono sacrifici e lo privano della gioia del presente.Il masochista è anche un narcisista a rovescio. Facendo una vita di sacrifici si sente un martire, un eroe e un santo. Il soggetto per vanitosa presunzione, si “carica” sulla nuca le responsabilità del mondo intero sviluppando così, quello che è conosciuto come il “Complesso di Atlante”. (In anatomia è chiamata “atlante” la prima vertebra cervicale; nella mitologia classica, Atlante è il titano che sorregge l’intera volta celeste).Il tratto narcistico è, con aspetti diversi, presente in ogni tipo caratteriale: orale, coatto, fallico e isterico.La posizione fallico-narcista, per esempio, ha la sua genesi verso i tre anni di età quando il bambino o la bambina si avvicinano edipicamente al genitore di sesso opposto.Quando la richiesta del bambino, che è naturalmente seduttiva ed esibizionistica, è repressa o respinta ciò genera, in lui, una condizione di ambivalenza con desiderio di conquista e vendetta insieme.Quest’angoscia di castrazione fa sì che il fallico-narcista s’identifichi con il fallo, (nelle donne vi è la fantasia di averlo) e che utilizzi la sessualità come un’arma per vendicarsi. Il torace

La ghiandola timo, il cuore, la respirazione
Aspetti psichici e somatici del torace

Il torace Gli organi importanti di questo livello sono:

La ghiandola timo
Il cuore con i suoi annessi
L’apparato respiratorio

Il timo

Il TIMO è una ghiandola appartenente al sistema immunitario, è situato nella parte alta del torace, dietro lo sterno ed è formato da due lobi che si uniscono davanti alla trachea. Ogni lobo è formato da tessuto linfatico.Il timo svolge un ruolo importante nella risposta immunitaria a partire dalla dodicesima settimana di gestazione, ma mentre è molto sviluppato nel feto, si atrofizza a poco, a poco nell’infanzia. Nell’adulto è presente ma non ha più alcuna funzione difensiva.Perché questa ghiandola ci interessa? Perché essa, secondo Federico Navarro, rappresenta l’Io biologico.La prima conferma di questa tesi viene dal momento evolutivo in cui il timo si attiva: la dodicesima settimana di gestazione. Questo è anche il periodo in cui si “definisce” l’identità sessuale del fetoAltra analogia è riscontrabile nella particolare funzione del timo: istruire i linfociti affinché apprendano a distinguere le molecole amiche da quelle nemiche, in altre parole, aiutare l’organismo a distinguere il sé dal non-sé (prima definizione dell’Io anche attraverso l’individuazione del non-Io).Federico Navarro ha sempre sostenuto che il fenomeno dell’AIDS non va tanto cercato nell’azione di un virus ma in una condizione sempre più diffusa di “immunodeficienza” (che è la causa, quindi, non l’effetto).Il fatto che colpisca più spesso gli omosessuali, dipende proprio dalla loro difficoltà a riconoscere e incorporare la propria identità biologica.Come reichiani crediamo che l’immunodeficienza non sia altro che l’espressione biologica di un problema che ha le sue radici in una scarsa o confusa identità bio-psichica.Federico descrive due tipi di condizioni, l’ipotimismo con precocità o ritardo della pubertà, fragilità ossea, magrezza e eccitabilità neuro-muscolare e l’ipertimismo con iperproduzione delle cartilagini di coniugazione ossee, precoce crescita dello scheletro.
Il cuore

Il CUORE è un muscolo cavo involontario di forma conica il cui vertice posa sul diaframma.È situato nel torace, tra i polmoni, in uno spazio che si chiama MEDIASTINO (tra lo sterno e la colonna vertebrale), in cui trova posto insieme alla trachea, l’esofago, il timo e i vasi principali. È spostato a sinistra ed è sostenuto dai vasi sanguigni in entrata e in uscita.Il cuore è formato di tre strati, il PERICARDIO che è il sacco che lo racchiude composto da due foglietti, il MIOCARDIO che è il tessuto muscolare contrattile e l’ENDOCARDIO una sottile membrana che tappezza la superficie interna delle cavità cardiache, tutte suscettibili di infiammazioni.Il cuore si presenta suddiviso in due metà da un setto verticale: a destra il cuore venoso, a sinistra il cuore arterioso. Le due metà sono poi ulteriormente divise da una membrana perforata in due cavità: l’atrio, superiormente, e il ventricolo, inferiormente. Il sangue viene pompato per effetto della contrazione (sistole) dall’orecchietta (atrio) al ventricolo che si dilata (diastole) o viceversa.I vasi della circolazione cardiaca sono: le VENE che vanno al cuore (sangue venoso che è povero d’ossigeno e ricco di anidride carbonica), le ARTERIE che partono dal cuore (sangue arterioso ricco di ossigeno) e le CORONARIE (la circolazione propria del cuore).Questi vasi sono ricoperti di tessuto muscolare, soggetto quindi, alle variazioni di tono di cui abbiamo già parlato: con effetto contrattivo per il simpatico e dilatativo per il parasimpatico.La riduzione drastica del diametro dei vasi, a causa di una prevalenza eccessiva del simpatico (contrazione), può impedire l’afflusso del sangue e fenomeni ischemici transitori (angina) o definitivi (infarto).La personalità di questi soggetti, scrive Federico Navarro, è quella di chi antepone il ruolo sociale, il lavoro, l’impegno di fronte agli altri alla propria vita affettiva. Ma in realtà sono persone che pur mostrandosi formalmente autonome e indipendenti, anzi facendosi vanto di ciò, nascondono invece un forte desiderio rimosso di protezione, amore e contatto.La NEVROSI CARDIACA va invece annoverata tra i disturbi funzionali senza alcuna base organica. Questa nevrosi, dice Federico, ricorda al soggetto l’esistenza del suo cuore attraverso palpitazioni, tachicardia, dolori retrosternali, tutte manifestazioni che non alterano in alcun modo l’onda T dell’elettrocardiogramma.Un pensiero costante di queste persone è la paura di morire, in realtà la “morte” che temono è l’abbandono, la separazione, il rifiuto o le ferite al loro narcisismo.Il vantaggio secondario della loro marcata ipocondria, è la richiesta e la risposta d’affetto, e attenzione, che la paura per i propri sintomi provoca.I due tipi di disturbo descritti, quelli con sintomi organici e quelli con sintomi psichici hanno in comune un nucleo orale ansioso, bisogni di contatto e amore, ma in più l’anginoso fugge nel terzo livello, il collo, negando e sostituendo tali bisogni con un ideale dell’Io che finisce per diventare persecutorio e portare al crollo.Nel caso della nevrosi cardiaca può, talvolta, portare sollievo la respirazione. Questa, secondo Navarro, calma la sete di ossigeno e può, quindi, saziare il bisogno di contatto.
La respirazione

Nel quarto livello si trova la maggior parte dell’apparato respiratorio: trachea, bronchi, polmoni. L’attività polmonare assicura gli scambi gassosi tra l’organismo e l’ambiente esterno.Con l’inspirazione si ha l’immissione d’ossigeno (trasportato dai globuli rossi), e con l’espirazione l’espulsione d’anidride carbonica. Ma l’attività respiratoria è importante anche per regolare (insieme ad altri organi, soprattutto i reni), l’equilibrio acido-base o acido-alcalino del sangue.Una respirazione ridotta porta ad una ritenzione dell’anidride carbonica e quindi ad uno spostamento del PH nel senso dell’acidosi, viceversa una condizione di iperventilazione provoca una eliminazione eccessiva dell’anidride carbonica e alla prevalenza dell’alcalosi.Gli acidi sono ioni positivi, gli alcali ioni negativi. Quando vi è equilibrio dinamico i liquidi sono vicini alla neutralità chimica e l’organismo funziona in modo orgonomicamente ottimale.Il Test di Vincent è utilizzato proprio per misurare i parametri del PH e rileva quattro “terreni” energetici:

ALCALINO OSSIDATO: biopatie primarie (cancro, AIDS ecc)
ACIDO OSSIDATO: biopatie secondarie (diabete, artrite reumatoide ecc.)
ACIDO RIDOTTO: malattie somatopsicologiche (ulcera, infarto)
ALCALINO RIDOTTO: somatizzazioni

I polmoni sono due visceri voluminosi, vuoti, di forma conica. Nella parte inferiore adattano la loro forma a quella del diaframma. Il polmone destro è più voluminoso del sinistro.Sono avvolti da membrane, le pleure, costituite da due foglietti che determinano uno spazio strettissimo ripieno di liquido che favorisce il movimento dei polmoni, un’infiammazione può aumentare il liquido intramembranoso e ostacolare l’espansione polmonare.Le malattie come bronchiti, polmoniti o anche la tubercolosi, esprimono, per Federico Navarro, la scarica energetica di manifestazioni d’ambivalenza, collegate ad una condizione depressiva.I sentimenti di tristezza e di mancata manifestazione ed elaborazione di vissuti dolorosi e luttuosi portano all’impotenza e alla rabbia, che repressa conduce alla rassegnazione.Nella funzione respiratoria il diaframma svolge un ruolo centrale.Nell’inspirazione, questo muscolo modifica la forma a “cupola” a convessità verso l’alto tipica della sua condizione di riposo, per appiattirsi verso i visceri permettendo l’allungamento e la dilatazione della gabbia toracica.Nell’espirazione, attraverso un fenomeno passivo, torna ad assumere la sua forma di riposo.Il diaframma rappresenta il quinto livello reichiano e nell’articolo dedicato a tale livello lo descriveremo più dettagliatamente.Per concludere il discorso sulla meccanica respiratoria è bene ricordare che sono molti i muscoli che vi partecipano e che influenzano l’ampiezza e la profondità del respiro.

Oltre ai muscoli intercostali e quelli dei distretti superiori (collo, scapole, braccia), particolare importanza rivestono i muscoli che provengono dal bacino, sia anteriormente che posteriormente come ad esempio l’ILEO PSOAS e il QUADRATO DEI LOMBI che si portano fino alla colonna lombare e al margine inferiore della dodicesima costola dove si attacca la porzione posteriore del diaframma.

Aspetti psichici e somatici del torace

Nel quarto livello sono incluse anche le braccia, mani comprese. Nel torace troviamo rappresentati, come abbiamo visto, l’identità biologica dell’individuo e l’affettività e, in relazione ad entrambi gli aspetti: l’ambivalenza (sé/non-sé, maschile/femminile, amore/odio).Respirare è “sentire”, di conseguenza limitare la respirazione è limitare il “sentire”. La mobilizzazione del torace libera emozioni quali l’ira, la collera, il dolore, l’angoscia.Il torace può essere bloccato in un atteggiamento cronico d’inspirazione o in quello d’espirazione.Il torace bloccato in un atteggiamento inspiratorio è gonfio e può assumere la tipica forma a “botte”, a volte questo tipo di struttura sottrae energia al ventre che è contratto, alle pelvi e alle gambe che possono apparire ipoorgonotiche.L’ego di queste persone è spesso “gonfio” come il loro petto e il contatto con i sentimenti di tenerezza e affetto scarso. Se volete l’inspirazione cronica corrisponde un po’ a chi “prende” e non restituisce.Il torace bloccato in un atteggiamento espiratorio è stretto e fragile ed esprime debolezza e depressione. A volte il distretto inferiore compensa la carenza energetica di quello superiore con la regione pelvica e le gambe massicci.Al contrario dell’altro tipo l’ego è “sgonfio” e il rifiuto di introdurre aria esprime l’incapacità di prendere dal mondo e di riempirsi.Una bella citazione che ho trovato recita così: un torace libero prende con amore (inspirazione) e dà con amore (espirazione).Altri aspetti morfologici comuni e sono la presenza di una “placca” rigida o molle all’altezza del cuore, un “buco” in corrispondenza dell’apice inferiore dello sterno o la conformazione ad “ali sporgenti” dell’estremità inferiore delle costole toraciche indice di un blocco diaframmatico importante.Il seno può comunicare gradi diversi di vitalità, a seconda che sia ipoorgonotico, quindi esageratamente piccolo, flaccido con capezzoli introflessi, o ipeorgonotico, quindi esageratamente grosso, duro, simbolo spesso di narcisismo.L’ambivalenza sessuale si manifesta talvolta con assenza di peli per gli uomini o presenza nelle donne.Le braccia e le mani costituiscono i canali attraverso i quali sono espresse le emozioni. Possono colpire, accarezzare, abbracciare, afferrare, tenere, dare, protendersi, manipolare, sostenere ecc ecc.La vegetoterapia di Federico Navarro, permette di evidenziare atteggiamenti difensivi di eccessiva chiusura o apertura, debolezza dell’io, incapacità di dire no o di protendersi verso il mondo.

Il diaframma e la respirazione

Il diaframma nella vita fetale
La respirazione
Il blocco diaframmatico

Il diaframma e la respirazione

Il diaframma nella vita fetale

Se trattiamo il diaframma da un punto di vista della sessualità, rappresenta senz’altro il quinto livello. Ma se pensiamo al ruolo che riveste per la sopravvivenza, allora lo potremmo considerare il LIVELLO ZERO e come tale dovremmo metterlo in relazione alla zona ombelicale.Come dice Federico Navarro, questo muscolo entra in funzione al momento del passaggio dalla vita fetale alla vita extrauterina.
E come dice F. Leboyer, il bambino, se costretto a respirare per non morire, a causa del taglio anticipato del cordone, assocerà la respirazione all’angoscia anziché alla vita.La paura (primo livello) lo porterà istintivamente a frenare una respirazione che gli infuoca i polmoni stabilendo un primo importante collegamento fra la paura e il diaframma.Una notizia recente a proposito della respirazione fetale, dice invece che il diaframma non si contrae per la prima volta alla nascita; è vero comunque che però alla nascita, per la prima volta, il bambino non ha più alternative, non c’è più la madre a respirare per lui.La notizia completa che abbiamo trovato è comunque questa:

Uno dei massimi studiosi della vita fetale (Peter W. Nathanielsz) ha compiuto ricerche che hanno dimostrato l’esistenza di movimenti respiratori a partire dal 40º giorno di gestazione. Il feto introduce ed elimina attraverso la trachea piccolissime quantità di liquido. Sembra che i periodi di respirazione siano di 20 minuti circa, con 20 minuti di intervallo, il picco di attività si situa durante la notte. Se, per qualunque ragione attraverso la placenta arriva meno ossigeno, il feto sospende subito i suoi movimenti respiratori. È una forma di difesa, un modo per risparmiare energia.

Il diaframma è stato anche definito “secondo cuore” o “grande bocca” (G.Ferri), termini che evidenziano il ruolo centrale che ha questo muscolo nel metabolismo energetico.Come abbiamo detto parlando del quarto livello, respirare è “sentire”. Il diaframma è il grande distributore d’energia e di sensazioni energetiche, quindi si capisce, perché si impari presto a bloccarlo per difendersi dalle sensazioni spiacevoli e dolorose.

Fin dalla vita fetale l’individuo impara a frenare i movimenti diaframmatici per difendere la propria vita, in seguito lo farà per proteggersi dal senso di perdita e vuoto che provengono dalla zona ombelicale, da quelle che giungono dalla sfera affettiva, e dalle sensazioni sessuali.

La respirazione

Il modo in cui respiriamo a volte è rivelatore:

La respirazione solo toracica protegge dal vuoto ombelicale
La respirazione solo addominale protegge dalle sensazioni che vengono dal cuore
La respirazione naturale, non bloccata è quella in cui il torace e la pancia partecipano armoniosamente nella respirazione.

L’inspirazione inizia dalla contrazione della zona centrale del diaframma (tendinea), per propagarsi poi anche alle parti periferiche. In questa prima fase il diaframma modifica la sua forma a “cupola” a convessità verso l’alto, tipica della sua condizione di riposo, per appiattirsi verso i visceri e utilizzando soprattutto i muscoli dell’addome e del bacino (addome, lombi, bacino, cosce), produce una prima dilatazione verticale.Durante quest’allungamento l’addome si gonfia, subito dopo, grazie all’interazione con i distretti muscolari superiori (capo, collo, coste, spalle, scapole ecc), anche il torace si espande sollevandosi e allargandosi.Nell’espirazione, che dovrebbe essere un fenomeno passivo, il diaframma si rilassa abbandonando la pressione sulla zona addominale per tornare verso il torace, la pancia si sgonfia seguita dal torace.Al movimento d’inspirazione ed espirazione dovrebbe seguire una pausa che invece non c’è quasi mai o è fatta tra l’inspirazione e l’espirazione, spesso per la paura associata allo svuotamento dell’aria.La respirazione è un movimento pulsante d’andata e ritorno, è un’onda che dal diaframma si propaga in alto, verso la testa e scende in basso, verso i genitali. Bacino e collo si allungano e allontanano nell’inspirazione, si accorciano e si avvicinano nell’espirazione.

Si può notare come la sequenza descritta è la stessa usata da Reich quando descrive i movimenti orgastici, infatti, i movimenti convulsivi dell’orgasmo ricalcano quelli descritti per la respirazione.

Aspetti anatomici e psichici del diaframma

Il diaframma è costituito da una parte periferica muscolare e da una parte centrale tendinea, chiamata centro frenico perché vi arrivano i nervi frenici che danno al diaframma la sua mobilità.Si possono distinguere tre porzioni:

Una parte posteriore lombare
Una parte anteriore sternale
Una parte anteroposteriore costale

Nella parte lombare il diaframma si attacca alle vertebre con due fasci che costituiscono i pilastri mediali. L’incrocio di queste due fibre determina due orifizi che oltre a permettere il passaggio di: aorta, dotto toracico, vena azygos, esofago, consente il transito dei nervi vaghi.A lato del pilastro mediale, con inserzione sulla terza vertebra lombare, c’è un pilastro intermedio, nella fessura tra questo e il pilastro mediale passa il tronco del simpatico e il nervo grande e piccolo splanchico.Sempre in questa zona posteriore c’è il pilastro laterale che però, non si attacca alla colonna lombare ma si aggancia alle arcate fibrose che costituiscono un ispessimento dei fasci dei muscoli ileopsoas e quadrato dei lombi inseriti sulle vertebre lombari e da qui termina alla punta della dodicesima costola.Gli organi interessati al livello diaframmatico sono lo stomaco, il plesso solare, il fegato, la milza, il pancreas, la cistifellea, e in parte, i reni.I disturbi collegati a questo segmento colpiscono soggetti ansiosi o angosciati con uno sfondo depressivo orale, del tipo rimosso piuttosto che insoddisfatto che hanno in più un atteggiamento narcisistico (collo) e di notevole controllo sulla loro paura e ostilità reattiva.Il controllo è una risposta alla minaccia che è insita nel messaggio di chi ci educa, che valorizza tutte le emozioni che si collocano al di sopra del diaframma, mentre tutto ciò che si colloca al di sotto è considerato sporco e sbagliato.Il diaframma diventa un vero e proprio “coperchio” che taglia in due il corpo e l’impedimento alla circolazione energetica che ne deriva apre la strada a varie somatizzazioni e sindromi nevrotiche.In particolare quelle a carico della regione cardiaca come la nevrosi d’angoscia, dell’apparato digestivo con nausee, vomito ricorrente o incapacità a vomitare, diverse problematiche a carico della sfera sessuale come i problemi d’eiaculazione precoce o ritardata, la ninfomania o sul versante opposto la frigidità, lordosi della colonna vertrebrale ecc.Alcuni disturbi specifici descritti da Federico Navarro sono:

La gastrite ipoacida (stato depressivo) e l’iperacida che spesso evolve verso l’ulcera.
La Pancreatite, la cui forma acuta può essere mortale ed è causata da un “blocco” improvviso del diaframma in posizione intermedia.
Il Diabete (biopatia che dipende dal malfunzionamento della componente endocrina del pancreas)
Le Coliche renali o epatiche.

Il blocco diaframmatico

Le manifestazioni emozionali più tipiche del diaframma sono il piacere e l’ansia.Abbiamo già parlato delle conseguenze del blocco diaframmatico sulla respirazione, in particolare, il freno si presenta come difficoltà ad “espirare” che rappresenta il lasciarsi andare.La paura di abbandonarsi al piacere, percepita come paura di morire rappresenta anche, da un punto di vista energetico, la paura dell’orgasmo. Paura di perdere il controllo (il collo) e la coscienza dell’Io.Il bisogno di lasciarsi andare e la paura di farlo si traducono in un conflitto che è percepito come ansia, quando a questo quadro si aggiungono i sensi di colpa l’ansia diviene attesa di una punizione.Il bisogno di una distensione che non può essere trovata nel piacere, si traduce nella spinta inconscia a cercare soluzioni sostitutive. Tali soluzioni, a causa dei sensi di colpa, hanno carattere spiacevole ma permettono di mettere fine allo stato d’attesa e riprendere il respiro.Questa, dice Federico Navarro, è la genesi del masochismo, il cui aspetto caratteriale principale è il blocco diaframmatico.Per il masochista ogni eccitazione risulta sgradita perché non può essere scaricata nell’orgasmo e si trasforma inevitabilmente in ansia o angoscia.L’imperativo è quindi quello di soffocare ogni spontaneità, diventando un gregario, un esecutore. Si tratta del “fare” coattivo, sostitutivo della naturale creatività che è invece il risultato di una piena e appagata condizione genitale.Come abbiamo detto inizialmente tutte le esperienze dolorose si traducono nell’immobilizzazione del muscolo diaframma. E questo a partire dalla nascita, per continuare poi con gli effetti di un’educazione rigida.Tale educazione improntata ai “devo” reprime infatti, per paura, i propri moti spontanei quando questi siano in contrasto con le aspettative dei genitori o degli educatori. Per questa ragione al livello del diaframma è trattenuta anche tutta la rabbia e l’odio frenato e accumulato.Ma come ha descritto Reich, il masochista subisce e tollera ma “fino ad un certo punto”. È il punto massimo fino al quale egli può permettersi di trattenere il fiato in ispirazione, poi è costretto a espirare, cioè “esplodere” e a volte lo fa in modo gravemente distruttivo per sé e gli altri.Dato che abbiamo tutti, a vari livelli, il diaframma bloccato, abbiamo tutti, a vari livelli, un tratto masochistico.Nell’ottica della vegetoterapia, Federico Navarro sottolinea che il diaframma è un livello che riveste un ruolo fondamentale nella corazza. Abbiamo detto qualcosa di simile quando abbiamo parlato del terzo livello, il collo.Tutti i blocchi hanno importanti funzioni difensive, ma il collo e il diaframma sono dighe fondamentali e vanno quindi trattate con il massimo riguardo, perché se forzate prima di aver sufficentemente risolto i livelli precedenti, possono provocare scompensi psicotici.Come per il collo, il lavoro sul diaframma può suscitare resistenze e tentativi di fuga. In particolare con questo segmento la reazione in linea con il tratto masochistico: lamenti, sfiducia nell’analisi, sonnolenza ecc.

L’addome e le emozioni viscerali

Aspetti anatomici e psichici dell’addome
L’inibizione all’azione

 

L’addome e le emozioni viscerali

L’addome

Se nel torace abbiamo collocato il mondo degli affetti, nell’addome metteremo quello delle emozioni “viscerali”.In particolare qui nelle profondità dei visceri ristagnano nascosti, i residui della rabbia: il rancore e il risentimento.Molte espressioni popolari come: “diventare verdi dalla bile”, “rodersi il fegato”, “farsi un fegato così” ecc. o ancora “quello mi sta sullo stomaco”, mettono in relazione questa parte somatica con la memoria dei torti subiti.Una conferma più scientifica viene dalle funzioni degli organi che si trovano in questo segmento. Per esempio quella che il fegato ha, in comune con i reni, di eliminare le scorie, dopo averle assorbite, per evitare gli effetti tossici che queste avrebbero sul corpo se non fossero smaltite.Utilizzando una metafora potremmo considerare il rancore e il risentimento come “scorie” dell’odio che non vengono smaltite e divengono “tossiche”. Altre sensazioni ed emozioni associate al ventre sono l’amarezza, lo struggimento, il vuoto, la mancanza, tutti vissuti collegati all’abbandono, alla perdita, abbinati alla zona ombelicale. Ma anche la tenerezza, l’apertura, il desiderio, la disponibilità, la pazienza.

A questo livello troviamo anche un certo grado di AMBIVALENZA tra il DARE e il TRATTENERE. Le feci sono il primo vero prodotto del bambino, una delle prime occasioni di esercitare la propria volontà, ma il controllo o le ansie che i genitori scaricano sulla sua educazione sfinterica lo privano di questa prerogativa.

Aspetti anatomici e psichici dell’addome

I MUSCOLI di questo livello sono:

ANTERIORMENTE

Il RETTO DELL’ADDOME, una fascia muscolare che ricopre anteriormente l’addome, che collega in alto lo sterno con le cartillagini del pube, è un muscolo importante per i movimenti coitali e i movimenti espiratori, la contrazione di questo muscolo, responsabile del famoso ventre “piatto”, è considerata esteticamente un valore positivo, mentre nella nostra esperienza è sinonimo di paure sessuali o difesa dal vuoto ombelicale. Non è un caso che uno dei primi segnali quando si fa una vegetoterapia sia la comparsa della cosiddetta “pancetta”.
Il TRASVERSO DELL’ADDOME, ricopre antero-lateralmente l’addome, arrivando fin dietro alla schiena.
Quando si contrae comprime “come una cinghia”, è un muscolo sempre molto contratto, soprattutto se c’è una storia di rabbia repressa. Quasi tutti “sussultano” se vengono toccati in questa zona (solletico, dolore ecc). Anche questo muscolo svolge un ruolo importante nell’espirazione.
L’OBLIQUO INTERNO ed ESTERNO rappresentano fasci muscolari che ricoprono a ventaglio tutta la superficie addominale, anch’essi permetto la flessione e il sollevamento del bacino.

POSTERIORMENTE

Il GRAN DORSALE è un muscolo piatto che ricopre le porzioni medie e inferiori della schiena, qui Federico colloca la paura di essere attaccati e paragona la funzione difensiva di questi muscoli spesso tesi come un arco, a quella narcisitica del terzo livello, il collo. Questa fascia muscolare, dalla zona lombo-sacrale si collega alle braccia, in particolare alle spalle, la tipica postura “spaventata” delle spalle rialzate, quindi, rende questi muscoli cronicamente contratti. Ha un importante ruolo inspiratorio.
Il QUADRATO DEI LOMBI e l’ ILEOPSOAS sono muscoli profondi che delimitano posteriormente la cavità addominale, il primo a partire dalle ossa del bacino (cresta iliaca), l’altro dal femore, entrambi giungono alla colonna lombare e permettono i movimenti basculanti del bacino.

A questo livello troviamo alcuni componenti dell’APPARATO DIGERENTE e dell’APPARATO ESCRETORE.
Le funzioni svolte da questi apparati sono fondamentali per:

L’ASSORBIMENTO e l’utilizzo dell’energia;
La DIFESA da microrganismi nocivi e la riduzione delle infiammazioni,
L’ELIMINAZIONE delle scorie;
La REGOLAZIONE dell’equilibrio acido-base (ioni positivi – negativi) e dei liquidi;

Queste funzioni sono regolate dal Sistema Neurovegetativo.
Già Reich (Funzione dell’Orgasmo), aveva evidenziato come nella cavità addominale si trovino i generatori dell’energia bio-psichica, si tratta dei grandi centri del SNA, il PLESSO SOLARE, il PLESSO IPOGASTRICO e il PLESSO GENITALE.
Un vero e proprio “cervello” viscerale che ci fornisce sensazioni vegetative emozionali.Reich parla dell’angoscia addominale (Funzione dell’Orgasmo) e di come i bambini imparano presto a controllarla spingendo il diaframma in basso e comprimendo così il plesso solare tra il diaframma stesso e i muscoli dell’addome.Credo che tutti voi abbiate provato prima o poi gli effetti dell’ansia sui visceri, spesso prima di un incontro importante, che può cambiarci la vita, come un esame, un nuovo lavoro, l’acquisto di una casa avrete sentito la necessità di correre al gabinetto per un’improvvisa diarrea (scarica del parasimpatico che segue ad un’eccesso del simpatico: ansia), oppure sarete stati in preda a dolori lancinanti come se doveste partorire (cambiamento: nascita).Ecco alcuni disturbi tipici legati alla prevalenza del Sistema Simpatico e del Parasimpatico o alla scarica dell’uno seguita dalla compensazione dell’altro:

L’ULCERA GASTRICA
La simpaticotonia cronica provoca un’eccesso degli acidi e una riduzione dell’alcaninità, ciò espone la mucosa dello stomaco all’azione degli acidi, nel frattempo le stesse scariche del simpatico impediscono i movimenti peristaltici così che gli acidi non vengono spinti in avanti ma ristagnano nello stomaco con un effetto che può essere definito di “autodivoramento”.
COLITE SPASTICA (sindrome del colon irritabile)
Questo disturbo molto diffuso (soprattutto nelle donne per le quali forse indica anche castrazione sessuale), riguarda il tratto dell’intestino conosciuto come COLON che circonda come una cornice le anse dell’intestino tenue. Si presenta con stitichezza alternata a diarrea, la prima è legata ad un eccesso del Simpatico, la seconda ad un eccesso del Parasimpatico. Il dolore percepito è crampiforme ed è forse dovuto agli spasmi provocati dall’effetto alternato dei due sistemi sulla muscolatura liscia delle pareti intestinali. Federico Navarro collega questo disturbo ad una depressione reattiva, una combinazione d’insoddisfazione (rabbia) e sfiducia in se stessi.
COLITE ULCEROSA
Colpisce il retto, la porzione finale dell’intestino crasso, e il colon con lesioni. I sintomi sono diarrea, con sangue e muco e forti dolori che precedono l’evacuazione. Questo è un disturbo che Federico Navarro considera psicosomatico e quindi tipico dell’area psicotica o border line. È tipico di persone che hanno paura di perdere il controllo, asessuate, spesso ossessionate dallo sporco e dall’ordine, cercano nel terapeuta sicurezza e autorità, salvo poi sentirlo come troppo esigente e costrittivo.

Altre malattie sono quelle che rappresentano simbolicamente delle castrazioni come l’APPENDICITE e l’ERNIA. Oppure tendenze periodiche alla STIPSI, con prevalenza del simpatico, o DIARREA, con prevalenza invece del parasimpatico.
Le EMORROIDI sono nodi che si formano nei vasi sanguigni dello sfintere anale a causa del suo spasmo cronico.

Inibizione all’azione

Dopo aver descritto l’effetto delle componenti neurovegetative sui visceri vorrei riportare, brevemente, uno studio interessante sul fattore endocrino.Si tratta della teoria di un certo Henri Laborit, un medico francese che come tutti gli scienziati che non si sono allineati con le istituzioni scientifiche maggioritarie è stato emarginato e poi recuperato solo più tardi.La sua teoria è nota come SIA, Sistema d’Inibizione all’Azione. Nato diciassette anni più tardi di Reich, Laborit descrive aspetti del comportamento e della fisiologia umana che sono abbastanza in linea con lui, tuttavia, a differenza di Reich, non ha approfondito le componenti inconsce e non ha elaborato alcuna tecnica terapeutica.Il sistema d’inibizione all’azione (SIA), serve ad impedire un’azione quando questa non è utile, cioè quando porterebbe a una punizione o una tensione maggiore invece di diminuire il dolore, oppure non sarebbe più produttiva. È chiaro che impedire un’azione può salvare la vita.L’inibizione però, deve essere breve, lunga quanto basta per riorientarsi e poi deve essere seguita da una nuova azione.Nella ricerca sperimentale di Laborit si mettono gli animali di fronte a situazioni di stress. Gli animali a cui si impedisce di muoversi mostrano disturbi viscerali e segni d’angoscia, come comportamento disorganizzato, mancanza di coordinazione, diarrea. Certi sviluppano un aumento della pressione arteriosa mentre altri mostrano ulcerazioni del tratto gastro-intestinale.Invece gli animali a cui è permesso muoversi mentre sono esposti alle stesse condizioni di stress NON mostrano segni di patologie comportamentali o fisiologiche. S’intende che per azione ci riferiamo alla lotta ma anche alla fuga.Già Hans Selye aveva scoperto che qualsiasi tensione profonda attiva la secrezione di tre ormoni da parte delle ghiandole surrenali, da lui chiamati “ormoni dello stress”, cioè adrenalina, noradrenalina e corticosteroidi.Secondo Seyle questi ormoni, sebbene funzionino come parte del sistema difensivo del corpo, possono produrre un’alterazione fisiologica ogni volta che la loro secrezione è troppo intensa e prolungata.Laborit ha scoperto qualcosa di più, se allo stress segue un movimento attivo è secreta adrenalina che favorisce altro movimento e ripristina l’equilibrio.Al contrario, quando lo stress è accompagnato da prolungata inibizione sono secreti noradrenalina e corticosteroidi e questi ormoni agiscono sul sistema limbico con un effetto a feedback che rinforza l’inibizione creando un circolo vizioso.La continua secrezione di noradrenalina porta all’ipertensione attraverso la compressione arteriosa cronica; la continua secrezione di corticosteroidi, d’altro lato, riduce le capacità di difesa immunologica del corpo. Il bacino e la sessualità (1º parte)

Le ricerche di Wilhelm Reich
La potenza orgastica
l’impotenza orgastica

Il bacino e le sessualità (I parte).

Le ricerche di Wilhelm Reich

Secondo Reich l’uomo è l’unica specie biologica che ha distrutto dentro di sé la naturale funzione sessuale ed è da ciò che derivano le sue sofferenze.Reich scoprì che il piacere si manifesta come una carica elettrica sulla superficie della pelle, maggiore è il piacere più elevata è la carica che rileva il galvanometro.Inizialmente la chiamò energia bio-elettrica, quando però egli capì che non si trattava di un tipo di energia elettrica, la ribattezzò energia dell'”orgone” o energia vitale.In seguito scoprì che quest’energia si irradia oltre la superficie della pelle come un campo energetico.Infine, si accorse che durante le esperienze sessuali soddisfacenti quest’energia è particolarmente concentrata nei genitali e, attraverso l’orgasmo si scarica in tutto il corpo eliminando la stasi e distribuendosi in tutto l’organismo.
La cosa non accade in presenza d’angoscia poiché, in quel caso, non è rilevata alcuna carica sulla pelle e quindi anche nessuna scarica.I genitali possono perciò essere considerati come un organo specializzato della pelle, capace di accumulare e scaricare l’energia ed eliminare la stasi.Ciò è possibile, però, solo in assenza d’angoscia, quando l’organismo può abbandonarsi completamente alle piacevoli sensazioni sessuali attraverso le convulsioni di tutto il corpo e la momentanea perdita di coscienza nota come orgasmo.Il disturbo della naturale funzione sessuale è stato definito da Reich IMPOTENZA ORGASTICA, ed è considerato da lui stesso il fulcro della sessuo-economia, un po’ come il complesso di Edipo per la psicoanalisi.Per la psicoanalisi, i problemi sessuali sono soltanto uno dei sintomi, per Reich sono il nucleo della nevrosi.
I contemporanei di Reich, (e oggi non è cambiato quasi niente), consideravano la potenza erettiva o eiaculatoria come sinonimi di salute genitale, invece secondo Reich, e noi siamo d’accordo, sono solo la premessa indispensabile per il raggiungimento della POTENZA ORGASTICA, ma non corrispondono ad essa.La POTENZA ORGASTICA è infatti:
La capacità di abbandonarsi, senza alcun’inibizione, al flusso dell’energia biologica, la capacità di scaricare l’eccitazione sessuale accumulata, attraverso contrazioni piacevoli involontarie del corpo.Reich, individuò nell’impotenza orgastica il nucleo somatico della nevrosi, i suoi contemporanei lo criticarono affermando di conoscere un gran numero di nevrotici genitalmente sani.Reich si sentì quindi stimolato ad osservare più da vicino questa cosiddetta “salute genitale”. Si accorse così, stupito, che l’analisi meticolosa del comportamento genitale, vantata dagli psicoanalisti dell’epoca, non andava oltre la mera affermazione di aver avuto un rapporto sessuale, un’analisi che andasse più in là era rigorosamente tabù.

Reich decise così di colmare questa lacuna e si dedicò, all’osservazione e descrizione scrupolosa delle fasi dell’incontro sessuale tra individui orgasticamente potenti.

La potenza orgastica

Queste sono le fasi descritte da Reich:
Fase del controllo volontario dell’aumento del piacere

L’erezione è piacevole e non dolorosa, l’organo non è sovraeccitato (come nel caso dell’eiaculazione precoce), il sangue affluisce nel genitale femminile attraverso un’abbondante secrezione delle ghiandole genitali e si inumidisce (che manca nella frigidità).
L’uomo e la donna sono affettuosi, non vi è sadismo, aggressività o inattività e passività. L’attività della donna non si distingue in nulla da quella dell’uomo (la passività della donna, spesso è il risultato delle fantasie masochistiche di essere violentata).
Il piacere si incrementa improvvisamente con la penetrazione, alla sensazione dell’uomo di “venir succhiato” corrisponde la sensazione della donna di “succhiare il pene”.
La spinta aumenta ma non ha alcun carattere sadico è il reciproco, lento, spontaneo, non sforzato strofinamento ad innalzare l’eccitazione che si concentra sul pene e sul glande e, sulle parti posteriori della mucosa vaginale. Il corpo è ancora meno eccitato dei genitali, la coscienza è completamente concentrata sulla percezione del flusso delle sensazioni di piacere al fine di raggiungere la massima tensione prima che inizi l’orgasmo. Le sensazioni di piacere sono tanto più intense, quanto gli strofinamenti sono lenti, delicati e reciprocamente armonizzati. È assente la violenza che distingue l’atteggiamento sadico degli individui con anestesia ai genitali o la fretta nervosa di coloro che soffrono d’eiaculazione precoce.
In questa fase l’interruzione dello strofinamento non è spiacevole, l’eccitazione cade un poco ma non svanisce. Lo strofinamento continuato aumenta l’eccitazione che si estende gradualmente a TUTTO IL CORPO, mentre il genitale rimane allo stesso livello, dopo un improvviso nuovo accrescimento dell’eccitazione genitale comincia la seconda fase.

Fase delle contrazioni muscolari involontarie
In questa fase il controllo volontario dell’eccitazione non è più possibile.
Aumentano le pulsazioni e vi sono profonde espirazioni.
L’eccitazione si concentra sempre più sul genitale, Reich definisce quest’esperienza: irradiazione dell’eccitazione dal genitale.
Iniziano contrazioni involontarie dell’intera muscolatura genitale e del pavimento pelvico, si tratta di onde, l’alto dell’onda coincide con la completa penetrazione, il basso con il suo ritiro.
L’interruzione dell’atto sessuale è assolutamente spiacevole.
L’eccitazione cresce rapidamente fino all’acme.
Gli strofinamenti, brevemente cessati nel momento dell’ACME “acuta”, si intensificano spontaneamente.
L’acme rappresenta il punto in cui l’eccitazione cambia direzione, dal genitale l’eccitazione orgastica si diffonde in tutto il corpo determinando vivaci contrazioni di tutta la muscolatura del corpo. Questa scarica motoria, è il rifluire dell’eccitazione dal genitale al corpo. Il completo riflusso dell’eccitazione costituisce il soddisfacimento (trasformazione dell’eccitazione nel corpo e scarica dell’apparato genitale).
L’eccitazione diminuisce dolcemente e ad essa si sostituisce una piacevole distensione fisica e psichica. Nei confronti del partner vi sono sentimenti di appagamento, tenerezza, gratitudine.

Riassumendo quindi:
Fase del controllo volontario e dell’aumento del piacere:
erezione nell’uomo, lubrificazione nella donna; preliminari affettuosi, aumento del piacere con la penetrazione; aumento della spinta profonda senza forme sadiche, accrescimento dell’eccitazione genitale.
Fase delle contrazioni involontarie:
movimenti involontari di tutto il corpo e del pavimento pelvico, acme, offuscamento della coscienza, l’eccitazione refluisce in tutto il corpo con una curva molto dolce provocando distensione.

L’impotenza orgastica

Come avrete notato la prima fase, descritta da Reich, è prevalentemente sensoria, mentre la seconda è caratterizzata dall’esperienza motoria.Le disfunzioni sessuali possono riguardare la fase sensoria e quindi presentarsi come incapacità di sentire l’eccitazione sessuale.
Di questo gruppo fanno parte tutti i disturbi che implicano una diminuzione del desiderio come l’impotenza erettiva dell’uomo o la frigidità nella donna.Oppure possono riferirsi alla fase motoria e quindi presentarsi come incapacità di raggiungere un acme soddisfacente e quindi ad abbandonarsi pienamente alle convulsioni orgastiche.
Di questo gruppo fanno parte i disturbi come l’eiaculazione prematura o ritardata che si verifica senza sensazione dell’acme nell’uomo, e, nella donna, come anorgasmia, incapacità di giungere all’acme, o di giungervi senza la stimolazione del clitoride.In realtà, i due aspetti della funzione sessuale, quello sensoriale e quello motorio, fanno parte di una risposta unitaria. Reich si è concentrato sull’impotenza orgastica perché ciò che ostacola e inibisce la componente sensoriale ed eccitatoria è comunque la paura del pieno abbandono.Ma è facile per sessuologi e psicologi considerare queste disfunzioni come disturbi, ciò che ha individuato Reich invece, non è così facile da individuare, né da riconoscere.Vi sono eiaculazioni che non sono né precoci né ritardate ma si manifestano prima che avvengano i movimenti involontari, in più le sensazioni sono limitate alla zona genitale o al massimo si estendono leggermente nel bacino e nelle gambe e, soprattutto, non si avverte nessuna dissoluzione della personalità, dell’Ego o delle barriere corporee.Reich ha definito questo disturbo diffusissimo IMPOTENZA ORGASTICA.Quali sono le misure messe in atto per impedire il raggiungimento dell’acme e l’abbandono che segue?Il primo freno nella sessualità riguarda il “movimento”; più ci si muove, infatti, più si prova piacere, quindi per bloccare le sensazioni sessuali si limitano i movimenti sessuali, soprattutto quelli del bacino.Altre “manovre” difensive sono:

Trattenere il respiro
Non emettere suoni
Controllare i movimenti o compiere movimenti disarmonici
Inarcare il torace
Ritrarre il bacino
Serrare o irrigidire le gambe
Trattenere lo sfintere anale
Fantasticare

Il bacino e la sessualità (2º parte)

L’impotenza erettiva
L’eiaculazione precoce e l’eiaculazione ritardata
Frigidità e anorgasmia
Vaginismo e dispaurenia
I muscoli del segmento pelvico
Aspetti psichici e somatici del bacino
Il Super-Io secondo Federico Navarro

Le disfunzioni sessuali

Prima di descrivere alcuni tipici disturbi sessuali è bene ricordare che quando si presentano sono sempre relazionali, riguardano, cioè, tutti e due i partner, non solo chi evidenzia il problema.Significa, in altre parole, che è bene risolverli insieme, alleati l’uno con l’altro. Oppure, a scopo terapeutico, anche accusandosi proiettivamente, ma per individuare meglio il proprio problema, non per scaricare veramente le colpe sull’altro.

Un’altra precisazione riguarda il carattere temporaneo o episodico di questi disturbi che possono presentarsi come somatizzazioni, reazioni, cioè, ad eventi o vissuti emotivi.

L’impotenza erettiva

L’impotenza erettiva si verifica quando il meccanismo vascolare riflesso non riesce a pompare nei corpi cavernosi del pene abbastanza sangue da renderlo rigido ed eretto.Sono molte le possibili spiegazioni, oltre a quelle specifiche relazionali (dinamiche), in generale qui è all’opera l’azione vasocostrittrice del sistema simpatico quindi c’è una condizione d’ansia che si combina spesso con un eccesso dell’eccitazione o con un livello d’eccitazione mal tollerato che scatena la reazione di fuga.

Può esserci paura della vagina quando l’erezione c’è, ma scompare non appena si intende penetrare, o quando si riesce a mantenere l’erezione solo con la manipolazione manuale o orale, chiaro segno di una sessualità pregenitale.

L’eiaculazione precoce

L’uomo per il ruolo che ha nel rapporto sessuale non sembra avere problemi di movimento, in realtà i diffusi problemi di eiaculazione precoce dimostrano il contrario. Infatti l’eiaculazione avviene dopo pochissimi movimenti coitali o addirittura prima ancora di penetrare.La dinamica psicologica di questo problema è l’aggressività vendicativa inconscia nei confronti della donna, ciò è reso evidente dalle conseguenze dell’eiaculazione precoce: infatti spesso la compagna non fa in tempo a raggiungere l’orgasmo restando insoddisfatta e scontenta.Il bacino è, appunto, un “bacino” che ha la proprietà di accumulare una gran quantità d’energia, ed è proprio da questa capacità che dipende il grado d’intensità della scarica.

L’eiaculazione precoce, a causa dei blocchi muscolari del bacino, è l’incapacità di innalzare il livello energetico e mantenerlo, in pratica tollerarlo, per un certo tempo.

L’eiaculazione ritardata

Il problema dell’eiaculazione ritardata è opposto, perché la difficoltà ad eiaculare può far durare un rapporto anche due o tre ore. Anche qui è presente una dinamica d’aggressività (la compagna ne esce sfinita), con in più una componente sadica sostenuta da un tratto narcisistico.Per quanto riguarda l’aspetto energetico, se nel primo caso abbiamo parlato d’incapacità a caricarsi, qui troviamo la paura di scaricarsi, di abbandonarsi ai movimenti orgasmici involontari.

La perdita del seme è vissuta come una dispersione d’energia vitale e quindi temuta (la filosofia taoista prescriveva la ritenzione del seme, in quanto eiaculare significava invecchiare precocemente).

Le disfunzioni sessuali nelle donne

È più difficile parlare delle disfunzioni sessuali dell’universo femminile, nell’uomo tutto sembra più evidente a cominciare dai suoi genitali che trasmettono segnali molto “visibili” quando è eccitato sessualmente. Nella donna, invece, tutto è più nascosto, come i suoi organi genitali. In generale, le donne, quando non siano genitalmente sane o isteriche di copertura (sessualità orale), nascondono il proprio desiderio sessuale.Aiutate dalla minore evidenza dei loro organi genitali, le donne non affrontano seriamente questo come un problema, perseverando così in un atteggiamento di chiusura e rifiuto per partner che, in più, negano, aspettando che sia “lui” a darsi da fare o lamentandosi perché “pensa solo a quello”.Spesso nelle storie delle donne che vivono il sesso come un obbligo c’è la completa assenza d’esperienze di masturbazione, o se c’è qualche episodio questo riguarda solo la manipolazione del clitoride, mai della vagina.Se proponi loro di cominciare ad affrontare il problema masturbandosi, lo fanno con grandi resistenze, si mostrano indifferenti, annoiate. Quando invece, nel farlo cominciano a provare qualche senso di colpa, almeno sanno che la loro indifferenza nasconde, in realtà, paura.La masturbazione è uno strumento fondamentale di conoscenza del proprio corpo e delle proprie sensazioni sessuali, senza la masturbazione, la zona genitale è come anestetizzata, separata dal corpo. Se non si sviluppa la capacità di “darsi” piacere, non può nemmeno attivarsi il desiderio di darlo e riceverlo.

I disturbi più noti in campo femminile sono la totale incapacità di provare la benché minima eccitazione sessuale definita come frigidità, l’assenza d’orgasmo nota come anorgasmia, (o l’incapacità di provare quello vaginale), e le disfunzioni muscolari note come vaginismo e dispareunia.

Frigidità e anorgasmia

Frigidità vuol dire “freddezza”, questa non si traduce solo nel disinteresse per il sesso ma corrisponde ad un comportamento freddo, rigido e anaffettivo generale.Queste donne nascondono dietro al rigido controllo delle loro emozioni una gran paura, che controllano mediante l’inibizione totale del desiderio sessuale e di ogni altro bisogno, eccettuato forse quello intellettuale.Nell’anorgasmia è presente il desiderio e l’eccitazione ma questa non raggiunge mai l’acme necessario perché si avvii la fase delle contrazioni orgasmiche involontarie. Le donne anorgasmiche temono di perdere il controllo, vivono la dissoluzione dell’Io, tipica dell’esperienza orgasmica, come una minaccia d’annientamento.Questo non concedersi fino in fondo all’altro corrisponde anche ad un controllo narcisistico e orgoglioso che si traduce in un rifiuto all’altro di cui, però, non sono coscienti, convinte, come sono, di desiderare ardentemente avere l’orgasmo.Le donne che raggiungono l’orgasmo solo con la manipolazione del clitoride hanno invece difficoltà ad acquisire un identità sessuale femminile adulta. Quando c’è potenza orgastica la manipolazione del clitoride è gradita solo nella prima fase, nella seconda può risultare addirittura sgradevole.

L’orgasmo clitorideo, a differenza di quello vaginale, resta circoscritto nell’area dei genitali e produce poco o nessun movimento convulsivo nel resto del corpo.

Il vaginismo e la dispareunia

Il vaginismo e la dispareunia sono:
il primo uno spasmo della muscolatura involontaria vulvo-perineale tale da impedire la penetrazione ma anche ogni tipo d’intrusione vaginale.
Il secondo è una contrattura dei muscoli vaginali tale da permettere la penetrazione che però è sentita come molto dolorosa.In tutti e due i casi sono presenti il desiderio, l’eccitazione e la capacità di giungere all’orgasmo clitorideo.Le donne vaginistiche sono fobiche e ansiose, spesso conservano una tenace ignoranza sull’anatomia dei genitali interni. Le donne affette da dispareunia (ma è anche un disturbo maschile) presentano lo stesso arresto nell’evoluzione della loro identità psicosessuale ma hanno, in più, una componente d’ostilità e aggressività nei confronti del partner.Potremmo dire che il primo tipo di donna rifiuta il pene perché è infantile, il secondo lo rifiuta perché è fallica, castrante.Fisiologicamente la vagina, come la bocca (i due tessuti sono composti dallo stesso tipo di cellule), è un organo con un orifizio, ma psicologicamente e emotivamente rappresenta un accesso al corpo della donna, l’uomo che penetra la vagina “entra” anche nel corpo femminile.In un senso più profondo, l’organo sessuale di una donna è tutto il suo corpo. Quando una donna reagisce sessualmente con tutto il corpo, reagisce con un orgasmo vaginale.

L’impossibilità ad accettare la penetrazione rappresenta la difesa estrema da un accesso alle profondità del proprio corpo che è vissuto come minaccioso, pericoloso per la propria integrità psicofisica. Per finire, vorrei aggiungere che, spesso, nella storia di queste donne c’è una madre che le ha allattate con un seno fallico, invadente.

I muscoli del segmento pelvico

Gli organi dell’apparato genitale poggiano su un “pavimento” concavo interrotto in corrispondenza degli orifizi degli apparati uro-genitale e digerente.Il PAVIMENTO PELVICO è costituito da più strati:

Diaframma pelvico
Muscolatura dell’ano (sfintere esterno)
Muscolatura della regione uro-genitale

Il DIAFRAMMA PELVICO è costituito da diversi fasci muscolari che collegano le ossa del pube, ileo, ischio al coccige. Il muscolo elevatore dell’ano costituisce la parte più importante del diaframma pelvico con la funzione di sostenere gli organi intrapelvici opponendosi al loro prolasso.
Si compone di due muscoli a destra e sinistra che si incrociano in mezzo e contornano il retto, la prostata nel maschio, e il retto, l’uretra e la vagina nella femmina.

Il blocco questo muscolo è responsabile del vaginismo.

Il MUSCOLO SFINTERE esterno dell’ANO è posto sotto al diaframma pelvico e la sua contrazione determina l’espulsione della materia fecale.
La MUSCOLATURA DELLA REGIONE URO-GENITALE è composta da muscoli importantissimi per la riproduzione e la sessualità. Sono muscoli che regolano la progressione dello sperma nel canale uretrale e la regolazione sfinterica dell’urina, e contribuiscono comprimendo la radice dei corpi cavernosi del pene e del clitoride alla loro rispettiva erezione sia aiutando a sospingere il sangue nei loro corpi cavernosi, sia impedendone il deflusso.

Nel maschio partecipano anche al fenomeno dell’eiaculazione determinando l’espulsione ritmica dello sperma.

Aspetti somatici e psichici del bacino

Tra le zone dolenti, e spesso bloccate del bacino, vi sono quelle sopra la sinfisi pubica, e gli adduttori delle cosce, quelli che Federico Navarro chiama i “muscoli della verginità”, tesi e contratti sia nelle donne che negli uomini.L’azione di questi muscoli e di quelli che consentono i movimenti di bascula del bacino (addominali, glutei, cosce, lombari), è responsabile della postura ritratta del bacino, (tanto diffusa e erroneamente considerata sensuale!) chiaro segno di castrazione e paura sessuale, così come di quella inversa, segnale invece di resa, sconfitta.A questo livello, i naturali impulsi verso il piacere, si trasformano a causa dell’armatura, in una specifica angoscia e ira pelvica che è a sua volta rimossa. Riuscire a percepirla e manifestarla può rivelarsi fondamentale per riuscire a sbloccare il bacino.L’angoscia orgastica si presenta allorché le sensazioni orgonotiche possono giungere ai genitali. Questa è spesso una fase difficile, perché l’angoscia dell’orgasmo fa nascere resistenze e paure tenaci.

Si possono avere i sintomi più svariati, diminuisce il desiderio sessuale, si ha paura di scoppiare, di cadere, di non avere coordinazione nelle gambe, si percepisce un senso di vuoto.

Il Super-io secondo Federico Navarro

La paura inscritta nel bacino è collegata al Super-io, che Federico Navarro colloca nel bacino e nelle gambe. Federico postula l’esistenza di due Super-io: uno legato al collo, l’altro al bacino.Il Super-io del 3º livello, il collo, ha a che fare con il narcisismo secondario. Si tratta dell'”ideale dell’Io”, che costringe il soggetto a mascherare quegli aspetti di sé che, raffrontati con il modello ideale interno (frutto delle aspettative genitoriali), giudica negativi. Il Super-io nel collo corrisponde, quindi, alla paura del proprio giudizio.Il Super-io del 7º livello, la pelvi e le gambe, corrisponde alla somma delle proibizioni e dei divieti che il soggetto ha subito e introiettato nel periodo dell’educazione sfinterica e della scoperta delle sensazioni sessuali con la masturbazione.Questo Super-io è un entità autoritaria che reprime e castra, essa corrisponde alla paura del giudizio altrui, dell’opinione che gli altri hanno di noi.

La repressione induce a tenere costantemente contratto lo sfintere anale, una tensione che coinvolge quasi tutti i muscoli di questo distretto.

 

Tratto da www.ass-arcano.it

Parole dette da Alexander Lowen al Dodicesimo Congresso Biennale di Analisi Bioenergetica

“Sono trascorsi quarant’anni da quando ho sviluppato l’analisi Bioenergetica dai concetti carattero analitici di Reich con l’intenzione di approfondire il lavoro analitico e di espandere le procedure corporee per rendere più efficace la terapia. Focalizzai l’attenzione sulla respirazione, l’espressione dei sentimenti e l’abbandono sessuale all’amore come si manifesta nel riflesso dell’orgasmo. Questo programma conteneva una grande promessa per tutti noi, coinvolti nello sviluppo di questo nuovo approccio, credemmo di poter aiutare le persone a raggiungere in tal modo il pieno appagamento.

Mi rattrista dover ammettere che l’Analisi Bioenergetica non ha esaudito tale aspettativa: come fondatore e guida mi sento responsabile di questo fallimento che è dovuto alla mia insufficiente comprensione della profondità della patologia che affligge gli esseri umani nella nostra cultura. Tale fallimento ha origine anche nella mia determinazione egoistica a ottenere risultati. Ma per me gli ultimi quarant’anni non sono trascorsi invano. Ho affrontato l’arroganza e la compulsività della mia personalità e ho imparato ad accettare la vita e a lasciarla scorrere. Ciò mi ha condotto a una comprensione del tutto nuova dei compiti terapeutici e del processo dell’Analisi Bioenergetica. Ho chiamato questa nuova comprensione arrendersi al corpo. Il fine dell’arrendersi è l’esperienza della gioia”

Parole dette da Alexander Lowen al Dodicesimo Congresso Biennale di Analisi Bioenergetica

L’Analisi Bioenergetica nasce negli Stati Uniti durante gli anni cinquanta da un allievo di Wilem Reich: Alexander Lowen. Nel 1956 nasce L’Istituto di Analisi Bioenergetica a New York.

Fu introdotta in Italia negli anni settanta per iniziativa di un gruppo di terapeuti di formazione reichiana. A loro si deve la fondazione della prima Società di Analisi Bioenergetica in Italia nel 1974, la prima in Europa, da cui si sviluppò l’attuale Società Italiana di Analisi Bioenergetica.

(tratto da www.siab-online.it)

Omaggio a uno Psicoterapeuta con “i piedi per terra”

All’inizio di giugno chi si trovava a Pocono Manor, in Pennsylvania, ha potuto assistere a un avvenimento piuttosto inconsueto: il fondatore di una affermata scuola di psicoterapia ha lasciato di sua spontanea volontà, e senza gravi tensioni, il timone del comando ai suoi collaboratori più anziani, mentre un folto gruppo di ex-allievi, provenienti da numerosi paesi, lo festeggiava e lo ringraziava con commozione. Occorre aggiungere che protagonista di questo episodio non è stata una figura di secondo piano, ma Alexander Lowen, il padre riconosciuto della bioenergetica, autore tra l’altro di dodici volumi, molti dei quali pubblicati in Italia da Feltrinelli e Astrolabio.

Pur in condizioni fisiche e mentali sorprendenti, Lowen, che ha 85 anni, ha così presentato le proprie dimissioni alla XIII Biannual Conference dell’Istituto internazione di bioenergetica. Nato a New York nel 1910, Lowen iniziò come insegnante di educazione fisica, quindi si laureò in legge e più tardi in medicina a Ginevra. Nel 1940 ebbe l’occasione di ascoltare Wilhelm Reich alla New School for Social Research di New York e questo incontro cambiò la sua vita. Il corso di Reich era dedicato alla comprensione dell’antitesi e dell’identità dei processi psichici e somatici. L’antitesi tra questi due aspetti era cosa nota; invece la loro identità, quantomeno nel mondo occidentale, non incominciò a venir compresa fino a quando Reich non la affrontò e la riformulò in termini clinici, vale a dire sulla persona viva. Per far questo modificò in termini molto più concreti il concetto di energia (la libido) del pensiero analitico. Reich, come si ricorderà, si era formato all’interno della psicoanalisi freudiana.

All’inizio dei seminari, Lowen era scettico sull’enfasi data da Reich alla sessualità, ma alla fine del corso le sue riserve erano scomparse: si era reso conto che in lui c’era una scissione: da una parte, per così dire, l’insegnante di ginnastica, dall’altra l’intellettuale. Reich sosteneva che l’essere umano è un’unità “psico-somatica”; che esiste un’energia (che più tardi Lowen chiamerà “vitale”) e che questa energia può venire “bloccata” difensivamente creando una sorta di struttura; questa struttura costituisce il carattere dell’individuo. Per Reich, infine, il carattere può venire compreso sia nelle modalità con cui insorge, sia nelle modalità con cui imprigiona l’individuo. Il carattere denota un modello ripetitivo di comportamento, un ripetersi di emozioni e di pensieri (meglio, di “modo di pensare”). Il carattere, in una parola, è responsabile delle nostre stereotipie. Ma il carattere, con questa sua unicità fortemente strutturata, ci fornisce anche un’identità, ci suggerisce scopi nella vita e ci dà un certo senso di sicurezza. E’ un meccanismo di sopravvivenza, aggiungerà più tardi lo stesso Lowen; per questo, anche se è responsabile di molte sofferenze, resiste al cambiamento.

Lowen venne subito affascinato dalla personalità e dall’intelligenza di Reich e decise di farsi analizzare da lui. Lavoreranno insieme fino al 1952 e Lowen diventerà, seppure in maniera critica, il suo più acuto continuatore. Ha descritto nei dettagli la sua terapia con Reich nel libro Bioenergetica, così come descriverà in altri volumi le ragioni che lo portarono ad allontanarsi dal maestro. Tra le varie esperienze che narra ce n’è una che a taluni è sembrata centrale: la terapia, come la considerava Reich, contemplava la resa ai “processi involontari” del corpo, rappresentati essenzialmente da una respirazione spontanea e profonda. L’incitamento di Reich era: “Non farlo, lascia che avvenga”. Ammonimento che, come è stato autorevolmente ricordato, richiama da vicino taluni insegnamenti di maestri orientali, come i taoisti. Le innovazioni che Lowen porterà alle intuizioni di Reich hanno a che fare con diversi aspetti teorici, tecnici e probabilmente ideologici, ma forse la principale di queste innovazioni riguarda il cosiddetto grounding (radicamento a terra): il paziente viene portato dal terapeuta a scoprire quanto poco egli viva “con i piedi per terra”, nel senso reale dell’espressione e come questa mancanza di “messa a terra”, in senso energetico, agisca negativamente su molti fattori che vanno dalla sessualità allo stesso funzionamento del pensiero. Per Lowen diventerà importante portare il paziente a muoversi, a scalciare, a gridare, a vivere concretamente le paure, la rabbia; diventerà importante insegnargli come può arrivare a dire “nò” e ad asserire la propria personalità. Tutto ciò per poter sperimentare il piacere “e qualche volta la gioia”, per usare una sua espressione.

Per Lowen il pianto è il primo meccanismo di liberazione, potremmo dire di “scarcerazione” del corpo umano. Dissolve la tensione, che in questo modo “si scioglie in lacrime”. Il pianto è anche un arrendersi al corpo e un permettere al processo di guarigione di instaurarsi. “Molti esseri umani si concedono di piangere con moderazione, ma un pianto profondo che rinnovi l’anima è per molti un evento fortemente temuto.” Spaventa perchè mette in contatto con la disperazione e con il desiderio di morire. D’altro canto, se un individuo riesce a piangere smuovendo questo livello profondo, scopre di provare un sollievo che lo porta a sperimentare la gioia: “torna sentirsi innocente”, commentava Lowen nel suo discorso di commiato a Pocono Manor. Sembrerebbe a prima vista evidente, già da questi pochi cenni, che la distanza che separa questo approccio da quello psicoanalitico, così come è stato tramandato dalla cultura di massa, oltre che dalla stessa letteratura psicoanalitica, sia notevole . Sembrerebbe che, dopo il distacco da Freud, Reich abbia imboccato una direzione diametralmente opposta e che Lowen e la sua scuola abbiano continuato ad allontanarsi dalla psicoanalisi e dai suoi sviluppi. Invece, in una certa misura, non è vero: proprio il passaggio del timone da parte di Alexander Lowen segnerà un’apertura sempre maggiore della bioenergetica ad alcune scoperte fondamentali della psicoanalisi, come il transfert e il controtransfert.

Mi riferisco a fenomeni noti per i quali (soprattutto) il rapporto tra il paziente e il terapeuta è impregnato, in maniera non cosciente, degli effetti che ancora perdurano, degli antichi rapporti che hanno condizionato il nostro sviluppo all’interno della famiglia. Quel fenomeno per il quale l’analista, senza che il paziente lo avverta, si trasforma nella madre, nel padre, nel fratello maggiore e così via, del paziente stesso (il controtransfert è la reazione del terapeuta a tutto questo).

A Pocono Manor risultava evidente che le nuove generazioni di terapeuti bioenergetici sentono sempre più la necessità di accogliere gli strumenti e i risultati recenti della psicoanalisi (soprattutto di quella che passa col nome di “psicoanalisi delle relazioni oggettuali), che molti bioenergetici conoscono in prima persona. Esiste anche un timido interessamento degli psicoanalisti agli approcci corporei e il presidente eletto dell’Internazionale freudiana, Otto Kernberg, ha annoverato Reich tra gli autori che più apprezza. Ma questo riavvicinamento, benché tardivo, è forse destinato a crescere, anche perché le “psicoterapie” ad approccio corporeo possono contare oggi su una presenza ben precisa che non può più essere ignorata. L’incontro dell’approccio psicologico che risale a Freud con quello corporeo che da parte di Reich rappresenta sicuramente la grande sfida che attende la “psicoterapia” nel prossimo inizio di millennio. Anche diverse forze sociali lavorano a favore di questo incontro. E’ stato accertato che una terapia combinata abbrevia i trattamenti e questo, oltre che i pazienti, interessa i funzionari delle assicurazioni che, già oggi negli Stati Uniti, sono diventati i veri arbitri che giudicano se una certa cura rientri o meno in quelle previste dalle polizze assicurative.

(Pubblicato in: MEDICINA E SOCIETA’, LE SCIENZE, n. 336, Agosto 1996 – di Andrea Crivelli)

Paura della leggerezza. Note sulle difese masochistiche di Gianfranco Ravaglia

Molto è stato scritto sul masochismo, ma il filone delle ricerche sulla struttura caratteriale masochistica o sui tratti caratteriali masochistici è sostanzialmente riconducibile agli studi di Wilhelm Reich e degli analisti che sono partiti dalle sue ricerche.

INDICE

1.Oralità e masochismo sul piano caratteriale
2.Dolore, depressione e difese masochistiche
3.La strategia difensiva masochistica
4.Atteggiamenti caratteriali masochistici presenti in complesse strategie difensive
5. Alcune sedute
6. Alcuni momenti di un percorso analitico

1. Oralità e masochismo sul piano caratteriale

Molto è stato scritto sul masochismo, ma il filone delle ricerche sulla struttura caratteriale masochistica o sui tratti caratteriali masochistici è sostanzialmente riconducibile agli studi di Wilhelm Reich e degli analisti che sono partiti dalle sue ricerche.

Opponendosi alla concezione speculativa freudiana relativa all’ipotesi di una pulsione di morte (S.Freud,1920), che era teoricamente insostenibile ed epistemologicamente inconsistente, Wilhelm Reich ha dimostrato la possibilità di ricondurre i comportamenti autodistruttivi e quindi anche gli atteggiamenti masochistici ad una logica difensiva (W.Reich,1945,cap.XI) ed ha istituito l’effettiva possibilità di un lavoro analitico su disturbi che precedentemente risultavano semplicemente incomprensibili. I suoi allievi hanno proseguito l’indagine sulle strutture caratteriali (E.Baker,1969, A.Nelson,1975, 1976, 1979) ed altri studiosi influenzati comunque dal pensiero reichiano hanno portato avanti in contesti teorici relativamente distinti la ricerca sulle difese caratteriali (A.Lowen,1958, R.Kurtz-H.Prestera,1976, D.Boadella,1976, D.Boadella,1987, D.Boadella-J.Liss,1986).

Una linea di ricerca più attenta alle modalità di interazione che alle rigidità caratteriali, si è aperta con l’analisi transazionale (E.Berne,1967, E.Berne,1972) e ciò ha aiutato gli analisti interessati al lavoro sulle difese caratteriali ad approfondire il loro approccio ed a considerare quindi gli atteggiamenti caratteriali più come strategie che come “strutture” (G.Ravaglia-A.Torre,1996).

In queste pagine mi propongo di riconsiderare le difese di tipo masochistico e di prendere spunto da questo specifico argomento per giustificare in generale l’opportunità di subordinare l’analisi del carattere all’analisi dell’intenzionalità difensiva. Tra le tante strutture caratteriali che meriterebbero esame altrettanto accurato, ho scelto questa semplicemente perché il disagio espresso dalle persone che manifestano delle difese masochistiche viene spesso confuso anche da psicologi e psichiatri con quello delle persone che manifestano difese depressive.

A differenza del carattere orale che in modi lievi o gravi protegge la persona da un senso di vuoto e di privazione, il carattere masochista protegge la persona da un senso di colpevolezza, inadeguatezza e da un vissuto di svalutazione.

Le persone con caratteristiche orali tendono alla depressione (lieve o grave) perché la depressione è un atteggiamento di rifiuto della realtà percepita come intollerabile in quanto non appagante i bisogni elementari di appoggio, riconoscimento, accoglienza. Le persone con un carattere orale sprofondano in sintomatologie depressive quando falliscono nella loro negazione del vuoto. Tale negazione è riconducibile fondamentalmente a due modalità: quella della dipendenza “ottimistica” e della controdipendenza.

La dipendenza “ottimistica” delle persone “orali” si manifesta con una irrealistica speranza di poter trovare nella vita adulta una compensazione soddisfacente per vissuti di deprivazione. In tale atteggiamento c’è la pretesa, cioè la rabbiosa convinzione che finalmente ci debba ben essere ciò che si sente come mancante.

Nella controdipendenza, al contrario, le persone ostentano un atteggiamento altrettanto irrealistico secondo il quale mostrano di non dipendere affettivamente da nessuno e di bastare a se stesse. In realtà la controdipendenza costituisce l’altro lato della stessa medaglia, definibile come dipendenza patologica. La persona controdipendente è semplicemente terrorizzata dalla possibilità di dipendere affettivamente e di essere poi abbandonata.

Nella realtà della vita adulta tutti dipendiamo affettivamente dalle persone care e tolleriamo tale situazione che ci rende vulnerabili ma anche soddisfatti dei reali buoni rapporti. Una volta che proiettiamo sulle relazioni adulte possibilità di appagamento o frustrazione relative al senso “sicurezza” (possibili solo nella prima infanzia nel rapporto con la figura materna) piuttosto che realistiche possibilità di incontro e di gratificazione, viviamo in modo irrazionale l’effettiva relazione e possiamo solo scegliere fra immaginarla ottimisticamente come una possibile salvezza o temerla e negarla.

La persona depressa detesta (difensivamente) se stessa per mantenere l’idea che se fosse migliore otterrebbe quel che vuole oppure detesta (difensivamente) il mondo perché privo di senso in quanto “inadempiente” (salvando così l’illusione che il mondo “dovrebbe” dare l’appagamento necessario).

Nelle versioni psicotiche di questi atteggiamenti difensivi, troviamo una negazione delle coordinate essenziali della realtà e quindi una totale negazione del valore di se stessi e del mondo oppure un altrettanto infondato senso di onnipotenza.

Di fatto, in un modo o nell’altro le persone con caratteristiche orali evitano il lutto relativo ad una esperienza di carenza, e restano inchiodate al passato e fermamente convinte di aver diritto (anche con venti o cinquant’anni di ritardo) a quella “pienezza” che solo una madre accettante avrebbe potuto dare nella prima infanzia.

Nelle forme nevrotiche o psicotiche, la problematica orale rinvia comunque ad una fase precoce dello sviluppo affettivo in cui il bambino non ha ancora ricevuto abbastanza sostegno da poter elaborare il dolore riconoscendosi come soggetto portatore di una specifica sofferenza. Per questo le persone con caratteristiche orali, sia che risultino semplicemente “appiccicose”, sia che si mostrino depresse, sia che fuggano nella controdipendenza, manifestano un senso basilare di fragilità.

Le persone con struttura caratteriale masochistica, al contrario non sono e non sembrano fragili e non cadono facilmente nella follia o in patologie nevrotiche gravi, anche se si difendono da vissuti dolorosi dell’infanzia in modi che possono essere più o meno marcati e distruttivi.

Dobbiamo subito sgombrare il terreno da qualsiasi confusione fra masochismo caratteriale e perversioni masochistiche; poiché queste ultime implicano una sessualizzazione di problemi affettivi ed una non adeguata considerazione per la integrità personale, rientrano in genere nel quadro di personalità borderline, anche se con tratti caratteriali masochistici.

Il classico carattere masochistico tanto discusso in letteratura è abbastanza raro, mentre i tratti caratteriali masochistici sono molto diffusi e rientrano quasi sempre in personalità abbastanza mature. Anche se il termine “masochismo” suona molto male e può dar l’idea di una grave “malattia”, o fa pensare (erroneamente) ad una “stupida” volontà di soffrire, rinvia in realtà a problematiche psicologiche significative ma non particolarmente “gravi”. Le persone che presentano aspetti masochistici nei loro atteggiamenti difensivi rivelano una sicurezza di base relativa al valore della loro vita e della vita in generale, sono affidabili per molti aspetti delle relazioni interpersonali e sono anche capaci di dare (magari in modo eccessivo e condizionato). Chiaramente soffrono e soffrono in modo irragionevole perché comunque non hanno elaborato dei vissuti molto penosi con cui non vogliono entrare in contatto, ma possono trarre giovamenti (a volte anche rapidi) da un lavoro analitico ben condotto.

Se nell’oralità il problema “antico” è costituito dalla mancanza di un rapporto capace di dare sicurezza, nel masochismo il problema “antico” è costituito dall’angoscia di incontrare rifiuto, svalutazione e colpevolizzazione in un rapporto comunque solido con una figura materna. Il masochista lotta contro se stesso per non compromettere con la propria rabbia una situazione stabile che comunque sente di aver conquistato. Si opprime controllando una profonda ostilità pur di mantenere anche nella vita adulta rapporti che sono insoddisfacenti e potrebbero essere semplicemente interrotti. A volte teme rapporti molto gratificanti in cui si troverebbe spiazzato perché non potrebbe sentirsi vittima. Infatti l’irrigidimento nel ruolo di vittima, per quanto penoso, ha coinciso nell’infanzia con la scoperta della capacità personale di “tollerare” delle difficoltà senza toccare un dolore troppo profondo e temuto. Le persone con carattere masochistico, avendo evitato una grande pena immobilizzandosi, temono di perdere la loro immobilità.

Le caratteristiche più evidenti dell’atteggiamento masochistico sono quindi riconducibili alla percezione di un forte senso di oppressione ed alla manifestazione frequente di lamentele che forniscono un piccolo sollievo alla “pressione interna” avvertita come insopportabile. Nella strategia masochistica rispetto alle altre persone ha invece un ruolo fondamentale la ricerca di situazioni insoddisfacenti a cui attribuire (vittimisticamente) il senso di oppressione (ed a cui reagire) e la tendenza a deteriorare le situazioni soddisfacenti perché esse sono percepite come angoscianti e pericolose (come se la felicità fosse una colpa e la leggerezza fosse un pericolo).

Il senso d’oppressione in questione non deve essere considerato “effetto” di reali oppressioni o maltrattamenti del passato (a meno che questi ultimi siano intesi in un senso tanto ampio da essere rintracciabili nelle famiglie di qualsiasi persona nevrotica, cioè nella quasi totalità delle famiglie). Reali oggettive situazione di maltrattamento conducono facilmente a disturbi di tipo borderline piuttosto che a difese masochistiche. Il senso d’oppressione accusato dalla persona con difese masochistiche deve al contrario essere considerato una esatta percezione dell’auto-oppressione (anche muscolare) che la persona stessa ha costruito per mantenersi in una posizione di “resistenza” rispetto a specifiche frustrazioni, manipolazioni, svalutazioni.

2. Dolore, depressione e difese masochistiche

Spesso gli atteggiamenti masochistici vengono confusi da medici (ma anche da psicologi e psichiatri) con quelli depressivi e ciò dà luogo a gravi errori sia nella terapia farmacologia che nella psicoterapia.

Per capire esattamente le differenze tra vari tipi di difese, dato che comunque si tratta di difese dal dolore, occorre ovviamente avere qualche idea ragionevole relativa al dolore, ma ciò è tutt’altro che scontato. Infatti, a volte, anche nei testi di psicoterapia non si contrappone adeguatamente il dolore (o la tristezza) alle difese depressive.

Robert White e Robert Galliland, ad esempio, in un noto testo scrivono che “La depressione è uno dei più comuni sintomi psichiatrici” (White-Galliland, 1975, p.149), ma dopo poche pagine esprimono un pensiero che contraddice radicalmente la precedente corretta affermazione: “La perdita produce depressione. L’emozione della depressione segnala la presenza di una perdita o la sua imminenza. Quando la depressione non raggiunge un grado chiaramente morboso, l’emozione e le sue concomitanti fisiologiche vanno semplicemente considerate una risposta biologicamente innata alla perdita” (p.154). In queste poche parole riscontriamo purtroppo sia una logica discutibilmente causale che presenta le emozioni come effetti di situazioni anziché come attive ed intenzionali risposte delle persone alle situazioni, sia una negazione delle differenze sostanziali fra tristezza, dolore, disperazione da un lato e depressione dall’altro. Gli autori suggeriscono che sia tutto una questione di “grado”, ovvero che essere depressi significhi essere “troppo tristi”. E questa è una ovvia sciocchezza, dato che ci sono persone molto addolorate in situazioni di perdita che non fanno nulla di assimilabile a quello che fanno normalmente le persone depresse. Una persona può aver perso un figlio e svolgere normalmente il suo lavoro, amare la moglie, piangere spesso guardando le foto o i vecchi giocattoli del figlio; un’altra persona può aver semplicemente perso l’opportunità di una promozione in ufficio e svegliarsi sempre tardi con la ferrea convinzione che la vita “non meriti di essere vissuta”. Sarebbe assurdo dire che la seconda persona esibisce una “eccessiva tristezza” poiché in realtà manifesta rabbia (silenziosa) per una (piccola) perdita che non accetta, non sente amore, rivela segni fisiologici di tensione, mentre la prima persona sta cercando di abituarsi ad una (grande) perdita che ha accettato come definitiva, ama sia sé che il figlio deceduto che le altre persone della sua vita, è rilassata e impegnata nella vita anche se ovviamente non dà segni di allegria.

Considerare la depressione una “forte” tristezza è errato come considerare la guerra una “intensa” pace. Si deve invece ragionevolmente sottolineare la netta contrapposizione delle due emozioni considerando la tristezza come una sincera accettazione di una reale perdita e la depressione come il rifiuto di una perdita e quindi considerando la tristezza come una emozione fondamentale e la depressione come una emozione difensiva e in ultima analisi come una difesa o una collezione di sintomi.

Sta di fatto che sono scarse nella letteratura specialistica le esplicite definizioni del dolore psicologico inteso come fenomeno soggettivo radicalmente opposto alla depressione ed ai vari stati d’animo “penosi” difensivi.

I bambini soffrono perché sono come gli adulti esseri umani con bisogni e desideri che la realtà a volte frustra. A differenza degli adulti però non possono accettare ed elaborare il dolore, a meno che non trovino il sostegno e l’appoggio di una figura genitoriale. In assenza di tale appoggio, e soprattutto quando proprio la figura genitoriale è fonte di sofferenza, i bambini interrompono il contatto con il dolore. Fanno questo nel modo più economico ed efficace, dato che non costruiscono atteggiamenti difensivi più gravi del necessario, ma lo fanno con competenza e determinazione. In altre parole sono fin dal primo giorno “dotati” delle capacità necessarie per interrompere il contatto con il dolore, ma sono privi delle capacità necessarie per elaborare ed integrare le perdite dolorose. Costruiscono atteggiamenti e progetti difensivi “senza scadenza”, e quindi (se non rivedono in un percorso analitico la loro strategia) continuano nella vita adulta a scappare (irragionevolmente) dalle emozioni penose che avevano (ragionevolmente) evitato nell’infanzia. Diventano adulti limitati nella capacità di accettare il dolore inevitabile, nella capacità di essere empatici coi figli e di dare sicurezza e sostegno ai figli. Diventano adulti che portano anche i loro figli a confrontarsi (senza il necessario appoggio) con esperienze dolorose e quindi a costruire le difese necessarie. Questo accade e continua ad accadere e chiarisce perché nella maggior parte delle relazioni interpersonali e dei rapporti sociali prevalgano in modo così marcato aspetti irrazionali e distruttivi che contraddicono il livello di maturazione intellettuale e culturale delle persone e le potenzialità costruttive dei gruppi.

Il dolore è sentito (se non vengono attivate delle difese) quando un bisogno o un desiderio incontrano una risposta frustrante che non può essere modificata. Quando la frustrazione è provvisoria o solo probabile, la risposta emotiva è quella della paura, ovvero della preparazione ad un possibile dolore. Quando la frustrazione può essere superata, la risposta emotiva è quella della rabbia, ovvero del rifiuto di una situazione sentita come insoddisfacente. Quando la frustrazione è insuperabile, la risposta emotiva è il dolore e la persona che prova un dolore profondo o lieve ha bisogno di tempo (di un tempo speso bene) per abituarsi a convivere con una sensazione di mancanza, di perdita irreparabile.

Nel lavoro del lutto la persona si abitua a continuare a vivere una vita che non è quella che aveva desiderato, poiché improvvisamente la vita implica la perdita di qualcosa che era stato ottenuto o l’impossibilità di realizzare ciò che era desiderato. Col lavoro del lutto la persona si abitua a sentire una mancanza; in altre parole col lavoro del lutto sviluppato in un tempo adeguato, la persona ristruttura sul piano cognitivo e su quello del sentire il suo orizzonte di vita. Il pianto costituisce l’espressione più compiuta del dolore. Col pianto la persona esprime il dolore, si abitua a sentirlo, si organizza interiormente per accettarlo dato che non può né combattere né restare “sospesa” nell’incertezza. Negare un dolore (ovvero evitare il lavoro del lutto) è irragionevole come negare un fatto evidente. Se nascessimo con le capacità degli adulti non interromperemmo mai il contatto di fronte al dolore, ma nasciamo senza quelle capacità e quindi abbiamo bisogno o di essere gratificati o di essere sostenuti nel confronto con aspetti dolorosi della realtà. Il sostegno degli adulti non produce un apprendimento in senso stretto, così come la comunicazione linguistica produce l’apprendimento di una lingua. Esso costituisce più che un apprendimento un aiuto: l’adulto aiuta il bambino ad affrontare una cosa più grande di lui “prestandogli inizialmente le sue risorse”, così come l’adulto si carica il bambino sulle spalle se questi deve raggiungere un posto troppo lontano per le sue gambe. Il bambino vede “come si fa”, ma mentre lo fa riceve l’aiuto cognitivo e l’accoglienza fisica ed emotiva che gli permettono di stare “intero” di fronte all’intera situazione dolorosa senza sentirsene travolto. Crescendo saprà “come si fa” e gradualmente riuscirà a farlo da solo.

Quando un adulto attraversa un periodo di lutto, non sente “di non farcela”, non è arrabbiato, non è confuso, non ha speranze, non è distaccato: è in contatto con una tristezza o un dolore che non vorrebbe sentire ma che comunque fa parte della sua vita e va accettato. In ogni lutto l’adulto scopre di poter vivere senza qualcosa che aveva o voleva, ovvero scopre di poter tollerare una mancanza, che resta tale ma che non toglie significato a ciò che resta.

L’epoca e le modalità delle frustrazioni, così come le situazioni interpersonali che creano le frustrazioni, portano il bambino a provare specifici tipi di sofferenza e rendono necessarie specifiche reazioni difensive. Le difese sono molte e l’insieme delle modalità difensive di una persona è unico. A grandi linee si può dire che per non soffrire la persona può fare tante cose, più o meno gravi: irrigidirsi e sentire meno, pretendere rabbiosamente una compensazione, modificarsi sperando di avere il potere di cambiare ciò che non può cambiare, distaccarsi, confondersi, e così via.

Parlando di depressione e di atteggiamenti masochistici parliamo di due delle varie modalità difensive che hanno una cosa in comune: per molti aspetti assomigliano alla tristezza pur essendo un modo per non sentirsi realmente tristi, addolorati, disperati. Esse danno luogo ad una pseudodisperazione che serve proprio a “non di-sperare”. Il depresso spera perché protesta e pretende e nega che la mancanza sia definitiva. La persona con atteggiamenti masochistici si concentra sulla sua fatica ad accettare qualcosa mentre in realtà non accetta né la situazione né la propria impotenza, e fatica proprio per mantenere quella reazione dura e rigida di opposizione alla realtà penosa.

Sia nella depressione che nel “pantano masochistico” c’è quindi una (pseudo)sofferenza esibita che copre un dolore molto profondo; in altre parole la sofferenza esibita, per quanto penosa, è superficiale e gestita dalla persona per impedire il contatto con quel dolore profondo che nell’infanzia fu classificato intollerabile e che irrazionalmente viene in modo automatico allontanato dalla coscienza anche nella vita adulta. In entrambi i casi ci può essere lamentazione senza pianto o con “crisi” (non autentiche) di pianto; in entrambi i casi c’è molta rabbia non espressa apertamente. Tuttavia, la situazione di base, quella veramente dolorosa e più antica, che si evita di accettare, quella per cui non si fa un vero lutto (e che quindi non si supera) è molto diversa nei due casi.

La persona con carattere masochista non scappa da un senso di vuoto, di inconsistenza, di mancanza, ma da una esperienza di solitudine caratterizzata da rapporti basilari forti ma condizionali nei quali non si è sentita libera di esprimersi se non a rischio di trovarsi svalutata o derisa o colpevolizzata. Quindi, si è aggrappata al brutto rapporto autoimponendosi un blocco dell’espansione emozionale, per sentirsi vittima di una ingiustizia ma capace di sopportare l’ingiustizia e in diritto di aspettarsi di più.

La persona con un carattere orale pretende un rapporto soddisfacente, ma irreale perché sente di avere alle spalle una mancanza di rapporto, mentre il masochista cerca un rapporto insoddisfacente per non sentirsi nella condizione di precarietà e di libertà che associa alla perdita del controllo.

Mentre il depresso denuncia una “non sensatezza” e “non accettabilità” di sé o della sua vita in generale, il masochista, con il suo tipico atteggiamento da vittima rinvia in modo distorto, ma in qualche misura realistico, ad una persona o situazione oggettiva da cui si sente intrappolato, oppresso, svilito. Anche se il problema depressivo parte da una frustrazione subita da una persona reale, il depresso più che evidenziare un vittimismo rabbioso rispetto ad una persona mette in evidenza l’intollerabilità delle conseguenze di ciò che è accaduto. Il depresso pretende di essere salvato mentre il masochista scarica (poca) rabbia pretendendo solo di essere giustificato o compatito.

Le persone con carattere orale sono percepibili come deboli ed infantili, mentre quelle con carattere masochistico sono percepibili come solide e affidabili: infatti queste ultime hanno “avuto di più” ed hanno imparato ad usare il loro capitale iniziale per non perdere tutto. Sono costantemente insoddisfatte ma sicure di non crollare (anche se magari si lamentano dicendo di “non farcela”) e si sentono vittime in quanto non riconoscono di essere responsabili di ciò che fanno per restare ferme in situazioni penose. In tale non riconoscimento c’è un fondamento (storico) di realtà: infatti, nell’infanzia hanno fatto una scelta, ma sotto il peso di un ricatto affettivo. Il problema che portano nella vita adulta è però un po’ diverso: fanno scelte perdenti per mantenersi nel loro pantano rassicurante senza sentirsi responsabili della loro attuale autolimitazione ed “auto-compressione”.

Nelle situazioni frustranti della vita adulta il depresso si ritira in una rabbia silenziosa distruttiva ed autodistruttiva (esprimendo indirettamente una protesta che nega significato alla realtà), mentre il masochista si lamenta di qualcosa che non accetta ma che non tenta nemmeno di cambiare.

Nelle situazioni gratificanti della vita adulta, il depresso diventa avido, prende tutto senza essere davvero mai contento o grato, perché sente di ricevere comunque poco ed in ritardo. Il masochista invece teme la gratificazione, l’amore, l’accettazione perché tali esperienze lo lasciano disarmato e disorientato. Per questo sono tipici dei masochisti due atteggiamente apparentemente incomprensibili: la propensione a cacciarsi “ingenuamente” nei guai e la capacità di rovinare le belle occasioni. L’orale cerca l’amore e non sa che farsene, mentre il masochista crede di cercarlo mentre lo evita.

Sul piano fisico le persone con carattere orale tendono ad essere “molli”; hanno anche ipertonia muscolare localizzata (ad esempio nella bocca), ma fondamentalmente sono poco “toniche”. Tendono per il loro aspetto a far tenerezza ed a sollecitare atteggiamenti protettivi.

Sul piano fisico le persone con carattere masochistico tendono ad essere “pesanti”; hanno masse muscolari molto sviluppate (ad esempio nella zona delle spalle e delle gambe); possono anche tendere all’obesità per ragioni diverse da quelle degli orali “food-addicted”. Tendono per il loro aspetto ad infondere sicurezza, perché sono comunque anche capaci di dare.

3. La strategia difensiva masochistica

Fatta questa premessa in cui ho cercato di delineare le difese masochistiche contrapponendole a quelle orali, prenderò in considerazione alcuni tratti specifici del modo di sentire e di agire delle persone con atteggiameti caratteriali masochistici.

Dopo Wilhelm Reich ha perso credibilità, anche per molti psicoanalisti, l’ipotesi freudiana di una ipotetica “pulsione di morte” che avrebbe dovuto “spiegare” l’autodistruttività, ed in particolare i tipici comportamenti masochistici.

Il filo rosso da seguire nella comprensione delle persone con carattere masochista è quindi quello della loro ricerca del piacere, anche se essa si dipana in modo apparentemente contraddittorio. In situazioni estreme star male può essere vantaggioso, se permette di non entrare in contatto con una situazione peggiore.

Preferirei evitare la descrizione del carattere masochista fatta sulla base di un particolare caso clinico, perché le persone con difese masochistiche possono essere molto diverse nei loro comportamenti e possono avere storie molto diverse. Non mi interessa quindi sottolineare storie di clienti che sono stati bambini ben curati ma costretti ad una precoce educazione sfinterica da una madre sadica, o bambini poco coccolati ma ipernutriti, o bambini umiliati e svergognati per la loro vitalità (giocosità, rumorosità, sessualità, ecc.), o bambini costretti a tacere l’espressione del loro dolore perché una madre pienamente calata nel ruolo di vittima li induceva a negare che soffrivano più di lei. In questi ed altri casi tipici, i bambini imparano ad ingoiare un immenso “no!” (pericoloso perché rivolto ad un genitore anche generoso e comunque indispensabile); imparano a fare del loro meglio per diventare ordinati, responsabili, protettivi. Tutto ciò comporta una sensazione di oppressione che corrisponde ad una reale oppressione: quella che il bambino stesso crea rispetto all’espressione della propria genuina protesta, del proprio bisogno, del proprio dolore.

La situazione esterna è più dolorosa che opprimente. L’oppressione veramente significativa non è “esterna”, ma è creata dal bambino per evitare di deteriorare un rapporto a cui questi non si sente di rinunciare. Per questo l’auto-oppressione (presente anche fisicamente come ipertonia muscolare massiccia o “corazza caratteriale”) si protrae nella vita adulta e si consolida come tendenza all’autocontrollo. Questa sottigliezza può sembrare eccessiva o ingiustificata, ma se in analisi si concepisce l’atteggiamento masochistico come “l’effetto” di una oppressione esterna, si entra nel gioco del cliente e si finisce inevitabilmente per solidarizzare col vittimismo del cliente ostacolando la comprensione del suo modo di bloccare la rabbia, le richieste e l’espressione del dolore. Anche se in un certo senso la famiglia delle persone con atteggiamenti masochistici era opprimente, di fatto gratificava e frustrava, sollecitando il bambino a bloccarsi per mantenere qualcosa di buono a cui questi non voleva rinunciare. La madre vittimistica non impediva in modo diretto l’espansione emozionale del figlio, ma otteneva quel risultato in modi molto diversi, ad esempio stando in mezzo alla stanza a piagnucolare o dicendo di essere stanca di vivere ecc. Il bambino (o la bambina) decideva di chiudere la sua gola per non lasciarsi sfuggire un “no!” a causa del quale si sarebbe sentito colpevolizzato e svalutato. Con tale autocostrizione chiudeva la gola (in senso stretto, con l’ipertonia dei muscoli scaleni), incurvava le sue spalle (perché sentiva il “peso” di doversi proteggere da solo) e si “inchiodava” o si “impantanava” (irrigidendo le gambe) in una situazione orribile in cui però sapeva come andare avanti.

Consideriamo ora questo bambino dopo dieci, venti o cinquant’anni. In una situazione difficile teme di “andar via” perché in tal caso dovrebbe affrontare un antico terrore di restare senza punti di riferimento, brutti, ma sicuri. In una situazione particolarmente bella teme di lasciarsi andare al piacere perché in tal caso dovrebbe sentirsi “colpevole” di essere fortunato, libero e soggetto al disprezzo di chi (dal passato) lo accusa di pensare solo a se stesso. Finisce quindi per affezionarsi alle situazioni di oppressione che risultano sgradevoli, ma che può sostenere con le acquisite capacità di sopportazione maturate in anni di allenamento. Pur sentendosi molto attratto da tutto ciò che è riconducibile all’espansione ed alla libertà, di fatto fa di tutto per trovarsi in situazioni “da sopportare”. In esse si lamenta, si agita, si prefigura situazioni migliori, ma evita di fare drastici cambiamenti percependo di “non riuscire” a muoversi. Tende a non percepire la sua intenzionale propensione a rendere impossibili i cambiamenti auspicati e a non sentirsi responsabile del suo comportamento oggettivamente paralizzante ed autodistruttivo.

Questo atteggiamento può anche produrre disturbi fisici: senso di oppressione alla gola ed al petto, difficoltà nella respirazione profonda, facile affaticamento nel movimento fisico, voce piagnucolosa, ecc. Tali disturbi non hanno nulla a che fare né col cosiddetto “bolo isterico” né con i disturbi psicosomatici in senso stretto perché sono semplicemente disturbi “somatici”. Per essi, tuttavia, i medici possono fare poco. Se essi intuiscono una dinamica psicologica, facilmente vedono una inesistente depressione quando la persona si lamenta della sua “pena di vivere” (che è reale e dovuta all’auto-oppressione e non è di tipo depressivo) e possono quindi prescrivere inutili antidepressivi o ansiolitici che comunque non risolvono il problema. La soluzione elettiva per questi problemi è una psicoterapia analitica e non sintomatica, a condizione che almeno l’analista non scambi il tono lamentoso del masochista per un segnale di depressione, non faccia l’errore di “capire” la (pseudo)sofferenza esibita ed abbia molta determinazione nel cercare la sofferenza profonda che sta “oltre” la rabbia vittimistica.

E’ necessario che l’analista sia abbastanza empatico da rispettare la persona, ma abbastanza lucido da capire che la sofferenza del cliente è l’effetto di un’auto-repressione (con la quale il cliente evita di accettare il suo dolore antico).

Il lavoro analitico con queste persone si sviluppa prima di tutto nel difficile compito di far capire al cliente che egli sta costruendo la sua sofferenza attuale e non la sta “subendo”; quindi nel chiarire la rabbia implicita nell’autocontrollo; poi nell’accompagnare il cliente nel luogo della sua vera sofferenza, quella che “gli è davvero capitata”, e di cui è davvero vittima, anche se non può “dare la colpa” a nessuno. Sua madre era così, e magari anche suo padre non era un gran che. Tutto qui: avrebbe voluto una vera famiglia mentre in realtà i genitori erano più presi dai loro conflitti infantili che dalla loro reale responsabilità genitoriale. L’elaborazione del dolore profondo attraverso un vero lutto rende superflue le difese ed i sintomi che allontanavano dal contatto con i vissuti più temuti. Il cliente impara quindi a convivere con un dolore antico che aveva sempre evitato e non teme più che esso possa riaffiorare. Non ottiene alcuna “riparazione” per la vecchia sofferenza, ma diventa libero dalla paura di ricordare (e “ri-sentire”) e quindi può dedicarsi alla sua vita presente piuttosto che continuare a proteggersi dalla sua vita passata.

Per il lavoro con le persone che manifestano atteggiamenti masochistici sono stati suggeriti da Reich, Lowen ed altri particolari accorgimenti atti a prevenire una caduta della collaborazione cliente-analista ed a facilitare l’allentamento delle difese (sul piano fisico oltre che psicologico).

Una delle cose da tener presenti è la consolidata abitudine del cliente ad incurvare le spalle, stringere la gola e stare in un atteggiamento anche fisico di “sopportazione”. Egli è abituato a questa posizione e non la sente più come innaturale, e quindi, anche se si sente oppresso (deve sospirare spesso, oltre che lamentarsi) non percepisce di essere oggi responsabile di una auto-oppressione specificamente fisica.

Se l’analista si appoggia con tutto il suo peso sulle spalle del cliente facilita una maggior percezione da parte del cliente del suo blocco. Capita in genere che in questa situazione il cliente non avverta subito l’esigenza di liberarsi dal peso dell’analista, ma che “automaticamente” si ponga in una posizione di resistenza, di sopportazione che va subito notata e analizzata. Paradossalmente egli si impegna a sopportare e non pensa immediatamente di potersi liberare e magari avanza scuse del tipo “credevo che l’esercizio consistesse nel sostenere il tuo peso”. In tal caso si deve sottolineare che questa è una delle tante ipotesi possibili ed è l’unica che gli è venuta in mente, forse non a caso. Nella fase successiva del lavoro, invitando il cliente a liberarsi del peso dell’analista si produce un senso di sollievo. In tal caso non si deve considerare “terapeutico” questo risultato sul piano del benessere, ma si deve invitare il cliente a riflettere sul fatto che egli evita sempre di raggiungere questo tipo di sensazione proprio accettando pesi (psicologici) che potrebbe evitare. Il lavoro fisico, in casi di questo genere, serve infatti a produrre una comprensione profonda di ciò che il cliente fa e di ciò che il cliente di fatto evita; non serve a farlo “star bene” o ad “educarlo”. Con un banale e forse anche buffo lavoro fisico di questo genere si può indurre una certa consapevolezza del fatto che la persona in questione teme la “leggerezza”, la “libertà”, l’autoaffermazione, poiché associa tali sensazioni ad antiche svalutazioni, ridicolizzazioni o colpevolizzazioni.

Poiché le persone con carattere masochista tendono a sottolineare sempre ciò che li opprime per mantenere una situazione che è spiacevole, ma che sanno gestire, evitano accuratamente di chiarire cosa desiderano. L’espressione chiara di un desiderio conduce inevitabilmente al “che bello!” o “che peccato”, a seconda della risposta ottenuta, cioè conduce a stati emotivi in cui comunque la persona non “gestisce” nulla: sente una dipendenza piacevole o spiacevole che è un puro fatto reale. In analisi occorre abituare il cliente ad essere consapevole di avere dei desideri e di poterli esprimere e ciò richiede una certa insistenza da parte dell’analista, data la resistenza del cliente. Se l’analista chiede “perché sei venuto qui oggi?”, il cliente probabilmente dirà “perché dovevo rispettare l’appuntamento” e non “perché volevo lavorare su un dato problema”; se l’analista chiede “cosa vorresti? il cliente in genere risponde “non lo so” o comincia a descrivere le cose che non vuole. Occorre molta pazienza per aiutare il cliente a dare risposte pertinenti.

L’ostinazione a non concludere le cose avviate, dimenticare le sedute utili, minimizzare i risultati positivi non deve portare l’analista ad irritarsi, ma a continuare a fare il suo lavoro accettando che il cliente senta il bisogno di stare fermo. Tra l’altro il cliente tende proprio ad irritare l’analista, per poi cadere dalle nuvole, stupirsi per il “maltrattamento”, sentirsi vittima di un’ingiustizia ed infuriarsi “con la ragione dalla sua parte”. Le persone con atteggiamenti caratteriali masochistici sono (da sempre) così infuriate ed abituate a non arrabbiarsi nelle situazioni in cui ciò sarebbe costruttivo che cercano di provocare l’altro a “giustificare” una loro “reazione”. Il lavoro sulle provocazioni, ovviamente non è finalizzato a far “pentire” i clienti, ma a far loro capire per cosa sono davvero arrabbiati, da quanto tempo e con chi.

La sollecitazione ad ammettere o manifestare i desideri (ed anche a lavorare fisicamente assumendo posizioni di “richiesta” (come ad esempio il mantenimento delle braccia protese, o il “chiedere con gli occhi”, o il gesto di “tirare a sé” il braccio dell’analista che si oppone) producono o una (antica) emozione di dolore e di impotenza o una apparentemente incomprensibile rabbia. In entrambi i casi occorre giungere al chiarimento dei vissuti non elaborati. L’espressione del dolore col pianto produce uno stato di leggerezza ed anche di benessere che il cliente non è abituato a sentire. Ovviamente dopo una seduta “illuminante” egli può ripresentarsi la volta successiva con un senso di pesantezza e con una forte diffidenza per la possibilità di ottenere “risultati soddisfacenti” col lavoro analitico. Tutto ciò è da prevedere e da gestire in modo lineare senza scoraggiamenti inutili. Infatti il lavoro su tali atteggiamenti caratteriali va ripetuto e ripetuto finché il cliente non “mette assieme” tutti gli elementi cognitivi ed emotivi collezionati, in modo da poter ristrutturare tutto il suo quadro di riferimento.

Alberto Torre nei suoi seminari di formazione ricordava sempre che le persone con atteggiamenti masochistici tendono a non chiedere, ma chiedono facilmente di “essere aiutati a cambiare”. In ciò cedono all’analista la responsabilità dei loro cambiamenti attivandosi per una sfida. Se l’analista comincia a “sentirsi responsabile” farà di tutto ansiosamente con l’unico risultato di cozzare contro una insormontabile resistenza passiva. Alberto Torre suggeriva di sottolineare il fatto che il cliente chiede un miracolo e suggeriva di chiarire che in seduta si può solo lavorare assieme. I clienti tendono ad alternare atteggiamenti insoddisfatti e minimizzanti per il lavoro analitico e atteggiamenti di sottomissione e ammirazione (irrealistica) per l’analista. La iper-considerazione dell’analista è una trappola che serve solo a delegare all’analista la responsabilità di fare miracoli ed anche a far sentire importante l’analista per poi farlo sentire un vero incapace. In quest’ultimo gioco il cliente esprime una sorta di competizione sleale con l’analista in cui, senza rischiare nulla, “supera” l’analista dimostrando che questi è più incapace di lui. Infatti le persone che si umiliano, si avviliscono e si svalutano, celano da qualche parte una forte arroganza competitiva. Alberto Torre sottolineava sempre anche il fatto che il lamento delle persone con difese caratteriali masochistiche funzionava come una esibizione al negativo. Il lamento serve in tale prospettiva a soddisfare impulsi esibizionistici nell’unica modalità tollerata dal genitore frustrante (o “castrante”). Si può dire che in questa prospettiva le persone che agiscono difese masochistiche evitano di affermarsi: sono impegnate non già ad ottenere soddisfazioni “attuali” ma ad evitare di sentire un dolore antico. Inevitabilmente l’elaborazione dei vissuti ricolloca emotivamente le persone nel presente, e nel presente l’autoaffermazione è necessaria ed anche possibile.

Nella chiave di lettura vegetoterapica, il carattere masochistico implica un blocco importante nella gola ed un altro nel bacino (posto che è presente anche una forte tensione diaframmatica). Nel lamento la persona ottiene una scarica della tensione molto limitata verso l’alto e nell’orgasmo “controllato” ottiene una scarica limitata della tensione verso il basso. Alberto Torre ricordava che spesso i clienti (soprattutto maschi) con forti atteggiamenti masochistici tendono ad aumentare l’eccitazione sessuale ed a scaricarla nell’orgasmo mantenendo una forte contrazione delle gambe e del bacino, come se il piacere sessuale dovesse venir “spremuto” piuttosto che “espresso” o “liberato”. Invitava a consigliare ai clienti di evitare quella ricerca parziale della scarica genitale nel sesso, di cercare un piacere sessuale legato alla tenerezza, di lasciarsi quindi “inondare” dall’eccitazione. In tal modo i clienti potevano anche attraversare un periodo di impotenza, ma una volta accettate le sensazioni profonde di eccitazione crescente, potevano poi tollerare anche la scarica involontaria e completa dell’orgasmo.

Ci sono due difficoltà da considerare nel lavoro sugli atteggiamenti masochistici: da un lato si deve tener presente che finché l’analisi non approda ad una solida conclusione, ogni miglioramento è temporaneo e seguito da un ritorno (pure temporaneo) al pantano di partenza; da un altro lato si deve prevedere che ogni cambiamento profondo del cliente cozzerà con le aspettative nevrotiche del/della partner.

Per lasciare al cliente la responsabilità dei suoi cambiamenti, quando egli manifesta soddisfazione per i miglioramenti ottenuti, è opportuno sottolineare che il lavoro non è finito e che ci saranno altre difficoltà da superare. In questo modo, nella “ricadute” sarà più facile superare il senso di sconforto ed evitare la delusione accusatoria e l’incrinatura nella collaborazione analitica. Per affrontare nei tempi e modi necessari gli ostacoli che prima o poi il/la partner produrrà al cambiamento, bisogna tener conto di un fatto: le persone con un carattere masochistico sono persone noiose e pesanti, anche se piene di tante qualità; quindi il partner che le ha scelte presumibilmente trae dei vantaggi psicologici dagli atteggiamenti lamentosi e dagli eventuali sintomi esibiti. Nel caso di cambiamenti profondi, il/la partner si troverà spiazzato e perderà il suo tornaconto infantile in una relazione “patologica”. E’ importante, nel caso di una crisi nel rapporto sentimentale, aiutare la persona in analisi a capire che il/la partner ha dei problemi e non è “il nemico” o “l’oppressore” e che egli deve accettare il dolore di una crisi o di certi rifiuti per poi assumersi la responsabilità di affrontare nel modo più costruttivo la situazione”.

Quando l’analisi arriva ad una ristrutturazione della “concezione della realtà” del cliente e ad un cambiamento (nel senso di una maggior profondità) della sua dimensione emozionale, questi si sente libero di rifiutare qualsiasi ricatto: infatti se ha la capacità di piangere (non di fare “crisi di pianto”) per ciò che non può avere e di dire “no!” a ciò che non vuole … è anche libero di dire dei “sì” e di correre i rischi che ogni slancio positivo comporta. In questa nuova condizione, la persona non ha più bisogno delle tensioni con cui controllava il pianto e la rabbia. Affiorano sensazioni di leggerezza e diventano possibili le relazioni soddisfacenti.

Altri cambiamenti significativi possono riguardare il più ampio modo di essere nel mondo. Vivere nell’autocontrollo, cercare situazioni insoddisfacenti in cui sentirsi trattati ingiustamente era facilitato da scelte perdenti o inconcludenti. A volte le persone con carattere masochistico pur avendo brillanti capacità “giocano male le loro carte” o “perdono le buone occasioni” per evitare di occupare posizioni sociali soddisfacenti o di realizzare relazioni interpersonali appaganti. Spesso le persone con carattere masochista non concludono (magari con delle buone scuse) gli studi e si trovano a dover poi occupare posizioni lavorative non adatte alle loro capacità (consolandosi con l’idea di essere più intelligenti o capaci dei loro capi); oppure (con altre scuse) non si impegnano con un partner veramente desiderato e sposano un partner poco attraente. In altri casi fanno una buona carriera ma poi riescono a rovinarla o distruggono un rapporto sentimentale molto solido e soddisfacente. La paura di essere felici (e di perdere la possibilità di lamentarsi) e la paura di essere più “fortunati” di un genitore che ostentava la sofferenza per la brutta vita che “doveva sopportare” sono potenti molle che strutturano copioni di vita perdenti. Una volta che la persona si libera dal bisogno di sentirsi umiliato (e di reagire silenziosamente con rabbia e sopportazione), può permettersi anche un sano “esibizionismo” che non è sfrontatezza o competitività, ma rispetto per la propria vita, anche se ciò può non piacere ad un (reale o immaginario) pubblico di vittime.

Atteggiamenti masochistici sono presenti anche in persone piuttosto integrate e mature che si affermano in alcuni ambiti della loro vita e che falliscono solo nelle relazioni lavorative o sessuali.

Quando un determinato ambito della vita non viene gestito in modo costruttivo e quando i fallimenti vengono accolti come se fossero “previsti” o “scontati” è presente una descrizione della vita non realistica che porta all’autocompatimento.

La rabbia presente nel lamento masochistico è riconducibile alla convinzione che “ciò non è giusto”, come la rabbia tipica dell’atteggiamento depressivo. Questo accade semplicemente perché qualsiasi tipo di rabbia difensiva equivale sul piano cognitivo all’identificazione di una (presunta) ingiustizia. La rabbia “espansiva” e “costruttiva” nelle situazioni in cui è ragionevole combattere rinvia invece ad una premessa cognitiva del tutto diversa riassumibile nell’espressione “io non voglio tutto ciò”. Nella rabbia non difensiva c’è una piena assunzione di responsabilità per un proprio rifiuto di qualcosa che non corrisponde ad aspettative irrinunciabili. Tuttavia, mentre il “non è giusto” implicito nell’atteggiamento masochistico si accompagna alla convinzione che ci sarà un’ennesima cosa da sopportare, nella situazione depressiva si accompagna alla convinzione che, essendo la realtà insopportabile, deve esserci una salvezza (esterna). La persona con atteggiamenti caratteriali masochistici deve ritrovare al di là del lamento superficiale (“non è giusto”) la sua rabbia profonda e mai espressa: “tutto ciò non mi va bene!”

Solo l’accettazione del dolore rende (da adulti) davvero presenti nella realtà, dato che la realtà è stata e continua ad essere (anche) dolorosa. Rende possibile arrendersi se una sconfitta è inevitabile e rende possibile combattere se una vittoria è possibile.

La vita non è semplicemente bella o dolorosa, perché è un misto di opposti che ci rendono comunque intensamente coinvolti con gli altri nei momenti belli ed in quelli brutti. Un copione vincente non rende la vita bella come una favola, ma rende noi stessi liberi di accettare sia i momenti belli che ci capitano e che ci costruiamo, sia quelli brutti che sono inevitabili. L’uscita dal binario del masochismo rende quindi le persone più inclini a soffrire in modo semplice e autentico nei momenti dolorosi, ma le rende anche libere di ampliare per quanto è possibile la classe delle esperienze piacevoli e di approfondire la capacità di godere in esse.

Il lavoro analitico non porta queste persone ad acquisire un senso di integrità e sicurezza (che già hanno), ma a percepire un profondo senso di libertà e di leggerezza che renderà anche “normale” il buon umore. Permetterà inoltre di non sentire alcun pericolo o colpevolezza nell’ammettere e accettare di poter essere più felici di altri. Ovviamente le renderà molto competenti nell’evitare le trappole colpevolizzanti delle persone simili alla figura genitoriale rispetto a cui si erano arrese, perché avendo elaborato il lutto per la mancanza antica sentiranno come tollerabile la separazione da chi, lamentandosi, le vuole manipolare.

4. Atteggiamenti caratteriali masochistici presenti in complesse strategie difensive

Il limite fondamentale costituito dai trattati di psicoterapia classici centrati sulla tipologia caratteriale sta nel fatto che non rispecchiano alcuna effettiva realtà clinica. Il “carattere masochistico”, come qualsiasi carattere “puro”, non esiste. Non solo si hanno differenze “quantitative”, a seconda dell’intensità dell’atteggiamento difensivo in questione (per cui una persona gravemente masochistica può essere realmente insopportabile ed una persona lievemente masochistica può essere decisamente gradevole pur manifestando a volte momenti di chiusura); si hanno soprattutto differenze “qualitative” poiché le persone presentano un unico e personalissimo orizzonte esistenziale in cui rientra anche un complesso intreccio di atteggiamenti difensivi, tra i quali possono avere un ruolo quelli masochistici.

Personalmente trovo molto difficile (se possibile) una diagnosi caratterologica comprensiva delle varie “componenti” caratteriali e non credo comunque che l’accuratezza diagnostica, per quanto importante, costituisca l’elemento determinante per lo svolgimento di un buon lavoro analitico. I “reichiani ortodossi” della scuola statunitense si sono orientati verso una sorta di estremismo classificatorio cercando di incasellare i clienti in base ad una struttura caratteriale specifica e ad un ulteriore “blocco” qualificante (“represso” o “insoddisfatto”) descrivendo ad esempio casi di “carattere X con blocco Y represso o insoddisfatto”. Essi ottengono la parvenza di una sistematicità che sembra chiarire le radici dei disturbi individuali, mentre in realtà le situazioni problematiche delle persone sono sempre particolarissime e irriducibili a qualsiasi schema. Anche nelle presentazioni meno biologistiche, il carattere è comunque concepito come una “struttura che limita l’espansione individuale” e tale prospettiva rischia di non cogliere adeguatamente la dimensione intenzionale di qualsiasi difesa o sintomo.

Nell’infanzia, i bambini che devono fronteggiare situazioni più o meno gravi ma comunque troppo dolorose, assumono atteggiamenti difensivi in un modo attivo, intenzionale, che si traduce in qualcosa che è anche struttura, ma soprattutto progetto. Il bambino sceglie cosa sentire, come sentirlo, come percepirsi, come pensarsi, come mostrarsi, verso cosa orientarsi, cosa evitare e come. Non si limita a bloccare o frenare dei comportamenti (o la sua “energia”) ma si proietta in un certo modo verso gli altri, verso la vita, verso il futuro.

Nel lavoro analitico, mentre costruiamo la “mappa” delle difese osservando cosa una persona cerca di ottenere agendo in modo non costruttivo, delineiamo gradualmente anche la “mappa” delle specifiche sofferenze con cui la persona non vuole entrare in contatto e che presumibilmente sono state intollerabili nell’infanzia. Questo lavoro non porta mai a “collocare” le persone in una particolare casella di un sistema generale, ma a lavorare in modi che potrebbero essere definiti “su misura”. L’osservazione degli atteggiamenti riconducibili alle varie dinamiche caratteriali rientra in questo processo come uno dei vari aspetti da considerare, perché, se collocato troppo in rilievo rischia di reificare il cliente rendendolo un “dato oggettivo”, ovvero un individuo che “porta in sé” “qualcosa su cui intervenire” secondo modalità prevedibili.

In altre parole, mentre l’analisi dell’intenzionalità difensiva lascia sempre al cliente il ruolo di persona ed all’analista la responsabilità di confrontarsi con tale cliente sulle ragioni del suo agire, l’incasellamento caratteriale produce almeno la tentazione di trattare il cliente come un “caso clinico” a cui “applicare” la “giusta terapia”. Credo in altre parole che il superamento della concezione caratterologica renda possibile un approccio più rispettoso perché meno oggettivante.

Ho riscontrato strategie masochistiche in persone molto diverse fra loro e quasi mai in persone ragionevolmente riconducibili al tipico “carattere masochistico”. La tendenza a prediligere situazioni spiacevoli scartando precise opportunità di realizzazione personale, l’esibizione di rabbia vittimistica, l’evitamento di scelte adatte a modificare una situazione insoddisfacente, la preferenza per rapporti distruttivi, l’evitamento di rapporti appaganti (e tali da rendere intensa la reale dipendenza affettiva) e persino la presenza di fantasie masochistiche di tipo sessuale sono facilmente riscontrabili in persone molto diverse. Anche il lavoro analitico ha esiti diversissimi a seconda dell’insieme delle risorse adulte disponibili e delle altre tendenze difensive di ogni cliente. Un atteggiamento masochistico può essere facilmente gestibile con un cliente che manifesta un discreto contatto con la realtà mentre può essere molto difficile da affrontare con un cliente che usa spesso e con grande efficacia le difese più “primitive”.

Le domande fondamentali che comunque l’analista si deve fare sono le seguenti:

– cosa risulta incomprensibile (irragionevole) nella strategia di vita del cliente?
– come tale cosa incomprensibile può risultare comprensibile in una logica difensiva?
– quali obiettivi la persona sta di fatto perseguendo?
– quali vissuti sta evitando?
– come aiutare questa persona ad entrare in contatto con tali vissuti fino a non temerli più?

In questo processo analitico, pur tenendo presenti le componenti caratteriali manifestate, è soprattutto importante cercare la logica, lo scopo dell’agire di una particolare persona che ha attraversato l’infanzia prima di trovarsi nella vita adulta e che continua da allora a cercare le cose (allora) indispensabili e ad evitare le cose (allora) intollerabili. In altre parole la cosa essenziale da considerare è che la persona con cui facciamo un lavoro analitico non è “affetta” da una determinata “malattia” o “limitata” da una precisa e catalogabile struttura caratteriale, ma sta agendo e costruendo un unico percorso esistenziale perseguendo sia obiettivi realistici dipendenti da desideri attuali, sia obiettivi stabiliti nel suo passato quando le sue risorse erano ben più limitate.

5. Alcune sedute

Con un cliente, che chiamerò Renato, avevo lavorato per circa un anno, senza però affrontare i risvolti masochistici della sua strategia difensiva. Mi ero concentrato più sulla sua accondiscendenza (e sulla sua illusione di essere amato in quanto capace di soddisfare le aspettative materne) che sull’atteggiamento lamentoso col quale indirettamente dichiarava di essere schiacciato dalle responsabilità della vita. Il quadro generale delle sue varie difese potrebbe essere sintetizzato così: condivideva le svalutazioni materne considerandosi “indegno” di essere accettato; si attivava per eccellere nelle situazioni interpersonali di studio e di lavoro; si sentiva oppresso e si lamentava di tutto (del caldo, del traffico, del troppo lavoro, ecc.). Avendo capito in una psicoterapia precedente la profondità dell’ostilità di sua madre rispetto a lui (oltre che rispetto al marito ed a tutto il mondo), egli parlava della distruttività materna con lieve tristezza o ironia o distacco. Nell’anno di lavoro con me aveva toccato sentimenti di profondo dolore per la distruttività materna, sulla quale ormai non scherzava più ed aveva cominciato ad accettare l’idea che il suo impegno poteva renderlo stimato ma non amato. Tuttavia, poiché non si era ancora confrontato con tutto il dolore della sua infanzia, e non si era liberato della fatica di piacere agli altri, utilizzava ancora le sue modalità lamentose che lo facevano sentire comunque “forte” nel ruolo difensivo di chi ha molta “resistenza” nelle situazioni avverse. Lo stato d’animo che ne risultava lo proteggeva dal dolore profondo di non sentirsi amato ovvero dall’impotenza ad ottenere ciò che più desiderava (indipendentemente dal fatto irrilevante di essere molto “potente” a “sopportare” le situazioni pesanti).

In una seduta del secondo anno di analisi decisi di affrontare il lato masochistico del suo carattere, partendo da una sua comunicazione iniziale.

R. In questi giorni mi ero chiuso con la mia ragazza, che aveva avuto un atteggiamento critico nei miei confronti, ed in quello stato d’animo mi ero trovato a fare involontariamente dei guai a cui lei aveva reagito con ulteriori proteste. Più temevo di sbagliare e più risultavo “imbranato”. Sono però riuscito a vuotare il sacco e a parlarle di quanto mi ferisse il suo atteggiamento da maestrina. Ho pianto con lei e anche lei ha pianto con me. Ci siamo ritrovati vicini, e in qualche modo leggeri dopo quelle poche giornate di “guerra fredda”. Ho poi sognato che qualcuno voleva aggredirmi, ma mi sentivo protetto dalla mia fidanzata.

GF. Puoi collegare questi due personaggi del sogno a due parti di te?
R. Quando mi tengo dentro tutto in qualche modo mi aggredisco.
GF. Tu sai fare ad aggredirti, magari per proteggerti dal dolore, opprimendoti, controllando la tua espansione. Per fortuna sai anche fare a “vuotare il sacco” e a dire cosa non vuoi e cosa desideri. Normalmente però comunichi solo di essere stanco, troppo impegnato, stressato. Ti lamenti. Fai qualcosa di irrilevante sul piano della realtà, come quando dici “Non se ne può più di questo caldo” ad una persona che ovviamente è già a conoscenza della situazione. Se fai interventi irragionevoli di questo tipo, cerchi solo di dare un sollievo minimo a quella pressione che tu stesso crei nel petto e nella gola trattenendo le cose più significative
R. Nella gola e nel collo sento infatti spesso della tensione. Un po’ anche ora.
GF. Forse lì leghi l’apertura del “sacco”. Vuoi lavorare un po’ su quella tensione?

Qui Renato comincia a fare un po’ di difficoltà, a suggerire di rinviare il lavoro a quando avremo più tempo, ma alla fine si rende conto di temere che il lavoro fisico possa aggirare il suo controllo.

Lo invito ad urlare con tutta la sua voce appena sentirà il dolore provocato da una lieve pressione che farò in un punto delicato e presumibilmente ipertonico all’interno della sua bocca. Come spesso accade smette di urlare appena interrompo la pressione e gli ricordo che non deve interrompere l’urlo. Al secondo tentativo lascia uscire un grido prolungato e molto forte che lo lascia un po’ spiazzato, date le sue consuete “difficoltà” rispetto al lavoro fisico ed all’uso forzato della voce. Avverte un profondo senso di rilassamento e di “leggerezza”. Non piange, ma sembra stia controllando un pianto molto profondo.

Cerco di spostare la sua attenzione dal superficiale benessere ottenuto al fatto di aver sempre evitato le possibilità espansive capaci da farlo sentire bene. Mi propongo quindi di arrivare a fargli sentire quanto avrebbe voluto sperimentare il contatto piacevole e quanto sia stato determinato a irrigidirsi in un autocontrollo che lo faceva sentire oppresso ma forte.

GF. Chi vorresti qui, con te, a condividere il piacere di questa leggerezza?
R. Mia madre. Però lei non potrebbe stare con me in questa sensazione così delicata.
GF. Mi piacerebbe darti qualcosa che potesse ripagarti di questa mancanza. Il mio affetto e la mia partecipazione vanno però all’unico Renato che conosco, cioè all’uomo. Niente può giungere al bambino che senti dentro ma che non esiste più nella realtà e che non può quindi ricevere più nulla.
R. Lo so. Lo so.

Mi abbraccia e si lascia andare ad un pianto lungo e profondo.

Nella seduta successiva torna sull’argomento e mi comunica che si è sentito bene nel toccare più in profondità il suo dolore e nell’esprimere liberamente l’emozione, ma è stato molto colpito anche dal fatto di scoprire che è una persona che tende a lamentarsi. Non ne aveva consapevolezza.

Il “pantano masochistico” pur implicando comunque una logica difensiva diversa da quelle appartenenti ad altri atteggiamenti caratteriali, può manifestarsi in modi molto diversi. Il “pantano” può ridursi ad un ritiro dalla vita sociale apparentemente autoaccusatorio o in ripetute comunicazioni agli altri relative alle difficoltà della vita. In altre persone il pantano può manifestarsi in lamentele melodrammatiche decisamente esibizionistiche e tali da risultare addirittura ridicole. I momenti di apertura e di empatia possono essere molti o pochi, superficiali o profondi. L’intenzionalità difensiva può quindi realizzarsi secondo modalità anche molto diverse.

Sedute “significative” sono a mio avviso anche sedute in cui non si arriva a nessun esito limpido, veramente chiarificatore o tale da toccare emozioni profonde. Tali sedute illustrano il fatto che il lavoro analitico in generale e quindi anche quello sulle difese masochistiche non è un insieme di sedute “epiche”. Le sedute emotivamente più significative costituiscono l’esito di un lento processo di indagine sui vari ambiti in cui il cliente attua certe difese. Ogni elemento rilevante sul piano cognitivo e/o emotivo prepara la strada ad una ristrutturazione della visione della realtà.

In questa seduta, una cliente che chiamerò Delia esordisce riprendendo ciò che era stato sottolineato nell’incontro precedente.

D. Mi riconosco nella posizione di persona “piantata in terra”, di cui avevamo parlato. Però non vedo alternative. Quando penso alla possibilità di dire sempre quel che penso o anche di provare qui, nella seduta, ad urlare le cose che sento dentro … mi sembra di essere incapace.
GF. Se quando hai suonato il campanello del mio studio io non avessi risposto e se mi avessi visto dall’altra parte della strada che ti gridavo “Sto arrivando, puoi aspettarmi?”, cosa avresti fatto?
D. Ti avrei risposto di sì.
GF. E come ti saresti fatta capire in mezzo a quel traffico?
D. So dove vuoi arrivare. Avrei urlato “sì”. Però…
GF. Dunque sei capace di urlare. Il problema vero è un altro: cosa senti o vedi dentro di te se pensi alla possibilità di urlare?
D. Se mi vedo urlare vedo mia madre che “tira su il muro”. Non c’è più. E’ lì ma è come se non ci fosse.
GF. E cosa ti dice con quel “muro”.
D. Che non valgo niente.[Le trema la voce e le si inumidiscono gli occhi]
GF. In quella scena c’è il tuo dolore. In momenti di quel tipo, da piccola, hai deciso di non urlare e hai deciso così perché sentivi di non tollerare quella svalutazione e perché sentivi di tollerare il tuo autocontrollo. Obbedendo e considerandoti vittima di un ricatto hai sentito di essere forte e di avere diritto a qualche “risarcimento” E ti sei affezionata a questa modesta ma positiva sensazione di forza.
D. E’ così.
GF. In quello stato d’animo da vittima, per quanto a disagio, senti di avere una capacità di gestire la situazione, di portarla avanti senza sorprese. Quel “pantano” ti opprime ma ti affascina anche. Puoi quindi cercare di riprodurre anche con me quel braccio di ferro. Io ti invito al lavoro fisico e tu resti buona e zitta. Mantieni la tua ribellione nella passività, nel trattenerti. Fai la brava venendo alle sedute, ma non me la dai mai vinta, come se io fossi il tuo nemico anziché una persona che lavora con te su tua richiesta. Inoltre, eviti di sentire dei vissuti che hai già classificato a suo tempo come troppo dolorosi.
D. D’accordo, potrei lavorare un’ora qui con te urlando come una matta quello che voglio, ma non so nemmeno cosa voglio!
GF. Forse sei nevrotica, ma non stupida. Anche adesso non mi dici la verità.

Il dialogo prosegue su questa linea. Delia mi dà risposte che sono più provocazioni che vere risposte, prende tempo, esita, ascolta e riflette, fino alla fine dell’ora. A volte sta per piangere, ma lascia uscire solo due lacrime più per mostrarmi che soffre che per esprimere la sua vera sofferenza. Noto quel che fa, si asciuga le lacrime e prosegue sulla stessa linea di “non dialogo”. Alla fine dell’ora non ha ceduto su nulla, ma ha almeno ammesso di essere ostinata e di fare una opposizione che la fa sentire forte.

Una cliente che chiamerò Bianca inizia la seduta comunicandomi di aver fatto il lavoro a casa che le avevo suggerito. Poiché il tema dell’incontro precedente era stato quello dei “no” trattenuti, le avevo suggerito di scrivere i “no” che in tutte le epoche della sua vita aveva evitato di esprimere.

All’inizio mi elenca varie frasi riconducibili al rifiuto del ruolo attribuitole dalla madre: Bianca non solo doveva arrangiarsi da bambina quando era in difficoltà o aveva paura, ma doveva anche rassicurare la madre ed assisterla quando questa manifestava le sue paure infantili e nevrotiche. In sostanza, queste varie frasi (raggruppabili nell’insieme x) riguardano il rifiuto di continuare a nascondere la paura e la protesta per il dovere di fare da madre alla madre.

Poi mi racconta una serie di episodi (raggruppabili nell’insieme y) di violenze subite: dai clisteri che per la madre sembrava guarissero tutto, alle proibizioni paterne relative alle uscite serali nell’adolescenza. A tutte queste violenze aveva sempre reagito con rabbia, con prontezza e con un discreto successo. Dopo la prima volta, fin da piccola non aveva più subito clisteri (scappando, urlando, chiudendosi in camera) e da adolescente aveva mantenuto l’idea che le repressioni paterne fossero irragionevoli.

Faccio notare a Bianca che rispetto alle situazioni del gruppo x era diventata obbediente, mentre rispetto a quelle del gruppo y era stata sempre ribelle.

B. Nelle situazioni del gruppo y era chiara la violenza. Forse nelle situazioni x non capivo quanto fosse penoso adattarmi.
GF. Non credo; i bambini capiscono benissimo queste cose.
B. Io avevo bisogno che lei stesse con me. Se mi ribellavo ad una richiesta particolare si arrabbiava, ma non succedeva nient’altro. Se invece rifiutavo quel ruolo mi sentivo colpevole.
GF. Forse venivi realmente colpevolizzata anziché semplicemente sgridata.
B. Sì. Anche se non temevo che mia madre mi abbandonasse, temevo che potesse star male per colpa mia. Credo che qualche volta mi abbia detto che la facevo piangere.
GF. Tu temi il dolore della colpevolizzazione e preferisci sentirti infuriata in silenzio, magari senza dirlo nemmeno a te stessa. Nel ruolo di vittima senti di avere una capacità di resistere che temi di non avere nel ruolo del “carnefice di tua madre”. Hai imparato a controllarti e in tal modo a star male senza soffrire davvero.
B. Così, ripetendo la solita scena evito di correre dei rischi.
G. Già.

6 Alcuni momenti di un percorso analitico

Descriverò alcuni passaggi significativi tratti dal percorso analitico di un cliente che chiamerò Michele, il quale manifestava una marcata componente masochistica tra i suoi atteggiamenti difensivi. Egli dichiarò fin dal colloquio iniziale di voler essere “guarito” da un disturbo che egli (in modo inesatto) definiva “depressione” e con cui in realtà manifestava una spiccata tendenza a restare ostinatamente in un “pantano” caratterizzato da pseudo-incapacità ad agire, noia, insoddisfazione e vittimismo. Evidenzierò, riportando sedute molto distanti nel tempo, che questa persona riusciva a tornare al punto di partenza quando, dopo aver fatto dei sensibili miglioramenti, sentiva con angoscia di poter abbandonare del tutto la sua identità di “persona in difficoltà” e di potersi pensare come soggetto adulto, quindi libero di accettare o abbandonare le persone con le quali si sentiva coinvolto affettivamente.

All’inizio del nostro rapporto aveva trentacinque anni, faceva un lavoro indipendente, non aveva figli. Era sposato, ma riusciva a mantenere con la moglie un equilibrio basato soprattutto sulla reciproca silenziosa sopportazione. Tale equilibrio comportava anche occasionali scontri ma escludeva di fatto qualsiasi reale chiarimento.

In una delle prime sedute mi disse alcune frasi che ora riporto perché risultano indicative del suo modo di “aggiustarsi le cose”.

M. Mi sento più o meno come l’altra volta, anche se un po’ più calmo. Starei volentieri zitto e fermo.

GF. OK, partiamo da qui. Vuoi lavorare un po’ su questo tuo stato d’animo?
M. Va bene.
GF. Allora, stenditi e ripeti la frase “ho voglia di stare zitto e fermo” alcune volte, in modo da entrarci bene in contatto.
M. [Dopo aver ripetuto alcune volte la frase] Io sono un salsicciotto, zitto e fermo. Sono anche teso e temo che qualcosa possa venir fuori. Mi considero inutile e scontento, schiavo di me stesso. Sento tensione al collo e nella zona lombare.
GF. Cosa senti di volere, ora?
M. Vorrei essere lasciato in pace. Mi viene in mente la situazione tipica in cui sto male con Piera [la moglie] e le chiedo di lasciarmi solo. Mi sento anche un po’ in colpa perché potresti pensare che chiedo a te di lasciarmi in pace. C’è però una cosa: io vorrei essere aiutato da te, ma tu mi dici sempre che sta a me fare le cose o non farle.
GF. Vorresti il mio aiuto per quale obiettivo?
M. Per venirne fuori.
GF. Sei troppo generico.
M. Non so. Vorrei che tu mi dicessi cosa fare.
GF. Prova a ripetere la frase “farò quel che mi dici”, fino a sentirla bene.
M. [Lo fa] Vorrei che tu mi facessi entusiasmare per qualcosa.
GF. Dunque vuoi che ti faccia sentire una cosa diversa da quella che senti, cioè che ti faccia diventare un altro Michele. Ma questo Michele cosa vuole da me, realmente?
M. Io vorrei che mi parlassi delle cose che ti piacciono, così, forse diventerei più positivo.
GF. Cioè, tu pensi di far schifo, ma di poter diventare più “positivo” grazie ad una mia spinta.
M. Così come sono non credo di poter essere accettato, amato. Credo di essere amabile solo se dò certe cose agli altri. A volte è come se mettessi alla prova Piera: esaspero la mia negatività per vedere se mi ama lo stesso.
GF. Questa è una sfida, è una guerra. Forse non sei così d’accordo sul fatto di essere amabile solo se diventi qualcun altro.
M. Non so. Se però Piera è dolce con me, sento subito il dovere di attivarmi per fare all’amore e poi mi sento irritato. E Piera si irrita per la mia irritazione.
GF. Immagina di essere nato da poco e di essere in braccio a tua madre senza dover far niente.
M. Mi è difficile immaginare questa scena. Credo che lei non sia capace di amare. Forse ho della rabbia. In passato quando rompevo con una ragazza protestando per quel che non andava fra noi, dicevo di non volerla vedere mai più, ma speravo che lei insistesse per restare con me, nonostante il mio rifiuto. Vorrei essere amato anche se mi comporto male. Ora lo faccio di meno, ma un po’ lo faccio ancora. Non credo di essere amabile e se mi si dimostra amore non ci credo e voglio una dimostrazione.

In questa conversazione iniziale risulta evidente la chiave di lettura bizzarra che il cliente usa per “spiegare” il suo comportamento. Dice di voler “prove d’amore” perché non si sente amabile. In realtà cerca di dimostrare che non è amato trovando prove nel fatto che in genere la gente lo rifiuta per il suo comportamento rifiutante. La sua ammissione di una certa ostilità verso la madre o la moglie indica che in realtà egli non crede affatto di non essere amabile, ma crede (ai margini della sua consapevolezza) di essere amabile e di essere ingiustamente rifiutato. La modalità difensiva per l’evitamento del dolore relativo al rifiuto subito consiste 1)nel sentirsi pregiudizialmente non amato e pregiudizialmente infuriato, 2)nel negare la rabbia e 3) nell’esprimere indirettamente la rabbia con la pretesa di essere amato mentre rende difficile la vita alle persone da cui desidera l’amore. Ovviamente ottiene rifiuti che in parte (a parole) comprende e che in profondità giudica ingiusti e resta in una posizione di immobilità ostile in cui sa di poter resistere senza soffrire davvero perché comunque gestisce sia l’autosvalutazione superficiale, sia il disprezzo profondo per gli altri in una chiave vittimistica.

Questo gioco ha molte varianti nelle diverse persone. C’è chi non pretende l’accettazione se mostra i lati peggiori, ma si accontenta di essere accondiscendente per poi dichiararsi vittima di una forma di sfruttamento. C’è chi rimane stabilmente nel pantano concedendosi occasionali “sfoghi” e c’è chi dopo un po’ rompe il rapporto rabbiosamente per poi cercare un altro rapporto identico. Tuttavia è tipico il senso di oppressione attribuito ad una situazione interpersonale mentre in realtà tale oppressione è dovuta ad una forma di accondiscendenza e autocontrollo.

In una seduta svolta tre anni dopo l’inizio del lavoro, Michele mi comunica la sua soddisfazione per aver finalmente parlato alla moglie con franchezza e mi dice che facendo all’amore ha avuto la consapevolezza (del tutto nuova) di fare un’esperienza personale, totale, e non un semplice atto riguardante parti del corpo specifiche. Mi comunica anche di aver sentito astio in una particolare occasione rispetto a Piera e quindi di aver riattivato una “vecchia chiusura”. Lavorando su questa situazione emotiva protesta contro un presunto “soffocamento”, ma poi, ammette di essere arrabbiato (e, più in profondità, addolorato) per il fatto che la moglie negli incontri sessuali manifesta un’apertura che poi blocca nella vita quotidiana.

GF. Allora il problema non è il “soffocamento” ma la distanza che lei mette.
M. E’ vero. Quando sento molto dolore scappo ancora arrabbiandomi nel modo “comodo”, cioè dichiarando che voglio stare in pace. La verità è che starei con lei e soffro quando avverto quella distanza.

Comunicandomi questa comprensione della sua difesa è commosso. Non ha ancora preso familiarità con il pianto e non ha quindi esplorato l’intensità del suo sentimento. Tuttavia è ormai consapevole delle sue emozioni difensive e superficiali e di quelle profonde e autentiche.

Come accennavo, i cosiddetti “passi avanti” sono sempre precari finché tutta l’impalcatura della strategia difensiva masochistica non è crollata. A riprova di ciò, riporto una seduta verificatasi pochi mesi dopo questi miglioramenti.

M. A volte lotto ancora col mio dolore e divento passivo ritirandomi nel non far niente, nel guardare la TV e cose simili. Forse vorrei esprimere rabbia e non lo faccio. Finisco per arrabbiarmi con me stesso per il fatto che spreco il mio tempo.

Lo invito a lavorare sull’espressione fisica della rabbia, ma è meccanico, svogliato, non collaborativo. Noto queste cose e mi risponde che è stufo di lavorare sempre sulle solite cose e che vorrebbe solo stare in pace. Rispondo che posso andare nell’altra stanza per un po’, per lasciarlo “in pace” e che può chiamarmi appena sente di voler riprendere il lavoro con me. Si infuria, getta sul tavolo il denaro per il mio onorario e si dirige verso la porta mettendo l’impermeabile mentre procede lungo il corridoio.

Lo raggiungo e lo blocco fisicamente invitandolo con molta fermezza ad interrompere subito questa sceneggiata. Gli ricordo che ha già tutti gli strumenti per capire che non sta “esprimendo” nulla di se stesso ma sta solo cercando di portare al limite estremo un gioco vittimistico. Gli ricordo soprattutto che dobbiamo lavorare su quel gioco anziché fare quel gioco.

GF. Quindi, ti prego, non fingere di voler essere lasciato in pace, come se fossimo estranei. Cerca di avere il coraggio di dire cosa vuoi davvero.
M. Io voglio essere trattato con comprensione, con dolcezza. E invece vanno tutti via.

Qui egli compie il passaggio da un desiderio (anche) attuale ad un bisogno antico che era stato frustrato dalla madre con l’indifferenza o con il disprezzo. Mi chiede un abbraccio e piange con lacrime e singhiozzi. Il pianto non è del tutto fluido e completo ma sentito e in certa misura liberatorio.

A quel punto, negli ultimi minuti della seduta ricapitoliamo le cose fatte ed il significato degli atteggiamenti e dei comportamenti difensivi. Chiariamo che sta a lui la decisione di sentirsi vittima di ingiusti rifiuti (peraltro da lui stesso provocati) o accettare il suo vissuto di rifiuto e verificare nel presente se, quando, quanto e come si sente accettato e da chi. La madre lo “accettava” solo se egli non esprimeva bisogni, desideri, entusiasmi o sofferenze e se quindi non disturbava il suo passatempo preferito che era quello di recitare la parte della “moglie che soffre tanto per il marito”.

Se affrontiamo in modo realistico e adulto, un nuovo incontro, cerchiamo prima di tutto di essere corretti, educati, efficienti, ovvero di meritare la stima e rendere possibile l’intero sviluppo del rapporto. All’interno dell’esperienza della relazione, verifichiamo 1) se otteniamo rispetto, simpatia, affetto, amore e 2) se noi proviamo simpatia, affetto, amore per l’altra persona. Quindi distinguiamo rigorosamente la stima (considerazione, approvazione, ecc.) che dipende dal nostro modo di agire e l’amore (affetto, calore, ecc.) che dipende essenzialmente dalla capacità di amare altrui (e che non possiamo conquistarci). Siamo quindi curiosi di sapere come stanno le cose e non ansiosi di farle andare bene, poiché abbiamo comunque la capacità di darci da soli il minimo necessario di amore e non siamo interessati a (pseudo)rapporti basati su equivoci e manipolazioni.

Nell’atteggiamento masochistico, invece, il desiderio di essere amati è percepito come pericolosissimo (dato il vissuto doloroso ad esso associato). La persona, quindi, anziché orientarsi a capire se è amata o no, cerca semplicemente una gratificazione a livello di potere: vuole dimostrare di essere vittima di una situazione di rifiuto in cui comunque “riesce” a resistere. Cerca anche di scaricare ostilità (indirettamente), al fine di mantenere una pretesa e di evitare un lutto.

Il lavoro analitico sulle difese caratteriali masochistiche comporta pazienza e coinvolgimento, oltre che un atteggiamento inflessibile rispetto alle manovre. Occorre che il cliente verifichi che l’analista è sempre disponibile a capire e rispettare il suo dolore, così come è sempre disinteressato alle sue pretese vittimistiche (e determinato a lavorarci).

Nel lavoro analitico si devono considerare inevitabili moltissime sedute dedicate a riportare piccoli dettagli al quadro generale: un sospiro che serve solo a ottenere pietà per le “fatiche” sopportate, un sorriso amaro che serve solo a confermare che “la vita non va come dovrebbe”, il risentimento ogni volta che l’analista rifiuta di colludere in un gioco, l’insoddisfazione, la pesantezza nel modo di camminare ed anche di parlare. Si devono considerare fondamentali sia le sedute in cui il gioco viene spezzato e le emozioni profonde affiorano, sia quelle in cui si riprende il filo di un cambiamento avviato e poi soffocato.

L’obiettivo da perseguire con il cliente è sempre la “leggerezza”, ovvero la sua capacità di accogliere sia la gioia per aver ricevuto o per aver agito, sia il dolore. La leggerezza implica il crollo di una struttura pesante, grigia, opprimente.

In una delle ultime sedute, Michele mi ha raccontato un sogno che voglio riportare a conclusione di queste brevi osservazioni sul suo percorso analitico.

“Sono con degli amici in un grande cinema ricavato da un’antico palazzo. Qualcuno mi fa notare che cade della sabbia dall’alto e vedo una crepa che progressivamente si espande nel soffitto. Osservo la scena, ma sono tranquillo. Crolla una piccola porzione della superficie e mi dico che non è possibile un crollo così limitato, perché se c’è un cedimento, cadrà tutto il soffitto. In effetti cadono pezzi di intonaco, mattoni, travi e osservo la scena come a rallentatore. Non c’è polvere e sono comunque al sicuro. E’ come se osservassi un parto”.

Bibliografia

E.Baker (1969), L’uomo nella trappola, trad.it. Astrolabio, Roma, 1973.
E.Berne (1964), A che gioco giochiamo, trad.it. Bompiani, Milano, 1967, rist.1974.
E.Berne (1972), “Ciao!”…e poi?, trad.it. Bompiani, Milano, 1979.
D.Boadella (1976), Organ Systems and Life-Styles, in Energy and Character, Vol.7, No.3, 1976.
D.Boadella (1987), Biosintesi, trad.it. Astrolabio, Roma, 1987.
D.Boadella-J.Liss (1986), La psicoterapia del corpo, Astrolabio, Roma.
S.Freud (1920), Al di là del principio di piacere, trad.it. in Opere, vol. IX, Boringhieri, 1977.
R.Kurtz-H.Prestera (1976), Il corpo rivela, trad.it. SugarCo, Milano, 1978. (cap VII).
A.Lowen (1958), Il linguaggio del corpo, trad.it.Feltrinelli, Milano, 1978 (capp.X e XI).
A.Nelson (1975), Psychotic Decompensation in Neurotic Structures, in Journal of Orgonomy, Vol.9,
No.1,1975.
A.Nelson (1976), Manic-depressive Character and the Ocular Segment, in Journal of Orgonomy,
Vol.10, No.1, 1976.
A.Nelson (1979), Schizophrenia and the Oral Unsatisfied Block, in Journal of Orgonomy, Vol.13,
No.2, 1979.
G.Ravaglia-A-Torre (1996), Il cuore nascosto, Melusina, Roma.
W.Reich (1945), Analisi del carattere, trad.it. Sugar, Milano, 1973 (ristampa ampliata, in lingua inglese,
dello scritto del 1933).
R.White-R.Galliland (1975), I meccanismi di difesa, trad.it. Astrolabio, Roma, 1977.

tratto da http://www.risorse-psicoterapia.org

Riflessioni bioenergetiche sull’obesità maschile di Leonardo Moiser

Lo scritto è suddiviso in cinque parti. Mi è sembrato importante iniziare dando una definizione di obesità, per passare ad analizzare i fattori genetici e culturali che rivestono un’importanza nell’eziopatogenesi di questo sintomo. In quanto psicologo penso che non si può comunque dimenticare che il nostro corpo risponde a delle leggi anatomo-fisiologiche ed è inserito in un contesto culturale ben preciso. Entrambi questi fattori contribuiscono alla formazione dell’essere umano. Ma, appunto, in quanto psicologo, il mio ambito d’interesse è la peculiarità della singola persona, per cui ho poi approfondito le varie teorie psicologiche sull’obesità per passare, infine, ad una lettura bioenergetica di questo sintomo e ad un tentativo di direzione della cura secondo questo approccio.

Introduzione

La prima volta che sono entrato in contatto con il concetto di obesità visto da un’ottica bioenergetica è stato nel testo dei coniugi Lowen “Espansione e integrazione del corpo in Bioenergetica” del 1977. A pagina 27 è presente l’immagine di un pancione, rappresentativo di come una costrizione alla regione pelvica possa causare una stasi energetica così evidente a livello addominale.

Rimasi molto colpito dalla figura, poiché mi ci rispecchiavo pienamente. Avevo trovato una chiave di lettura del mio sovrappeso che non fosse solo mentale. Poiché questo sintomo coinvolge palesemente la sfera del corpo mi è sembrato interessante, o meglio entusiasmante, sapere che esiste una modalità di cura che non solo interroga il soggetto sul suo corpo, ma gli dà la possibilità di esperire quelle parti di sé difficilmente accessibili con altri approcci. La difficoltà nella percezione degli stimoli corporali da parte dei soggetti sovrappeso è riconosciuta da diversi autori (Bruch, 1973; Cosenza, 2008; Recalcati e Zuccardi Merli, 2006), ma un conto è averne coscienza a livello mentale, un altro è provarlo pienamente anche con la totalità del proprio organismo.

Questa tesina, dunque, nasce da una domanda intimamente personale, che ha trovato alcune risposte in parte dai testi letti, ma soprattutto nel mio percorso personale, analitico e di vita quotidiana. Tante idee che ho qui messo per iscritto nascono proprio dal mio lavoro bioenergetico individuale e di gruppo, e rappresentano per me delle verità intime e profonde. Ho provato ad estrapolare i concetti emersi e generalizzarli, basandomi anche sulla letteratura riguardante l’obesità.

Lo scritto è suddiviso in cinque parti. Mi è sembrato importante iniziare dando una definizione di obesità, per passare ad analizzare i fattori genetici e culturali che rivestono un’importanza nell’eziopatogenesi di questo sintomo. In quanto psicologo penso che non si può comunque dimenticare che il nostro corpo risponde a delle leggi anatomo-fisiologiche ed è inserito in un contesto culturale ben preciso. Entrambi questi fattori contribuiscono alla formazione dell’essere umano. Ma, appunto, in quanto psicologo, il mio ambito d’interesse è la peculiarità della singola persona, per cui ho poi approfondito le varie teorie psicologiche sull’obesità per passare, infine, ad una lettura bioenergetica di questo sintomo e ad un tentativo di direzione della cura secondo questo approccio.
È bene leggere questo elaborato, soprattutto gli ultimi capitoli, avendo ben chiaro che si tratta di una serie di idee e congetture, tutte da verificare e approfondire.
Probabilmente il mio futuro come clinico andrà in questa direzione.

Di che cosa stiamo parlando?

L’obesità può essere banalmente definita come un eccesso di peso corporeo dovuto ad un’eccedenza di massa grassa. Percentualmente il grasso corporeo dovrebbe aggirarsi intorno al 15-18% in un uomo adulto e al 22-25% in una donna adulta. Riuscire però ad identificare un criterio obiettivo che permetta una misurazione precisa dell’adipe non è affatto semplice. Ci si rende immediatamente conto che il semplice peso corporeo non può essere un fattore affidabile. Per poter parlare di obesità, infatti, è necessario che il peso eccedente sia dovuto alla massa grassa, il tessuto adiposo, da distinguere dalla massa magra, costituita da ossa, muscoli e organi. Un elevato peso corporeo potrebbe, ad esempio, essere causato da un eccesso di massa muscolare, come accade nei body builder.

Vi sono metodi molto raffinati per determinare la distribuzione regionale del grasso corporeo: sono la Tomografia Assiale Computerizzata e la Risonanza Magnetica Nucleare. Si tratta di procedure complesse e costose, usate quasi esclusivamente per scopi di ricerca ma non applicabili nella pratica clinica corrente.
Sebbene, quindi, il peso corporeo non sia un indice sufficientemente attendibile, è però quello più semplice da poter utilizzare. Lambert Quételet ha dunque ideato l’Indice di Massa Corporea, definito come il rapporto tra il peso in kg e il quadrato dell’altezza espresso in metri (BMI=kg/m2). Oggigiorno questo valore viene universalmente accettato come un buon indicatore della corpulenza di un individuo adulto. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha proposto una tabella di classificazione degli stati ponderali.

Si può quindi parlare di obesità quando l’IMC supera il valore di 30. La poca affidabilità dell’IMC non è ascrivibile al solo fatto che non distingue fra massa grassa e massa magra, ma anche al fatto che non prende in considerazione la localizzazione corporea dell’adipe, fattore fondamentale per le complicanze metaboliche e cardiovascolari che l’obesità comporta, come ha dimostrato Jean Vague in un suo articolo del 1947 (in Bosello e Cuzzolaro, 2006, p. 21). A parità di IMC, una localizzazione del grasso corporeo di tipo viscerale, centrale (soprattutto addominale, caratterizzante l’obesità di tipo androide) si associa a maggior rischio di malattie e di morte rispetto a una localizzazione di tipo sottocutaneo, periferico (concentrata nelle regioni delle anche, delle cosce e dei glutei, come nell’obesità ginoide). Un buon indice in grado di differenziare efficacemente fra questi due tipi di obesità è il rapporto tra circonferenza della vita e dei fianchi, che non dovrebbe superare il valore di 0,95 nell’uomo e 0,80 nella donna.

Obesità tra natura e cultura

L’obesità è dovuta ad un’introduzione eccessiva di alimenti senza essere controbilanciata da un consumo equivalente: si tratta sempre di un bilancio energetico positivo.
I fattori che entrano in gioco nel permettere che l’energia in ingresso sia superiore a quella in uscita sono numerosi: abbiamo a che fare con variabili genetiche, sociali, culturali, psicologiche. Queste ultime verranno trattate più approfonditamente nei prossimi capitoli, per ora analizzerò brevemente i fattori genetici (natura) e sociali (cultura) che possono avere un ruolo importante, e a volte fondamentale, nell’obesità.

Fattori genetici

L’adiposità non è un parametro genetico interamente predeterminato, anche se è stato calcolato che il patrimonio genetico rende conto del 40% circa della varianza della massa corporea (Rigamonti e Müller, 2006, p. 51).
Il concetto centrale per poter comprendere appieno l’importanza di questi fattori è quello di metabolismo, che può essere definito come l’insieme e il ritmo dei processi attraverso i quali il corpo consuma energia per mantenere la vita. Mediamente la spesa energetica quotidiana è suddivisa tra metabolismo basale (circa il 70%), termogenesi (circa il 15%) e attività motoria (circa il 15%). L’energia consumata nel metabolismo basale è quella che più delle altre è regolata da fattori genetici. Cosa succede nelle persone che soffrono di obesità? Perché il loro metabolismo basale consuma meno energia delle persone normopeso?

Prima del 1994 già si era capito che nei soggetti obesi mancava una sostanza capace di dare un feedback al SNC sulle precise quantità di grasso accumulate nel corpo, ma fu solo in quell’anno che Friedman e coll. riuscirono a isolare una molecola capace di veicolare tale informazione, e venne chiamata leptina (Rigamonti e Müller, ivi, pp. 55-57). Questa molecola viene prodotta direttamente dal tessuto adiposo, scoperta che portò a parlare di organo adiposo più che di tessuto: le cellule grasse non sono solo depositi inerti di scorte energetiche, ma sono un vero e proprio organo con un funzionamento attivo e, in particolare, una importante produzione di ormoni. Negli anni successivi sono state individuate numerose altre molecole in grado di controllare secondo diverse modalità il peso corporeo. Si tratta di una fitta rete di segnali costituiti da ormoni e da neurotrasmettitori. Essi si articolano, si potenziano e si inibiscono in funzione delle informazioni che giungono dalla periferia sullo stato delle riserve adipose e sul fabbisogno di energia.

Negli ultimi anni l’approccio medico si è attivato in maniera considerevole nel tentativo di riuscire a individuare dei farmaci che possano controllare il peso corporeo, ma poiché questo è un complesso processo poligenico e multifattoriale, sembra assai improbabile che un singolo approccio farmacologico possa essere in grado di risolvere il problema dell’obesità.

Tuttavia, nel mondo scientifico si è ottimisti nel ritenere che presto saranno disponibili più classi di farmaci antiobesità e che sarà possibile somministrare “cocktail” di molecole preparate, su base individuale, per il paziente obeso con una specifica storia clinica (Rigamonti e Müller ivi, p. 79).

Fattori sociali

Negli ultimi decenni la prevalenza dell’obesità è aumentata in misura epidemica. In molti paesi industrializzati la sua diffusione ha superato la soglia del 15% della popolazione, il limite critico al di là del quale l’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce un fenomeno epidemico ed impone interventi immediati (D’Amicis et al., 2006). Non è possibile pensare che in un lasso così breve di tempo siano avvenute mutazioni genetiche in tanti rappresentanti della nostra specie. Si è fatta strada nel pensiero scientifico l’ipotesi del gene suscettibile: le influenze genetiche sembrano esprimersi attraverso geni di suscettibilità che aumentano il rischio di sviluppare uno stato morboso ma non sono indispensabili per la sua espressione e, da soli, non sono sufficienti a spiegarlo.

Si deve pensare, insomma, che nella maggior parte dei casi di obesità non sia in gioco un difetto genetico particolare ma, piuttosto, un assetto genetico complessivo, molto diffuso fra gli organismi viventi, che nel corso di millenni si è sviluppato e perfezionato per far fronte, soprattutto, ai periodi di carestia. Tale profilo genetico rende la maggior parte degli esseri umani assai vulnerabili di fronte a un ambiente obesiogeno come quello attuale (Bosello e Cuzzolaro, 2006, p. 42).

Entrano in gioco, a questo punto, numerosi fattori ambientali e culturali che giocano un ruolo importante.
In primis va ricordata la grande transizione alimentare che ha caratterizzato gli ultimi decenni:  buona parte dell’umanità è passata da un’alimentazione dominata da cereali e ortaggi ad una ricca  di grassi e zuccheri semplici. Questo cambiamento di stile alimentare è stato favorito da numerosi cambiamenti sociali, quali l’aumento del reddito medio pro capite, la diminuzione dei costi di grassi e zuccheri, l’urbanizzazione, lo sviluppo da parte delle industrie alimentari di precise strategie di marketing e di tecniche pubblicitarie sempre più efficaci e aggressive.

Un secondo fattore che gioca una grande importanza è il ruolo che la sedentarietà assume nell’eziopatogenesi dell’obesità. Lo sviluppo tecnologico ha portato a una riduzione clamorosa del bisogno di muoversi a piedi e di lavorare manualmente, facendo spendere quindi meno energia.
Abbiamo visto nel capitolo precedente come la termogenesi, la capacità cioè di mantenere costante la temperatura corporea, contribuisca in modo sensibile al dispendio energetico. Il riscaldamento delle abitazioni e dei luoghi di lavoro sembra dunque contribuire all’aumento del peso corporeo.

Un fenomeno particolare che secondo vari ricercatori (Bosello e Cuzzolaro, 2006; D’Amicis et al.,2006) può aver contribuito all’aumento del sovrappeso e dell’obesità, almeno in alcuni paesi, è la riduzione della prevalenza del fumo di tabacco in seguito alle recenti campagne antifumo. Diversi studi epidemiologici hanno evidenziato come i fumatori, in media, pesino meno. Sembra che fumare e mangiare non vadano troppo d’accordo: in genere il fumo di tabacco tende ad associarsi ad un minor introito calorico giornaliero.
Il mondo scientifico è ormai concorde nel ritenere che i fattori genetici in sé non siano sufficienti a determinare in modo rigido la regolazione del peso corporeo. Chiaramente, l’adiposità non è un parametro genetico interamente predeterminato, così come i fattori sociali e culturali non agiscono inflessibilmente su ogni essere umano. Entrano qui in gioco altri fattori di tipo psicologico, che possono dare un senso al perché individui con lo stesso genoma e appartenenti al medesimo ambiente culturale non abbiano lo stesso peso. Numerosi studi citati da Rigamonti e Müller (2006, p. 51) indicano una concordanza media dell’IMC fra gemelli monozigoti del 74%. I fattori psicologici che entrano in gioco potrebbero spiegare efficacemente il 26% di discordanza.

Fattori psicologici nell’obesità

Ancora oggigiorno la comunità scientifica trova difficoltà a pensare l’obesità in termini psicologici. Ne è la riprova più lampante il fatto che il DSM-IV non la includa, e nemmeno ne accenni, tra i disturbi dell’alimentazione. Sembra che per questo sintomo godano di maggior consenso altri tipi di modello, che non quello psicologico. In particolare il modello morale, che considera i soggetti che soffrono di obesità come interamente responsabili della loro condizione, caratterizzandoli come esseri esclusivamente interessati alla ricerca del loro piacere, e il modello della malattia, che vede queste persone come aventi un’innata predisposizione all’obesità, sollevando il soggetto dalla responsabilità per il suo sintomo. Entrambi questi approcci non tengono conto delle variabili psicologiche che intervengono nell’obesità.

Questi tipi di interventi hanno trovato e trovano tutt’oggi numerosi consensi. Basti pensare alla teoria degli “esternalizzanti” di cui Weight Watchers è forse in questo campo l’esempio più significativo. Secondo questo approccio i soggetti che soffrono di obesità sono poco sensibili ai segnali interni e molto sensibili a quelli che provengono dall’ambiente circostante. Il programma di cura si declina, dunque, secondo una regolazione alimentare ottenuta con la padronanza dell’ambiente (Apfeldorfer, 1994)
A mio avviso, teorie che prendano in esame la responsabilità del soggetto coinvolto nei confronti del proprio sintomo possono spiegare in modo più profondo e preciso il problema dell’obesità. Farò dunque riferimento a tre importanti filoni teorici: il primo che, sulla falsariga degli studi di Karl Abraham, vede l’obesità come una patologia dell’oralità; un secondo approccio esemplificato dal lavoro di Hilde Bruch; un terzo che si situa nell’ambito del lavoro di Lacan ed ha inaugurato una clinica orientata alla comprensione delle Nuove Forme del Sintomo.

Il paradigma evolutivo-stadiale della pulsione

Karl Abraham, allievo di Freud, ha approfondito il modello di sviluppo psico-sessuale stadiale concettualizzato dalla psicoanalisi. L’idea di base è che l’essere umano evolve per diverse fasi, caratterizzate da una differente localizzazione dell’energia libidica. Per poter passare al livello successivo è necessario che la libido non sia invischiata ma possa fluire liberamente alla fase seguente. Si passerebbe dunque da un’iniziale momento di oralità ad una fase anale ed infine genitale. All’interno di questa complessa costruzione dottrinaria, il posto dei disturbi alimentari è inquadrato in un arresto dello sviluppo libidico allo stadio sadico-orale, contraddistinto da una relazione cannibalesca con l’oggetto.

Abraham (1916) arriva a queste conclusioni osservando il rifiuto del cibo tipico dei soggetti melanconici. Il paziente depresso, afferma l’autore, nel suo inconscio volge sul suo oggetto sessuale il desiderio d’incorporazione. Nel profondo del suo inconscio si trova la tendenza ad inghiottire l’oggetto, ad annientarlo.
Il melanconico si addossa pesanti autoaccuse per tenere fuori dalla coscienza i desideri cannibalici che sarebbero rivolti all’annientamento dell’oggetto d’amore e, dunque, intollerabili. Il rifiuto del cibo lo preserva da questa pulsione. L’individuo orale, infatti, è dominato da un intenso bisogno di incorporazione e divoramento. Il suo funzionamento mentale è caratterizzato dall’avidità, dall’incapacità di aspettare, dai comportamenti eccessivi, dalle reazioni su una modalità binaria, dalla grande versatilità dei sentimenti: gioia, tristezza, angoscia o collera si alternano senza sfumature.

Avendo difficoltà a distinguere tra sé e non-sé, l’individuo orale vive ogni relazione in modo fusionale, passivo e dipendente dall’altro, alternando l’avidità affettiva e il rigetto brutale. Il mangiare ingordo della persona che soffre di obesità diventa dunque un tentativo sadico di incorporare dentro di sé l’oggetto d’amore.

Il paradigma di Hilde Bruch

Hilde Bruch si colloca nel filone psicoanalitico, pur discostandosene parzialmente. La sua formazione dinamica si evince immediatamente dalle prime pagine di “patologia del comportamento alimentare” (1973), testo di riferimento negli studi sui disturbi dell’alimentazione. L’autrice afferma infatti che

l’obesità, pur rappresentando un difetto dell’adattamento, può servire da protezione contro una malattia più grande e rappresenta uno sforzo per restare sani o esser meno malati. Questi individui, indipendentemente dal loro peso corporeo, che può essere eccessivo o meno, non possono vivere una vita normale, a meno che i problemi che sono alla base della loro anomalia vengano chiariti e risolti. La perdita di peso è per loro una questione secondaria. (Bruch, 1973, p. 14)

Il sintomo come metafora di un conflitto inconscio, dunque. L’autrice si discosta però immediatamente dall’idea psicoanalitica di doverne svelare il significato attraverso l’interpretazione. La sua pratica clinica le mostra, infatti, che non è questa la strada più idonea per trattare questo sintomo. Per lei il disturbo fondamentale consiste in una cattiva discriminazione tra differenti sensazioni fisiche, bisogni corporali ed emozioni, fame, sazietà, angoscia o collera, che restano amalgamati.

Questi disturbi sarebbero la conseguenza di un cattivo apprendimento dell’infanzia, in cui la madre ha imposto i propri bisogni e desideri al bambino. Se alle sue necessità e desideri, inizialmente poco differenziati, sono mancati conferma e rafforzamento o se le risposte sono state contraddittorie e confuse, il bambino cresce pieno di perplessità ogni qualvolta tenti di distinguere i suoi disturbi nel campo biologico dalle esperienze emotive. Sarà così un individuo privo del senso del suo essere una creatura a sé stante, avrà difficoltà a crearsi dei confini e si sentirà in continua balia di forze esterne.

Se la madre offre cibo in risposta a segnali indicanti il bisogno di nutrimento, il bambino svilupperà gradualmente l’engramma di “fame”, quale sensazione diversa da altri stati di tensione o di bisogno. D’altro canto, se la reazione materna è sempre incongrua – a prescindere dal suo carattere di negligenza o di eccessiva sollecitudine, di costrizione o di permissività indiscriminata – il risultato per il bambino sarà una confusione che lo renderà sempre perplesso. Quando sarà più grande non saprà distinguere tra l’aver fame e l’essere sazio, tra il bisogno di mangiare e qualche altro stato di disagio o di tensione. (Bruch, 1973, p. 79).

La cura di questo sintomo, come precedentemente accennato, non può, a detta della Bruch, andare nella direzione classicamente psicoanalitica dell’interpretazione, che può rappresentare per il paziente la ripetizione catastrofica dell’esperienza che qualcuno sa meglio di lui quello che sente e prova, confermandogli il suo senso di inadeguatezza. Diventa importante, per l’autrice, permettere al paziente di parlare delle proprie emozioni senza che il terapeuta si posizioni come “soggetto supposto sapere”, per dirla con Lacan, permettendo al paziente di esaminare i vissuti che il problema del cibo maschera. Il paziente che soffre di obesità, infatti, tende ad incolpare il suo sovrappeso per tutti i problemi relazionali ed intrapersonali che ha. Crede fermamente che, una volta dimagrito, anche tutti i suoi problemi svaniranno. Ma la realtà clinica mostra che non è affatto così. Diventa importante, dunque, che la dieta dimagrante inizi quando il paziente è veramente pronto, quando può essere considerata come un compito razionale al fine di ridurre il peso corporeo e non come una forma di magia, atta a risolvere i problemi esistenziali.

Il paradigma delle Nuove Forme del Sintomo

Questo approccio viene introdotto con particolare riferimento alla clinica delle tossicomanie e mette in opera una lettura dell’Altro contemporaneo e delle nuove forme del disagio nella civiltà alla luce delle teorie e della clinica dell’ultimo Lacan. (Cosenza, 2008). Gli autori appartenenti a questa corrente riconoscono un’importante fattore sociale nell’eziopatogenesi dell’obesità. Essi affermano che l’imperativo sociale del dovere che caratterizzava l’epoca freudiana si è sostituito, nella società attuale, al godimento come dovere.

L’attuale programma della civiltà non esige affatto la rinuncia al soddisfacimento immediato, ma lo incentiva, lo comanda, lo richiede (Recalcati e Zuccardi Merli, 2006, p. 14).

Inoltre la nostra epoca si caratterizza per la metamorfosi della mancanza in vuoto: la mancanza strutturale che costituisce l’essere umano in quanto tale viene trasformata in un vuoto localizzato, come un contenitore che può e deve essere sempre riempito. È l’esempio che ci fornisce l’obesità, la quale in effetti riduce la mancanza dell’esistenza al vuoto anatomico dello stomaco che esige costantemente di essere riempito. Non esiste più, per questi soggetti, la possibilità di esperire il vuoto. Qui sta il paradosso: il paziente che soffre di obesità si sente vuoto anche se è pieno e viene imprigionato nel suo corpo, che diventa come un’armatura, una difesa paradossale dall’incontro inquietante col desiderio dell’Altro. Il corpo troppo pieno si difende dall’angoscia del vuoto, ma finisce per generare un’angoscia ancora più terribile: l’angoscia di un pieno che soffoca e cancella il soggetto (Recalcati, 2008).
Chi soffre delle nuove forme del sintomo palesa il rifiuto dell’Altro, si richiude autisticamente attorno alla sostanza di godimento, che nel caso dell’obesità, è il cibo. L’esperienza clinica lo mostra chiaramente su due versanti. Innanzitutto le abitudini alimentari, in particolare la tendenza a consumare il cibo in solitudine, ci mostrano un soggetto che non coinvolge l’Altro nel suo disagio. In secondo luogo il sintomo obeso si configura già come un tentativo di risposta ad un rapporto insostenibile con l’Altro, innanzitutto con l’Altro materno (Recalcati, 1997).
Il disturbo alimentare non si struttura come metafora del ritorno del rimosso, ma diventa qualcosa che per il suo forte potere denotativo sembra avere sostituito addirittura il nome del soggetto. Il paziente obeso non si presenta portando un sintomo, ma identificandosi con esso. “Sono obeso”, non “soffro di obesità”. Questa forte identificazione con il sintomo fa scomparire il soggetto, rendendo anonima la sua domanda. Sostenere di essere obesi è come operare una specie di desoggetivizzazione e di psichiatrizzazione del sintomo. In questa nominazione anonima il soggetto non esiste più, se non come obeso. Senza una separazione del soggetto dall’identificazione al sintomo non è possibile che prenda avvio nessuna domanda di cura.
L’analista non deve concentrare le sue attenzioni sul problema alimentare in sé. Si tratta di allentare con il tempo il legame con un godimento chiuso in se stesso, limitato al circuito del cibo, per riallacciare la persona a un legame sociale possibile. Attraverso il transfert, l’inconscio del paziente è messo al lavoro, spostando l’attenzione dal cibo alla soggettività. Questo non significa però che il sintomo venga lasciato nel suo stadio attuale, perché implica un danno che blocca la vita e la progettualità: guarire significa fare in modo di aumentare la consapevolezza sul suo senso, di renderlo meno invalidante per chi ne soffre, promuovendo la capacità di farne a meno, secondo modi e tempi assolutamente individuali e non prefissati in anticipo. Il problema del cibo solitamente è l’ultima cosa che va a posto. Esso si pacifica solo quando il soggetto entra in contatto col suo desiderio, quando lo rende più frequentabile. Per questo uno dei segni più indicativi della buona strada della cura è un improvviso innamoramento, che slega il soggetto dal circolo autistico fra sé e il suo sintomo (Recalcati e Zuccardi Merli, 2006).

4. L’approccio bioenergetico all’obesità

Durante il mio percorso analitico mi è capitato di lavorare sul problema della mia obesità. Ricordo ancora con chiarezza quando, dopo un esercizio di radicamento, ho percepito la mia pancia piena di energia pronta a scoppiare. Ho avuto un’immagine, forse Helferich (2001) la chiamerebbe visione terapeutica anche se non si è trattato di un episodio regressivo, in cui ho visto il mio addome come un palloncino eccessivamente dilatato che non trovava un modo per sgonfiarsi. Ho sentito che le contrazioni del diaframma e del bacino imprigionavano questa energia e così la mia pancia, per non scoppiare, aveva dovuto allargare i propri confini, proprio come fa un palloncino quando lo si gonfia. Questo è stato il primo momento in cui ho iniziato ad interrogarmi veramente sul mio sovrappeso.
Ciò che mi ripropongo in questo capitolo, dunque, è di condividere le mie riflessioni, sensazioni, impressioni riguardanti questo tema, parlando del significato simbolico della pancia secondo diversi autori psico-corporei e di come esistano dei tratti di ogni carattere loweniano che possono sovrapporsi ad alcune caratteristiche del soggetto che soffre di obesità.

La pancia

L’obesità maschile, a differenza di quella femminile, è caratterizzata da un accumulo adiposo nella regione del ventre, soprattutto quando insorge in età adulta (la cosiddetta pancetta di mezz’età). Per questo ritengo sia importante soffermarsi sul significato che questa zona simbolizza all’interno del corpo umano.
Innanzitutto vi è da fare una considerazione puramente anatomica: la cavità addominale è la zona meno protetta del nostro corpo. Essa contiene diversi organi vitali, ma nonostante ciò non ha strutture dure che la possano difendere. Se ci muovessimo ancora a quattro zampe sarebbe salvaguardata posteriormente dalla schiena, lateralmente dai fianchi e dagli arti e inferiormente dalla terra. Ma con l’assunzione della postura eretta l’essere umano ha finito per esporre il proprio ventre delicato al mondo (Dychtwald, 1977).

Diversi autori concordano nel ritenere che in questa zona hanno origine le nostre sensazioni. È un deposito di sentimenti, immagini, idee, desideri e intenzioni, spesso inespressi e non riconosciuti, tanto che Totton ed Edmondson (1988) l’hanno definito l’inconscio del corpo-mente. Qui sono presenti i sentimenti viscerali, la nostra parte più istintiva e primordiale. Gli stessi coniugi Lowen (1977) affermano che spesso le persone tengono la pancia in dentro per combattere la propria natura animale fondamentale, situata proprio in questa parte del corpo.
Brown, fondatore della psicologia organismica, asserisce che

il nucleo della condizione umana è costituito da quattro regioni del corpo che consentono distinte modalità di contatto emotivo-cognitivo tra soggetto e mondo: il torace, l’addome, la parte superiore e inferiore del corpo. […] La regione dell’addome è predisposta a rivolgersi all’interno, verso l’ampiezza e la profondità del mondo interiore dell’anima e del corpo. Gli organi addominali ci forniscono quei messaggi propriocettivi che comunicano momento per momento il vero modo di essere della nostra anima incarnata. Tali messaggi, originariamente trasmessi dalle ossa e dai muscoli, vengono poi filtrati internamente attraverso i visceri. La regione addominale media la compenetrazione del nostro essere e la percezione di una profonda armonia interna, veicolando un profondo amore ed accettazione di sé, attimo per attimo. Infine, quando si raggiunge una totale fusione tra psiche e anima essa rappresenta la sorgente del processo primario da cui scaturisce la serenità interiore (Brown, 1990, pp. 59-60)

Tra gli autori psico-corporei che si sono interessati a questa importante zona Gerda Boyesen occupa sicuramente un posto a parte. Questa autrice, nata nel 1922 a Bergen, in Norvegia, oltre alla fisioterapia ha studiato psicologia all’Università di Oslo e vegetoterapia con Ola Raknes; in seguito è stata vegetoterapeuta all’Istituto Bülow-Hansen e psicologa clinica in diversi ospedali psichiatrici norvegesi. A lei si deve la scoperta del significato psicologico delle peristalsi intestinali. Rifacendosi ad un articolo del 1964 del professor Johannes Setekleiv (in Boyesen, 1990) l’autrice inizia a concettualizzare la nozione di psicoperistalsi: le energie in eccesso trovano una via di scarica nei movimenti peristaltici dell’intestino. La Boyesen, infatti, asseriva che esistono quattro vie di scarica dell’energia, due ascendenti e due discendenti. Le vie superiori sono le urla (via forte) e la verbalizzazione (via debole), mentre quelle inferiori sono la diarrea (via forte) e la psicoperistalsi (via debole). Mi sembra interessante riportare di seguito un breve stralcio di come la Boyesen sia arrivata a questa teoria.

Continuavo a massaggiare i pazienti agendo unicamente sulle membrane cariche di fluido energetico. Riducevo la pressione di tale fluido e allora udivo i gorgoglii peristaltici. In questo modo, assistetti alla progressiva scomparsa dei sintomi e potei rendermi conto di cosa fosse la scarica vegetativa dolce che cercavo: una notte, ero sveglia e udii il rumore peristaltico nel ventre di mio marito. Compresi che si trattava della risposta del mio interrogativo: qual è la via dolce della scarica vegetativa? Ormai mi sembrava evidente che non era necessaria la diarrea per eliminare le tensioni nervose dell’organismo, dato che questo aveva i suoi meccanismi di regolazione delle tensioni da eliminare: la psicoperistalsi. Il canale istintuale ed emotivo, il canale dell”Es’, è anche la via della dissoluzione, della ‘fusione’ dell’energia emotiva (Boyesen, 1990, pp. 65-66).

La comprensione simbolica di questa zona corporea può dare significati nuovi all’obesità, visti secondo una luce bioenergetica. L’adipe accumulato nella pancia verrebbe ad essere una difesa del soggetto dal sentire, dall’essere vivo e luminoso, dall’essere carico ed energico. Si tratta di un vero e proprio scudo che il soggetto erige per non entrare in contatto con Hara, con la parte pulsionale di se stesso. Già la Bruch (1973) aveva notato come sia caratteristico di questi soggetti la difficoltà di contattare i propri desideri e le proprie pulsioni. Anche Lidell (1984) riconosce che un ventre obeso e pesante può soffocare le sensazioni sottostanti. Isolato dal suo centro vitale, un simile individuo può essere incapace di riconoscere e soddisfare le proprie esigenze.

Tratti caratteriali nell’obesità

Riflettendo sull’obesità in termini di strutture caratteriali bioenergetiche mi sono reso conto di come questo sintomo presenti delle caratteristiche ascrivibili a tutti e cinque i caratteri loweniani, dallo schizoide al rigido.
In questo capitolo mi ripropongo di analizzare uno per uno i cinque fondamentali caratteri per focalizzarmi sulle caratteristiche del sintomo obeso presenti in ciascuno di essi. Non mi soffermerò nella descrizione delle varie strutture, rimandando eventualmente a Lowen (1958, 1875), Johnson (1994) e Marchino e Mizrahil (2004) per un eventuale approfondimento.

Carattere schizoide

I punti che questo carattere si trova ad avere in comune con il sintomo obeso sono principalmente due: la negazione del corpo e la difficoltà ad avere dei confini ben strutturati.
Il primo punto è talmente caratterizzante lo schizoide che Lowen (1967) utilizza buona parte de “Il tradimento del corpo” per parlare della difficoltà di percepire sensazioni corporee tipica di questa tipologia caratteriale.

Si abbandona il corpo quando diventa fonte di dolore e umiliazione invece che di piacere e orgoglio. Si rifiuta allora di accettarlo o di identificarsi con esso. Ci si rivolta contro di lui. (Lowen, 1967, p. 223).

Lo schizoide è riuscito a rendere tollerabile il terrore di essere annientato semplicemente perché esiste annullando le sensazioni corporee.
Anche se le motivazioni di base possono essere differenti, il sintomo obeso si struttura in maniera simile. L’adipe in eccesso serve ad ovattare i bisogni emotivi ed affettivi perché intollerabili. Ciò che il soggetto che soffre di obesità ha dovuto compiere è annullare il corpo per non sentire i propri desideri. Hilde Bruch (1973) ha elaborato la sua clinica sulla difficoltà di questi pazienti ad ascoltare le sensazioni corporee.
Se, con Anzieau (1985), vogliamo leggere il significato simbolico della pelle come membrana che delimita i confini fra mondo interno e mondo esterno, ci si rende subito conto che nel carattere schizoide questo punto racchiude intense problematicità. L’energia è tutta congelata al centro e non è disponibile nelle parti periferiche. La pelle di questi soggetti è spesso fredda, scarica energeticamente e non ha la possibilità di adempiere alle principali funzioni che Anzieau (ibidem) le ha riconosciuto: superficie che delimita il dentro dal fuori e, di conseguenza, barriera che protegge dall’aggressività esterna.
Le persone che soffrono di obesità hanno tendenzialmente dei confini molto poco marcati. Ciò è ben visibile nella classica camminata ciondolante che li caratterizza. Il loro continuo dondolamento, più o meno visibile ma spesso presente, potrebbe significare una difficoltà a restare dentro dei limiti direzionali ben precisi, rappresentati dalla traiettoria in cui il corpo si muove. Il corpo enorme di questi pazienti può essere anche letto come un bisogno di estendere i propri limiti fisici, come se essi stessi non fossero in grado di percepire fin dove i loro confini arrivino.

Carattere orale

Il carattere orale, insieme a quello masochista, è quello che più profondamente incontra il sintomo obeso.
Il corpo del carattere orale è tendenzialmente molto sottile a causa delle forti deprivazioni di nutrimento affettivo. Accade però, talvolta, che dei caratteri orali abbiano compensato questo stato di denutrizione aumentando il loro stato corporeo fino all’obesità. Abbiamo già visto come la prima psicoanalisi, con Abraham (1916) in particolare, punti notevolmente sull’interpreta-zione dell’obesità come sadismo orale.
Il punto a mio avviso più pregnante che il carattere orale ha in comune con il sintomo obeso è la difficoltà ad incontrare e a reggere la propria mancanza. Questo soggetto, intimamente segnato dal bisogno d’amore negatogli all’inizio della sua vita, sviluppa un desiderio intenso di relazione con l’altro, ma con la paura concomitante di essere nuovamente abbandonato. Il carattere orale, dunque, tende, una volta instaurata una relazione, ad aggrapparsi al partner.

Quando non è ben difeso, o quando le sue difese non funzionano, l’orale si perde nell’amore. Quando la speranza di trovare il paradiso perduto si riaccende, la persona si perde nella simbiosi (Johnson, 1994, p. 138).

Le stesse dinamiche sono ravvisabili nel soggetto che soffre di obesità. La difficoltà a stare da solo lo possono portare a cercare delle relazioni affettive anche con partner non adeguati. La modalità privilegiata che questi soggetti utilizzano, però, è utilizzare il cibo come riempitivo del senso di solitudine che attanaglia loro l’anima.
Energeticamente c’è un aspetto che accomuna in maniera marcata il carattere orale e il soggetto che soffre di obesità. Nell’orale

l’energia scorre verso l’alto, non verso il basso. Le gambe sono insufficientemente caricate, e non si mantiene il contatto con il terreno. Non c’è aumento dell’eccitazione genitale. A causa di questa mancanza di contatto con il suolo, che è la controparte della mancanza psicologica di contatto con la realtà, si sente che questi individui sono “tra le nuvole”, “fluttuano nello spazio”, e con loro i contatti non si stabiliscono (Lowen, 1958, p. 157).

Una difficoltà riscontrata nel soggetto che soffre di obesità è l’impossibilità per l’energia di fluire verso il basso. La contrazione pelvica è talmente marcata che l’energia non può scaricarsi a terra e ristagna nel ventre. Con l’andare del tempo i muscoli superiori dell’addome si possono indebolire, trasformando la pancetta in pancione (Lowen e Lowen, 1977). Questa tensione cronica a livello pelvico serve a non percepire il desiderio sessuale ed è tipico anche del carattere orale.

Carattere psicopatico

Il carattere psicopatico potrebbe apparire quello che meno ha caratteristiche psicologiche, energetiche e relazionali in comune con il sintomo obeso. Il falso sé dello psicopatico basato sull’idea di essere il migliore sembra avere poco in comune con il senso di nullità con cui si percepisce il paziente che soffre di obesità. In realtà questo stile caratteriale può essere letto attraverso la polarità grandiosità-indegnità. Johnson  (1994, p. 193) afferma che

anche se la maggior parte delle descrizioni della personalità narcisistica si incentra sull’aspetto di compensazione di questa polarità (mancanza di umiltà, incapacità di accettare il fallimento, paura di essere impotenti, manipolazione, lotta per il potere e enfatizzazione della volontà), molti individui narcisistici evidenziano, spesso nella prima seduta di psicoterapia, la polarità opposta. Possono confessare il loro profondo senso di indegnità, il petulante rammarico di non essere o non avere mai abbastanza, il bisogno di procurarsi un valore provvisorio e la profonda invidia per chi percepiscono sano e di successo. All’interno di questa confessione c’è spesso l’ammissione di ingannare gli altri attraverso lo sfoggio di forza, competenza e felicità.

I conflitti di base dello psicopatico e del soggetto che soffre di obesità sono dunque simili. Quest’ultimo vive costantemente nell’idea di essere inferiore a chiunque altro, di non avere alcun valore per nessuno. Lo psicopatico ha messo però in atto una difesa che lo caratterizza profondamente, la formazione reattiva, con lo scopo di allontanare dalla sua coscienza la percezione dei suoi vissuti di inettitudine. Questo stile difensivo, infatti, consiste nel tenere lontano un desiderio od impulso inaccettabile adottando un tratto di carattere diametralmente opposto. Il paziente che soffre di obesità, invece, non ha fatto proprio questo stile difensivo, identificandosi pienamente con i suoi vissuti di inidoneità.
Queste similitudini sono riscontrabili anche negli stili d’attaccamento simili: sia lo psicopatico che il soggetto che soffre di obesità sono caratterizzati da un caregiver che sapeva meglio di loro qual era il loro bene. La Bruch (1973) analizza a fondo le famiglie dei suoi pazienti, osservando che sono per la maggior parte caratterizzate da madri che imponevano ai figli i propri desideri, seducendoli e facendo loro credere che questi desideri fossero loro. Lowen (1975), parlando del carattere psicopatico, sottolinea come il fattore più importante nell’eziologia di questa condizione sia la seduzione coperta del genitore nei confronti del bambino al fine di soddisfare i propri bisogni narcisistici. In questa condizione il bambino si trova costretto a fare propri questi desideri, in quanto le sue percezioni ed emozioni non vengono riconosciute e sostenute dal mondo esterno.

Carattere masochista

Come già anticipato questo carattere è quello, insieme all’orale, che ha più affinità con il sintomo obeso.
Innanzitutto a livello di tensioni energetiche ci sono delle similitudini evidenti: il blocco tra la bocca dello stomaco e l’ano li caratterizza entrambi. Marchino e Mizrahil (2004) parlano di questa energia compressa paragonandola al vapore di una pentola a pressione. Anche nel soggetto che soffre di obesità è presente una pressione talmente forte che il ventre, non trovando un modo per sfogarla, si deve espandere a livello addominale per mantenere la tensione energetica a livelli accettabili. I due autori continuano parlando del carattere masochista, affermando che

il suo diaframma, proprio come fosse il coperchio di una pentola a pressione, si irrigidisce, impedendogli di espirare in modo completo. Se espirasse si svuoterebbe, entrando in contatto con la propria vulnerabilità, ma il masochista non sopporta di percepire la sua fragilità. Ama invece sentirsi pieno e forte, e la sua energia compressa gli dà un senso di solidità (Marchino e Mizrahil, ibidem, p. 134).

Il soggetto che soffre di obesità sembra incarnare facilmente la maschera della vittima tipica del masochista. Questi pazienti tendono a pensare che tutti i loro problemi siano dovuti al loro eccesso di peso, lamentandosene spesso. Sanno di essere responsabili, con le loro alterate abitudini alimentari, della loro obesità, ma si sentono in balia di forze potenti che non permettono loro di esercitare alcun controllo sull’ingestione del cibo. Johnson, parlando del carattere masochista, sembra delineare uno spaccato preciso del soggetto che soffre di obesità.

L’essenza della soggettività masochistica è l’impotente sensazione di essere intrappolati in un circolo vizioso di sforzi che terminano sempre nella frustrazione. Questo stallo vitale cronico e stremante genera impotenza, pessimismo, disperazione, profonda sfiducia riguardo al futuro. Questa cronica sofferenza per una realtà sempre uguale viene di solito affrontata solo sopportandola e condividendola con chiunque sia disposto ad ascoltare (Johnson, 1994, p. 243)

Eziologicamente il carattere masochista ha delle caratteristiche comuni al soggetto che soffre di obesità. Ad entrambi viene negato il diritto di imporsi con i propri desideri, colpevolizzando ogni movimento spontaneo. L’atteggiamento intrusivo materno emerge chiaramente nel campo dell’alimentazione. Il bambino che diventerà masochista viene forzato a mangiare anche quando è pieno, facendo propri questi desideri di cibo, pena la colpevolizzazione da parte del genitore. Tipica è la frase: “mangia la pappa che ti ho preparato con tanto amore, altrimenti mi fai diventare triste”. Il bambino deve dunque imparare a tenere giù il cibo, a mangiare anche quando è pieno. Questo comportamento gli permette di non contattare la rabbia che può provare nei confronti della madre che lo obbliga a mangiare, poiché probabilmente sarebbe insostenibile. Da qui nasce il senso di colpa che caratterizza le vita emotiva del masochista: il costante giudizio negativo della madre fa emergere la profonda sensazione nel bambino che in lui ci sia qualcosa di sbagliato. Questa emozione caratterizza fortemente anche la vita emotiva del soggetto che soffre di obesità, che si sente spesso in colpa per le sue azioni, soprattutto per quel che riguarda il cibo.

Carattere rigido

Questo carattere è quello che, a mio avviso, ha meno caratteristiche comuni con il sintomo obeso. Probabilmente ciò è dovuto al fatto che l’eziologia dell’obesità è in parte caratterizzata da traumi in fasi precoci della vita del bambino. Il carattere rigido, invece, situa la sua eziologia nella fase edipica, dopo i tre anni, ed è contraddistinto dalla mancanza di esperienze particolarmente nocive con il caregiver nel periodo di vita precedente. La tipologia rigida che ha dei punti in comune con il sintomo obeso è quella dell’ossessivo-compulsivo, che Lowen (1958, p. 260) definisce come

la forma estrema di rigidità a livello psicologico,

quindi la meno evoluta. Le ossessioni possono essere definite come pensieri egodistonici ricorrenti, mentre le compulsioni sono delle azioni ritualizzate che devono essere fatte per alleviare l’ansia. Nel paziente che soffre di obesità si ritrova tutto questo: l’ossessione per il cibo  e il ricorso compulsivo ad esso per non entrare in contatto con l’ansia che potrebbe scaturire dal sentire la propria mancanza.

Una possibile direzione bioenergetica della cura

Si tratta di una malattia dell’amore e non dell’appetito
Recalcati e Zaccardi Merli, Anoressia, bulimia e obesità

Questo ultimo capitolo vuole essere una trattazione succinta dei principali punti di orientamento nella cura del soggetto che soffre di obesità dalla prospettiva dell’analisi bioenergetica.
Nella cura del sintomo obeso penso sia necessario concentrarsi inizialmente sull’analisi della domanda portata dal paziente. Questo, infatti, tendenzialmente sarà propenso a chiedere un aiuto nel dimagrire, convinto che in questo modo tutti i suoi problemi svaniranno automaticamente. È invece importante che l’analista non colluda con questa sua fantasia e chiarisca adeguatamente sin dall’inizio che l’analisi non porterà necessariamente ad un calo ponderale, ma che in questo spazio si possono valutare, analizzare e contattare le emozioni, i desideri, le aspettative che questo sintomo porta con sé. Probabilmente questa posizione dell’analista attiverà delle difese nel paziente. Il compito del terapeuta è quello di trasformare la domanda iniziale di aiuto nella ricerca, all’interno della relazione transferale, delle cause della genesi della malattia, ricordando gli eventi salienti della sua vita e il modo in cui li ha vissuti, affinché il sapere che elabora durante questo percorso lo spinga a modificare le scelte che ha fatto e i vantaggi paradossali che ottiene dal suo disagio.

Si tratta di allentare con il tempo il legame con un godimento chiuso in se stesso, limitato al circuito del cibo […] per riallacciare la persona a un legame sociale possibile. […] Attraverso il tranfert, unico vero motore della cura, l’inconscio della paziente è messo al lavoro, spostando l’attenzione dal cibo alla soggettività, dall’ossessione per il corpo all’essere della persona (Recalcati, Zuccardi Merli, 2006, p. 108).

A livello corporeo penso sia necessario lavorare su diversi fronti.
Innanzitutto sono convinto dell’importanza per questi soggetti di frequentare costantemente delle classi di esercizi. Le tensioni che li caratterizzano, infatti, hanno bisogno di un lavoro duraturo e persistente. I punti su cui lavorare sono principalmente due: l’autopercezione corporea e la scarica a terra.
Il primo fattore è una condizione necessaria a qualunque possibile cambiamento. Il soggetto che soffre di obesità, come abbiamo infatti visto con la Bruch (1973), si caratterizza per una difficoltà nel riconoscere sensazioni e movimenti interni. Dargli la possibilità di iniziare a differenziare questi stati perennemente mischiati tra loro può permettere a questi pazienti di riconoscere l’utilizzo smodato del cibo come riempitivo slegato dal circuito della fame: l’ansia può iniziare ad essere percepita come ansia e la fame come fame, senza confusione. Un lavoro corporeo basato sull’attenzione costante alla verità del proprio corpo, al respiro, alla percezione delle tensioni è, dunque, un’indispensabile base da cui poter protrarre il lavoro bioenergetico con questi pazienti.

Un’importanza rilevante assume anche la possibilità di scaricare a terra l’energia in eccesso, anche se probabilmente si tratta di un passaggio da attuare in un secondo tempo nel percorso analitico. Come abbiamo visto precedentemente, infatti, la tensione al bacino non permette all’energia di scendere. Un lavoro costante sul radicamento è necessario per attivare il processo vibratorio di scarica. Questo, infatti, a mio avviso, è la scarica dolce che invece la Boyesen (1990) ha individuato nella psicoperistalsi. La caratteristica di attività che contraddistingue la vibrazione, a differenza della passività dei processi peristaltici, può aiutare il soggetto a ritrovare una forma di capacità di controllo sul proprio corpo. Tutti quegli esercizi che attivano la vibrazione, dunque, sono i più indicati con questi pazienti. Piegare le gambe nell’inspirazione e risalire nell’espirazione, in particolare, è l’attività che più si addice a questo compito. Penso, infatti,  che tutti quegli esercizi di scarica forte, come lo scalciare da sdraiati, rendano difficoltosa la percezione fine dei propri movimenti interni, che dovrebbe invece caratterizzare il lavoro con questi pazienti.
Penso possa essere utile, inoltre, l’utilizzo di massaggi relazionali, come il massaggio a farfalla di Eva Reich. Questo tipo di contatto, infatti, è molto utile nel lavoro sui confini corporei (Reich, Zornànsky, 1997). Applicando il principio dello stimolo minimo si permette al paziente di esperirsi in modo dolce, senza toccare dei nuclei eccessivamente dolorosi che potrebbero ulteriormente irrigidire la corazza del paziente.

Conclusioni

Mentre scrivevo questo elaborato mi è più volte sorto il dubbio di aver trattato poco la parte prettamente bioenergetica. Riflettendoci sono però arrivato alla conclusione che questo lavoro riunisce in sé due aspetti fondamentali dell’analisi bioenergetica: il lavoro mentale ed il lavoro corporeo. Spesso sono portato a credere che possa essere definito bioenergetico solo il lavoro corporeo, dimenticando l’origine psicoanalitica di questo approccio. Mi trovo invece d’accordo con Downing (1995) quando afferma che nelle terapie corporee è importante il lavoro corporeo, ma lo è altrettanto il lavoro analitico verbale. Un buon approccio terapeutico, quindi, penso non possa prescindere da una conoscenza non solo dei processi energetici, ma anche delle motivazioni inconsce che il sintomo nasconde. Rileggendo la tesina una volta terminata mi sembra che tenga debitamente in considerazione entrambi questi aspetti.
Per tutto l’elaborato ho deliberatamente deciso di non parlare mai di soggetto obeso, ma di soggetto che soffre di obesità. Questo per non colludere con l’aspetto identificatorio che fa del peso di questi pazienti l’unico aspetto in cui si possono riconoscere.

Ho inoltre sempre parlato di obesità come sintomo: sono infatti convinto che non si tratti di un semplice quadro nosografico, come la linea seguita dal DSM IV potrebbe proporre, ma sia il risultato di un processo di costruzione inconscia in cui il soggetto che ne patisce ne è implicato, anche se può non saperlo e rifiutare di riconoscerlo.
Come accennato nell’introduzione, questa tesina nasce dal bisogno e dal desiderio di fermarmi a riflettere su questo sintomo che il mio inconscio ha scelto per me. Durante la stesura ho scoperto varie cose di cui non ero consapevole e vari spunti da poter portare nel mio lavoro analitico.
Grazie a tutti coloro che mi hanno dato la possibilità di avvicinarmi un po’ di più a me stesso.

Bibliografia

Abraham, K. (1916). Untersuchungen über die früheste prägenitale Entwicklungstufe der Libido. In “Int. Z. (ärztl.) Psychoanal.”, 4, pp. 71-97.Trad. It. Ricerche sul primissimo stadio evolutivo pregenitale della libido. In Opere di Karl Abraham, vol. 1, pp. 258-285. Torino: Bollati Boringhieri, 1975.
American Psychiatric Association (Ed.). (1994). DSM-IV. Washington: A.P.A. Trad. it. DSM-IV. Milano: Masson, 1996 (3a ed., 2a rist.).
Apfeldorfer, G. (1994). Anorexie boulimie obesité. Paris: Flammarion. Trad. it. Anoressia bulimia obesità. Milano: Il Saggiatore, 1996.
Anzieu, D. (1985). Le moi-peau. Parigi: Bordas. Trad. it. L’io pelle. Roma: Borla, 2005.
Bosello, O., Cuzzolaro, M. (2006). Obesità e sovrappeso. Bologna: Il Mulino.
Boyesen, G. (1990). Entre psyché et soma. Paris: Payot. Trad. it. Tra psiche e soma. Roma: Astrolabio, 1999.
Brown, M. (1990). The healing touch. Mendocino: Life Rhytm. Trad. it. Il contatto terapeutico. Roma: Melusina, 1994.
Bruch, H. (1973). Eating disorders. New York: Basic Books. Trad. it. Patologia del comportamento alimentare. Milano: Feltrinelli, 2000.
Cosenza, D. (2008). Il muro dell’anoressia. Roma: Astrolabio.
D’Amicis, A. et al. (2006). Epidemiologia dell’obesità. In Istituto Auxologico Italiano (Ed.), 6° rapporto sull’obesità in Italia (pp. 31-45). Milano: Franco Angeli.
Downing, G. (1995). The body and the word. New York: Routledge. Trad. it. Il corpo e la parola. Roma: Astrolabio, 1995.
Dychtwald; K. (1977). Bodymind. New York: Pantheon. Trad. it. Psicosoma. Roma: Astrolabio, 1978.
Helferich, C. (2001). Visioni terapeutiche: l’esperienza della immaginazione attiva nel trattamento organismico. In M. Pini (Ed.), Psicoterapia corporeo-organismica. (pp. 153- 176). Milano: Franco Angeli.
Istituto Auxologico Italiano (Ed.). (2006). 6° rapporto sull’obesità in Italia. Milano: Franco Angeli.
Johnson, S. M. (1994). Character styles. New York: Norton & Company. Trad. it. Stili caratteriali. Saturnia: Crisalide, (2004).
Judith; A. (1996). Eastern body, western mind. Berkeley: Celestial Arts. Trad. it. Il libro dei chakra. Vicenza: Nero Pozzi, 2007 (7a ed.).
Lidell, L. (1984). The book of massage. Londra: Gaia Books Limited. Trad. it. Il libro del massaggio. Milano: CDE, 1986.
Lowen, A. (1958). Physical dynamics of character structure (the language of the body). New York: Grune and Strutton. Trad. it. Il linguaggio del corpo. Milano: Feltrinelli, 2003.
Lowen, A. (1967). The betrayal of the body. New York: MacMillan. Trad. it. Il tradimento del corpo. Roma: Mediterranee, 1997.
Lowen, A. (1975). Bioenergetics. New York: Coward, McCarin & Geoghen.. Trad. it. Bioenergetica. Milano: Feltrinelli, 2004 (2a ed.).
Lowen, A. (1990). The spirituality of the body. MacMillan. Trad. it. La spiritualità del corpo. Roma: Astrolabio, 1991.
Lowen, A., Lowen, L. (1977). The way to vibrant health. New York: Harper and Row. Trad it. Espansione e integrazione del corpo in analisi bioenergetica. Roma: Astrolabio, 1979.
Marchino, L., Mizrahil, M., (2004). Il corpo non mente. Milano: Frassinelli.
Pini, M. (Ed.). (2001). Psicoterapia corporeo-organismica. Milano: Franco Angeli.
Recalcati, M. (1997). L’ultima cena: anoressia e bulimia. Milano, Mondadori.
Recalcati, M., Zuccardi Merli, U. (2006). Anoressia, bulimia e obesità. Torino: Bollati Boringhieri, 2008 (2a ed.).
Recalcati, M. (2008). Clinica del vuoto. Milano: Franco Angeli.
Reich, E., Zornànsky, E. (1997). Lebensenergie durch sanfte Bioenergetik. Monaco: Kösel-Verlag GmbH & Co. Trad. it. Bioenergetica dolce. Milano: Tecniche Nuove, 2006.
Rigamonti, A. E., Müller, E. E. (2006). Cervello e obesità: neurobiologia e neurofarmacologia. In Istituto Auxologico Italiano (Ed.), 6° rapporto sull’obesità in Italia (pp. 49-92). Milano: Franco Angeli.
Totton, N., Edmondson, E. (1988) Reichian growth work. Bridport: Prism. Trad. it. L’energy stream. Milano: Red, 2007.

 

“Riflessioni bioenergetiche sull’obesità maschile”, tratto in data 01-12-2008 da Obiettivo Psicologia. Formazione, lavoro e aggiornamento per psicologi

Il corpo che siamo… vivere come morire di Gianfranco Inserra

In questi giorni molto si è parlato del vivere e del morire e credo che nessuno di noi sia rimasto indifferente ad un tema che in fondo ci riguarda tutti profondamente.
Lontano dalle polemiche alle quali abbiamo assistito vorrei lasciare qualche riflessione, condivisibile o non condivisibile, ma di certo accorata.
Per me, che da anni lavoro per l‘affermazione della Vita nell‘esistenza di chi a me si rivolge, mi sono parse alienanti e piene di ipocrisia e retorica molte delle affermazioni ascoltate in questi giorni in difesa della Vita e mi sono tornati in mente, con il rammarico di chi sa che nulla è cambiato, i primi scritti di Wilhelm Reich.

Chi di voi ha un po’ di conoscenza del suo pensiero sa quanto egli avesse rispetto per quello Spirito Vitale che vedeva rigoglioso nei bambini e martoriato da quelle sovrastrutture, da quella pseudo educazione che nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza cercano di darci, addomesticandoci e trincerandoci in corazze che poi richiederanno anni per essere smantellate. Ai bambini è dato lo scorrere libero dell’Energia Vitale, la naturalezza dell’innocenza, l’innocenza di chi non attribuisce a nulla etichette di “male” e di “bene“, ma vive semplicemente secondo natura, secondo l’innata capacità di essere al mondo totalmente, con lo Spirito e con il Corpo tramite il quale esso si manifesta, l‘uno parte integrante dell’altro.

In quella male-educazione persecutoria e colpevolizzante del “bene” e del “male”, a cui tutti, chi più chi meno, siamo stati sottoposti, si cela il supremo attentato alla Vita negli uomini, quella Vita che, per natura, ci appartiene e che, per morale, ci viene sottratta. E’ in questa espropriazione della nostra reale natura che si realizza il più grave torto alle nostre esistenze, perché quando si priva il Corpo della sua Vitalità gli si sottrae la sua essenza e lo si riduce ad un semplice pezzo di carne, oggettivando la Vita al di fuori di esso, come un concetto, un’idea, un miraggio.

E si sottrae all’uomo la sua Verità, perchè così come il Corpo diventa carne, l’abbraccio genitale diventa sporca sessualità, il piacere diventa peccato, la pulsione di Vita diventa pulsione di Morte. Quando nelle nostre Chiese vediamo le parole che Cristo pronunciò “io sono la Via, la Verità e la Vita” confinate sui nostri altari, si rende chiara tale oggettivazione e la sua messa a distanza da noi.

Quel Cristo che è in noi, in tutti gli uomini, viene oggettivato e posto fuori da noi stessi, dal Corpo che siamo, dal Corpo con il quale viviamo e che, dagli stessi religiosi, viene considerato come un “Tempio”. Solo nell’ottica di una tale oggettivazione, solo in questo allontanamento della Vita dal Corpo, ridotto ad un insieme di cellule, tessuti, vasi sanguigni, muscoli, si può considerare vitale un Corpo che non può più amare, che non può più sentire, guardare, toccare, gustare, che non può più godere della natura, dell’arte, dell’amore e di tutto ciò che rende davvero vivo un Uomo.

Solo in questa perversione dell’idea di Uomo, si può considerare Vita un Corpo che può solo ricevere il nutrimento essenziale per la sua sopravvivenza e che è destinato esclusivamente al degrado che il tempo farà subire alle sue carni, la cui cura è totalmente assegnata a terzi, nella più completa privazione anche di quella dignità che ognuno vorrebbe conservare sia nel proprio vivere che nel proprio morire.

In questo atteggiamento, in questa considerazione del Corpo come un pezzo di carne e non come il sacro strumento di cui ci serviamo per vivere, come fa sapientemente un musicista con il suo pianoforte, con il suo violino, per suonare la sua musica, la sua melodia, ho rivisto, purtroppo, le parole di Reich ancora pienamente attuali.

Mi chiedo se chi ha così strenuamente opposto la sua voce a quanto poi si è realizzato, continua nelle proprie case ad annaffiare quelle piante che ormai sono morte solo perché c’è ancora un vaso con della terra secca all’interno o se invece considera vive solo quelle che germogliano, che fioriscono, che liberano profumi nell’aria e che continuano a mutare con le stagioni.

Chi come me, da anni lavora con il Corpo ed ha fatto esperienza, grazie ai propri pazienti, di come nel Corpo sia scritta la propria storia, la storia di un padre assente, di una madre distante, di una separazione, di un marito alcolizzato, di una violenza subita, non può che augurarsi che in futuro, lontano dalla demagogia dei politicanti e dalla morale dei religiosi, di esso si possa avere una nuova e più dignitosa considerazione e che la Vita, quella che interi ci abita e ci abbraccia, possa davvero essere difesa, nella sua forma più nobile, più alta, più vera, a cominciare da quella che fiorisce naturalmente nei nostri figli.

(“Il corpo che siamo… …vivere come morire”, tratto in data 24-03-2009 da Obiettivo Psicologia. Formazione, lavoro e aggiornamento per psicologi)

Corporeità e Cultura: essere grounded nella storia e nel presente di Livia Geloso

L’Analisi Bioenergetica, dal punto di vista della storia delle idee e delle pratiche sociali, non è un fenomeno a sé stante, ma appartiene a un variegato ed ampio movimento che può essere denominato “filone culturale corporeo. Questo “filone” attraversa come un fil rouge la modernità occidentale, dalle sue origini nel XVI° secolo ai giorni nostri, costituendone la figura dell’antagonista, dell’Altro rispetto al “filone culturale mentale“, nella contrapposizione fondativa tra razionalità e irrazionalità, tra mente e corpo, tra ragione e istinto, tra cultura e natura, tra uomo e donna, ecc. Da alcuni anni, mi sto dedicando alla definizione e alla diffusione della storia di questo “filone” con una particolare attenzione alla posizione che l’Analisi Bioenergetica ricopre all’interno di tale contesto storico e socio-culturale.

Da notare che alla definizione dell’insostenibilità di un modello universale e unitario della ragione umana ha dato e continua a dare un particolare contributo il fatto che l’antropologia culturale si sia riconvertita da disciplina al servizio del colonialismo a ponte tra il nostro mondo occidentale e modalità diverse di pensare, di sentire e di comportamentarsi, insegnandoci a guardare a noi stessi/e con altri occhi.

Anche i fautori a oltranza dell’assoluta superiorità assiologica (superiorità relativamente alla definizione dei valori) dell’atteggiamento razionale – così com’è definito nel pensiero occidentale moderno – rispetto agli altri possibili atteggiamenti, ammettono che il limite di demarcazione tra razionale e irrazionale non sia più così certo e sicuro. E non dimentichiamo che sotto l’etichetta di irrazionale erano stati posti il corpo e le emozioni!

Se, come ci ricorda Lowen, “impariamo studiando il passato” e “una persona può crescere solo rafforzando le proprie radici nel suo stesso passato” (“Bioenergetica”, Feltrinelli, 1991, p. 27), allora, credo sia arrivato il momento di sviluppare il nostro “grounding storico” come comunità non solo di lavoro ma anche di ricerca e di studio quale siamo. Anche perché appare sempre più chiaro come la psicologia e la psicoterapia mostrino evidenti e dannose carenze dal punto di vista della capacità di riflettere sulla propria storia all’interno della storia dell’epoca moderna, mentre intorno a noi, come reazione alle trasformazioni globali in atto, si viene manifestando un rinnovato interesse storiografico e sociologico, oltre che filosofico, in particolare intorno ai concetti di “società”, di “modernità” e di “ragione strumentale”.

Intanto, da parte delle neuroscienze e di diversi indirizzi psicoterapeutici, fino a ieri indifferenti e/o svalutanti verso l’approccio corporeo, arrivano manifestazioni di interesse per la dimensione corporea dell’esperienza terapeutica, manifestazioni che, data la quasi totale assenza di riferimenti al lavoro di Reich e di Lowen, sembrano considerare terra vergine il territorio che abbiamo contribuito a coltivare e che esiste dagli anni ’30 del secolo passato. Alla luce di tutte le riflessioni qui riportate in grande sintesi, il momento presente, a mio avviso, dispiega delle opportunità imperdibili per il “filone culturale corporeo”, per l’approccio corporeo in psicoterapia e, quindi, per l’Analisi Bioenergetica, ed è mio desiderio contribuire a far sì che tali opportunità vengano colte nel modo più grounded e significativo possibile.

Tratto dal blog Vita bioenergetica

Close