
Tutto è serio sui sorrisi
Giulio Santoro
Anno di pubblicazione: 2023
È una poesia narrativa, quella di Giulio Santoro. Una poesia che, apparentemente lontana da quella mitologica e di fondazione, ci racconta “tranche de vie” di specifici individui, dei loro dolori, dissidi, rimpianti, speranze, sogni. Attimi di quotidiana felicità o infelicità. Ma più leggiamo, più sentiamo le loro emozioni diventare le nostre. Ed è così che il fatto specifico si tramuta in archetipo, non più soggettivo ma collettivo. E il racconto di uno si fa umanità. La sua poesia diventa denuncia, atto di accusa o improvvisa epifania della bellezza che resta sotto le macerie, della luce che passa dalle crepe. Della morte, dell’ingiustizia, del trascorrere inesorabile del tempo, delle scelte mancate, di ciò che potevamo o potremmo ancora essere.
Questa narrazione, però, più che di parole è costruita di immagini. Quotidiane, semplici, familiari, e perciò universali, come un paio di scarpette da ginnastica, di occhiali scuri, il vento che scompiglia i capelli, un monte, il lungomare.
Immagini che grazie al potere dei versi- asciutti, sapientemente semplici, costruiti in “levare”-, al gioco delle assonanze, delle anafore, degli enjambement, acquistano la forza di icone, capaci di trasfigurarsi in idee, astrazioni di condizioni esistenziali e psicologiche, come la giovinezza, il viaggio, la vecchiaia, la solitudine, la condanna.
Ed è infatti da un’immagine, spesso onirica, che si origina la poesia di Santoro, da cui poi si dilatano parole che col ritmo e la musicalità fanno da cassa di risonanza a quel primo suono secco.
Un’immagine, diversa e personale, quel che la sua poesia è capace di generare negli occhi di ciascun lettore, trasformandolo in tal modo da semplice fruitore a creatore.
La tradizione lirica occidentale impone all’aedo di richiedere l’aiuto delle muse per affrontare l’arduo compito di narrare le violente passioni e le gloriose gesta degli eroi. E le muse esaudiscono la preghiera dei loro protetti ispirando i loro versi.
E difatti, questi componimenti ci colpiscono come delle vere e proprie epifanie: improvvise, brevi, asciutte, a volte spiazzanti, ermetiche ed enigmatiche, come i responsi degli oracoli.
Ma c’è un’altra aura semantica che avvolge l’invocazione: la supplica di chi dalle tenebre morali implora l’aiuto divino per tornare alla luce. ”De profundis clamavi ad te, Domine”. E in effetti gli eroi dell’antica Grecia, in queste poesie, hanno lasciato il posto ai poveri diavoli dei nostri giorni.
Quanto inferno tra questi versi, che ci raccontano l’orrore della guerra, della miseria del mendicante, del piccolo migrante morto in mare e del dolore di sua madre, della schiavitù di una sposa bambina, della solitudine della malattia mentale. Eppure, in questo universo che sembra senza speranza, una voce risponde, un barlume risplende: non è quella di Dio, certo, perché semmai c’è stato, non può che aver abbandonato queste lande desolate. Ma quella di chi in terra dice di portare la sua novella.
È quella di Don Fortunato (in Astra), colui che dal “fango della terra” riesce ad estrarre una “sola stella”.
Impossibile non fare un parallelismo con i versi di un altro e ben diverso poeta, che scavava nei bassifondi delle anime e delle città, perché sapeva che solo “dal letame nascono i fior”, proprio come Santoro sa che solo dalle crepe può passare la luce.
Le liriche della sezione “Tales of a Women” potrebbero essere definite – parafrasando Pasolini – “rose in forma di poesia”. Infatti, leggendo questi componimenti si ha quasi la sensazione di sfogliare le pagine di un diario intimo, in cui i versi assumono più la forma di una prosa ritmata e i dati dell’esperienza quotidiana sono filtrati attraverso reazioni emotive intense, talvolta anche crude, pungenti come le spine.
Ma qui non si tratta del racconto autobiografico dell’autore stesso: come in un gioco teatrale, l’io lirico indossa di volta in volta i panni e i sentimenti di diverse eroine – dalla profuga alla transessuale, dall’atea alla poetessa – tutte accomunate, però, dall’uguale condanna inflitta loro dal pregiudizio, dai ruoli imposti dalla tradizione, dal beffardo gioco del destino, nonché dalla stessa urgenza di liberarsi da questi fardelli, se non nella realtà, quantomeno attraverso una decisa condanna dei propri carnefici nello spazio utopico delle parole.