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Tag: Analisi Bioenergetica

Considerazioni sull’analisi bioenergetica di Alexander Lowen

Un sostegno teorico all’analisi bioenergetica è il concetto di Reich dell’unità e antitesi di tutti i processi viventi. L’unità si riferisce al fatto che l’organismo funziona come un tutto unico. Ogni disturbo coinvolge l’intera persona, cosicché non ci può essere distinzione tra malattia fisica e mentale, o tra dolore fisico e mentale…

Un sostegno teorico all’analisi bioenergetica è il concetto di Reich dell’unità e antitesi di tutti i processi viventi. L’unità si riferisce al fatto che l’organismo funziona come un tutto unico. Ogni disturbo coinvolge l’intera persona, cosicché non ci può essere distinzione tra malattia fisica e mentale, o tra dolore fisico e mentale. Se una persona ha una malattia di cuore, la persona è malata, non solo il cuore. Allo stesso modo se una persona soffre d’ansia, depressione, fobia o compulsione, il corpo ne viene coinvolto così come la mente. Un trauma fisico coinvolge la psiche così come un trauma psichico coinvolge il corpo. Il dolore del desiderio ardente insoddisfatto che un bambino prova nei confronti della madre non è soltanto un dolore mentale, è strutturato fisicamente nella tensione e costrizione della gola e della bocca tramite le quali quel desiderio sarebbe espresso in pianto o nel protendersi per succhiare o baciare. La presenza di questa tensione e costrizione è la prova del trauma primario e della sua persistenza nel presente.

Il principio di unità stabilisce anche che l’intero corpo è coinvolto nel trauma. Il desiderio insoddisfatto del bambino disturba la sua respirazione, il suo senso di sicurezza nelle gambe e il suo senso di fiducia in se stesso. Ogni trauma disturba i movimenti pulsatori di base del corpo. Queste sono le complessive espansioni e contrazioni dell’organismo (che, a questo livello, funziona come una cellula singola) e i movimenti ondulatori longitudinali che fluiscono in su e giù lungo il corpo.
La pulsazione è una qualità di ogni cellula nel corpo. Quando la pulsazione è forte, la vita è forte. Alla morte cessa tutta l’attività pulsatoria. Quando la pulsazione è piena e libera la persona sperimenta una sensazione di gioia e piacere nel corpo, qualsiasi disturbo di questi naturali movimenti pulsatori causa una perdita di sensazioni piacevoli e, se intenso, produce dolore.

La qualità della pulsazione del corpo si manifesta maggiormente nella respirazione che combina i movimenti di espansione e contrazione con quelli dell’onda longitudinale. Il respiro non è limitato ai polmoni, al contrario tutto il corpo partecipa ai movimenti respiratori. Il respiro è accompagnato da un’onda che inizia in profondità nella pelvi e si muove su verso la bocca. Durante l’espirazione l’onda si muove al contrario. Dato che il respiro è disturbato in tutti i problemi emozionali o nevrotici, si può determinare l’esistenza di questi problemi dalla natura del disturbo respiratorio. Quando si va risolvendo il problema del paziente il respiro diventa completamente libero, il problema scompare.

L’aspetto antitetico del processo vivente viene al meglio riflesso nella relazione tra mente e corpo. L’unità tra di loro non altera il fatto che ciascuno influenza l’altro e che a livello superficiale c’è dualità nella natura umana. Rispettare queste dualità da la possibilità di riconoscere che l’attitudine conscia di una persona ha una influenza considerevole sul suo funzionamento totale. L’analisi bioenergetica aggiunge una dimensione assolutamente nuova alla psicoterapia: il lavoro con il corpo. L’espressione corporea del paziente viene studiata per determinare quali sono i problemi e conflitti nella sua personalità.
C’è sempre accordo tra quello che rivela il corpo e quello che dice il paziente. Così, se il paziente si lamenta di essere depresso, quella lagnanza può essere messa in relazione al livello di funzionamento energetico depresso del paziente. Al paziente il cui respiro è superficiale può essere mostrato che non sta permettendo che venga espresso nessun sentimento. Al paziente che si lamenta di problemi sessuali può essere dimostrato che ha gravi tensioni nella pelvi, il che riduce la potenza sessuale. La maggior parte dei pazienti non sono consapevoli che i loro problemi sono manifesti nel corpo fino a che non viene loro fatto vedere ciò. Una volta che viene stabilita questa comprensione diviene possibile lavorare bioenergeticamente col paziente.

Vi sono quattro dimensioni dell’analisi bioenergetica:
(a) comprensione e lavoro con le tensioni muscolari
(b) analisi delle associazioni, del comportamento e de transfert
(c) comprensione delle dinamiche energetiche
(d) focalizzazione sul ruolo della sessualità.

Tutti i terapisti bioenergetici conoscono queste quattro dimensioni, ma la loro enfasi su ciascuna di essa varia secondo il loro retroterra culturale ed esperienza: molti si focalizzano fortemente sull’aspetto psicologico, con una certa attenzione al corpo perché è la fonte del sentire. Altri fanno più lavoro sul corpo, largamente indirizzato all’espressione delle sensazioni. Comunque tutti gli analisti bioenergetici notano aree di contrazione e tensione, interpretano la contrazione e poi mobilizzano il corpo tramite il respiro ed il movimento per rilasciare le contrazioni. Ogni contrattura blocca un flusso di eccitazione all’insù fin dentro la testa e gli occhi, o all’ingiù fin dentro la pelvi, i genitali e le gambe. In questi blocchi troviamo sempre dolore. Da un certo punto di vista il trattenimento o la contrazione sono manovre per alleviare il dolore, il dolore di una ferita o di un’umiliazione o il dolore di una perdita o di una frustrazione. La contrazione diminuisce il dolore riducendo la sensazione e rendendo insensibile al dolore la persona. Si rende la parte insensibile. Rilasciare ciò che si trattiene è dapprima sperimentato, perciò, come doloroso. Il passaggio di una forza energetica (sangue) attraverso un’area compressa è doloroso. Ma dopo che è avvenuto, il rilascio viene sperimentato come piacere. Nessuno può raggiungere alcun cambiamento caratterologico significativo senza sperimentare il dolore del cambiamento.

La terapia bioenergetica, sebbene il suo centro di attenzione primario sia il corpo, è un approccio combinato che lavora sia con il corpo che con la mente. Durante il colloquio iniziale il terapeuta dedicherà del tempo ad ascoltare i disturbi e la storia del paziente, ponendo domande sulla sua situazione attuale e passata e studiando le espressioni facciali, l’atteggiamento corporeo e la voce, tutte cose che forniscono informazioni sulla personalità del paziente. Si possono ricavare ulteriori informazioni dallo studio della forma e motilità del corpo stesso. Il modo in cui ci si siede, si sta in piedi, si respira e ci si muove, tutto ciò è in grado di rivelare problemi e conflitti.

Una volta che la relazione tra lo psicologico e il fisico viene stabilita, il paziente sa che il suo corpo dovrà cambiare se la personalità deve cambiare in modo significativo. Se il corpo è troppo rigido, cioè, se si trattengono le sensazioni, il corpo dovrà ammorbidirsi. Se le sensazioni sono trattenute da tensioni muscolari che tendono a comprimere il corpo e chiuderne gli sbocchi, queste tensioni dovranno essere ridotte per permettere l’espressione del sentire. Ma cambiare il corpo in modo significativo è un’impresa ardua. In quasi tutti i casi, cambiamenti positivi ma superficiali accadono piuttosto rapidamente con la terapia bioenergetica. La mobilizzazione iniziale del corpo per mezzo di una respirazione più profonda e di esercizi bioenergetici evoca spesso sensazioni a lungo soppresse. Il paziente può sperimentare tristezza che può a sua volta trasformarsi in pianto o rabbia, che può essere espressa colpendo il letto. Il paziente può sentire una certa quantità di paura che veniva in precedenza negata e può sperimentare vibrazioni che forniscono nuove sensazioni corporee. La risposta iniziale alla terapia bioenergetica è come l’apertura di una porta verso un eccitante mondo nuovo di sentire ed essere. Produce spesso dei benvenuti cambiamenti nel comportamento. Al meglio fornisce una base di comprensione e fiducia per il compito più difficoltoso che ci sta davanti.

Lavorando con il corpo vi sono due principi di somma importanza.
(1) Qualsiasi limitazione della motilità è sia un risultato che la causa di difficoltà emozionali. I limiti si creano in quanto risultato di conflitti infantili irrisolti, ma la persistenza della tensione crea difficoltà emozionali nel presente che si scontrano con le richieste della realtà adulta. Ogni rigidità fisica interferisce ed impedisce una risposta unitaria alle situazioni.
(2) Qualsiasi restrizione della respirazione naturale è sia il risultato che la causa dell’ansia. L’ansia nelle situazioni infantili disturba la respirazione naturale. Se la situazione che produce ansia persiste ed è prolungata, il disturbo della respirazione si struttura in tensioni toraciche e addominali. L’incapacità di respirare liberamente sotto stress emozionale è la base fisiologica dell’esperienza di ansia in tali situazioni stressanti. L’unità e coordinazione delle risposte fisiche dipende dall’integrazione dei movimenti respiratori con i movimenti aggressivi del corpo. Al punto che la respirazione e la motilità sono liberate dalle restrizioni delle tensioni croniche, il funzionamento fisico del paziente migliorerà. A quel punto il contatto con la realtà a livello fisico si espanderà e approfondirà, ma ciò accadrà soltanto a condizione che vi sia un miglioramento concomitante e corrispondente della comprensione della realtà da parte del paziente sia sul piano psichico che su quello interpersonale. Non ci si dovrebbe, però, farsi fuorviare dagli apparenti miglioramenti nel funzionamento del paziente sul piano psichico ed interpersonale che non sono accompagnati da un miglioramento analogo del funzionamento fisico.

Per mezzo di movimenti particolari e posizioni del corpo i pazienti in terapia bioenergetica ottengono un contatto più profondo col corpo ed un sentire migliore nei suoi confronti. Da questo contatto e sentire iniziano a capire la relazione tra il loro stato fisico attuale e le esperienze della prima e seconda infanzia che lo hanno determinato. I clienti imparano che la negazione del corpo è un rifiuto del bisogno di amore, questa negazione viene usata per evitare di essere feriti e disillusi. Imparano ad interpretare le rigidità come difese contro varie emozioni. Data l’opportunità di dar voce alla negatività i pazienti scoprono che non verranno abbandonati o distrutti per avere espresso il loro sentire; tramite l’accettazione dei loro corpi e dei loro sentimenti gli individui ampliano il contatto con tutti gli altri aspetti della realtà.

Poiché il corpo è la base di tutte le funzioni di realtà, qualsiasi accrescimento nel contatto di una persona con il corpo produrrà un miglioramento significativo nell’immagine di sè (immagine corporea), nelle relazioni interpersonali, nella qualità del pensare e sentire e nella gioia di vivere.

Con questa comprensione energetica si procede ad interpretare il trattenere o la contrazione in termini di sentimenti soppressi. Poiché il sentire è stato soppresso, il paziente ne è inconsapevole. Ad ogni modo, la natura del trattenimento (linguaggio del corpo) ne identificherà il sentimento. Generalmente la sensazione può essere portata alla coscienza attivando il movimento espressivo. Per esempio una mascella che viene rigidamente trattenuta da muscoli tesi può trattenere impulsi o mordere. Far mordere un asciugamano, a qualcuno può attivare questi impulsi cosicché il desiderio soppresso di mordere diventa conscio. Una gola rigidamente contratta inibisce l’espressione del pianto o delle urla, ma la persona può non essere conscia di questa inibizione fino a che non cerca di piangere o urlare. Spalle rigide possono bloccare impulsi a colpire con rabbia. Spesso far si che la persona colpisca il letto con i pugni evoca una sensazione di rabbia. Allo stesso modo si può identificare la mancanza di aggressività sessuale in un individuo dalla immobilità della pelvi. Comunque la capacità di leggere il linguaggio del corpo non viene acquisita facilmente o rapidamente.

Sono necessari un considerevole training ed esperienza per sviluppare questa abilità ad un alto livello di competenza.
Interpretare schemi diversi di tensione in parti del corpo separate (bocca, occhi, spalle, pelvi, piedi ecc. ) è molto simile a leggere le parole. Anche se si riescono a leggere le parole correttamente non ne consegue che si riesca a trarne un senso compiuto.

Per avere un senso compiuto le parole devono essere interpretate nel contesto di una frase, un paragrafo, persino un capitolo. Ciascun corpo ha un’espressione unica che rivela la personalità ed il carattere dell’individuo.

La struttura del carattere può essere vista come una tipologia che facilita la comprensione e la comunicazione, ma non si può fare terapia con una tipologia. La terapia ha a che fare con un individuo molto specifico, ed è quella specificità che si deve capire dalla lettura del corpo. Le parti hanno senso rapportate al tutto, ma il tutto non può essere determinato dalle parti. Solo quando capiamo un individuo in questi termini abbiamo comprensione dei suoi problemi e soltanto entro quello schema di riferimento il lavoro sulle parti o segmenti diventa pienamente produttivo.
Se la terapia è un viaggio alla scoperta di sè dovrebbe essere condotta da una guida che ha fatto quel viaggio personalmente. Un terapeuta non può aiutare i pazienti ad avanzare oltre il punto in cui egli è arrivato. Ma troppi terapisti hanno mancato di confrontarsi con la loro struttura caratteriale a livello corporeo. Ciò deriva dalla osservazione che essi non hanno compiuto cambiamenti significativi nella loro struttura corporea. Di conseguenza la loro conoscenza della struttura del carattere è più teorica che esperienziale. Il risultato è che essi contano soltanto sulla consapevolezza per modificare la personalità. Infatti la consapevolezza e l’insight possono far ciò in grado limitato e a livello superficiale. Ad ogni modo l’insight è solo una finestra attraverso la quale si può vedere la ragione di un qualche aspetto del comportamento. Sapere il perché del comportamento non influenza fortemente il come del comportamento. Credere altrimenti è ignorare il fattore energetico. Considerazioni di carattere energetico impongono che un cambiamento profondo implichi un lavoro continuo di scoperta. Questo è il livello in cui si incontrano dolore e paura. La paura proviene dal fatto che la scoperta accade spesso assieme allo sconvolgimento. La vecchia struttura deve rompersi e crollare perché si possa sviluppare un modo più libero di essere. Terapisti di successo hanno sperimentato alcuni di questi sconvolgimenti nel corso della loro crescita e possono essere testimoni del dolore e paura che accompagnano questo processo. Si può apprezzare la riluttanza di molti terapeuti a portare i pazienti al punto di rottura e di scoperta perché temono il possibile sconvolgimento che può succedere.
Tuttavia questo processo, sebbene doloroso, può essere necessario se si vuole che accada un vero cambiamento terapeutico.

Tratto da “Bioenergetic Analysis”

Alexander Lowen, M.D. è il fondatore dell’Analisi Bioenergetica, direttore esecutivo dell’International Institute for Bioenergetic Analysis, è autore di numerosi libri e pubblicazioni curate nell’edizione italiana dal Centro di Documentazione Wilhelm Reich.

LOWEN IN/OLTRE di Luciano Marchino

“Sono trascorsi quarant’anni da quando ho sviluppato l’Analisi Bioenergetica dai concetti carattero analitici di Reich con l’intenzione di approfondire il lavoro analitico e di espandere le procedure corporee per rendere più efficace la terapia. Focalizzai l’attenzione sulla respirazione, l’espressione dei sentimenti e l’abbandono sessuale all’amore come si manifesta nel riflesso dell’orgasmo. Questo programma conteneva una grande promessa e tutti noi, coinvolti nello sviluppo di questo nuovo approccio, credemmo di poter aiutare le persone a raggiungere in tal modo il pieno appagamento.
Mi rattrista dover ammettere che l’Analisi Bioenergetica non ha esaudito tale aspettativa: come fondatore e guida mi sento responsabile di questo fallimento che è dovuto alla mia insufficiente comprensione della profondità della patologia che affligge gli esseri umani nella nostra cultura. Tale fallimento ha origine anche nella mia determinazione egoistica ad ottenere risultati. Ma per me gli ultimi quarant’anni non sono trascorsi invano. Ho affrontato l’arroganza e la impulsività della mia personalità e ho imparato ad accettare la vita e a lasciarla accadere. Ciò mi ha condotto a una comprensione del tutto nuova dei compiti terapeutici e del processo dell’Analisi Bioenergetica. Ho chiamato questa nuova comprensione
arrendersi al corpo. Il fine dell’arrendersi è l’esperienza della gioia.”
In modo quasi magico, quasi mistico, quasi artistico, come un maestro zen che tracci il suo cerchio più perfetto, Alexander Lowen chiude con queste parole un ciclo di ricerca estesosi nell’arco di quaranta intensissimi anni di fervida passione scientifica che lo hanno condotto a radicare sempre meglio la sua ricerca clinica nella realtà somatica e spirituale degli esseri umani. Con le ultime parole del suo adress ai partecipanti al dodicesimo congresso biennale di Analisi Bioenergetica nel 1994, egli ci commuove per la sua grandezza e ci sorprende per la sua modestia. Giunto all’apice della sua esperienza umana e scientifica, alla bella età di ottantacinque anni, afferma di aver mancato l’obiettivo più ambizioso e più significativo, quello di ripristinare la piena salute emozionale in coloro che si rivolgono all’A. B. in cerca di aiuto.
E’ importante ricordare quello che Lowen ritiene essere il fine della terapia : “aiutare il paziente a ritrovare la capacità di provare piacere e gioia. Questo è un fine più ampio di quello formulato da Reich e al contempo include il piacere sessuale e la soddisfazione orgastica”. Egli quindi non nega la centralità delle problematiche sessuali e riconosce anzi che “l’analisi dei conflitti sessuali è tuttora un punto focale nel lavoro terapeutico in A. B.”; ma afferma al tempo stesso che l’A. B. “non è preoccupata in modo esclusivo della sessualità quanto lo era l’approccio reichiano”. Sarà la respirazione ad assumere in A. B. la centralità attribuita da Wilhelm Reich alla sessualità. La respirazione evidenzia infatti secondo Lowen la qualità del “rapporto con l’aria”. “L’aria o la respirazione sono l’equivalente dello spirito, il pneuma delle antiche religioni, un simbolo del potere divino che dimora in Dio (padre), la figura paterna”.
Lowen sottolinea come un’insufficiente fluidità ed ampiezza respiratoria si rifletta in un disturbo del flusso delle sensazioni attraverso il corpo e quindi in un indebolimento della risposta emozionale agli eventi della vita. Ad una respirazione frammentaria farà riscontro una risposta emozionale conflittuale ed ambivalente.
Riferendoci ora a quanto sopra affermato riguardo il mancato obbiettivo, dobbiamo quindi, come altri hanno ritenuto opportuno, ignorare il messaggio di Lowen e perseverare egotisticamente e caparbiamente nell’applicazione di un metodo che ha portato il suo massimo esponente a considerazioni di tale drammaticità? O dobbiamo chiederci se non sia giunto il tempo anche per noi di aprire gli occhi e di diventare protagonisti e non solo somministratori o fruitori di un metodo che come ogni metodo scientifico degno di questo nome ha portato il suo nucleo di ricerca più avanzato, più coerente e più disincantato a cogliere i propri limiti a falsificare le proprie ipotesi di partenza, e a formulare conseguentemente un nuovo e innovativo piano di ricerca e di applicazione ?
Per rispondere a questo interrogativo credo sia necessario fare un passo indietro e inquadrare il paradigma dell’A. B. all’interno del panorama attuale delle psicoterapie sia a mediazione verbale che a mediazione somatica (queste ultime sono incentrate sulla fondamentale assunzione dell’identità funzionale tra mente e corpo, e come conseguenza orientate verso un lavoro terapeutico implicante sia il livello verbale che corporeo).
In Oltre i confini, Ken Wilber, psicologo e ricercatore tra i più accreditati nel campo della psicologia transpersonale, introduce l’ipotesi che le forme di intervento psicoterapico abbiano come mezzo e come fine l’eliminazione dei confini tra ciò che chiamiamo e ciò che chiamiamo non Sé, che ci è psicologicamente altro. Egli sottolinea come il confine più comunemente riconosciuto sia fornito dall’epidermide, dimenticando però di sottolineare un dato importante, cioè che l’epidermide e la neocorteccia cerebrale, principale sede dell’attività mentale cosciente, hanno la stessa origine embriologica e sono partecipi del medesimo senso del confine. Come vedremo in seguito, questa considerazione non è affatto secondaria.
Wilber riconosce che, come Lowen rileva più volte nei suoi scritti, il senso dell’identità è fornito agli esseri umani soprattutto dall’esperienza corporea. L’osservazione clinica dimostra infatti che il corpo fornisce la base più largamente condivisa per distinguere ciò che è me da ciò che è non me, come il mio rasoio, o il mio spazzolino da denti, o la mia automobile. Ma oltre al confine fornito dall’epidermide siamo costretti ad ammettere l’esistenza di un secondo importante confine posto tra mente e corpo, o più precisamente tra mente conscia e corpo.
E’ l’esistenza di tale confine che ci induce a fare affermazioni del tipo “Io ho un corpo sano” piuttosto che “Io sono un corpo sano”.
La differenziazione sbrigativamente etichettata come “separazione tra mente e corpo” ci deve indurre a considerare l’eventualità che all’interno del processo di evoluzione si siano create le condizioni di una differenziazione adattiva funzionale tra uno strato più periferico , e più direttamente a contatto con l’ambiente (l’ectoderma-neocorteccia-pelle) e degli strati più profondi e meno esposti alla relazione ambientale come il mesoderma e l’endoderma. Tale differenziazione adattiva, che fornirebbe il substrato biologico all’esperienza psicologica di una separazione tra mente e corpo, è alla base delle osservazioni cliniche di Wilhelm Reich sull’origine dell’armatura carattero-muscolare (secondo Reich, capostipite della Psicologia Somatica, qualsiasi conflitto emotivo o trauma subito a livello psicologico provocherebbero nell’individuo una corrispondente tensione a livello fisico, favorendo, come risultato, l’instaurarsi di una corazza muscolare. Questo sta ad evidenziare l’esistenza di un’identità funzionale tra mente e corpo), teoria pienamente assorbita nel paradigma dell’A. B. di cui costituisce uno dei pilastri principali.
Nessuna osservazione ci autorizza infatti a credere che la linea di confine tra mente e corpo sia presente (sancita oltre che predisposta) alla nascita. Una mole considerevole di dati ci costringe viceversa a rilevare come il processo di separazione dell’identità dal corpo proceda di pari passo con lo sviluppo del bambino e con la maturazione di stati dell’essere che Lowen ha associato a cinque diritti fondamentali: il diritto di esistere, di avere bisogno, di essere autonomo, di imporsi e di amare sessualmente. La negazione protratta o traumatica di tali diritti, sembra costringere il bambino a dissociarsi dall’area del proprio corpo implicata nella rivendicazione del diritto negato, serrandolo nella morsa di una tensione che appare necessaria ad impedirne l’espressione e quindi l’appagamento, perpetuando di conseguenza lo stato di bisogno e di frustrazione. In cambio del paradiso così perduto egli riceve un’illusione, l’illusione che il non sentire, cioè il dissociare il piano fisiologico dalla sensazione dal piano psicologico della percezione dotata di emozione e di significato, lo metta al sicuro da un ambiente correttamente o erroneamente percepito come minacciante.
E’ così che perdiamo la capacità di riconoscere il corpo come il modo della nostra esperienza e cominciamo a ritenerlo semplicemente un mezzo attraverso il quale entriamo in contatto col mondo.
E’ in tal modo che perdiamo la capacità di riconoscere il corpo come l’essenza e lo riduciamo alla funzione di contenitore di cui poi pretendiamo di essere il contenuto.
E non è tutto naturalmente perché, come Freud ha dimostrato e Lowen ha pienamente integrato nell’A.B., esiste all’interno del confine dell’ectoderma un ulteriore confine tra le parti di cui siamo consapevoli e che chiamiamo Io e le parti che abbiamo allontanato dalla coscienza, rimuovendole e/o proiettandole sull’ambiente esterno. Le parti che Carl Jung definì suggestivamente ombra.
Tale confine ci rimanda dunque a uno spazio più profondo e interno a ciascun essere umano: lo strato strutturale fornito dall’apparato muscoloscheletrico (mesoderma) che è l’apparato di supporto e l’agente e soggetto di ogni azione cosciente e volontaria, ma contiene al tempo stesso la somma articolata (pattern) di tutti i divieti interiorizzati dalla persona nel suo processo di autocostruzione.
E’ proprio qui, a livello della muscolatura volontaria, che l’Io sembra imbrigliare e annullare l’emergere di tutti gli affetti suscitati dal permanere della frustrazione ambientale. E’ qui che si realizza l’ulteriore confine tra parti consce, autorizzate per così dire a emergere sino al livello ectodermico, se non a esprimersi nell’ambiente, e parti inconsce, che solo nel sonno con l’allentamento delle tensioni muscolari volontarie e del controllo egoico, o nell’ atto bioenergetico, grazie all’alternanza simpatico/parasimpatico (Gellhorn [ 1967] parla di principio di “interazione reciproca” che regola le componenti simpatica e parasimpatica del SNA. Il simpatico funziona nell’azione, ovvero nei processi di dispendio di energia; la componente del parasimpatico funziona nel riposo, ovvero nei processi di recupero dell’energia.) e alla decisione volontaria di riattivare modi di funzionamento espressivo desueti, possono tornare alla luce.
Nel primo caso esse, se supereranno la soglia del ritorno allo stato di veglia, dovranno comunque sottostare al processo di decodificazione noto come analisi dei sogni, nel caso di un atto bioenergetico invece, se la carica emozionale potrà superare la barriera posta dalle difese neurotiche dell’ io adattato, trascinerà con sé la conoscenza originaria dell’evento e della situazione patologica che diede origine al blocco neurotico, portando ad un momento di autocoscienza che non richiede alcuna spiegazione, ma solo un’adeguata integrazione a livello consapevole.
Il processo dell’analisi bioenergetica però può essere visto in due modi, diametralmente opposti. Il primo che l’avvicina alla terapia dell’Io è un processo che, senza troppo allontanarsi dalla realtà, potremmo definire di manutenzione dell’armatura caratteriale e che prevede la riorganizzazione delle difese sotto l’egemonia di un Io rafforzato da una migliore sensazione di esistere (dovuta all’integrazione dei vissuti emozionali e sensoriali corporei), e quindi di potersi battere con maggior successo per i propri fini. In questa luce il terapeuta si pone al servizio dell’Io del paziente, promovendo però un intensificarsi del senso di separazione, e spesso di conflitto, tra l’organismo e l’ambiente, e rendendo il suo paziente un combattente più fiero e fiducioso ma non per questo più gioioso.
Credo che Lowen, nel suo adress ai bioenergetici, voglia proprio sottolineare come tale approccio non abbia portato i risultati sperati e come il processo dell’analisi bioenergetica sia oggi meglio descrivibile come un progressivo arrendersi al corpo e al flusso della vita, dentro e fuori di noi. Dont push the river! Non spingere il fiume della vita, arrenditi, lasciati condurre.
Ma il flusso della vita, nel processo di reintegrazione delle parti che chiamiamo psicoterapia, sembra spesso sommergerci e precipitarci in situazioni sulle quali non sentiamo di avere il controllo e che minacciano di sopraffarci. Si incontrano rapide e mulinelli e cascate improvvise, come improvviso è talvolta il crollo delle antiche illusioni, e implacabile il mulinello dei sentimenti inespressi di dolore, di collera, di desiderio o di paura a cui non riusciamo a sottrarci, e incontrollabile ci sembra l’improvviso ritorno dell’ energia quando riusciamo a praticare una breccia nella massa compatta dell’armatura.
E’ a questo punto che l’A.B. supera se stessa, e sfocia in una dimensione che va ben al di là di una terapia dell’Io, perché il processo di confronto con la paura di perdere il controllo e di impazzire, con la paura che arrendersi al corpo equivalga a morire, la pongono sul piano di una pratica di evoluzione spirituale, che travalica irreversibilmente l’angusta dimensione della psicoterapia dell’Io individuale, per riallacciarsi ad una unità sottostante che sembra accomunare la molteplicità degli esseri umani.
Questa fu probabilmente l’esperienza che Teresa D’Avila, la più grande ricercatrice spirituale della cristianità, descrisse come oscura notte dell’anima e forse fu l’esperienza che indusse Al-Ghazali, il più grande mistico dell’Islam, a porre nel suo Trattato delle sette valli la valle della morte e l’abisso del nulla prima della settima e ultima valle al centro delle altre: la valle della celebrazione, equivalente mistico della gioia. E forse da ripetute esperienze di questo tipo ha avuto origine il Bardo, il libro tibetano dei morti, minuziosissima sequenza di istruzioni per il passaggio a una vita migliore, per l’uscita dalla ruota del Karma, così simile, come abbiamo rilevato altrove, alla schiavitù dell’armatura caratteriale.
Tutti costoro, si badi bene, non cercarono Dio attraverso dotte elucubrazioni o agitando concetti fumosi; questo era ed è tuttora compito dei letterati. I mistici, al contrario, perseguivano la conoscenza di Dio attraverso ben precise pratiche esperienziali corporee.
Forse in tal modo entrarono in contatto col nucleo della loro energia pulsionale originaria che Wilhelm Reich, maestro di Lowen aveva posto al centro del proprio modello della personalità umana. Forse in tal modo assaporarono l’esperienza dell’estasi, della celebrazione, della gioia del contatto con l’origine dell’uno e del tutto. Non lo sappiamo, non possiamo saperlo, ma certamente sappiamo che, contrariamente alla dilagante o gaudente congerie del neomisticismo, che pretende di saltare pié pari l’esperienza dei vissuti corporei per sguazzare illusoriamente in un oceano cosmico pittorescamente popolato, l’A.B. si pone come il frutto raro e maturo di un processo di evoluzione e di integrazione emozionale, esperienziale, sensoriale o cognitiva che, per il solo processo di incremento sinergico della complessità che è il mezzo e il fine del suo metodo e grazie al contributo di molti ricercatori, si trova oggi al limitare di una spiritualità emergente che esita ad abbracciare, ma che non può più a lungo rinnegare.
Arrendersi al corpo, abbandonare le tensioni psicorporee difensive, fu la scelta che guidò Reich ad elaborare l’ analisi del carattere in vegetoterapia caratteroanalitica. Lowen, che dalla vegetoterapia trasse le sue prime intuizioni, torna oggi a una profonda comprensione della funzione terapeutica dell’arrendersi. Dopo essersi battuto con pieno successo per affermare il proprio metodo, egli lo perfeziona e ci avvisa: l’ultimo passo verso la gioia è imparare ad arrendersi.
Milano 23 dicembre 1995
Tratto da www.biosofia.it

Il corpo che siamo… vivere come morire di Gianfranco Inserra

In questi giorni molto si è parlato del vivere e del morire e credo che nessuno di noi sia rimasto indifferente ad un tema che in fondo ci riguarda tutti profondamente.
Lontano dalle polemiche alle quali abbiamo assistito vorrei lasciare qualche riflessione, condivisibile o non condivisibile, ma di certo accorata.
Per me, che da anni lavoro per l‘affermazione della Vita nell‘esistenza di chi a me si rivolge, mi sono parse alienanti e piene di ipocrisia e retorica molte delle affermazioni ascoltate in questi giorni in difesa della Vita e mi sono tornati in mente, con il rammarico di chi sa che nulla è cambiato, i primi scritti di Wilhelm Reich.

Chi di voi ha un po’ di conoscenza del suo pensiero sa quanto egli avesse rispetto per quello Spirito Vitale che vedeva rigoglioso nei bambini e martoriato da quelle sovrastrutture, da quella pseudo educazione che nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza cercano di darci, addomesticandoci e trincerandoci in corazze che poi richiederanno anni per essere smantellate. Ai bambini è dato lo scorrere libero dell’Energia Vitale, la naturalezza dell’innocenza, l’innocenza di chi non attribuisce a nulla etichette di “male” e di “bene“, ma vive semplicemente secondo natura, secondo l’innata capacità di essere al mondo totalmente, con lo Spirito e con il Corpo tramite il quale esso si manifesta, l‘uno parte integrante dell’altro.

In quella male-educazione persecutoria e colpevolizzante del “bene” e del “male”, a cui tutti, chi più chi meno, siamo stati sottoposti, si cela il supremo attentato alla Vita negli uomini, quella Vita che, per natura, ci appartiene e che, per morale, ci viene sottratta. E’ in questa espropriazione della nostra reale natura che si realizza il più grave torto alle nostre esistenze, perché quando si priva il Corpo della sua Vitalità gli si sottrae la sua essenza e lo si riduce ad un semplice pezzo di carne, oggettivando la Vita al di fuori di esso, come un concetto, un’idea, un miraggio.

E si sottrae all’uomo la sua Verità, perchè così come il Corpo diventa carne, l’abbraccio genitale diventa sporca sessualità, il piacere diventa peccato, la pulsione di Vita diventa pulsione di Morte. Quando nelle nostre Chiese vediamo le parole che Cristo pronunciò “io sono la Via, la Verità e la Vita” confinate sui nostri altari, si rende chiara tale oggettivazione e la sua messa a distanza da noi.

Quel Cristo che è in noi, in tutti gli uomini, viene oggettivato e posto fuori da noi stessi, dal Corpo che siamo, dal Corpo con il quale viviamo e che, dagli stessi religiosi, viene considerato come un “Tempio”. Solo nell’ottica di una tale oggettivazione, solo in questo allontanamento della Vita dal Corpo, ridotto ad un insieme di cellule, tessuti, vasi sanguigni, muscoli, si può considerare vitale un Corpo che non può più amare, che non può più sentire, guardare, toccare, gustare, che non può più godere della natura, dell’arte, dell’amore e di tutto ciò che rende davvero vivo un Uomo.

Solo in questa perversione dell’idea di Uomo, si può considerare Vita un Corpo che può solo ricevere il nutrimento essenziale per la sua sopravvivenza e che è destinato esclusivamente al degrado che il tempo farà subire alle sue carni, la cui cura è totalmente assegnata a terzi, nella più completa privazione anche di quella dignità che ognuno vorrebbe conservare sia nel proprio vivere che nel proprio morire.

In questo atteggiamento, in questa considerazione del Corpo come un pezzo di carne e non come il sacro strumento di cui ci serviamo per vivere, come fa sapientemente un musicista con il suo pianoforte, con il suo violino, per suonare la sua musica, la sua melodia, ho rivisto, purtroppo, le parole di Reich ancora pienamente attuali.

Mi chiedo se chi ha così strenuamente opposto la sua voce a quanto poi si è realizzato, continua nelle proprie case ad annaffiare quelle piante che ormai sono morte solo perché c’è ancora un vaso con della terra secca all’interno o se invece considera vive solo quelle che germogliano, che fioriscono, che liberano profumi nell’aria e che continuano a mutare con le stagioni.

Chi come me, da anni lavora con il Corpo ed ha fatto esperienza, grazie ai propri pazienti, di come nel Corpo sia scritta la propria storia, la storia di un padre assente, di una madre distante, di una separazione, di un marito alcolizzato, di una violenza subita, non può che augurarsi che in futuro, lontano dalla demagogia dei politicanti e dalla morale dei religiosi, di esso si possa avere una nuova e più dignitosa considerazione e che la Vita, quella che interi ci abita e ci abbraccia, possa davvero essere difesa, nella sua forma più nobile, più alta, più vera, a cominciare da quella che fiorisce naturalmente nei nostri figli.

(“Il corpo che siamo… …vivere come morire”, tratto in data 24-03-2009 da Obiettivo Psicologia. Formazione, lavoro e aggiornamento per psicologi)

Corporeità e Cultura: essere grounded nella storia e nel presente di Livia Geloso

L’Analisi Bioenergetica, dal punto di vista della storia delle idee e delle pratiche sociali, non è un fenomeno a sé stante, ma appartiene a un variegato ed ampio movimento che può essere denominato “filone culturale corporeo. Questo “filone” attraversa come un fil rouge la modernità occidentale, dalle sue origini nel XVI° secolo ai giorni nostri, costituendone la figura dell’antagonista, dell’Altro rispetto al “filone culturale mentale“, nella contrapposizione fondativa tra razionalità e irrazionalità, tra mente e corpo, tra ragione e istinto, tra cultura e natura, tra uomo e donna, ecc. Da alcuni anni, mi sto dedicando alla definizione e alla diffusione della storia di questo “filone” con una particolare attenzione alla posizione che l’Analisi Bioenergetica ricopre all’interno di tale contesto storico e socio-culturale.

Da notare che alla definizione dell’insostenibilità di un modello universale e unitario della ragione umana ha dato e continua a dare un particolare contributo il fatto che l’antropologia culturale si sia riconvertita da disciplina al servizio del colonialismo a ponte tra il nostro mondo occidentale e modalità diverse di pensare, di sentire e di comportamentarsi, insegnandoci a guardare a noi stessi/e con altri occhi.

Anche i fautori a oltranza dell’assoluta superiorità assiologica (superiorità relativamente alla definizione dei valori) dell’atteggiamento razionale – così com’è definito nel pensiero occidentale moderno – rispetto agli altri possibili atteggiamenti, ammettono che il limite di demarcazione tra razionale e irrazionale non sia più così certo e sicuro. E non dimentichiamo che sotto l’etichetta di irrazionale erano stati posti il corpo e le emozioni!

Se, come ci ricorda Lowen, “impariamo studiando il passato” e “una persona può crescere solo rafforzando le proprie radici nel suo stesso passato” (“Bioenergetica”, Feltrinelli, 1991, p. 27), allora, credo sia arrivato il momento di sviluppare il nostro “grounding storico” come comunità non solo di lavoro ma anche di ricerca e di studio quale siamo. Anche perché appare sempre più chiaro come la psicologia e la psicoterapia mostrino evidenti e dannose carenze dal punto di vista della capacità di riflettere sulla propria storia all’interno della storia dell’epoca moderna, mentre intorno a noi, come reazione alle trasformazioni globali in atto, si viene manifestando un rinnovato interesse storiografico e sociologico, oltre che filosofico, in particolare intorno ai concetti di “società”, di “modernità” e di “ragione strumentale”.

Intanto, da parte delle neuroscienze e di diversi indirizzi psicoterapeutici, fino a ieri indifferenti e/o svalutanti verso l’approccio corporeo, arrivano manifestazioni di interesse per la dimensione corporea dell’esperienza terapeutica, manifestazioni che, data la quasi totale assenza di riferimenti al lavoro di Reich e di Lowen, sembrano considerare terra vergine il territorio che abbiamo contribuito a coltivare e che esiste dagli anni ’30 del secolo passato. Alla luce di tutte le riflessioni qui riportate in grande sintesi, il momento presente, a mio avviso, dispiega delle opportunità imperdibili per il “filone culturale corporeo”, per l’approccio corporeo in psicoterapia e, quindi, per l’Analisi Bioenergetica, ed è mio desiderio contribuire a far sì che tali opportunità vengano colte nel modo più grounded e significativo possibile.

Tratto dal blog Vita bioenergetica

Bioenergetica e Trauma di Livia Geloso

Il trauma, la sua definizione e la terapia ad esso relativa, è una questione al centro di un ampio dibattito con effetti teorico-pratici ampi e profondi. Come il trauma, in quanto oggetto di riflessione nella teoria e nella pratica terapeutica ad esso correlata, abbia a che fare con noi analisti/e bioenergetici/che è il tema del presente articolo. L’obiettivo dell’articolo è quello di lanciare un rapido sguardo panoramico d’insieme attraverso l’elencazione di una serie di punti e un rapido sviluppo dei punti dell’elenco.

L’elenco dei punti (A-L)

A) La definizione di “trauma”;

B) la messa in questione della “catarsi” da parte delle teorizzazioni sul trauma (vedi art. di Angela Klopstech, “Catharsis and Self-Regulation Revisited: Scientific and Clinical Considerations.”, riv. IIBA, vol.15, 2005, pp.101-131);

C) la difficoltà specifica a lavorare a livello corporeo, come siamo abituati/e, soprattutto riguardo al contatto, oltre che rispetto all’attivazione, più o meno catartica;

D) la riflessione sul modo in cui la tematica del trauma si focalizza sul corpo, e di quale tipo di corpo si tratta (vedi art. di A.Klopstech, “So Which Body Is It? The Concepts of The Body in Psychotherapy.”, riv. IIBA, vol.19, 2009, pp.11-30);

E) qual è stato l’esito dei seminari di Sylvia Conant sul “Trattamento dello shock da trauma”?

F) forse c’è qualcosa da dire sulla definizione di Disturbo Post-traumatico da Stress (DPTS) che ha avuto tanto successo ed è stata inserita nel DSM IV (Bonnie Burstow, “A Critique of Post-Traumatic Stress Disorders and the DSM”, in Journal of Humanistic Psychology, 2005, 4:429-445; Giulio Fontò, “I disturbi di personalità: i nuovi mali dell’anima.”, VII° Seminario Apeiron, 2008);

G) l’importanza di raccogliere la nostra bibliografia sul lavoro bioenergetico con il trauma (ricordo il vol.1-1998 e il vol. 1-1999 della riv. IIBA dedicati al trauma; “Trauma and The Body” di Robert Lewis, riv. IIBA, vol.11 n°2, 2000, pp.61-75; ma c’è molto altro);

H) l’importanza di tenere conto della fase del ciclo di vita in cui la persona viene a richiedere il nostro aiuto, insieme ad una precisa individuazione del tipo di risorse e di debolezze che il sistema della sua personalità manifesta (facendoci aiutare dalle “metafore” che ci evoca);

I) riflessioni sull’ ipotesi che, grazie all’attenzione suscitata dalla questione del “trauma” e sugli ultimi sviluppi delle neuroscienze, si sia di fronte al processo di configurazione di una modalità conoscitivo-operativa definibile come “intelligenza istintuale”, così come negli anni passati si è assistito alla configurazione della “intelligenza emotiva” (“Teoria polivagale” di Porges, “The Second Brain. The Enteric Nervous System ENS” di Gershon, i “Neuroni a specchio” di Rizzolatti et al., ecc.). Tutte le volte che Lowen parla della “saggezza del corpo” e le affermazioni relative a tale “saggezza” potrebbero, in un futuro vicino, essere riconcettualizzate come manifestazioni dell'”intelligenza istintuale”;

L) il tema dell’istinto e del rapporto con la “parte selvaggia” che c’è in ognuno/a di noi, nella cornice del discorso sulla “modernità”, sulla “civilizzazione”, sulla “Wildnis/Wilderness” (vedi Ulla Sebastian, “From Horse(Wo)man to Centaur”, Atti Convegno EFBA-p, Frascati, Maggio 1995, pp.175-192; Clarissa Pinkola Estés, “Donne che corrono coi lupi. Il mito della donna selvaggia.”, Frassinelli, 1993; Hans Peter Duerr, “Nudità e vergogna. Il mito della civilizzazione”, Marsilio, 1991, e “Tempo di sogno”, Guerini e Associati, 1992; Claudio Risé, “Il maschio selvatico”, RED, 2002 ; Bruno Latour, “Non siamo mai stati moderni”, Elèuthera, 2009; ecc.);

 

SVILUPPO SINTETICO DEI PUNTI

Punto A) La definizione di trauma

Sul Dizionario della lingua italiana di G. Devoto e G.C. Oli si legge: “Trauma 1. lesione prodotta nell’organismo da cause esterne, capaci di azione improvvisa e rapidissima. 2. Trauma psichico: turbamento dello stato psichico causato da un’emozione improvvisa e violenta (dal greco trauma ‘ferita’).” Sul Dizionario di Psicologia curato da U. Galimberti si legge: “Trauma. Parola greca che significa “ferita”, “lacerazione”. Il termine è impiegato in medicina somatica dove indica le lesioni provocate da agenti meccanici la cui forza è superiore alla resistenza dei tessuti cutanei o degli organi che essi incontrano; in neuropsichiatria dove indica o una lesione del sistema nervoso o, per una trasposizione metaforica, una lesione dell’organismo psichico per effetto di eventi che irrompono bruscamente in modo distruttivo; in psicoanalisi dove la nozione di trauma è oggetto di una specifica teoria.” Sulla Enciclopedia della psicanalisi di J. Laplanche e J.-B. Pontalis si legge: “Trauma. Evento della vita del soggetto che è caratterizzato dalla sua intensità, dall’incapacità del  soggetto a rispondervi adeguatamente, dalla viva agitazione e dagli effetti patogeni durevoli che esso provoca nell’organizzazione psichica. In termini economici, il trauma è caratterizzato da un afflusso di eccitazioni che è eccessivo rispetto alla tolleranza del soggetto e alla sua capacità di dominare e di elaborare psichicamente queste eccitazioni. (…) La psicanalisi ha ripreso il termine usato in medicina e in chirurgia trasponendo sul piano psichico i suoi tre significati: quello di shock violento, quello di lacerazione, quello di conseguenze sull’insieme dell’organismo. (…) Freud ha dato in Al di là del principio di piacere (1920) una rappresentazione metaforica (…): la ‘vescicola vivente’ è mantenuta al riparo dalle eccitazioni esterne  mediante uno strato protettivo o schermo antistimolo che si lascia passare soltanto dalle eccitazioni tollerabili. Se questo strato subisce un’ampia lacerazione, si ha il trauma: l’apparato ha il compito di mobilitare tutte le forze disponibili per produrre controinvestimenti, fissare sul posto le quantità di eccitazione in eccedenza e consentire così il ripristino delle condizioni di funzionamento del principio di piacere (e del principio di costanza). (…) E’ consuetudine caratterizzare gli inizi della psicanalisi (tra il 1890 e il 1897) nel modo seguente: l’eziologia della nevrosi è attribuita ad esperienze traumatiche passate e la data di tali esperienze vien fatta risalire sempre più lontano, man mano che si approfondiscono le indagini analitiche, dall’età adulta all’infanzia; sul piano tecnico, l’efficacia della cura è cercata in una abreazione e in una elaborazione psichica delle esperienze traumatiche. (…) L’accento posto da Freud sul conflitto difensivo nella genesi dell’isteria e in generale  della neuropsicosi da difesa non infirma la funzione del trauma, ma ne rende più complessa la teoria. Va notato anzitutto che la tesi del carattere essenzialmente sessuale del trauma affiora durante gli anni 1895-97 e che, nello stesso periodo, il trauma originario è scoperto nella vita prepuberale. …vari testi di quel periodo espongono o suppongono una tesi ben precisa che tende a spiegare come l’evento traumatico susciti nell’Io, invece delle normali difese utilizzate contro un evento penoso (la deviazione dell’attenzione, per esempio), una “difesa patologica” – di cui la rimozione era allora per Freud il prototipo – che opera secondo il processo primario. L’azione del trauma è scomposta in vari elementi e suppone sempre l’esistenza di almeno due elementi: in una prima scena, detta di seduzione, il bambino subisce un tentativo sessuale  da parte dell’adulto, senza che ciò provochi eccitazione sessuale; una seconda scena, spesso di apparenza anodina, che si svolge dopo la pubertà, rievoca per qualche tratto associativo la prima. Il ricordo della prima provoca un afflusso di eccitazioni sessuali che travolge le difese dell’Io. Sebbene Freud chiami traumatica la prima scena, è evidente che, dal punto di vista strettamente economico, tale valore gli è conferito solo posteriormente; inoltre, è solo come ricordo che la prima scena diventa patogena, in quanto provoca un afflusso di eccitazioni interne. Tale teoria spiega il vero senso della famosa formula degli Studi sull’isteria ‘…gli isterici soffrono soprattutto di ricordi’. Contemporaneamente, la concezione del ruolo attribuito all’evento esterno diventa più articolata. Si attenua l’idea del trauma psichico calcato sul trauma fisico, in quanto la seconda scena non agisce per energia propria ma solo risvegliando un’eccitazione di origine endogena. In questo senso, la concezione di Freud che stiamo riassumendo apre già la via all’idea secondo cui gli eventi esterni traggono la loro efficacia dai fantasmi da essi attivati e dall’afflusso di eccitazione pulsionale che essi provocano.  (…) Negli anni seguenti, viene attenuata la portata eziologica del trauma a vantaggio della vita fantasmatica e delle fissazioni ai vari stati libidici. Il ‘punto di vista traumatico’, pur non essendo abbandonato, come sottolinea Freud stesso, si inserisce in una concezione che fa riferimento ad altri fattori, quali la costituzione e la storia infantile. (…) Infine, nella storia dell’angoscia rielaborata in Inibizione, sintomo e angoscia (1926) e in generale nella seconda topica, si accentua il valore della nozione di trauma indipendentemente da qualsiasi riferimento alla nevrosi traumatica propriamente detta. L’Io, provocando il segnale d’angoscia, cerca di evitare di essere travolto dall’insorgere dell’angoscia automatica, che definisce la situazione traumatica in cui l’Io è indifeso (vedi: Stato di impotenza). Secondo questa concezione, esiste una specie di simmetria tra il pericolo esterno e il pericolo interno: l’Io è attaccato dall’interno, cioè dalle eccitazioni pulsionali, come è attaccato dall’esterno. Non è quindi più valido il modello semplificato della vescicola, che Freud aveva utilizzato in Al di là del principio di piacere. Va notato infine che Freud individua il nucleo del pericolo in aumento, al di là del limite tollerabile, della tensione risultante da un afflusso di eccitazioni interne che richiedono di essere liquidate. E’ questa la spiegazione ultima, secondo Freud, del ‘trauma della nascita’.

Concludiamo con la definizione psichiatrica DSM IV che si costruisce intorno alla nozione di “evento psichicamente traumatico”, al di fuori dell’esperienza umana consueta, e di “sintomi derivati dall’esposizione all’evento traumatico”. L’elenco degli eventi traumatici comprende: lutti, malattie croniche, incidenti gravi, perdite finanziarie, conflitti coniugali, violenze o aggressioni fisiche, violenze sessuali, abusi psicologici, torture, combattimenti militari, disastri naturali e provocati dall’uomo. Si pone attenzione anche ad una componente fisica concomitante al trauma che può includere un danno diretto al SNC (per esempio, malnutrizione o trauma cranico). L’elenco dei sintomi comprende: il rivivere l’evento traumatico; l’attenuazione della responsività, o un ridotto coinvolgimento verso il mondo esterno; una varietà di sintomi neurovegetativi, disforici o cognitivi; senso di colpa se si è gli unici sopravvissuti, o in relazione alle azioni che si sono dovute compiere per sopravvivere; depressione; ansia; aumentata irritabilità con esplosioni di aggressività (in particolare nei veterani di guerra); comportamento impulsivo (viaggi improvvisi, assenze inspiegate, cambiamenti dello stile di vita o di residenza); deficit dell’attenzione e della memoria; mal di testa e vertigini; disturbi del sonno; difficoltà di vivere esperienze di intimità psicologica e fisica.

 

Punto B) Catarsi

Le mie riflessioni si sviluppano in dialogo con le tesi esposte nell’articolo di Angela Klopstech, “Catharsis and Self-Regulation revisited”, apparso sulla rivista dell’IIBA n° 15 del 2005 (pp.111-131). Freud trovò il concetto di “catarsi”, derivato da Aristotele, nella sua esperienza con il metodo ipnotico. Per Aristotele il concetto di “catarsi” descriveva l’effetto della tragedia sul pubblico, ovvero, la purificazione dalle passioni attraverso l’identificazione del pubblico ateniese con le vicende rappresentate.  Dopo aver abbandonato l’ipnosi, Freud si basò sul concetto di “catarsi”  per dare forma a un suo concetto: “l’abreazione degli affetti”, esperienza da raggiungere attraverso il metodo da lui messo a punto, la psicoanalisi. Anche dopo la revisione della veridicità dei ricordi traumatici riportati dai/lle pazienti, la “catarsi” rimase una delle dimensioni di ogni psicoterapia analitica, come intensa reviviscenza di alcuni ricordi, accompagnata da una scarica emozionale più o meno intensa (vedi: “Catartico, metodo”, Enciclopedia della psicanalisi, Laplanche e Pontalis, Laterza, 1968). Di recente, l’intervento sul trauma ha messo in discussione il ricorso alla “catarsi” e il senso della stessa che, come abbiamo detto, costituisce un fondamento importante dell’impianto teorico-pratico psicoanalitico. A noi qui interessa la vicenda della “catarsi” nel contesto della psicoterapia corporea di derivazione psicoanalitica. L’esperienza catartica ha costituito un obiettivo centrale sia per Reich che per Lowen. Le nostre tecniche di mobilizzazione sono state frequentemente utilizzate in vista dell’esperienza catartica, e si è spesso privilegiato un approccio fortemente attivante, il quale ha dato spunto allo stereotipo della Bioenergetica “batti-scalcia-urla” . Nella pratica, prima dell’emergere del dibattito sul trauma, l’avere a che fare con personalità sempre meno coese, a causa dell’indebolimento progressivo delle reti sociali, ci aveva già messo di fronte a situazioni in cui gli interventi fortemente attivanti, invece di portare alla catarsi, portavano a vissuti sopraffacenti, fino ad episodi di dissociazione, e provocavano comprensibili reazioni di rifiuto e di ritiro da parte dei/lle pazienti. In particolare, nel caso di pazienti traumatizzati/e, ora si ritiene – in accordo con gli altri approcci psicodinamici verbali – che l’induzione della catarsi possa risultare “ritraumatizzante”.

 

Punto C) Revisione del lavoro corporeo e del setting bioenergetico

La revisione del lavoro corporeo, che pone al centro la strutturazione, al posto dell’attivazione, a mio avviso, si collega con l’attenzione diffusa verso lo sviluppo, sia pratico che teorico, dell’esperienza dell’essere grounded, come ciò che identifica l’Analisi Bioenergetica e che la può portare ad evolvere in senso bipersonale. Proprio l’attenzione alla dimensione sociale del disagio umano, con lo sradicamento globale delle persone e delle comunità e l’attacco alla vita dello stesso pianeta, fa dell’esperienza del grounding qualcosa di sempre più valido. A questo riguardo, ho trovato interessante l’articolo di Mariano Pedrosa sull’applicazione della Bioenergetica nelle favelas brasiliane, “Bioenergetic Analysis nd Community Therapy. Expanding the paradigm.”, apparso sulla rivista dell’IIBA n° 20-2010 (pp. 79-112). Ho dedicato alla centralità del grounding e ai suoi sviluppi una relazione dal titolo “Grounding e integrazione della personalità”, disponibile su questo sito.  La difficoltà di lavorare a livello corporeo in modo attivante, come di lavorare attraverso il contatto corporeo tra noi e i/le pazienti, e, a volte, attraverso il lavoro corporeo tout court, paradossalmente – ma la vita è un paradosso, come ci insegna Lowen, “è fuoco che brucia nell’acqua” – ci sta aiutando a porre il fuoco sulla relazione tra terapeuta e paziente. Riassumo l’evoluzione del modello di relazione terapeuta-paziente negli approcci psicodinamici: si comincia con il modello monopersonale, il/la terapeuta si posiziona al di fuori del/la paziente per osservare, interpretare le dinamiche e suggerire esperienze guidate centrate sul/la paziente; poi, compare il modello a una-persona-e-mezza, il/la terapeuta si posiziona accanto al/la paziente esprimendo empatia; attualmente sta emergendo il modello bipersonale, il/la terapeuta si propone come partner autentico/a della relazione. In realtà, come sottolinea giustamente Helferich, nel suo articolo “Analisi bioenergetica in dialogo”,  i tre modelli possono essere considerati le tre facce di un “modello integrato”: “…ogni singolo modello, mentre focalizza un elemento base del processo terapeutico che manca agli altri due, rimanda implicitamente agli altri… le tre modalità di intervento terapeutico – interpretazione, esperienza, interazione – intendono provvedere il terapeuta di una opportunità per concettualizzare le sue scelte. (Si tratta) di una descrizione di ciò che sta già facendo’ (p. 30). La sperimentazione del modello bipersonale in analisi bioenergetica è testimoniato da Hilton nel suo articolo “Analisi bioenergetica e Modelli di intervento terapeutico”. Hilton sceglie proprio l’esperienza del grounding per spiegare come le tre modalità di intervento terapeutico si inseriscono all’interno del lavoro bioenergetico e spiega così la sua scelta: “Il grounding è un concetto che  Alexander Lowen  ha introdotto in bioenergetica come risultato del suo lavoro con Wilhelm Reich. Egli sentiva che le esperienze fatte con Reich non resistevano al tempo poiché dipendevano troppo dal potere di Reich in quanto figura carismatica e non erano abbastanza radicate nel corpo.” (pp. 66-67). La psicoterapia orientata sul corpo deve integrare al suo interno i concetti di organismo e di persona: “noi siamo molto più che organismi che si espandono e si contraggono” (p. 71), siamo totalità cariche di valori e di significati, siamo persone. “In quanto terapeuti bioenergetici abbiamo bisogno di essere pronti e preparati come persone …dotate di capacità terapeutiche, di sostegno, di affermazione della vita. (…) Noi tutti cerchiamo approvazione, affermazione ed una persona reale con cui relazionarci.” (p. 71). “Il modello bioenergetico monocorporeo non dispone di uno spazio per condividere le mutue esperienze tra terapeuta e paziente.” (p. 63). Lo spazio per condividere le mutue esperienze tra terapeuta e paziente è lo stesso spazio in cui nasce e cresce l’alleanza terapeutica.  Si vede qui, a mio avviso, come nella psicoterapia, in generale, si stia sviluppando un approccio collaborativo basato sull’incontro tra persone proveniente dal “principio dialogico” di Martin Buber, autore centrale nell’approccio fenomenologico-esistenziale . L’alleanza terapeutica allarga la visione relativa al rapporto terapeuta-paziente che era ristretta al transfert-controtransfert, come parte del nostro retaggio psicanalitico, e contribuisce a spingerci a dedicare una maggiore attenzione all’uso delle parole nella terapia bioenergetica, a come le parole ci toccano e danno forma alle nostre esperienze, in modo da sviluppare un grounding verbale come parte del grounding della testa (di cui si è occupato, dopo Lowen, in particolare, Robert Lewis) . Può essere interessante porre attenzione all’elaborazione della narrazione autobiografica e della narrazione collettiva nel setting bioenergetico.

 

Punto D) Di quale corpo si tratta?

Il dibattito sulla terapia del trauma, la “svolta relazionale” negli approcci psicodinamici e la “svolta affettiva” nelle neuroscienze sta portando in primo piano la corporeità, ciò fa sì che la comunità bioenergetica sviluppi un atteggiamento autoriflessivo e si chieda cosa indichiamo nelle varie situazioni con la parola corpo. Prendo spunto dall’articolo di Angela Klopstech, “Di che corpo parliamo? Il concetto di corpo in psicoterapia.” (rivista Idee in psicoterapia, vol. 3, N. 1-2010, pp. 33-48). Nelle psicoterapie orientate sul corpo, secondo Klopstech, troviamo diverse definizioni di corpo: il corpo energetico, “energetic body”, e il corpo strutturato caratterialmente, “character structured body” (Reich, Lowen, Kelley, Pierrakos); il corpo formativo, “formative body” (Keleman); il corpo flusso energetico, “energy flow body” (Boadella); il corpo gesturale, “gestural body” (terapia della Gestalt). Klopstech ci suggerisce di riflettere su un ulteriore elenco: il corpo dei comportamenti, il corpo dell’energia, il corpo del respiro, il corpo del movimento, il corpo scientifico, il corpo medico e psicosomatico, il corpo sessuale, il corpo appassionato. Sono d’accordo sulla necessità di confrontarci sulla ricchezza dell’esperienza a cui la parola corpo si riferisce. Mi sembra anche importante cogliere gli spunti che provengono dall’antropologia culturale e dalla storia dei costumi riguardo alla de-sacralizzazione e ri-sacralizzazione del corpo in Occidente, così come riguardo all’impatto della tecnologia, quella medica in particolare, delle telecomunicazioni e del cybermondo ( internet, social network, realtà virtuali, ecc.) sulla percezione corporea.

 

Punto E) I seminari di Sylvia Conant

Sylvia Conant ha lavorato all’integrazione della Bioenergetica con il metodo di Peter A. Levine- il cui libro di riferimento è “Traumi e shock emotivi, come uscire dall’incubo” – per curare lo shock da trauma e ha tenuto, negli anni scorsi, dei seminari presso la SIAB. Io ho partecipato a due incontri e ho apprezzato il suo lavoro e il garbo che le è caratteristico. Si è trattato di un lavoro di grande finezza, di tessitura, di un lavoro sulla strutturazione. Il lavoro di Levine si concentra sul favorire l’azione autocurativa del processo naturale dell’energia vitale che si muove in modo spiraliforme: il trauma, a suo avviso, scinde in due il vortice energetico,  la cura consiste nel mettere in contatto i due vortici, in modo che vengano reintegrati nella corrente principale. Credo che possa essere interessante condividere, a distanza di alcuni anni, l’effetto di quell’esperienza. Potrebbe essere interessante sapere da lei se ha continuato ad occuparsene.

 

Punto F) La definizione proposta dal DSM IV di Disturbo Post-traumatico da Stress (DPTS)

Il DSM IV non deve essere considerato uno strumento neutro, come ogni repertorio psicodiagnostico veicola una Weltanschauung (visione del mondo), dalla quale deriva la teoria e la prassi terapeutica. In generale, il DSM IV applica il modello medico alla sofferenza psichica e in questo modo sposa un atteggiamento riduzionista nei confronti dello studio della condizione umana. In particolare, il DSM IV pone il DPTS nella categoria dei Disturbi d’ansia e fornisce 6 criteri diagnostici. Il Criterio A ci dice che dobbiamo ricercare eventi implicanti morte, rischio di morte, minaccia dell’integrità fisica propria o altrui, e che dobbiamo verificare se la persona ha reagito con paura intensa, orrore e senso d’impotenza. I tre criteri seguenti, B-C-D, riportano quella che è definita la triade sintomatologica del DPTS: reviviscenza, evitamento, aumentato arousal psicofisiologico. Gli ultimi due criteri, E-F, riguardano la durata dei disturbi e il loro impatto sulla vita della persona: la durata deve essere superiore ad un mese, altrimenti si tratta di Disturbo da Stress Acuto; “Il disturbo causa disagio clinicamente significativo o menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti.” (DSM IV, pp. 473-474) Negli ultimi dieci anni, è in atto un dibattito sull’adeguatezza e sulla fondatezza della diagnosi di DPTS, a partire dall’inclusione all’interno dei Disturbi d’ansia, categoria considerata generica e basata sulla visione dell’ansia solo come sintomo da debellare e non, invece, come messaggio da interpretare e come funzione dell’area della personalità relativa al coping, così come gli incubi ricorrenti e le strategie di evitamento. Le reazioni delle persone traumatizzate vengono decontestualizzate, private del loro valore adattivo e definite come sintomi di un disturbo. Ciò è particolarmente evidente nel caso del Criterio C riguardante i sintomi di evitamento e la diminuzione della reattività, ne vengono elencati sette (ne servono tre per porre la diagnosi). Il fatto di cercare di evitare pensieri, attività, luoghi e persone associate all’evento traumatico sono sicuramente azioni dotate di senso il cui valore adattivo deve essere rivendicato e, quindi, restituito alla persona per non renderla ancora più vittima del trauma e per promuovere il processo di recupero della padronanza di sé. La visione medicalizzata che disarticola l’unitarietà del soggetto umano e lo riduce a meccanismo inceppato va di pari passo con la proposta di terapie farmacologiche e di psicoterapie che hanno come obiettivo l’estirpazione dei presunti sintomi.

 

Punto G) La nostra bibliografia sul trauma

Sarebbe opportuno raccogliere la nostra bibliografia sul trauma e, magari, ricavarne un testo collettaneo. Parto dal volume n. 1-1998 della rivista dell’IIBA, il primo dei due volumi dedicati dalla rivista al trauma dal punto di vista individuale (il primo) e dal punto di vista collettivo (il secondo). Ne riporto l’indice tradotto da me: Introduzione, John Conger; Il trauma dello shock cefalico, Robert Lewis; Trauma e recupero, Marvin H. Berman; Emorragia cerebrale e amicizia, Charles Lustfield; Potatura (poesia), Susan Downe; Il complesso del Disturbo da Stress Post-Traumatico: rimettere insieme i pezzi, Louise Frechette; Chirone (poesia), Zoé de Frietas; Urlo e violenza: un esempio di uso del lavoro corporeo bioenergetico, Alice Kalen Ladas; Lavorare con le persone abusate sessualmente: come agire con questi/e clienti, Doerte Laschinsky; Leda (poesia), Susan Downe; Il pronto soccorso emozionale: curare il trauma della nascita, Silja Wendelstadt; La traumatizzazione vicaria: prevenzione e cura, Barbara E. Davis; L’inaccettabile orrore dell’inconcepibile, Pierre Rotschild. Il secondo volume, n. 1-1999 ha il seguente indice: Introduzione, John Conger; Murciélagos (poesia), Kristin Rosekrans; Politiche incarnate: il conflitto israelo-palestinese e la mia personale guarigione dal DPTS, Dave Berceli; Il trauma e il riflesso di trasalimento: sua creazione e risoluzione, Dave Berceli; Lavorare in un Paese di Passione con un Popolo di Passione (la Palestina), Geoffrey Whitfield; L’emorragia cerebrale: il mio racconto, Gay Mallon Lustfield; Passi tra la vita e la morte, Knut Brakert; La Bioenergetica applicata alla clinica sociale (in Brasile), Grace Wanderly de Barros Correia, Jayme Panerai Alves, Gedalva Rapela, Lucina Araujo; Il caso di una sopravvissuta alla tortura politica (in El Salvador), Maryanna Eckberg (direttrice del servizio clinico in un Centro di cura per sopravvissuti alla tortura politica); Trattamento dello shock traumatico. Una prospettiva somatica, Maryanna Eckberg; La traumatizzazione di una società. La lotta in El Salvador continua, Kristin Rosekrans. Poi, mi viene in mente l’articolo di Robert Lewis, Il trauma e il corpo, apparso sulla rivista dell’IIBA, vol. 11, n° 2-2000, e il suo scritto del 1988 Ricollocare la testa nel suo posto reale sulle spalle: un primo passo del grounding del falso Sé  (traduzione di Nives Garuffi ad uso interno della SIAB), e i 2 seminari da lui tenuti sull’argomento a cui ho partecipato, quello di Roma, nel novembre del 1995, organizzato in collaborazione dall’Associazione “Il Laboratorio”, diretta da Salvatore Scollo, e dalla SIAB che ha ospitato il seminario nei suoi locali, e quello di Taormina, nell’aprile del 1997, organizzato sempre dall’associazione “Il Laboratorio”.  Come nel caso dei seminari di Sylvia Conant, citati al punto d), sarebbe interessante, a mio avviso, raccogliere gli effetti che la partecipazione ai seminari di Robert Lewis ha avuto su quelli/e di noi che vi hanno partecipato, sia a livello personale che nel lavoro bioenergetico con i/le nostri/e clienti. Nel n. 2-2008 della nostra rivista è apparso l’articolo di Guy Tonella, Paradigmi per l’analisi bioenergetica all’alba del XXI secolo, al  Paradigma V – Un modello metodologico per il trauma, l’autore cita: il concetto di “shock cefalico” di Robert Lewis; il lavoro di Maryanna Eckberg con i torturati politici (anche lei ha integrato le tecniche di Levine con le nostre); il lavoro sul trauma con i grandi gruppi di Dave Berceli. Inoltre, Tonella cita un articolo di Robert Lewis, Human Trauma, apparso sulla rivista Energy and Character, n. 3-2003 (pp. 32-40), in cui Lewis discute l’approccio alla cura del trauma di Peter Levine considerando il modello incompleto perché privo di riferimenti alla teoria dell’attaccamento. Ma c’è sicuramente altro.

 

Punto H) Trauma, ciclo di vita, risorse personali e uso delle metafore

Perché il vissuto traumatico venga reintegrato nel processo esistenziale delle persone, invece che ridotto a collezione di sintomi da estirpare, può essere molto utile tenere in particolare conto la fase del ciclo di vita in cui la persona inizia il lavoro terapeutico, così come il momento del ciclo di vita in cui la persona ha incontrato l’evento traumatico. E’ importante, infatti, che ad ogni fase di vita vengano collegate competenze e finalità. Ciò serve a ristabilire e a sviluppare il rapporto con il tempo, rapporto stravolto dal trauma. Fare il punto della fase di vita in cui si trova, aiuta la persona a radicarsi nel tempo, a rifarci pace. Lo sviluppo dell’alleanza terapeutica risulta particolarmente centrale nella terapia del trauma e di tale sviluppo è parte integrante l’individuazione esplicita, condotta in modo cooperativo, delle risorse e dei limiti della personalità della persona traumatizzata. E’ risultato molto importante anche l’approfondimento della relazione nel senso della Bioenergetica bi-personale. L’attenzione alla relazione in senso bi-personale comprende, come detto sopra, l’attenzione alla comunicazione verbale, nel senso di cooperare alla costruzione della narrazione terapeutica, attraverso la condivisione di metafore che traducono i vissuti corporeo-emozionali condivisi.

 

Punto I) Ultimi sviluppi delle neuroscienze: neuroni a specchio, Gershon, Porges.

“…Peter Brook ha dichiarato in un’intervista che con la scoperta dei neuroni a specchio le neuroscienze avevano cominciato a capire quello che il teatro sapeva da sempre. Per il grande drammaturgo e regista britannico il lavoro dell’attore sarebbe vano se egli non potesse condividere, al di là della barriera linguistica o culturale, i suoni e i movimenti del proprio corpo con gli spettatori, rendendoli parte di un evento che loro stessi debbono contribuire a creare. Su questa immediata condivisione il teatro avrebbe costruito la propria realtà e la propria giustificazione, ed è ad essa che i neuroni a specchio, con la loro capacità di attivarsi sia quando si compie un’azione in prima persona sia quando la si osserva compiere da altri, verrebbero a dare base biologica.”  Si legge questo nella prima pagina del libro di G.Rizzolatti e C.Sinigaglia, “So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni a specchio.” (Cortina, 2006), in cui descrivono la loro interessante scoperta di rilevanza internazionale. Di questo brano mi preme sottolineare l’affermazione che si tratta di mettere a fuoco la “base biologica” e non di fornire una “spiegazione biologica”, ovvero che non si tratta della riduzione di un fenomeno complesso ad uno solo dei suoi aspetti, quello biologico, appunto, in quanto gli autori affermano a chiare lettere che questo aspetto ne rappresenta specificamente la base. Ciò non diminuisce di certo l’interesse di questa scoperta, piuttosto, a mio avviso, le conferisce il giusto valore e le attribuisce il posto che le spetta nel campo che comprende i tentativi di descrivere la complessità del vissuto umano. Inoltre, mi sembra che vada nella stessa direzione antiriduzionista anche il fatto che gli autori abbiano voluto introdurre il frutto del loro lavoro facendo riferimento a quell’importantissima manifestazione culturale rappresentata dal teatro. Il teatro, infatti, costituisce una somma di espressioni artistiche e, in questo senso, può essere considerato una delle più interessanti espressioni del desiderio di integrare e rappresentare, nell’insieme dei suoi vari aspetti, l’esperienza umana. In un altro punto (p.3), gli autori, affermano che non si deve più parlare di “meri movimenti” ma sempre di “atti” quando si studia il comportamento motorio umano. Anche questa affermazione appare animata dal desiderio di rispettare la complessità umana. Un atto, infatti, è qualcosa che ha un’origine e un fine, ovvero, qualcosa che spalanca un mondo di affetti, di credenze e valori nonché di condotte.

La parola “attore” deriva proprio dal verbo “agire” e definisce chi compie degli “atti”. Se, dunque, ogni movimento ha un’origine e un fine, in quanto ha la dignità di “atto”, il movimento stesso può essere definito, con termini teatrali, una “messa in scena” di noi stessi/e, e in questa definizione rientra anche la postura, come risultato del rapporto tra zone motorie, così come la mimica, la qualità dello sguardo e la qualità del suono della nostra voce. La corporeità, nel suo insieme di emozioni e azioni, risulta intrinsecamente espressiva. “Al pari delle azioni, anche le emozioni risultano immediatamente condivise (attraverso l’attivazione di specifici circuiti specchio): la percezione del dolore o del disgusto (per es.) attivano le stesse aree della corteccia cerebrale che sono coinvolte quando siamo noi a provare dolore e disgusto. Ciò mostra quanto radicato e profondo sia il legame che ci unisce agli altri, ovvero quanto bizzarro sia concepire un io senza un noi.” (p.4) Il sistema dei neuroni a specchio ci permette, dunque, di empatizzare – di provare le stesse cose -, ma fa ancora di più perché ci permette, allo stesso tempo, di immaginare intenzioni, aspettative e motivazioni altrui e tutto questo “senza far ricorso ad alcun tipo di ragionamento, basandosi unicamente sulle proprie competenze motorie.” (p.4). Si tratterebbe di “un sistema di risonanza”(p.113) – quante volte ci ritroviamo ad usare nel lavoro bioenergetico questa parola “risonanza”! – e sarebbe alla base dell’esperienza di “uno spazio d’azione condiviso, all’interno del quale ogni atto e ogni catena d’atti, nostri e altrui, appaiono immediatamente iscritti e compresi senza che ciò richieda alcuna esplicita o deliberata azione conoscitiva.”(p.127). In altre parole, si tratterebbe dell’instaurarsi di un “terreno di esperienza comune”(p.4), che potremmo anche definire una scena condivisa. Tale esperienza trova, dunque, immediatamente posto dentro di noi al di fuori del controllo cosciente, e, in un secondo momento, grazie al processo della narrazione che noi costruiamo insieme a qualcun/a altro/a, o anche da soli/e, ma sempre in previsione della comunicazione interpersonale, l’esperienza diventa cosciente e va a far parte della storia della vita e, quindi, fonda la parte cosciente della nostra identità, come è ben illustrato da Adriana Cavarero nel suo “Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione.” (2005).

E con questo veniamo ad una necessaria incursione nell’ambito della riflessione sul concetto di “coscienza”. Quando diciamo, nel lavoro su noi stessi/e, che occorre ricongiungere il pensare e il sentire, mi sembra che spesso identifichiamo il pensare con l’attività cosciente, come se tutto il lavoro di organizzare l’esperienza fosse a carico dell’aspetto cosciente della personalità. Ma come abbiamo cominciato a mettere a fuoco, grazie agli accenni al lavoro di Rizzolatti e Sinigaglia, sembrerebbe che le cose stiano in tutt’altra maniera. Può essere interessante, a questo punto, aggiungere alle nostre fonti di riflessione l’interessante disamina di cosa non è la coscienza, offerta da Julian Jaynes nel suo libro “Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza.” (pp.37-110).

In estrema sintesi, l’autore afferma, sulla base di fonti sperimentali, che:

– la coscienza non è l’intera attività mentale, al contrario la maggior parte dell’attività mentale si svolge benissimo senza il suo intervento;

– la coscienza non è una copia dell’esperienza, piuttosto è una ricostruzione dell’esperienza da un punto di vista esterno, di un osservatore;

– la coscienza non è necessaria per l’apprendimento, piuttosto “essa opera decidendo cosa va imparato, o creando regole per imparare meglio, o verbalizzando coscientemente certi aspetti del problema”;

– la coscienza non è necessaria per il pensiero o il ragionamento, infatti, “le soluzioni appaiono improvvisamente come se saltassero fuori dal nulla”. In particolare, Jaynes fa riferimento alle ricerche della Scuola del pensiero senza immagini di Wurzburg (Germania, primi del ”900) e agli esperimenti di Ach, Watt, Kulge e altri.

Rispetto alla scoperta del secondo cervello nella pancia, riporto solo alcune riflessioni relative alla lettura del lavoro di Gershon, neurobiologo presso la Columbia-Presbyterian Medical Center di New York. Gershon si muove nello spazio di intersezione tra neurobiologia e fisiologia dell’apparato digerente, dimostrando come tutto intorno al tubo digerente ci sia una specie di cervello in forma di rete, indipendente dal sistema nervoso centrale, in grado di utilizzare una complessa trama di neurotrasmettitori, di controllare la motilità, la secrezione, l’assorbimento gastrointestinale, di immagazzinare ricordi, stati d’animo e di influire in modo decisivo sull’umore e il benessere psicofisico. L’autore si sofferma sul “riflesso peristaltico”, che è stato centrale nella costruzione del modello reichiano, che Lowen ha ereditato. Inoltre, ci fa notare come al contrario di ciò che avviene per la cosiddetta attività nervosa “volontaria”, nell’attività nervosa cosiddetta “involontaria”, tipica del sistema nervoso autonomo, il segnale non si trasmette secondo lo schema “tutto o niente”, ma può essere, amplificato, indebolito, ovvero, modulato attraverso processi che accadono nelle sinapsi del SNA, tutto ciò permette un istantaneo adattamento alle circostanze in mutamento. Se non è saggezza questa?! E quanto somiglia alla metis greca, soppiantata dal logos nella modernità occidentale al servizio della cosiddetta “civilizzazione”: “La metis è una forma di intelligenza e di pensiero, un modo di conoscere: essa implica un insieme complesso, ma molto coerente, di atteggiamenti mentali, di comportamenti intellettuali, che combinano l’intuito, la sagacia, la previsione, la spigliatezza mentale, la finzione, la capacità di trarsi d’impaccio, la vigile attenzione, il senso dell’opportunità, l’abilità in vari campi, un’esperienza acquisita dopo lunghi anni, essa si applica a realtà fugaci, mobili, sconcertanti e ambigue, che non si prestano alla misura precisa, né al calcolo esatto, né al ragionamento rigoroso. (…) Essa appare sempre più o meno ‘in profondo’, immersa in una pratica che non si preoccupa mai, anche quando l’utilizza, di renderne esplicita la natura né di giustificarne il modo di procedere.” Ho trovato la definizione della “metis” nel libro di M. Detienne e J.-P. Vernant, “Le astuzie della ragione nell’antica Grecia.” (Laterza, 1984, p. XI).

La teoria polivagale di Porges ci interessa anche perché si sta già collegando alla terapia del trauma. Stephen W. Porges, allievo di Paul McLean, dirige il Brain-Body Center del Dipartimento di Psichiatria dell’Università dell’Illinois a Chicago. Si deve al suo lavoro un modello neurofisiologico innovativo del rapporto tra sistema nervoso autonomo (SNA) e dinamica delle emozioni, denominato “Teoria polivagale”. Porges ipotizza, infatti, 3 livelli di regolazione dell’esperienza viscerale-emotiva, dal basso verso l’alto:

  1. a) il primo livello è il sistema vago-dorsale (Dorsal Vagal Complex DVC),

composto dal Nucleo Solitario, il nucleo di ricezione dell’input, e dal Nucleo motorio-dorsale del nervo vago, il nucleo di trasmissione degli output;

  1. b) il secondo livello è costituito dall’Amigdala, un centro nervoso superiore subcorticale, la quale invia messaggi verso l’alto alla corteccia cognitiva, orizzontalmente verso i gangli basali, verso il basso al nucleo preventricolare dell’ipotalamo (paraventricolar nucleus), il quale, a sua volta, invia messaggi tramite il simpatico direttamente alla colonna vertebrale e, in questo modo, oltrepassando i nuclei viscerali dell’asse cerebrale (brainstem), arriva ai vari organi viscerali;
  2. c) il terzo livello è detto sistema ventro-vagale (Ventral Vagal Complex VVC),

è regolato dall’Ambiguous Nucleus nel brainstem e possiede forti connessioni con i livelli encefalici più elevati, quali il lobo orbitofrontale e il giro cingolato, a causa di ciò mette in relazione la dimensione viscerale con la dimensione relazionale, andando a costituire una parte fondamentale della regolazione interattiva delle esperienze viscerali-emozionali.

Porges con la sua “Teoria polivagale” descrive l’attività del nervo Vago in modo molto più ricco che in passato, erede di Paul McLean, dimostra l’importanza della funzione degli afferenti del Vago per la regolazione delle strutture cerebrali superiori, concentrando l’attenzione sul legame fra i cambiamenti filogenetici nel Sistema Nervoso Autonomo (SNA) e il comportamento sociale. Il Vago viene considerato un “sistema funzionale”, un sistema neurale integrato che comunica in modo bidirezionale fra visceri e cervello. Il Vago eserciterebbe una funziona fondamentale nella regolazione neurale dello stato viscerale. La definizione più ampia del SNA proposta da Porges consente di valutare l’influenza del Vago in situazioni comportamentali e fisiologiche associate al comportamento sociale e ai disordini psichiatrici.

Porges si collega agli studi etologici sui mammiferi che descrivono i “comportamenti orientati alla sopravvivenza” associandoli a specifici “stati neurocomportamentali”, i quali, a loro volta, definiscono:

– la distanza a cui i mammiferi possono essere avvicinati,

– se conviene loro comunicare,

– o stabilire nuove alleanze.

Infatti, i mammiferi sanno distinguere gli amici dai nemici, sanno valutare la sicurezza dell’ambiente e sanno comunicare con la loro unità sociale. I primati, in particolare, gli animali più simili a noi umani, possiedono un tipo di organizzazione neurale che regola lo stato viscerale per adeguarsi ad un comportamento sociale. Sulla base di tale collegamenti, la Teoria polivagale sottolinea la connessione esistente tra i nervi che controllano i muscoli del viso e del collo, detti efferenti viscerali speciali, perché i loro nuclei terminali, situati nell’asse cerebrale (brainstem), agiscono direttamente su un sistema neurale inibitorio che rallenta il ritmo cardiaco, diminuisce la pressione sanguigna e favorisce il mantenimento di stati di calma. Le strutture dell’asse cerebrale funzionerebbero da “portale”, raccogliendo informazioni sensoriali che contribuiscono alla regolazione delle strutture cerebrali superiori, le quali, a loro volta, come in qualsiasi sistema di feedback, partecipano alla regolazione dell’asse centrale in una comunicazione bidirezionale. Tale insieme sarebbe alla base dei comportamenti di adattamento.

Dunque, il sistema del Vago potrebbe costituire un portale che controlla e stimola i processi neurali superiori. Attraverso il “freno vagale”, che agisce sul ritmo cardiaco, infatti, viene modulato lo stato viscerale consentendo all’individuo di assumere e interrompere rapidamente interazioni con oggetti e altri individui. Porges ipotizza che possa influenzare anche il ritmo respiratorio. Forme di stimolazioni vagali sono le rotazioni e le oscillazioni del capo, tali manovre possono costituire forme di strategia vitale di compensazione di un’insufficienza funzionale del sistema vagale, come si osserva in pazienti con diagnosi di autismo. Su adulti normali si è notato che, dopo un periodo di scuotimento oscillatorio ritmico, si verifica un aumento del tono vagale cardiaco. In accordo con la Teoria polivagale, risulterebbe, dunque, che la stimolazione degli afferenti del Vago migliori la qualità della componente somato-sensoria e, forse, anche di quella viscero-motoria del Sistema di Ingaggio Sociale (SIS). Il SIS è il sistema formato dalle strutture neurali che presiedono ai comportamenti sociali. Il SIS comprende positivi comportamenti sociali volontari basati sull’espressione della capacità di comunicare con l’ambiente sociale. L’attivazione del SIS e della connessa abilità relazionale sarebbe, dunque, una proprietà intrinseca dell’apparato biologico, e sarebbe favorita dalla percezione da parte dell’individuo di una condizione di sicurezza dell’ambiente. In caso di pericolo, verrebbero, invece, adottate più facilmente strategie di comportamento “combatti-o-fuggi” o di “immobilizzazione”. In quest’ultimo caso, si verifica un deterioramento della funzione del SIS, una limitazione delle sue connessioni con la corteccia, che non riesce così ad impegnarsi nella regolazione della comunicazione. In sintesi, si ritiene che il SIS moduli lo stato fisiologico di sostegno a un comportamento sociale positivo. La Teoria polivagale si offre come piattaforma teoretica neurofisiologica al comportamento sociale, ritenendo che il comportamento sociale sia una proprietà intrinseca dello sviluppo filogenetico del Sistema Nervoso Autonomo (SNA). La Teoria polivagale adotta alcune idee fondamentali di McLean, quali: l’importanza dell’evoluzione, le strutture limbiche e gli afferenti vagali, su cui costruisce una piattaforma preliminare per lo studio dei rapporti tra il Vago e il comportamento sociale, fornendo anche interessanti spunti per la comprensione degli aspetti fisiologici e comportamentali caratteristici dello stress, del trauma, e di disturbi psichiatrici come l’autismo.

Si ritiene che il concetto di SNA Triuno di Porges possa radicare l’importanza del legame materno e dell’intimità nell’anatomia e nella filogenesi. Il lavoro di Porges viene combinato con il metodo di Levine di risoluzione del trauma. Le tre branche del SNA vengono individuate dagli/lle operatori/trici in modo da guidare il/la cliente a soddisfare gli impulsi relativi al livello attivo, in modo da restaurare la capacità di agire a tutti e tre livelli. Il terzo livello viene definito anche “Sistema nervoso sociale”, competente per costruire legami, e modulare l’emotività e i comportamenti in relazione all’ambiente umano e naturale. E’ centrato sulla voce, l’udito, il contatto visivo e l’espressione del viso, le quali hanno la capacità di far rilasciare i neurotrasmettitori che inducono sensazioni di piacere in colei/lui a cui ci si rivolge per ricevere un comportamento di attenzione affettuosa e di cura, con uno stretto rapporto con le funzioni precognitive. Porges ha dimostrato che sotto stress il “sistema umano” cerca di mettere in atto per prima la parte più nuova, filogeneticamente parlando, e maggiormente sofisticata del suo equipaggiamento, ma se questo tentativo fallisce, ricorre alle risorse più antiche: dunque, sotto stress, l’essere umano prima adotta le tattiche socio-relazionali, se falliscono, adotta la tattica “attacco/fuga” e, se anche questa fallisce, si immobilizza. A causa di un trauma la capacità di usare le strategie più nuove e sofisticate può venire erosa cosicché le strategie più antiche diventano la base abituale della risposta. Le esperienze che inducono la “devoluzione” verso il livello della strategia simpatica (iper-) o parasimpatica (ipo-) inducono l’amigdala ad aspettarsi il tradimento nelle situazioni di intimità.

Il portale del parasimpatico è il nervo Vago e il dorso; il portale del simpatico sono i muscoli degli arti; il portale del “sociale” sono i nervi cranici V, VII, IX e XI, identificabili con la struttura embriologica detta “Arco faringeo”. Si lavora sul parasimpatico attraverso il respiro e il movimento della pancia ad esso connesso. Si lavora sul parasimpatico impegnando i muscoli delle braccia e delle gambe, poi, si sperimenta il rilassamento. Si lavora sul “sociale” suggerendo al/lla cliente di ricordare una persona cara o un animale domestico e di usare l’immaginazione, in modo da indurre le calde sensazioni del riconoscimento sorridente, “smiling recognition”, (nervi cranici V e VII). Il lavoro di Porges sta venendo integrato col metodo di Levine, con il Focusing, con la terapia della Gestalt e con l’ipnosi.

 

Punto L) L’istinto e l’intelligenza istintuale, la parte selvaggia e il processo di civilizzazione.

“Non esiste una definizione univoca di intelligenza, ma…ogni definizione risente dell’orientamento di pensiero che la formula.”, scrive Galimberti nel Dizionario di Psicologia da lui curato (p. 487), e alla voce ‘Istinto’ inizia così: “Risposta organizzata di una specie, filogeneticamente adattata a una determinata situazione ambientale.” (ivi p. 517). Una definizione molto estesa e interessante è quella che ne dà Alain Delanay nell’Enciclopedia Einaudi (p. 1032): “Il concetto di istinto si trova sul punto di confluenza di numerosi problemi:

– la teoria della conoscenza,

– lo studio delle ‘abitudini’ dell’uomo e degli animali,

– la teoria dell’evoluzione e la sua rilettura in chiave genetica,

– la psicologia sperimentale e i suoi rapporti con la neurofisiologia,

– l’approccio psicanalitico dell’Io,

– e, infine, l’interpretazione eto-ecologica del comportamento.”

Nozione ormai controversa e che è andata scomparendo nei trattati di etologia, “l’idea di istinto conserva tutta la sua forza e la sua influenza sulla soggettività. Non si tratta di un ritardo dell’opinione sulla scienza, ma piuttosto dell’affermazione più o meno cosciente nel cuore del soggetto, secondo cui la scienza non affronta mai il problema reale e non fa che respingerlo…E’ dal centro dell’Io nel suo rapporto col mondo che l’istinto viene vissuto come enigma, enigma dell’animalità e – per un gioco di specchi – enigma dell’umanità. (…) l’istinto può essere concepito come una minaccia di animalità all’interno dell’Io (…) Ma l’istinto può anche apparire come una promessa di apertura sul mondo. Allora è lo slancio salvifico di ogni essere umano, che gli consente di lasciarsi portare dalla propria natura verso le cose, e di coglierle in un rapporto d’intimità. In questo senso l’istinto sarebbe…il mezzo col quale l’essere umano sfugge al mostro oggettivo.” (ivi pp. 1032-33).

La disamina del concetto di “istinto” richiede di porre un’attenzione particolare alla teoria dell’evoluzione e alla definizione di “riflesso”, secondo una catena logica del tipo: riflessi-tropismi-istinti-intelligenza. La suddetta disamina esula ovviamente dai limiti di questo contributo e va rimandata ad un contesto specifico. E’ il caso, invece, qui di ricordare che la ridefinizione della dimensione istintuale nell’essere umano si situa nell’orizzonte della “sfida della complessità” e della “crisi delle certezze”. La realtà torna ad essere ufficialmente considerata imprevedibile; la presa che la scienza occidentale credeva di avere su di essa si allenta vieppiù, mascherata a stento dal rutilante e commerciale spettacolo del progresso tecnologico.

Vorrei condividere adesso un esempio di come potrebbe cambiare l’atteggiamento scientifico ufficiale. Negli anni ’50, Barbara McClintock, eminente citogenetista, individuò una funzione sconosciuta studiando i loci genetici soggetti a mutazione dei cromosomi del granturco, cosa che le valse il premio Nobel: alcuni elementi genetici apparvero capaci di una “trasposizione autonoma”, non indotta dall’esterno. Ma la cosa per noi più interessante è il modo in cui la McClintock descrisse il suo “orientamento centrato sull’organismo”. Nelle interviste che le sono state fatte, la biologa ha utilizzato ripetutamente espressioni come: “lasciare che la materia ti parli”; “lasciare che sia la materia stessa a dirti cosa fare”, nel suo caso si trattava della pianta del mais. Dopo avere avuto cura di “conoscere” una per una le piante di mais a sua disposizione, osservandole fin dall’inizio e in ogni fase del loro ciclo di vita – perché, a suo dire, ognuna è diversa dall’altra e le differenze sono importanti come le somiglianze -, una volta al lavoro con i cromosomi, per ore ed ore china sul microscopio, li vide diventare grandi tanto che si sentì insieme a loro nello stesso ambiente: “Io non ero più al di fuori, ma mi trovavo lì con loro, ero parte del sistema.”; “Mi sentivo proprio come se fossi lì, e loro fossero miei amici.” Proprio questa “sensibilità (feeling) per l’organismo”, a suo dire, le permise di cogliere una caratteristica che fino ad allora era sfuggita alla ricerca, come se le piante del mais si fossero fatte “conoscere” da lei, dato il particolare rapporto che lei aveva instaurato con loro. La ricercatrice, infatti, aveva deposto spontaneamente l’atteggiamento di arroganza manipolatrice tipico del sapere occidentale e si era rivolta alle piante con sentimento di rispetto e comunanza, con il sentimento di appartenere allo stesso mondo-comunità. L’esperienza della McClintock è, a mio avviso, un esempio della direzione in cui l’atteggiamento conoscitivo occidentale dominante, chiamato “scienza”, potrebbe muoversi; infatti, parte fondamentale del rinnovamento dell’atteggiamento esistenziale-cognitivo occidentale sembra risiedere proprio nel recupero del sentimento di “sentirsi parte”.

Il sentimento di “comunanza-appartenenza” può essere coltivato facendo danzare insieme il sentire, il pensare e l’immaginare, e questa danza è ciò che ci fa sentire profondamente e pienamente in contatto con noi stessi/e. Dunque, paradossalmente rispetto a certe convinzioni superficiali, proprio l’esperienza di essere profondamente e pienamente in contatto con noi stessi/e non si risolve in una chiusura individualistica, ma stimola, invece, risorse interiori che ci spalancano a vissuti di coappartenenza e di coevoluzione col nostro ambiente relazionale e naturale. In un clima siffatto, le opposizioni “società/natura” e “individuo/comunità” potrebbero trasformarsi in rapporto fecondo tra polarità esistenziali-relazionali. Ed è questo il messaggio bioenergetico, il quale auspica l’avvento del “pensiero funzionale” capace di mettere in dialogo le polarità: “La nostra logica vede solo le cose come dualità, come causa ed effetto. La comprensione del paradosso dell’unità e della dualità è competenza del pensiero funzionale, il quale richiede una nuova forma di coscienza.”, come scrive Lowen in “Bioenergetica” (p. 295). Questa nuova forma di coscienza e di conoscenza si può manifestare, secondo Lowen, solo attraverso la resa dell’Io al Sé. E il processo inizia col riconoscimento da parte dell’Io occidentale della sua corporeità e del suo legame con la terra, la natura e il cosmo grazie al rapporto mediato all’inizio dalle nostre madri e dalla comunità umana e, poi, da adulti/e, stabilito anche in modo diretto con la Madre Terra e con la spinta vitale dentro di noi. “Noi siamo creature della terra, animate dallo spirito dell’universo. La nostra umanità dipende da questa connessione con la terra. (…) Più ci allontaniamo dal suolo, tanto più si ingigantisce l’immagine di noi stessi (del nostro Io).” (p. 234). Ciò produce un “mondo” illusorio. “In questo mondo illusorio non ci sono sentimenti di tristezza o di gioia, di dolore o di gloria. Non ci sono sentimenti reali solo sentimentalismi.” (p. 234) ” Essere più in contatto con il corpo significa essere in contatto con i sentimenti e permette di sviluppare la padronanza nella loro espressione, questa è la base della “pace interiore” (p.235).

La corporeità bioenergetica connessa con la terra, la natura e il cosmo permette di abbandonare i falsi valori dell’Io occidentale – il potere sulla natura e sugli altri esseri umani, il possesso di beni materiali, il successo e la fama -, falsi valori centrati su una forma di conoscenza che mira al dominio, e di recuperare i veri valori dell’Io: la dignità, l’onore, il rispetto, il senso della comunità, tutto questo è frutto del riconoscimento del fatto che l’Io è al servizio del Sé, dunque, dell’esperienza della resa dell’Io (p. 237). Ma l’Io da sacrificare deve essere in buona salute, altrimenti siamo ancora nel mondo delle illusioni dell’Io occidentale! In questo consiste l’aspetto paradossale del processo bioenergetico: curare l’Io occidentale rigido, scisso, frammentato, gonfiato, sbrindellato, vaporizzato per dedicarlo appassionatamente alla manifestazione del Sé corporeo. Ma solo uno sguardo occidentale resta bloccato davanti al paradosso in questione, poiché il paradosso è il segnale del dialogo tra gli opposti, abilità che l’Occidente sembra aver cominciato a perdere 2500 anni fa proprio alla sua nascita. La Bioenergetica appare così dedicata a ripristinare questa abilità sapienziale – il dialogo tra gli opposti – attraverso la riconcettualizzazione dell’esperienza in Occidente. La pratica bioenergetica si presenta, infatti, in quest’ottica, come un atto di riconcettualizzazione dell’esperienza occidentale. Se, dunque, la “svolta affettiva” in campo cognitivo ha fatto sì che le neuroscienze stiano identificando un’ampia gamma di ‘sistemi istintivi’ relativi a: l’autoprotezione, il legame sociale, la raccolta di risorse, i comportamenti sessuali, le risposte di sopravvivenza, ecc.; e che si ritenga, oggi, che ognuno di questi ‘sistemi adattivi’ sia dotato di una sofisticata ed unica forma di “intelligenza adattiva”, perché non cominciare, noi bioenergetici/che, a parlare di “intelligenza istintuale”, rivendicando la nostra esperienza e la nostra pratica al riguardo?

La revisione del concetto di ‘istinto’ in connessione con lo sviluppo del “filone culturale corporeo”, di cui l’analisi bioenergetica fa parte, come illustro nel mio articolo “L’analisi bioenergetica e il discorso sulla modernità”, non può non prendere in considerazione le elaborazioni in altre discipline, come la storia, l’etnologia, l’antropologia culturale, la sociologia, ecc., le quali si occupano della dimensione collettiva complessiva dell’esperienza umana. Parliamo del dibattito intorno ai concetti di Wilderness, inglese, e di Wildnis, tedesco, equivalenti. “Wilderness: la natura allo stato selvaggio non alterata dall’intervento dell’uomo, con riferimento ad un ambiente indispensabile alla conservazione della biodiversità”, scrive Tullio De Mauro nel Grande dizionario italiano dell’uso (Torino, 1999). In realtà, si tratta di qualcosa di più, di una filosofia di vita, molto precedente alla cultura ecologista contemporanea. In italiano non abbiamo un corrispettivo del termine inglese o tedesco, “a meno che non si voglia tradurlo con selvatico, ambiente primitivo, selvatichezza in genere”, come ci suggerisce G. Zanghellini in Wilderness come esperienza di vita su Documenti Wilderness (anno XVI, n.1, 1999, p. 1). Significa ritrovare il senso del rapporto con la terra, sentendosi “come un albero nel bosco”, per “trovare il bosco dentro di noi”, per risentirci “ospiti” e “parte” dei luoghi naturali, cercando di non lasciare tracce del nostro passaggio, sintonizzandosi con i ritmi naturali, cercando di “sentire l’ambiente”. “Il singolo non occupa più nella società il posto che l’albero occupa nel bosco: egli ricorda invece il passeggero di una veloce imbarcazione che potrebbe chiamarsi Titanic o anche Leviatano”, scriveva Ernst Juenger, alla fine dell’Ottocento. Egli considera il bosco una sorta di  “cellula primaria” a cui fare riferimento per recuperare il contatto con la nostra stessa essenza. La Wilderness-Wildniss è contrapposta alla “civilizzazione”, intesa proprio come il processo che ha soffocato la natura dentro di noi. Negli Stati Uniti, Henry David Thoreau (1817-1862) rappresenta l’autore di riferimento dal 1854 ad oggi, anno in cui pubblicò “Walden, ovvero la vita nei boschi”.

Il bosco è un luogo di iniziazione e uno spazio sacro nelle religioni della natura. Nel nostro mondo le immagini simboliche che subito ci vengono in mente sono Artemide-Diana e le ninfe, Pan e i fauni. Il culto di Diana rimase vivo nelle campagne fino alla fine del Quattrocento, fino a ché non venne attaccato massicciamente sia dai tribunali religiosi, cattolici e protestanti, sia dai rappresentanti della scienza occidentale in ascesa, demonizzando corporeità, sessualità e immaginazione e inventando la figura della “strega”. Il recupero della parte istintuale-selvaggia dentro di noi anima il “filone corporeo”, prima di tutto in ambito artistico e, poi, grazie a Reich e Lowen, in chiave corporea, appunto, e a Jung, in chiave simbolico-verbale, si è manifestato anche nel campo della psicoterapia. Pensiamo, infatti, come è importante per noi il simbolo dell’albero e l’identificazione con esso nelle nostre esperienze di “radicamento”.

Un contributo recente al riconoscimento del “filone corporeo” come parte integrante del panorama culturale occidentale, è venuto, a mio avviso, dal lavoro dell’antropologo francese Bruno Latour, il quale ha affermato nel suo libro di successo Non siamo mai stati moderni: “In effetti, la società ‘moderna’ non ha mai funzionato in modo coerente con la grande scissura su cui si fonda il suo sistema di presentazione del mondo: quella che oppone natura e cultura. (…) è proprio questo paradigma fondatore che bisogna rimettere in discussione per riuscire a capire il nostro mondo.”(p. 22).

 

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* Dott.ssa Livia GELOSO
Local Trainer in Analisi Bioenergetica (S.I.A.B.)
Membro del Direttivo dell’EFBA-P
(European Federation for Bioenergetic Analysis-Psychotherapy)

Che cos’è l’Analisi Bioenergetica di Alexander Lowen

Lo sviluppo della terapia reichiana

L’analisi bioenergetica rappresenta un’estensione ed una sistematizzazione dei concetti psicosomatici sviluppati da Wilhelm Rech. La tesi fondamentale su cui si basa la terapia rechiana è quella dell’identità funzionale tra corazza muscolare e corazza comportamentale ovvero tra l’atteggiamento fisico di una persona e la struttura del suo io.
Questo concetto di unità fisica e psicologica permette al terapeuta di diagnosticare i disturbi della personalità in base all’espressione e alla mobilità del corpo. Tale approccio alla personalità attraverso il corpo non è una novità. Ciascuno vede gli altri come corpo, cioè ha un’immagine dell’altro in cui la forma del corpo, il movimento e la gestualità veicolano informazioni significative sull’altro. Reich, comunque, fu il primo ad integrare tali informazioni in una procedura analitica.

Un secondo concetto base in Reich correla l’inibizione della reattività emozionale alla contrazione della respirazione. Fin dal 1955 Reich osservò che la resistenza al processo analitico si manifesta fisicamente sotto forma di un blocco inconscio della respirazione. Quando il paziente veniva incoraggiato a respirare profondamente, le sue resistenze si dissolvevano trasformandosi in flusso dei materiali repressi con la relativa sequela di effetti e sensazioni. Questa osservazione indusse Reich alla conclusione che la capacità di risposta emozionale dipende dalla funzione respiratoria. Limitando la propria assunzione di ossigeno una persona smorza i processi metabolici del suo corpo ed in pratica deprime il proprio livello energetico. Arginando la combustione metabolica raffredda le passioni del corpo. I bambini sembrano sapere che trattenere il respiro elimina le sensazioni dolorose e sopprime gli impulsi di paura.

A parte gli effetti sul metabolismo, limitare la respirazione riduce anche la naturale mobilità del corpo. Il movimento respiratorio fluttua come un’onda attraverso il corpo, muovendo verso l’alto con l’inspirazione e verso il basso con l’espirazione. Questi movimenti che costituiscono la matrice dell’espressione emozionale sono bloccati da tensioni muscolari croniche principalmente a livello di gola, torace, addome e diaframma. Le tensioni a livello della gola sono il risultato dell’inibizione dell’espressione vocale. Esse costituiscono un’inconscia repressione degli impulsi a piangere, urlare ed “alzare la voce”. Tensioni croniche della parete toracica sono strettamente associate a spasticità muscolare del cingolo scapolare (che trattiene la capacità di protendersi con le braccia) La rigidità toracica sopprime la sensazione dì un forte desiderio d’amore che potrebbe trovare espressione nel protendersi o nel pianto. Questi sentimenti sono soppressi perché ripetute delusioni durante la fanciullezza li hanno resi troppo dolorosi.

Tensioni muscolari o spasticità in qualsiasi parte del corpo influiscono sulla respirazione perché la respirazione è un’attività totale del corpo. Tanto una mascella rigida che una tensione a livello delle natiche riducono i movimenti correlati alla respirazione e limitano l’ampiezza dell’inspirazione.
In senso lato si può dire che, se tali tensioni sono predominanti nei muscoli superficiali del corpo, il risultato è una globale rigidità tanto a livello fisico che a livello psicologico. Quando le principali tensioni muscolari coinvolgono i muscoli piccoli e profondi che circondano le articolazioni, ne derivano flaccidità e frammentazione. Ciò produce una mancanza dì integrità sia a livello fisico che a livello psicologico. La terapia bioenergetica mira a sciogliere le tensioni muscolari croniche del corpo ed a ristabilire quindi la naturale mobilità ed espressività dell’organismo.
Il terzo dogma fondamentale della terapia reichiana ha a che fare col ruolo del soddisfacimento sessuale in relazione all’economia energetica del corpo.

Reich postulò che una completa gratificazione orgastica scarica ogni eccesso di energia nell’organismo e quindi non lascia alcuna energia di supporto per gli stili di comportamento nevrotico. Egli scoprì che tale scarica non si realizza quando l’energia è trattenuta nelle tensioni muscolari croniche, e che queste debbono essere eliminate se si vuole raggiungere un pieno orgasmo. Reich credeva che se una persona sviluppa la capacità di scaricare tutta la sua energia in eccesso attraverso l’orgasmo, se, cioè, diviene orgasticamente potente, sarebbe garantita la salute emozionale del soggetto, dato che non c’è energia disponibile per l’assetto nevrotico. Il raggiungimento della potenza orgastica divenne quindi il fine della terapia reichiana ed il criterio di valutazione del benessere emozionale.

Questi tre concetti costituiscono l’ossatura della vegetoterapia carattero-analitica di Reich e sono divenuti le fondamenta, con alcune significative modificazioni, dell’analisi bioenergetica.
Rich, peraltro, approfondì ulteriormente i propri studi riguardo ai processi energetici della vita. Egli sviluppò il concetto di una specifica energia vitale che chiamò energia orgonica. Sviluppò un lavoro di ricerca sul cancro, e a mio giudizio contribuì notevolmente al progredire della conoscenza in questo campo. Questi sviluppi lo indussero a cambiare il nome del proprio approccio terapeutico in quello di orgonoterapia. La bioenergetica si muove in una direzione diversa. Essa focalizza tutta la propria attenzione sulle funzioni corporee con il fine di integrare processi corporei e fenomeni psichici in un’ottica più pregnante rispetto a quanto fece Reich. I risultati sono rappresentati da una comprensione più profonda dei disturbi della personalità e dallo sviluppo di una tecnica più efficace per il trattamento di questi disturbi.

Un buon esempio dell’efficacia delle tecniche bioenergetiche è il trattamento della depressione.
Studi di cinematica hanno dimostrato che la motilità è significativamente ridotta nei soggetti depressi. Le nostre osservazioni hanno chiaramente indicato che la respirazione è a sua volta molto ridotta in tale disturbo. L’effetto di tale riduzione nei processi biologici fondamentali del corpo consiste in una diminuzione della reattività emozionale. Ignorando per un momento i fattori psicologici in gioco in queste condizioni, resta il fatto che qualsiasi procedura atta a stimolare la respirazione e ad aumentare la motilità del corpo può consentire al soggetto di superare la propria condizione depressiva. Usando le tecniche bioenergetiche opportune è spesso possibile produrre un miglioramento abbastanza rapido e duraturo di tali funzioni fondamentali. Il risultato è spesso sorprendente per il paziente, che ignora che ciò che egli considerava come un disturbo mentale era intimamente e direttamente connesso con le attività del corpo.
Questa immediata liberazione dalla depressione sarà solo temporanea sin quando i fattori dinamici che hanno creato una tendenza depressiva nel paziente rimarranno intatti. Si può quindi prevedere una ricaduta nella depressione; perciò avverto i pazienti della probabilità di ricadute. Ma, avendo sperimentato la liberazione, essi sanno anche che un continuo lavoro sul corpo, per migliorare la respirazione e la motilità, può portarli a superare la tendenza alla depressione.

In che cosa consiste tale tendenza? Forse vi sorprenderò dicendo che lo stato depressivo si presenta quando un’illusione corazzata dal paziente viene meno. Tali illusioni, che si collocano appena al disotto della superficie della coscienza, hanno la funzione di sostenere lo spirito di opposizione ad un sentimento di disperazione latente. La mente di un bambino non può accettare il rifiuto o la disapprovazione dei genitori. Ciò comporta l’illusione che l’amore che non viene dato spontaneamente possa essere guadagnato tramite le buone maniere, il successo, un gesto gradevole, l’intelligenza, l’ingegnosità, ecc. Il bambino rifiuta la sua stessa natura, le sue sensazioni ed il suo modo di essere per soddisfare un’immagine dell’io che è stata imposta dalle richieste dei genitori.
La tendenza alla depressione si fonda sul rifiuto e sulla disapprovazione di sé e sul tentativo di ottenere approvazione comportandosi come vuole qualcun altro. Non importa quanta approvazione il soggetto possa ottenere attraverso il successo personale o attraverso un gesto lodevole; non sarà in nessun caso un sostituto adeguato dell’amore. L’amore è accettazione generosa dell’altro, che non fa domande e non pone condizioni. L’illusione fondamentale è che si possa guadagnare questo tipo di amore. È un’illusione perché un amore che si debba guadagnare non è vero amore. L’illusione viene meno quando si scopre che il fine è irraggiungibile, privo di senso, e che la lotta è stata inutile. Pur senza comprendere pienamente cosa sta accadendo, la persona abbandona ogni sforzo e diviene depressa. Ogni depressione indica che la persona è giunta al punto di chiedersi “a che scopo”? Ciò significa un ritorno alla disperazione originaria, rinforzata ora dal fallimento di ogni sforzo consapevole.

La sequenza di disperazione, sforzo, fallimento e depressione può essere elaborata psicologicamente, in modo tale da consentire al paziente di raggiungere il livello di comprensione del circolo vizioso in cui è intrappolato. Io, però, ho scoperto che tale comprensione generalmente non è sufficiente perché il soggetto superi la tendenza depressiva, se non si realizza un ribaltamento dell’autorifiuto e autodisapprovazione che potenziano tale tendenza. Per ottenere tale ribalta, si deve rimuovere l’illusione, secondaria all’effetto, che le attitudini siano soggette al controllo dell’io. Un altro aspetto di tale illusione eguaglia il sé alla mente e all’immagine dell’io che ignora il corpo come fondamento del modo di essere nel mondo. Quando diventiamo vecchi ci accorgiamo che l’io non è il padrone del corpo. In gioventù l’io ha guidato inflessibilmente il nostro corpo verso il perseguimento dei propri fini ed infine il corpo ormai stanco, non ce la fa più. Siamo assediati dalle malattie ed abbiamo premonizioni di morte. Sentiamo, in qualche modo, di aver perso il treno. Il piacere e la gioia di vivere ci sono sfuggiti. Ci sentiamo senza aiuto ed ancora una sensazione di “a che scopo”? ci pervade. Diventiamo depressi.

La persona che vive in contatto con il proprio corpo non diventa depressa.
Sa che il piacere e la gioia dipendono da buone sensazioni fisiche ed è sufficientemente in contatto col proprio corpo perché gli sia possibile constatare la loro assenza e prendere misure adeguate a riconquistarle. E’ consapevole delle proprie tensioni corporee e sa che per tutto il tempo in cui persisteranno, esse condizioneranno e determineranno la risposta emozionale. Essere in contatto col proprio corpo significa essere in contatto con la realtà del proprio modo di esistere.
Una persona in contatto col proprio corpo non si fa illusioni su se stessa e sulla vita. Essa accetta le proprie sensazioni come espressione della propria personalità e non ha difficoltà ad esprimerle.
Quando una persona può tornare al proprio modo d’essere la tendenza depressiva è eliminata. Essa può essere contrariata e sentirsi triste per l’andamento della propria vita ma non crollerà in uno stato depressivo.

Essere in contatto col proprio corpo è un principio guida dell’analisi bioenergetica.
Più una persona è emozionalmente disturbata, più è lontana dal contatto con il proprio corpo. Il fine dell’analisi bioenergetica è quello di riportare il paziente in contatto con le relazioni fondamentali della propria esistenza: quella con l’ambiente in cui vive e quella col terreno su cui si regge. La qualità del contatto tra i piedi ed il terreno determina il buon “radicamento” individuale, cioè se i suoi piedi sono ben piantati o se “cammina tra le nuvole”, se si regge sulle proprie gambe o se è dipendente dal supporto degli altri. La maggior parte dei pazienti diventano consapevoli di non sentire un pieno contatto dei piedi col terreno. Alcuni dicono perfino di reggersi sulle proprie ginocchia. Non sapere come stiamo in piedi equivale a non sapere come ci gestiamo nella vita quotidiana. Lo scarso contatto con il suolo è determinato da tensioni muscolari croniche a livello di piedi, gambe, cintura pelvica e resto del corpo. Un piede piccolo e fortemente arcuato indica un rifiuto del contatto col suolo. Piedi piatti ed un arco collassato stanno ad indicare un’incapacità di muoversi sul terreno o via dal terreno. Oltre a queste aree di tensione si incontrano spesso tensioni croniche nei muscoli delle gambe, cosce, caviglie, muscoli adduttori…

Ciascuna di tali tensioni croniche riflette una limitazione del movimento e, per estensione, rappresenta una limitazione dell’espressione del sé. Ciascuno possiede una storia personale che deve essere portata alla luce a livello psicologico se si vuole liberare la tensione. Il terreno è sempre interpretato come il simbolo della madre. L’equivalenza tra la madre terra e la madre biologica è un concetto base dell’analisi bioenergetica. Il modo in cui una persona sta in piedi ci fornisce molte informazioni riguardo ai suoi rapporti con la madre.
L’insicurezza insita in tale rapporto si tramuta in insicurezza a reggersi sulle proprie gambe ed è l’insicurezza fondamentale riguardo al problema di affrontare la vita.
L’altro rapporto fondamentale è quello con l’aria, e la qualità di tale rapporto si evidenzia nella respirazione.

L’aria o la respirazione sono l’equivalente dello spirito, il pneuma delle antiche religioni, simbolo del potere divino che dimora in Dio (padre), la figura paterna.
La respirazione è un gesto aggressivo di cui l’inspirazione è la parte attiva. Il corpo risucchia l’aria. Il modo in cui respiriamo esprime le nostre sensazioni sul diritto di prendere ciò che ci serve nella vita. Respirando ci identifichiamo con il principio maschile, il principio attivo, o aggressivo della vita. Tale concetto dimostra l’ampia base su cui si fonda l’analisi bioenergetica. Su tale base è possibile in molti casi analizzare il rapporto di una persona col padre.

Vi sono molti tipi di disturbi respiratori correlati con la personalità. Due sono abbastanza importanti. Nel paziente schizoide e schizofrenico, per esempio, si scopre facilmente che il torace è depresso in posizione espiratoria. La respirazione è così ridotta che i muscoli del torace, il diaframma ed il torace sembrano parzialmente paralizzati. Infatti in tali pazienti si presenta una paralisi parziale di tutte le funzioni automatiche ed involontarie del corpo. Questa paralisi è correlata ad uno stato di terrore prevalentemente inconscio nel paziente schizoide, ma emergente nella sfera della consapevolezza nel soggetto schizofrenico. Ho descritto tali aspetti del funzionamento schizoide nel mio libro Il tradimento del corpo. Nel nevrotico, d’altra parte, si scopre che il torace è trattenuto in posizione inspiratoria. Assistiamo ad una sovrainspirazione, ed il paziente ha difficoltà ad espirare fino in fondo. Egli trattiene l’aria per misura di sicurezza. Egli ‘trattiene in sé’ laddove lo schizoide semplicemente blocca. In entrambi i casi lavorare con la respirazione conduce ben presto alla scoperta dell’ansietà profonda ed accelera l’elaborazione psicologica di tale ansietà.
Tale distinzione tra la respirazione nevrotica e quella schizoide non è assoluta, come non è assoluta la distinzione tra comportamento schizoide e comportamento nevrotico. Ciò che si può dire è che un’inspirazione limitata indica una tendenza schizoide nella personalità, mentre una ridotta espirazione indica una tendenza nevrotica. Questa distinzione è comunque meno importante del fatto che il paziente non respira pienamente e liberamente.

Va al di là degli scopi di questo saggio descrivere le tecniche bioenergetiche usate per liberare la funzione respiratoria usate per liberare tensioni muscolari croniche che la limitano. Una di tali tecniche, comunque, merita un cenno. Essa implica l’uso della voce.

L’ampiezza e la qualità della produzione di suono danno la misura della personalità. La parola personalità è derivata dall’espressione persona che significa “attraverso il suono”.
Attraverso il suo suono si può riconoscere una persona, ed attraverso i suoni che emette si può sapere cosa una persona sta provando (to feel). Persone inibite al pianto, all’urlo ed a parlare a voce alta sono limitate nella respirazione dalla tensione che blocca tali espressioni. Aiutare un paziente a piangere o ad urlare è uno dei modi più efficaci di liberare le emozioni bloccate, liberando la funzione respiratoria. L’urlo può spesso venire provocato tramite una pressione esercitata sui muscoli scaleni anteriori mentre il paziente sta emettendo un suono a voce alta. L’urlo involontario invia un flusso di sentimenti attraverso il corpo, dalla testa ai piedi, e produce una consapevolezza corporea totale ed unitaria. Qualsiasi sia il problema, esso si riflette in un disturbo del flusso delle sensazioni attraverso il corpo. Questo flusso di sensazioni è la base di tutta la risposta emozionale. Se è frammentario, le risposte emozionali saranno conflittuali ed ambivalenti. Se viene soppresso la risposta emozionale della persona si appiattisce. Solo nella persona emozionalmente sana il flusso è completo, libero e ritmico. Tale persona è capace di esprimere i propri sentimenti di amore, rabbia, paura e tristezza facilmente e con un completo controllo dell’io. Egli si possiede.

Quando il fluire dei sentimenti è bloccato da tensioni muscolari croniche, il possesso di sé è limitato. Diviene importante quindi rimuovere queste tensioni. Per fare ciò bisogna attraversare tre stadi.
In primo luogo il paziente deve divenire consapevole delle proprie tensioni, deve sentire la tensione e sensibilizzarsi all’impulso di cui sta bloccando l’espressione. Per esempio, deve sentire che la sua mascella serrata blocca l’impulso a mordere (essere mordace) o che le sue spalle tese bloccano l’impulso a colpire o a protendersi, e così via.

Ogni tensione muscolare cronica rappresenta una inibizione ed esprime determinati sentimenti. La tensione è la controparte fisica dell’inibizione psicologica.
Ma le tensioni non sono fenomeni isolati. Esse sono interrelate e nel loro insieme determinano l’atteggiamento caratteriale dell’individuo. Il paziente deve divenire consapevole di tale atteggiamento e comprendere il suo ruolo determinante nel comportamento. Ciò è quanto Reich chiamò analisi del carattere. In secondo luogo, il paziente deve scoprire le origini e chiarire il processo storico del costituirsi dell’inibizione o tensione. Questo è l’aspetto analitico della terapia bioenergetica. Se tale aspetto viene ignorato il paziente rimane tagliato fuori dal proprio passato, ed il conflitto inconscio che produsse la tensione non sarà mai risolto pienamente. Anche in tale fase il focus non è mai limitato alla singola tensione. Il “perché” di una particolare tensione si amplia ad includere il “perché” dell’intera struttura caratteriale. Il paziente deve vedere se stesso come prodotto di uno sviluppo storico peculiare. Quando egli mette a fuoco l’immagine completa, il puzzle della sua vita acquista un senso. Questi concetti sono sviluppati nel mio libro The Physical Dinamics of Character Structure.

In terzo luogo, gli impulsi bloccati devono liberarsi attraverso movimenti appropriati. Se ciò non avviene, l’analisi rimane sterile e non si verificano cambiamenti significativi nell’insieme della personalità. Il termine “movimenti appropriati” implica anche appropriate circostanze. Mettere in azione gli impulsi bloccati all’interno delle proprie relazioni sociali è una forma distruttiva di comportamento. Sia che una persona si senta o meno colpevole a proposito di un siffatto comportamento, esso rappresenta la negazione della dignità e dell’integrità di sé e dell’altro. La bioenergetica fornisce gli strumenti attraverso i quali tali impulsi possono essere espressi nell’ambito controllato della situazione terapeutica. La rabbia bloccata può essere liberata, per esempio, colpendo a pugni o a calci il lettino. Lungo tutti gli anni della mia attività non sono mai stato colpito da un paziente. L’intera gamma delle emozioni, dalla bramosia più profonda alla rabbia più violenta, può venir espresso in tal modo.

Uno dei vantaggi del lavoro con queste tecniche è che il paziente può fare molto per aiutare se stesso. Prendere contatto col proprio corpo non è un’attività che si esaurisce in un’ora o in una settimana. Ogni momento della giornata ed ogni movimento danno al paziente un’opportunità di aumentare la propria consapevolezza corporea. Il paziente sviluppa una sensazione di consapevolezza di se stesso al posto della consapevolezza intellettuale che deriva dall’analisi dei pensieri.

I miei pazienti fanno a casa propria molti esercizi terapeutici attraverso i quali portano avanti il miglioramento della propria salute fisica insieme col proprio benessere emozionale.
Tra le molte modificazioni che l’analisi bioenergetica ha prodotto nella terapia reichiana, ricordiamo lo slittamento del fine terapeutico dalla potenza orgastica al piacere.

Con il termine “piacere” non intendo una provvisoria auto-indulgenza, bensì la capacità di gioire della propria vita. Il fine della terapia è di aiutare il paziente a ritrovare la capacità di provare piacere e gioia. Questo è un fine più ampio di quello formulato da Reich ed al contempo include il piacere sessuale e la soddisfazione orgastica. Mentre l’analisi dei conflitti sessuali rappresenta tutt’ora un punto focale del lavoro terapeutico in analisi bioenergetica, questo approccio non è (altrettanto) incentrato in modo esclusivo sulla sessualità quanto lo era l’approccio reichiano.
All’inizio ho sottolineato il crescente interesse verso il corpo e l’esperienza immediata, che rappresentano i lineamenti principali del nuovo approccio terapeutico. Il senso di tale focalizzazione è illustrato nell’esposizione di una sessione terapeutica. La paziente, una giovane donna di venticinque anni, mi consultò per una profonda reazione depressiva che era culminata in un tentativo di suicidio. Le era stato consentito di uscire dall’ospedale per consultarmi. Dopo aver discusso la sua situazione le feci eseguire alcuni esercizi bioenergetici atti ad ampliare la sua respirazione e motilità ed a promuovere l’espressione dei sentimenti. Alla fine della seduta il suo colorito era migliore, i suoi occhi più vivi ed il suo corpo provava sensazioni più intense.
Andandosene mi disse:
“Dottor Lowen, sono venuta senza speranza, ma me ne vado con un senso dl fiducia”.
In bioenergetica l’approccio alla personalità attraverso il corpo fornisce anche una nuova opportunità per comprendere e produrre un miglioramento in relazione a quei problemi che le tecniche verbali lasciano intatti, quali i disordini della personalità schizoide, della personalità dipendente del soggetto orale, della personalità masochista e della personalità rigida compulsiva.
Le tecniche verbali sono relativamente inefficaci nel trattamento di questi problemi di personalità perché essi sono strutturati a livello corporeo.
La personalità schizoide, per esempio, è determinata da una dissociazione della consapevolezza del corpo e si basa su una riduzione della sensazione del corpo.
L’aumento delle sensazioni corporee e la mobilizzazione della consapevolezza corporea sono le procedure immediate che possono portare al di là della dissociazione mente-corpo.
La personalità orale dipendente è determinata da un senso di insicurezza controllato da un contatto inadeguato dei piedi col terreno.

Promuovere l’insorgenza di sensazioni nelle gambe e nei piedi conduce al superamento del senso di insicurezza e riduce il bisogno di dipendenza di questa personalità. La personalità masochista, in senso lato, è determinata da una tensione cronica che strozza il collo e la cintura pelvica. Il masochista può essere considerato un individuo imbottigliato ed una delle sue più ricorrenti lamentele è la paura di esplodere. Quando queste tensioni vengono liberate la tendenza masochista al piagnucolio, alla lamentela ed alla sofferenza diminuiscono.
I tipi di carattere compulsivo sono caratterizzati da corpi tesi e rigidi e la rigidità psicologica si ammorbidisce solo quando si rilassa la rigidità del corpo.
Rimando a Reich ed ai miei libri per una più completa analisi di queste strutture della personalità.

Essere in contatto col proprio corpo offre alla persona l’opportunità nuova di una vita ricca di senso in questi tempi confusi. Ogni valore può essere messo in discussione oggi fuorché uno: la salute del corpo.
La persona che è in contatto col proprio corpo è consapevole delle proprie tensioni.
Essa sente quanto la sua respirazione è disturbata e può fare quanto e necessario per riportare il proprio funzionamento corporeo ad una condizione normale.
Quindi si può assumere la responsabilità del proprio benessere fisico ed emozionale. La persona che non si trova in contatto con il proprio corpo proietta i propri problemi addosso agli altri o ne ricerca la soluzione in un cambiamento radicale della società.

L’illusione che la società possa cambiare senza un preventivo cambiamento della struttura caratteriale dei suoi membri è stata discussa da W. Reich in Psicologia di massa del fascismo.
L’inevitabile crollo di questa illusione, prima o poi, farà precipitare nella depressione gli assertori della necessità di un cambiamento radicale della società.

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