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Autore: Hiram

Paura della leggerezza. Note sulle difese masochistiche di Gianfranco Ravaglia

Molto è stato scritto sul masochismo, ma il filone delle ricerche sulla struttura caratteriale masochistica o sui tratti caratteriali masochistici è sostanzialmente riconducibile agli studi di Wilhelm Reich e degli analisti che sono partiti dalle sue ricerche.

INDICE

1.Oralità e masochismo sul piano caratteriale
2.Dolore, depressione e difese masochistiche
3.La strategia difensiva masochistica
4.Atteggiamenti caratteriali masochistici presenti in complesse strategie difensive
5. Alcune sedute
6. Alcuni momenti di un percorso analitico

1. Oralità e masochismo sul piano caratteriale

Molto è stato scritto sul masochismo, ma il filone delle ricerche sulla struttura caratteriale masochistica o sui tratti caratteriali masochistici è sostanzialmente riconducibile agli studi di Wilhelm Reich e degli analisti che sono partiti dalle sue ricerche.

Opponendosi alla concezione speculativa freudiana relativa all’ipotesi di una pulsione di morte (S.Freud,1920), che era teoricamente insostenibile ed epistemologicamente inconsistente, Wilhelm Reich ha dimostrato la possibilità di ricondurre i comportamenti autodistruttivi e quindi anche gli atteggiamenti masochistici ad una logica difensiva (W.Reich,1945,cap.XI) ed ha istituito l’effettiva possibilità di un lavoro analitico su disturbi che precedentemente risultavano semplicemente incomprensibili. I suoi allievi hanno proseguito l’indagine sulle strutture caratteriali (E.Baker,1969, A.Nelson,1975, 1976, 1979) ed altri studiosi influenzati comunque dal pensiero reichiano hanno portato avanti in contesti teorici relativamente distinti la ricerca sulle difese caratteriali (A.Lowen,1958, R.Kurtz-H.Prestera,1976, D.Boadella,1976, D.Boadella,1987, D.Boadella-J.Liss,1986).

Una linea di ricerca più attenta alle modalità di interazione che alle rigidità caratteriali, si è aperta con l’analisi transazionale (E.Berne,1967, E.Berne,1972) e ciò ha aiutato gli analisti interessati al lavoro sulle difese caratteriali ad approfondire il loro approccio ed a considerare quindi gli atteggiamenti caratteriali più come strategie che come “strutture” (G.Ravaglia-A.Torre,1996).

In queste pagine mi propongo di riconsiderare le difese di tipo masochistico e di prendere spunto da questo specifico argomento per giustificare in generale l’opportunità di subordinare l’analisi del carattere all’analisi dell’intenzionalità difensiva. Tra le tante strutture caratteriali che meriterebbero esame altrettanto accurato, ho scelto questa semplicemente perché il disagio espresso dalle persone che manifestano delle difese masochistiche viene spesso confuso anche da psicologi e psichiatri con quello delle persone che manifestano difese depressive.

A differenza del carattere orale che in modi lievi o gravi protegge la persona da un senso di vuoto e di privazione, il carattere masochista protegge la persona da un senso di colpevolezza, inadeguatezza e da un vissuto di svalutazione.

Le persone con caratteristiche orali tendono alla depressione (lieve o grave) perché la depressione è un atteggiamento di rifiuto della realtà percepita come intollerabile in quanto non appagante i bisogni elementari di appoggio, riconoscimento, accoglienza. Le persone con un carattere orale sprofondano in sintomatologie depressive quando falliscono nella loro negazione del vuoto. Tale negazione è riconducibile fondamentalmente a due modalità: quella della dipendenza “ottimistica” e della controdipendenza.

La dipendenza “ottimistica” delle persone “orali” si manifesta con una irrealistica speranza di poter trovare nella vita adulta una compensazione soddisfacente per vissuti di deprivazione. In tale atteggiamento c’è la pretesa, cioè la rabbiosa convinzione che finalmente ci debba ben essere ciò che si sente come mancante.

Nella controdipendenza, al contrario, le persone ostentano un atteggiamento altrettanto irrealistico secondo il quale mostrano di non dipendere affettivamente da nessuno e di bastare a se stesse. In realtà la controdipendenza costituisce l’altro lato della stessa medaglia, definibile come dipendenza patologica. La persona controdipendente è semplicemente terrorizzata dalla possibilità di dipendere affettivamente e di essere poi abbandonata.

Nella realtà della vita adulta tutti dipendiamo affettivamente dalle persone care e tolleriamo tale situazione che ci rende vulnerabili ma anche soddisfatti dei reali buoni rapporti. Una volta che proiettiamo sulle relazioni adulte possibilità di appagamento o frustrazione relative al senso “sicurezza” (possibili solo nella prima infanzia nel rapporto con la figura materna) piuttosto che realistiche possibilità di incontro e di gratificazione, viviamo in modo irrazionale l’effettiva relazione e possiamo solo scegliere fra immaginarla ottimisticamente come una possibile salvezza o temerla e negarla.

La persona depressa detesta (difensivamente) se stessa per mantenere l’idea che se fosse migliore otterrebbe quel che vuole oppure detesta (difensivamente) il mondo perché privo di senso in quanto “inadempiente” (salvando così l’illusione che il mondo “dovrebbe” dare l’appagamento necessario).

Nelle versioni psicotiche di questi atteggiamenti difensivi, troviamo una negazione delle coordinate essenziali della realtà e quindi una totale negazione del valore di se stessi e del mondo oppure un altrettanto infondato senso di onnipotenza.

Di fatto, in un modo o nell’altro le persone con caratteristiche orali evitano il lutto relativo ad una esperienza di carenza, e restano inchiodate al passato e fermamente convinte di aver diritto (anche con venti o cinquant’anni di ritardo) a quella “pienezza” che solo una madre accettante avrebbe potuto dare nella prima infanzia.

Nelle forme nevrotiche o psicotiche, la problematica orale rinvia comunque ad una fase precoce dello sviluppo affettivo in cui il bambino non ha ancora ricevuto abbastanza sostegno da poter elaborare il dolore riconoscendosi come soggetto portatore di una specifica sofferenza. Per questo le persone con caratteristiche orali, sia che risultino semplicemente “appiccicose”, sia che si mostrino depresse, sia che fuggano nella controdipendenza, manifestano un senso basilare di fragilità.

Le persone con struttura caratteriale masochistica, al contrario non sono e non sembrano fragili e non cadono facilmente nella follia o in patologie nevrotiche gravi, anche se si difendono da vissuti dolorosi dell’infanzia in modi che possono essere più o meno marcati e distruttivi.

Dobbiamo subito sgombrare il terreno da qualsiasi confusione fra masochismo caratteriale e perversioni masochistiche; poiché queste ultime implicano una sessualizzazione di problemi affettivi ed una non adeguata considerazione per la integrità personale, rientrano in genere nel quadro di personalità borderline, anche se con tratti caratteriali masochistici.

Il classico carattere masochistico tanto discusso in letteratura è abbastanza raro, mentre i tratti caratteriali masochistici sono molto diffusi e rientrano quasi sempre in personalità abbastanza mature. Anche se il termine “masochismo” suona molto male e può dar l’idea di una grave “malattia”, o fa pensare (erroneamente) ad una “stupida” volontà di soffrire, rinvia in realtà a problematiche psicologiche significative ma non particolarmente “gravi”. Le persone che presentano aspetti masochistici nei loro atteggiamenti difensivi rivelano una sicurezza di base relativa al valore della loro vita e della vita in generale, sono affidabili per molti aspetti delle relazioni interpersonali e sono anche capaci di dare (magari in modo eccessivo e condizionato). Chiaramente soffrono e soffrono in modo irragionevole perché comunque non hanno elaborato dei vissuti molto penosi con cui non vogliono entrare in contatto, ma possono trarre giovamenti (a volte anche rapidi) da un lavoro analitico ben condotto.

Se nell’oralità il problema “antico” è costituito dalla mancanza di un rapporto capace di dare sicurezza, nel masochismo il problema “antico” è costituito dall’angoscia di incontrare rifiuto, svalutazione e colpevolizzazione in un rapporto comunque solido con una figura materna. Il masochista lotta contro se stesso per non compromettere con la propria rabbia una situazione stabile che comunque sente di aver conquistato. Si opprime controllando una profonda ostilità pur di mantenere anche nella vita adulta rapporti che sono insoddisfacenti e potrebbero essere semplicemente interrotti. A volte teme rapporti molto gratificanti in cui si troverebbe spiazzato perché non potrebbe sentirsi vittima. Infatti l’irrigidimento nel ruolo di vittima, per quanto penoso, ha coinciso nell’infanzia con la scoperta della capacità personale di “tollerare” delle difficoltà senza toccare un dolore troppo profondo e temuto. Le persone con carattere masochistico, avendo evitato una grande pena immobilizzandosi, temono di perdere la loro immobilità.

Le caratteristiche più evidenti dell’atteggiamento masochistico sono quindi riconducibili alla percezione di un forte senso di oppressione ed alla manifestazione frequente di lamentele che forniscono un piccolo sollievo alla “pressione interna” avvertita come insopportabile. Nella strategia masochistica rispetto alle altre persone ha invece un ruolo fondamentale la ricerca di situazioni insoddisfacenti a cui attribuire (vittimisticamente) il senso di oppressione (ed a cui reagire) e la tendenza a deteriorare le situazioni soddisfacenti perché esse sono percepite come angoscianti e pericolose (come se la felicità fosse una colpa e la leggerezza fosse un pericolo).

Il senso d’oppressione in questione non deve essere considerato “effetto” di reali oppressioni o maltrattamenti del passato (a meno che questi ultimi siano intesi in un senso tanto ampio da essere rintracciabili nelle famiglie di qualsiasi persona nevrotica, cioè nella quasi totalità delle famiglie). Reali oggettive situazione di maltrattamento conducono facilmente a disturbi di tipo borderline piuttosto che a difese masochistiche. Il senso d’oppressione accusato dalla persona con difese masochistiche deve al contrario essere considerato una esatta percezione dell’auto-oppressione (anche muscolare) che la persona stessa ha costruito per mantenersi in una posizione di “resistenza” rispetto a specifiche frustrazioni, manipolazioni, svalutazioni.

2. Dolore, depressione e difese masochistiche

Spesso gli atteggiamenti masochistici vengono confusi da medici (ma anche da psicologi e psichiatri) con quelli depressivi e ciò dà luogo a gravi errori sia nella terapia farmacologia che nella psicoterapia.

Per capire esattamente le differenze tra vari tipi di difese, dato che comunque si tratta di difese dal dolore, occorre ovviamente avere qualche idea ragionevole relativa al dolore, ma ciò è tutt’altro che scontato. Infatti, a volte, anche nei testi di psicoterapia non si contrappone adeguatamente il dolore (o la tristezza) alle difese depressive.

Robert White e Robert Galliland, ad esempio, in un noto testo scrivono che “La depressione è uno dei più comuni sintomi psichiatrici” (White-Galliland, 1975, p.149), ma dopo poche pagine esprimono un pensiero che contraddice radicalmente la precedente corretta affermazione: “La perdita produce depressione. L’emozione della depressione segnala la presenza di una perdita o la sua imminenza. Quando la depressione non raggiunge un grado chiaramente morboso, l’emozione e le sue concomitanti fisiologiche vanno semplicemente considerate una risposta biologicamente innata alla perdita” (p.154). In queste poche parole riscontriamo purtroppo sia una logica discutibilmente causale che presenta le emozioni come effetti di situazioni anziché come attive ed intenzionali risposte delle persone alle situazioni, sia una negazione delle differenze sostanziali fra tristezza, dolore, disperazione da un lato e depressione dall’altro. Gli autori suggeriscono che sia tutto una questione di “grado”, ovvero che essere depressi significhi essere “troppo tristi”. E questa è una ovvia sciocchezza, dato che ci sono persone molto addolorate in situazioni di perdita che non fanno nulla di assimilabile a quello che fanno normalmente le persone depresse. Una persona può aver perso un figlio e svolgere normalmente il suo lavoro, amare la moglie, piangere spesso guardando le foto o i vecchi giocattoli del figlio; un’altra persona può aver semplicemente perso l’opportunità di una promozione in ufficio e svegliarsi sempre tardi con la ferrea convinzione che la vita “non meriti di essere vissuta”. Sarebbe assurdo dire che la seconda persona esibisce una “eccessiva tristezza” poiché in realtà manifesta rabbia (silenziosa) per una (piccola) perdita che non accetta, non sente amore, rivela segni fisiologici di tensione, mentre la prima persona sta cercando di abituarsi ad una (grande) perdita che ha accettato come definitiva, ama sia sé che il figlio deceduto che le altre persone della sua vita, è rilassata e impegnata nella vita anche se ovviamente non dà segni di allegria.

Considerare la depressione una “forte” tristezza è errato come considerare la guerra una “intensa” pace. Si deve invece ragionevolmente sottolineare la netta contrapposizione delle due emozioni considerando la tristezza come una sincera accettazione di una reale perdita e la depressione come il rifiuto di una perdita e quindi considerando la tristezza come una emozione fondamentale e la depressione come una emozione difensiva e in ultima analisi come una difesa o una collezione di sintomi.

Sta di fatto che sono scarse nella letteratura specialistica le esplicite definizioni del dolore psicologico inteso come fenomeno soggettivo radicalmente opposto alla depressione ed ai vari stati d’animo “penosi” difensivi.

I bambini soffrono perché sono come gli adulti esseri umani con bisogni e desideri che la realtà a volte frustra. A differenza degli adulti però non possono accettare ed elaborare il dolore, a meno che non trovino il sostegno e l’appoggio di una figura genitoriale. In assenza di tale appoggio, e soprattutto quando proprio la figura genitoriale è fonte di sofferenza, i bambini interrompono il contatto con il dolore. Fanno questo nel modo più economico ed efficace, dato che non costruiscono atteggiamenti difensivi più gravi del necessario, ma lo fanno con competenza e determinazione. In altre parole sono fin dal primo giorno “dotati” delle capacità necessarie per interrompere il contatto con il dolore, ma sono privi delle capacità necessarie per elaborare ed integrare le perdite dolorose. Costruiscono atteggiamenti e progetti difensivi “senza scadenza”, e quindi (se non rivedono in un percorso analitico la loro strategia) continuano nella vita adulta a scappare (irragionevolmente) dalle emozioni penose che avevano (ragionevolmente) evitato nell’infanzia. Diventano adulti limitati nella capacità di accettare il dolore inevitabile, nella capacità di essere empatici coi figli e di dare sicurezza e sostegno ai figli. Diventano adulti che portano anche i loro figli a confrontarsi (senza il necessario appoggio) con esperienze dolorose e quindi a costruire le difese necessarie. Questo accade e continua ad accadere e chiarisce perché nella maggior parte delle relazioni interpersonali e dei rapporti sociali prevalgano in modo così marcato aspetti irrazionali e distruttivi che contraddicono il livello di maturazione intellettuale e culturale delle persone e le potenzialità costruttive dei gruppi.

Il dolore è sentito (se non vengono attivate delle difese) quando un bisogno o un desiderio incontrano una risposta frustrante che non può essere modificata. Quando la frustrazione è provvisoria o solo probabile, la risposta emotiva è quella della paura, ovvero della preparazione ad un possibile dolore. Quando la frustrazione può essere superata, la risposta emotiva è quella della rabbia, ovvero del rifiuto di una situazione sentita come insoddisfacente. Quando la frustrazione è insuperabile, la risposta emotiva è il dolore e la persona che prova un dolore profondo o lieve ha bisogno di tempo (di un tempo speso bene) per abituarsi a convivere con una sensazione di mancanza, di perdita irreparabile.

Nel lavoro del lutto la persona si abitua a continuare a vivere una vita che non è quella che aveva desiderato, poiché improvvisamente la vita implica la perdita di qualcosa che era stato ottenuto o l’impossibilità di realizzare ciò che era desiderato. Col lavoro del lutto la persona si abitua a sentire una mancanza; in altre parole col lavoro del lutto sviluppato in un tempo adeguato, la persona ristruttura sul piano cognitivo e su quello del sentire il suo orizzonte di vita. Il pianto costituisce l’espressione più compiuta del dolore. Col pianto la persona esprime il dolore, si abitua a sentirlo, si organizza interiormente per accettarlo dato che non può né combattere né restare “sospesa” nell’incertezza. Negare un dolore (ovvero evitare il lavoro del lutto) è irragionevole come negare un fatto evidente. Se nascessimo con le capacità degli adulti non interromperemmo mai il contatto di fronte al dolore, ma nasciamo senza quelle capacità e quindi abbiamo bisogno o di essere gratificati o di essere sostenuti nel confronto con aspetti dolorosi della realtà. Il sostegno degli adulti non produce un apprendimento in senso stretto, così come la comunicazione linguistica produce l’apprendimento di una lingua. Esso costituisce più che un apprendimento un aiuto: l’adulto aiuta il bambino ad affrontare una cosa più grande di lui “prestandogli inizialmente le sue risorse”, così come l’adulto si carica il bambino sulle spalle se questi deve raggiungere un posto troppo lontano per le sue gambe. Il bambino vede “come si fa”, ma mentre lo fa riceve l’aiuto cognitivo e l’accoglienza fisica ed emotiva che gli permettono di stare “intero” di fronte all’intera situazione dolorosa senza sentirsene travolto. Crescendo saprà “come si fa” e gradualmente riuscirà a farlo da solo.

Quando un adulto attraversa un periodo di lutto, non sente “di non farcela”, non è arrabbiato, non è confuso, non ha speranze, non è distaccato: è in contatto con una tristezza o un dolore che non vorrebbe sentire ma che comunque fa parte della sua vita e va accettato. In ogni lutto l’adulto scopre di poter vivere senza qualcosa che aveva o voleva, ovvero scopre di poter tollerare una mancanza, che resta tale ma che non toglie significato a ciò che resta.

L’epoca e le modalità delle frustrazioni, così come le situazioni interpersonali che creano le frustrazioni, portano il bambino a provare specifici tipi di sofferenza e rendono necessarie specifiche reazioni difensive. Le difese sono molte e l’insieme delle modalità difensive di una persona è unico. A grandi linee si può dire che per non soffrire la persona può fare tante cose, più o meno gravi: irrigidirsi e sentire meno, pretendere rabbiosamente una compensazione, modificarsi sperando di avere il potere di cambiare ciò che non può cambiare, distaccarsi, confondersi, e così via.

Parlando di depressione e di atteggiamenti masochistici parliamo di due delle varie modalità difensive che hanno una cosa in comune: per molti aspetti assomigliano alla tristezza pur essendo un modo per non sentirsi realmente tristi, addolorati, disperati. Esse danno luogo ad una pseudodisperazione che serve proprio a “non di-sperare”. Il depresso spera perché protesta e pretende e nega che la mancanza sia definitiva. La persona con atteggiamenti masochistici si concentra sulla sua fatica ad accettare qualcosa mentre in realtà non accetta né la situazione né la propria impotenza, e fatica proprio per mantenere quella reazione dura e rigida di opposizione alla realtà penosa.

Sia nella depressione che nel “pantano masochistico” c’è quindi una (pseudo)sofferenza esibita che copre un dolore molto profondo; in altre parole la sofferenza esibita, per quanto penosa, è superficiale e gestita dalla persona per impedire il contatto con quel dolore profondo che nell’infanzia fu classificato intollerabile e che irrazionalmente viene in modo automatico allontanato dalla coscienza anche nella vita adulta. In entrambi i casi ci può essere lamentazione senza pianto o con “crisi” (non autentiche) di pianto; in entrambi i casi c’è molta rabbia non espressa apertamente. Tuttavia, la situazione di base, quella veramente dolorosa e più antica, che si evita di accettare, quella per cui non si fa un vero lutto (e che quindi non si supera) è molto diversa nei due casi.

La persona con carattere masochista non scappa da un senso di vuoto, di inconsistenza, di mancanza, ma da una esperienza di solitudine caratterizzata da rapporti basilari forti ma condizionali nei quali non si è sentita libera di esprimersi se non a rischio di trovarsi svalutata o derisa o colpevolizzata. Quindi, si è aggrappata al brutto rapporto autoimponendosi un blocco dell’espansione emozionale, per sentirsi vittima di una ingiustizia ma capace di sopportare l’ingiustizia e in diritto di aspettarsi di più.

La persona con un carattere orale pretende un rapporto soddisfacente, ma irreale perché sente di avere alle spalle una mancanza di rapporto, mentre il masochista cerca un rapporto insoddisfacente per non sentirsi nella condizione di precarietà e di libertà che associa alla perdita del controllo.

Mentre il depresso denuncia una “non sensatezza” e “non accettabilità” di sé o della sua vita in generale, il masochista, con il suo tipico atteggiamento da vittima rinvia in modo distorto, ma in qualche misura realistico, ad una persona o situazione oggettiva da cui si sente intrappolato, oppresso, svilito. Anche se il problema depressivo parte da una frustrazione subita da una persona reale, il depresso più che evidenziare un vittimismo rabbioso rispetto ad una persona mette in evidenza l’intollerabilità delle conseguenze di ciò che è accaduto. Il depresso pretende di essere salvato mentre il masochista scarica (poca) rabbia pretendendo solo di essere giustificato o compatito.

Le persone con carattere orale sono percepibili come deboli ed infantili, mentre quelle con carattere masochistico sono percepibili come solide e affidabili: infatti queste ultime hanno “avuto di più” ed hanno imparato ad usare il loro capitale iniziale per non perdere tutto. Sono costantemente insoddisfatte ma sicure di non crollare (anche se magari si lamentano dicendo di “non farcela”) e si sentono vittime in quanto non riconoscono di essere responsabili di ciò che fanno per restare ferme in situazioni penose. In tale non riconoscimento c’è un fondamento (storico) di realtà: infatti, nell’infanzia hanno fatto una scelta, ma sotto il peso di un ricatto affettivo. Il problema che portano nella vita adulta è però un po’ diverso: fanno scelte perdenti per mantenersi nel loro pantano rassicurante senza sentirsi responsabili della loro attuale autolimitazione ed “auto-compressione”.

Nelle situazioni frustranti della vita adulta il depresso si ritira in una rabbia silenziosa distruttiva ed autodistruttiva (esprimendo indirettamente una protesta che nega significato alla realtà), mentre il masochista si lamenta di qualcosa che non accetta ma che non tenta nemmeno di cambiare.

Nelle situazioni gratificanti della vita adulta, il depresso diventa avido, prende tutto senza essere davvero mai contento o grato, perché sente di ricevere comunque poco ed in ritardo. Il masochista invece teme la gratificazione, l’amore, l’accettazione perché tali esperienze lo lasciano disarmato e disorientato. Per questo sono tipici dei masochisti due atteggiamente apparentemente incomprensibili: la propensione a cacciarsi “ingenuamente” nei guai e la capacità di rovinare le belle occasioni. L’orale cerca l’amore e non sa che farsene, mentre il masochista crede di cercarlo mentre lo evita.

Sul piano fisico le persone con carattere orale tendono ad essere “molli”; hanno anche ipertonia muscolare localizzata (ad esempio nella bocca), ma fondamentalmente sono poco “toniche”. Tendono per il loro aspetto a far tenerezza ed a sollecitare atteggiamenti protettivi.

Sul piano fisico le persone con carattere masochistico tendono ad essere “pesanti”; hanno masse muscolari molto sviluppate (ad esempio nella zona delle spalle e delle gambe); possono anche tendere all’obesità per ragioni diverse da quelle degli orali “food-addicted”. Tendono per il loro aspetto ad infondere sicurezza, perché sono comunque anche capaci di dare.

3. La strategia difensiva masochistica

Fatta questa premessa in cui ho cercato di delineare le difese masochistiche contrapponendole a quelle orali, prenderò in considerazione alcuni tratti specifici del modo di sentire e di agire delle persone con atteggiameti caratteriali masochistici.

Dopo Wilhelm Reich ha perso credibilità, anche per molti psicoanalisti, l’ipotesi freudiana di una ipotetica “pulsione di morte” che avrebbe dovuto “spiegare” l’autodistruttività, ed in particolare i tipici comportamenti masochistici.

Il filo rosso da seguire nella comprensione delle persone con carattere masochista è quindi quello della loro ricerca del piacere, anche se essa si dipana in modo apparentemente contraddittorio. In situazioni estreme star male può essere vantaggioso, se permette di non entrare in contatto con una situazione peggiore.

Preferirei evitare la descrizione del carattere masochista fatta sulla base di un particolare caso clinico, perché le persone con difese masochistiche possono essere molto diverse nei loro comportamenti e possono avere storie molto diverse. Non mi interessa quindi sottolineare storie di clienti che sono stati bambini ben curati ma costretti ad una precoce educazione sfinterica da una madre sadica, o bambini poco coccolati ma ipernutriti, o bambini umiliati e svergognati per la loro vitalità (giocosità, rumorosità, sessualità, ecc.), o bambini costretti a tacere l’espressione del loro dolore perché una madre pienamente calata nel ruolo di vittima li induceva a negare che soffrivano più di lei. In questi ed altri casi tipici, i bambini imparano ad ingoiare un immenso “no!” (pericoloso perché rivolto ad un genitore anche generoso e comunque indispensabile); imparano a fare del loro meglio per diventare ordinati, responsabili, protettivi. Tutto ciò comporta una sensazione di oppressione che corrisponde ad una reale oppressione: quella che il bambino stesso crea rispetto all’espressione della propria genuina protesta, del proprio bisogno, del proprio dolore.

La situazione esterna è più dolorosa che opprimente. L’oppressione veramente significativa non è “esterna”, ma è creata dal bambino per evitare di deteriorare un rapporto a cui questi non si sente di rinunciare. Per questo l’auto-oppressione (presente anche fisicamente come ipertonia muscolare massiccia o “corazza caratteriale”) si protrae nella vita adulta e si consolida come tendenza all’autocontrollo. Questa sottigliezza può sembrare eccessiva o ingiustificata, ma se in analisi si concepisce l’atteggiamento masochistico come “l’effetto” di una oppressione esterna, si entra nel gioco del cliente e si finisce inevitabilmente per solidarizzare col vittimismo del cliente ostacolando la comprensione del suo modo di bloccare la rabbia, le richieste e l’espressione del dolore. Anche se in un certo senso la famiglia delle persone con atteggiamenti masochistici era opprimente, di fatto gratificava e frustrava, sollecitando il bambino a bloccarsi per mantenere qualcosa di buono a cui questi non voleva rinunciare. La madre vittimistica non impediva in modo diretto l’espansione emozionale del figlio, ma otteneva quel risultato in modi molto diversi, ad esempio stando in mezzo alla stanza a piagnucolare o dicendo di essere stanca di vivere ecc. Il bambino (o la bambina) decideva di chiudere la sua gola per non lasciarsi sfuggire un “no!” a causa del quale si sarebbe sentito colpevolizzato e svalutato. Con tale autocostrizione chiudeva la gola (in senso stretto, con l’ipertonia dei muscoli scaleni), incurvava le sue spalle (perché sentiva il “peso” di doversi proteggere da solo) e si “inchiodava” o si “impantanava” (irrigidendo le gambe) in una situazione orribile in cui però sapeva come andare avanti.

Consideriamo ora questo bambino dopo dieci, venti o cinquant’anni. In una situazione difficile teme di “andar via” perché in tal caso dovrebbe affrontare un antico terrore di restare senza punti di riferimento, brutti, ma sicuri. In una situazione particolarmente bella teme di lasciarsi andare al piacere perché in tal caso dovrebbe sentirsi “colpevole” di essere fortunato, libero e soggetto al disprezzo di chi (dal passato) lo accusa di pensare solo a se stesso. Finisce quindi per affezionarsi alle situazioni di oppressione che risultano sgradevoli, ma che può sostenere con le acquisite capacità di sopportazione maturate in anni di allenamento. Pur sentendosi molto attratto da tutto ciò che è riconducibile all’espansione ed alla libertà, di fatto fa di tutto per trovarsi in situazioni “da sopportare”. In esse si lamenta, si agita, si prefigura situazioni migliori, ma evita di fare drastici cambiamenti percependo di “non riuscire” a muoversi. Tende a non percepire la sua intenzionale propensione a rendere impossibili i cambiamenti auspicati e a non sentirsi responsabile del suo comportamento oggettivamente paralizzante ed autodistruttivo.

Questo atteggiamento può anche produrre disturbi fisici: senso di oppressione alla gola ed al petto, difficoltà nella respirazione profonda, facile affaticamento nel movimento fisico, voce piagnucolosa, ecc. Tali disturbi non hanno nulla a che fare né col cosiddetto “bolo isterico” né con i disturbi psicosomatici in senso stretto perché sono semplicemente disturbi “somatici”. Per essi, tuttavia, i medici possono fare poco. Se essi intuiscono una dinamica psicologica, facilmente vedono una inesistente depressione quando la persona si lamenta della sua “pena di vivere” (che è reale e dovuta all’auto-oppressione e non è di tipo depressivo) e possono quindi prescrivere inutili antidepressivi o ansiolitici che comunque non risolvono il problema. La soluzione elettiva per questi problemi è una psicoterapia analitica e non sintomatica, a condizione che almeno l’analista non scambi il tono lamentoso del masochista per un segnale di depressione, non faccia l’errore di “capire” la (pseudo)sofferenza esibita ed abbia molta determinazione nel cercare la sofferenza profonda che sta “oltre” la rabbia vittimistica.

E’ necessario che l’analista sia abbastanza empatico da rispettare la persona, ma abbastanza lucido da capire che la sofferenza del cliente è l’effetto di un’auto-repressione (con la quale il cliente evita di accettare il suo dolore antico).

Il lavoro analitico con queste persone si sviluppa prima di tutto nel difficile compito di far capire al cliente che egli sta costruendo la sua sofferenza attuale e non la sta “subendo”; quindi nel chiarire la rabbia implicita nell’autocontrollo; poi nell’accompagnare il cliente nel luogo della sua vera sofferenza, quella che “gli è davvero capitata”, e di cui è davvero vittima, anche se non può “dare la colpa” a nessuno. Sua madre era così, e magari anche suo padre non era un gran che. Tutto qui: avrebbe voluto una vera famiglia mentre in realtà i genitori erano più presi dai loro conflitti infantili che dalla loro reale responsabilità genitoriale. L’elaborazione del dolore profondo attraverso un vero lutto rende superflue le difese ed i sintomi che allontanavano dal contatto con i vissuti più temuti. Il cliente impara quindi a convivere con un dolore antico che aveva sempre evitato e non teme più che esso possa riaffiorare. Non ottiene alcuna “riparazione” per la vecchia sofferenza, ma diventa libero dalla paura di ricordare (e “ri-sentire”) e quindi può dedicarsi alla sua vita presente piuttosto che continuare a proteggersi dalla sua vita passata.

Per il lavoro con le persone che manifestano atteggiamenti masochistici sono stati suggeriti da Reich, Lowen ed altri particolari accorgimenti atti a prevenire una caduta della collaborazione cliente-analista ed a facilitare l’allentamento delle difese (sul piano fisico oltre che psicologico).

Una delle cose da tener presenti è la consolidata abitudine del cliente ad incurvare le spalle, stringere la gola e stare in un atteggiamento anche fisico di “sopportazione”. Egli è abituato a questa posizione e non la sente più come innaturale, e quindi, anche se si sente oppresso (deve sospirare spesso, oltre che lamentarsi) non percepisce di essere oggi responsabile di una auto-oppressione specificamente fisica.

Se l’analista si appoggia con tutto il suo peso sulle spalle del cliente facilita una maggior percezione da parte del cliente del suo blocco. Capita in genere che in questa situazione il cliente non avverta subito l’esigenza di liberarsi dal peso dell’analista, ma che “automaticamente” si ponga in una posizione di resistenza, di sopportazione che va subito notata e analizzata. Paradossalmente egli si impegna a sopportare e non pensa immediatamente di potersi liberare e magari avanza scuse del tipo “credevo che l’esercizio consistesse nel sostenere il tuo peso”. In tal caso si deve sottolineare che questa è una delle tante ipotesi possibili ed è l’unica che gli è venuta in mente, forse non a caso. Nella fase successiva del lavoro, invitando il cliente a liberarsi del peso dell’analista si produce un senso di sollievo. In tal caso non si deve considerare “terapeutico” questo risultato sul piano del benessere, ma si deve invitare il cliente a riflettere sul fatto che egli evita sempre di raggiungere questo tipo di sensazione proprio accettando pesi (psicologici) che potrebbe evitare. Il lavoro fisico, in casi di questo genere, serve infatti a produrre una comprensione profonda di ciò che il cliente fa e di ciò che il cliente di fatto evita; non serve a farlo “star bene” o ad “educarlo”. Con un banale e forse anche buffo lavoro fisico di questo genere si può indurre una certa consapevolezza del fatto che la persona in questione teme la “leggerezza”, la “libertà”, l’autoaffermazione, poiché associa tali sensazioni ad antiche svalutazioni, ridicolizzazioni o colpevolizzazioni.

Poiché le persone con carattere masochista tendono a sottolineare sempre ciò che li opprime per mantenere una situazione che è spiacevole, ma che sanno gestire, evitano accuratamente di chiarire cosa desiderano. L’espressione chiara di un desiderio conduce inevitabilmente al “che bello!” o “che peccato”, a seconda della risposta ottenuta, cioè conduce a stati emotivi in cui comunque la persona non “gestisce” nulla: sente una dipendenza piacevole o spiacevole che è un puro fatto reale. In analisi occorre abituare il cliente ad essere consapevole di avere dei desideri e di poterli esprimere e ciò richiede una certa insistenza da parte dell’analista, data la resistenza del cliente. Se l’analista chiede “perché sei venuto qui oggi?”, il cliente probabilmente dirà “perché dovevo rispettare l’appuntamento” e non “perché volevo lavorare su un dato problema”; se l’analista chiede “cosa vorresti? il cliente in genere risponde “non lo so” o comincia a descrivere le cose che non vuole. Occorre molta pazienza per aiutare il cliente a dare risposte pertinenti.

L’ostinazione a non concludere le cose avviate, dimenticare le sedute utili, minimizzare i risultati positivi non deve portare l’analista ad irritarsi, ma a continuare a fare il suo lavoro accettando che il cliente senta il bisogno di stare fermo. Tra l’altro il cliente tende proprio ad irritare l’analista, per poi cadere dalle nuvole, stupirsi per il “maltrattamento”, sentirsi vittima di un’ingiustizia ed infuriarsi “con la ragione dalla sua parte”. Le persone con atteggiamenti caratteriali masochistici sono (da sempre) così infuriate ed abituate a non arrabbiarsi nelle situazioni in cui ciò sarebbe costruttivo che cercano di provocare l’altro a “giustificare” una loro “reazione”. Il lavoro sulle provocazioni, ovviamente non è finalizzato a far “pentire” i clienti, ma a far loro capire per cosa sono davvero arrabbiati, da quanto tempo e con chi.

La sollecitazione ad ammettere o manifestare i desideri (ed anche a lavorare fisicamente assumendo posizioni di “richiesta” (come ad esempio il mantenimento delle braccia protese, o il “chiedere con gli occhi”, o il gesto di “tirare a sé” il braccio dell’analista che si oppone) producono o una (antica) emozione di dolore e di impotenza o una apparentemente incomprensibile rabbia. In entrambi i casi occorre giungere al chiarimento dei vissuti non elaborati. L’espressione del dolore col pianto produce uno stato di leggerezza ed anche di benessere che il cliente non è abituato a sentire. Ovviamente dopo una seduta “illuminante” egli può ripresentarsi la volta successiva con un senso di pesantezza e con una forte diffidenza per la possibilità di ottenere “risultati soddisfacenti” col lavoro analitico. Tutto ciò è da prevedere e da gestire in modo lineare senza scoraggiamenti inutili. Infatti il lavoro su tali atteggiamenti caratteriali va ripetuto e ripetuto finché il cliente non “mette assieme” tutti gli elementi cognitivi ed emotivi collezionati, in modo da poter ristrutturare tutto il suo quadro di riferimento.

Alberto Torre nei suoi seminari di formazione ricordava sempre che le persone con atteggiamenti masochistici tendono a non chiedere, ma chiedono facilmente di “essere aiutati a cambiare”. In ciò cedono all’analista la responsabilità dei loro cambiamenti attivandosi per una sfida. Se l’analista comincia a “sentirsi responsabile” farà di tutto ansiosamente con l’unico risultato di cozzare contro una insormontabile resistenza passiva. Alberto Torre suggeriva di sottolineare il fatto che il cliente chiede un miracolo e suggeriva di chiarire che in seduta si può solo lavorare assieme. I clienti tendono ad alternare atteggiamenti insoddisfatti e minimizzanti per il lavoro analitico e atteggiamenti di sottomissione e ammirazione (irrealistica) per l’analista. La iper-considerazione dell’analista è una trappola che serve solo a delegare all’analista la responsabilità di fare miracoli ed anche a far sentire importante l’analista per poi farlo sentire un vero incapace. In quest’ultimo gioco il cliente esprime una sorta di competizione sleale con l’analista in cui, senza rischiare nulla, “supera” l’analista dimostrando che questi è più incapace di lui. Infatti le persone che si umiliano, si avviliscono e si svalutano, celano da qualche parte una forte arroganza competitiva. Alberto Torre sottolineava sempre anche il fatto che il lamento delle persone con difese caratteriali masochistiche funzionava come una esibizione al negativo. Il lamento serve in tale prospettiva a soddisfare impulsi esibizionistici nell’unica modalità tollerata dal genitore frustrante (o “castrante”). Si può dire che in questa prospettiva le persone che agiscono difese masochistiche evitano di affermarsi: sono impegnate non già ad ottenere soddisfazioni “attuali” ma ad evitare di sentire un dolore antico. Inevitabilmente l’elaborazione dei vissuti ricolloca emotivamente le persone nel presente, e nel presente l’autoaffermazione è necessaria ed anche possibile.

Nella chiave di lettura vegetoterapica, il carattere masochistico implica un blocco importante nella gola ed un altro nel bacino (posto che è presente anche una forte tensione diaframmatica). Nel lamento la persona ottiene una scarica della tensione molto limitata verso l’alto e nell’orgasmo “controllato” ottiene una scarica limitata della tensione verso il basso. Alberto Torre ricordava che spesso i clienti (soprattutto maschi) con forti atteggiamenti masochistici tendono ad aumentare l’eccitazione sessuale ed a scaricarla nell’orgasmo mantenendo una forte contrazione delle gambe e del bacino, come se il piacere sessuale dovesse venir “spremuto” piuttosto che “espresso” o “liberato”. Invitava a consigliare ai clienti di evitare quella ricerca parziale della scarica genitale nel sesso, di cercare un piacere sessuale legato alla tenerezza, di lasciarsi quindi “inondare” dall’eccitazione. In tal modo i clienti potevano anche attraversare un periodo di impotenza, ma una volta accettate le sensazioni profonde di eccitazione crescente, potevano poi tollerare anche la scarica involontaria e completa dell’orgasmo.

Ci sono due difficoltà da considerare nel lavoro sugli atteggiamenti masochistici: da un lato si deve tener presente che finché l’analisi non approda ad una solida conclusione, ogni miglioramento è temporaneo e seguito da un ritorno (pure temporaneo) al pantano di partenza; da un altro lato si deve prevedere che ogni cambiamento profondo del cliente cozzerà con le aspettative nevrotiche del/della partner.

Per lasciare al cliente la responsabilità dei suoi cambiamenti, quando egli manifesta soddisfazione per i miglioramenti ottenuti, è opportuno sottolineare che il lavoro non è finito e che ci saranno altre difficoltà da superare. In questo modo, nella “ricadute” sarà più facile superare il senso di sconforto ed evitare la delusione accusatoria e l’incrinatura nella collaborazione analitica. Per affrontare nei tempi e modi necessari gli ostacoli che prima o poi il/la partner produrrà al cambiamento, bisogna tener conto di un fatto: le persone con un carattere masochistico sono persone noiose e pesanti, anche se piene di tante qualità; quindi il partner che le ha scelte presumibilmente trae dei vantaggi psicologici dagli atteggiamenti lamentosi e dagli eventuali sintomi esibiti. Nel caso di cambiamenti profondi, il/la partner si troverà spiazzato e perderà il suo tornaconto infantile in una relazione “patologica”. E’ importante, nel caso di una crisi nel rapporto sentimentale, aiutare la persona in analisi a capire che il/la partner ha dei problemi e non è “il nemico” o “l’oppressore” e che egli deve accettare il dolore di una crisi o di certi rifiuti per poi assumersi la responsabilità di affrontare nel modo più costruttivo la situazione”.

Quando l’analisi arriva ad una ristrutturazione della “concezione della realtà” del cliente e ad un cambiamento (nel senso di una maggior profondità) della sua dimensione emozionale, questi si sente libero di rifiutare qualsiasi ricatto: infatti se ha la capacità di piangere (non di fare “crisi di pianto”) per ciò che non può avere e di dire “no!” a ciò che non vuole … è anche libero di dire dei “sì” e di correre i rischi che ogni slancio positivo comporta. In questa nuova condizione, la persona non ha più bisogno delle tensioni con cui controllava il pianto e la rabbia. Affiorano sensazioni di leggerezza e diventano possibili le relazioni soddisfacenti.

Altri cambiamenti significativi possono riguardare il più ampio modo di essere nel mondo. Vivere nell’autocontrollo, cercare situazioni insoddisfacenti in cui sentirsi trattati ingiustamente era facilitato da scelte perdenti o inconcludenti. A volte le persone con carattere masochistico pur avendo brillanti capacità “giocano male le loro carte” o “perdono le buone occasioni” per evitare di occupare posizioni sociali soddisfacenti o di realizzare relazioni interpersonali appaganti. Spesso le persone con carattere masochista non concludono (magari con delle buone scuse) gli studi e si trovano a dover poi occupare posizioni lavorative non adatte alle loro capacità (consolandosi con l’idea di essere più intelligenti o capaci dei loro capi); oppure (con altre scuse) non si impegnano con un partner veramente desiderato e sposano un partner poco attraente. In altri casi fanno una buona carriera ma poi riescono a rovinarla o distruggono un rapporto sentimentale molto solido e soddisfacente. La paura di essere felici (e di perdere la possibilità di lamentarsi) e la paura di essere più “fortunati” di un genitore che ostentava la sofferenza per la brutta vita che “doveva sopportare” sono potenti molle che strutturano copioni di vita perdenti. Una volta che la persona si libera dal bisogno di sentirsi umiliato (e di reagire silenziosamente con rabbia e sopportazione), può permettersi anche un sano “esibizionismo” che non è sfrontatezza o competitività, ma rispetto per la propria vita, anche se ciò può non piacere ad un (reale o immaginario) pubblico di vittime.

Atteggiamenti masochistici sono presenti anche in persone piuttosto integrate e mature che si affermano in alcuni ambiti della loro vita e che falliscono solo nelle relazioni lavorative o sessuali.

Quando un determinato ambito della vita non viene gestito in modo costruttivo e quando i fallimenti vengono accolti come se fossero “previsti” o “scontati” è presente una descrizione della vita non realistica che porta all’autocompatimento.

La rabbia presente nel lamento masochistico è riconducibile alla convinzione che “ciò non è giusto”, come la rabbia tipica dell’atteggiamento depressivo. Questo accade semplicemente perché qualsiasi tipo di rabbia difensiva equivale sul piano cognitivo all’identificazione di una (presunta) ingiustizia. La rabbia “espansiva” e “costruttiva” nelle situazioni in cui è ragionevole combattere rinvia invece ad una premessa cognitiva del tutto diversa riassumibile nell’espressione “io non voglio tutto ciò”. Nella rabbia non difensiva c’è una piena assunzione di responsabilità per un proprio rifiuto di qualcosa che non corrisponde ad aspettative irrinunciabili. Tuttavia, mentre il “non è giusto” implicito nell’atteggiamento masochistico si accompagna alla convinzione che ci sarà un’ennesima cosa da sopportare, nella situazione depressiva si accompagna alla convinzione che, essendo la realtà insopportabile, deve esserci una salvezza (esterna). La persona con atteggiamenti caratteriali masochistici deve ritrovare al di là del lamento superficiale (“non è giusto”) la sua rabbia profonda e mai espressa: “tutto ciò non mi va bene!”

Solo l’accettazione del dolore rende (da adulti) davvero presenti nella realtà, dato che la realtà è stata e continua ad essere (anche) dolorosa. Rende possibile arrendersi se una sconfitta è inevitabile e rende possibile combattere se una vittoria è possibile.

La vita non è semplicemente bella o dolorosa, perché è un misto di opposti che ci rendono comunque intensamente coinvolti con gli altri nei momenti belli ed in quelli brutti. Un copione vincente non rende la vita bella come una favola, ma rende noi stessi liberi di accettare sia i momenti belli che ci capitano e che ci costruiamo, sia quelli brutti che sono inevitabili. L’uscita dal binario del masochismo rende quindi le persone più inclini a soffrire in modo semplice e autentico nei momenti dolorosi, ma le rende anche libere di ampliare per quanto è possibile la classe delle esperienze piacevoli e di approfondire la capacità di godere in esse.

Il lavoro analitico non porta queste persone ad acquisire un senso di integrità e sicurezza (che già hanno), ma a percepire un profondo senso di libertà e di leggerezza che renderà anche “normale” il buon umore. Permetterà inoltre di non sentire alcun pericolo o colpevolezza nell’ammettere e accettare di poter essere più felici di altri. Ovviamente le renderà molto competenti nell’evitare le trappole colpevolizzanti delle persone simili alla figura genitoriale rispetto a cui si erano arrese, perché avendo elaborato il lutto per la mancanza antica sentiranno come tollerabile la separazione da chi, lamentandosi, le vuole manipolare.

4. Atteggiamenti caratteriali masochistici presenti in complesse strategie difensive

Il limite fondamentale costituito dai trattati di psicoterapia classici centrati sulla tipologia caratteriale sta nel fatto che non rispecchiano alcuna effettiva realtà clinica. Il “carattere masochistico”, come qualsiasi carattere “puro”, non esiste. Non solo si hanno differenze “quantitative”, a seconda dell’intensità dell’atteggiamento difensivo in questione (per cui una persona gravemente masochistica può essere realmente insopportabile ed una persona lievemente masochistica può essere decisamente gradevole pur manifestando a volte momenti di chiusura); si hanno soprattutto differenze “qualitative” poiché le persone presentano un unico e personalissimo orizzonte esistenziale in cui rientra anche un complesso intreccio di atteggiamenti difensivi, tra i quali possono avere un ruolo quelli masochistici.

Personalmente trovo molto difficile (se possibile) una diagnosi caratterologica comprensiva delle varie “componenti” caratteriali e non credo comunque che l’accuratezza diagnostica, per quanto importante, costituisca l’elemento determinante per lo svolgimento di un buon lavoro analitico. I “reichiani ortodossi” della scuola statunitense si sono orientati verso una sorta di estremismo classificatorio cercando di incasellare i clienti in base ad una struttura caratteriale specifica e ad un ulteriore “blocco” qualificante (“represso” o “insoddisfatto”) descrivendo ad esempio casi di “carattere X con blocco Y represso o insoddisfatto”. Essi ottengono la parvenza di una sistematicità che sembra chiarire le radici dei disturbi individuali, mentre in realtà le situazioni problematiche delle persone sono sempre particolarissime e irriducibili a qualsiasi schema. Anche nelle presentazioni meno biologistiche, il carattere è comunque concepito come una “struttura che limita l’espansione individuale” e tale prospettiva rischia di non cogliere adeguatamente la dimensione intenzionale di qualsiasi difesa o sintomo.

Nell’infanzia, i bambini che devono fronteggiare situazioni più o meno gravi ma comunque troppo dolorose, assumono atteggiamenti difensivi in un modo attivo, intenzionale, che si traduce in qualcosa che è anche struttura, ma soprattutto progetto. Il bambino sceglie cosa sentire, come sentirlo, come percepirsi, come pensarsi, come mostrarsi, verso cosa orientarsi, cosa evitare e come. Non si limita a bloccare o frenare dei comportamenti (o la sua “energia”) ma si proietta in un certo modo verso gli altri, verso la vita, verso il futuro.

Nel lavoro analitico, mentre costruiamo la “mappa” delle difese osservando cosa una persona cerca di ottenere agendo in modo non costruttivo, delineiamo gradualmente anche la “mappa” delle specifiche sofferenze con cui la persona non vuole entrare in contatto e che presumibilmente sono state intollerabili nell’infanzia. Questo lavoro non porta mai a “collocare” le persone in una particolare casella di un sistema generale, ma a lavorare in modi che potrebbero essere definiti “su misura”. L’osservazione degli atteggiamenti riconducibili alle varie dinamiche caratteriali rientra in questo processo come uno dei vari aspetti da considerare, perché, se collocato troppo in rilievo rischia di reificare il cliente rendendolo un “dato oggettivo”, ovvero un individuo che “porta in sé” “qualcosa su cui intervenire” secondo modalità prevedibili.

In altre parole, mentre l’analisi dell’intenzionalità difensiva lascia sempre al cliente il ruolo di persona ed all’analista la responsabilità di confrontarsi con tale cliente sulle ragioni del suo agire, l’incasellamento caratteriale produce almeno la tentazione di trattare il cliente come un “caso clinico” a cui “applicare” la “giusta terapia”. Credo in altre parole che il superamento della concezione caratterologica renda possibile un approccio più rispettoso perché meno oggettivante.

Ho riscontrato strategie masochistiche in persone molto diverse fra loro e quasi mai in persone ragionevolmente riconducibili al tipico “carattere masochistico”. La tendenza a prediligere situazioni spiacevoli scartando precise opportunità di realizzazione personale, l’esibizione di rabbia vittimistica, l’evitamento di scelte adatte a modificare una situazione insoddisfacente, la preferenza per rapporti distruttivi, l’evitamento di rapporti appaganti (e tali da rendere intensa la reale dipendenza affettiva) e persino la presenza di fantasie masochistiche di tipo sessuale sono facilmente riscontrabili in persone molto diverse. Anche il lavoro analitico ha esiti diversissimi a seconda dell’insieme delle risorse adulte disponibili e delle altre tendenze difensive di ogni cliente. Un atteggiamento masochistico può essere facilmente gestibile con un cliente che manifesta un discreto contatto con la realtà mentre può essere molto difficile da affrontare con un cliente che usa spesso e con grande efficacia le difese più “primitive”.

Le domande fondamentali che comunque l’analista si deve fare sono le seguenti:

– cosa risulta incomprensibile (irragionevole) nella strategia di vita del cliente?
– come tale cosa incomprensibile può risultare comprensibile in una logica difensiva?
– quali obiettivi la persona sta di fatto perseguendo?
– quali vissuti sta evitando?
– come aiutare questa persona ad entrare in contatto con tali vissuti fino a non temerli più?

In questo processo analitico, pur tenendo presenti le componenti caratteriali manifestate, è soprattutto importante cercare la logica, lo scopo dell’agire di una particolare persona che ha attraversato l’infanzia prima di trovarsi nella vita adulta e che continua da allora a cercare le cose (allora) indispensabili e ad evitare le cose (allora) intollerabili. In altre parole la cosa essenziale da considerare è che la persona con cui facciamo un lavoro analitico non è “affetta” da una determinata “malattia” o “limitata” da una precisa e catalogabile struttura caratteriale, ma sta agendo e costruendo un unico percorso esistenziale perseguendo sia obiettivi realistici dipendenti da desideri attuali, sia obiettivi stabiliti nel suo passato quando le sue risorse erano ben più limitate.

5. Alcune sedute

Con un cliente, che chiamerò Renato, avevo lavorato per circa un anno, senza però affrontare i risvolti masochistici della sua strategia difensiva. Mi ero concentrato più sulla sua accondiscendenza (e sulla sua illusione di essere amato in quanto capace di soddisfare le aspettative materne) che sull’atteggiamento lamentoso col quale indirettamente dichiarava di essere schiacciato dalle responsabilità della vita. Il quadro generale delle sue varie difese potrebbe essere sintetizzato così: condivideva le svalutazioni materne considerandosi “indegno” di essere accettato; si attivava per eccellere nelle situazioni interpersonali di studio e di lavoro; si sentiva oppresso e si lamentava di tutto (del caldo, del traffico, del troppo lavoro, ecc.). Avendo capito in una psicoterapia precedente la profondità dell’ostilità di sua madre rispetto a lui (oltre che rispetto al marito ed a tutto il mondo), egli parlava della distruttività materna con lieve tristezza o ironia o distacco. Nell’anno di lavoro con me aveva toccato sentimenti di profondo dolore per la distruttività materna, sulla quale ormai non scherzava più ed aveva cominciato ad accettare l’idea che il suo impegno poteva renderlo stimato ma non amato. Tuttavia, poiché non si era ancora confrontato con tutto il dolore della sua infanzia, e non si era liberato della fatica di piacere agli altri, utilizzava ancora le sue modalità lamentose che lo facevano sentire comunque “forte” nel ruolo difensivo di chi ha molta “resistenza” nelle situazioni avverse. Lo stato d’animo che ne risultava lo proteggeva dal dolore profondo di non sentirsi amato ovvero dall’impotenza ad ottenere ciò che più desiderava (indipendentemente dal fatto irrilevante di essere molto “potente” a “sopportare” le situazioni pesanti).

In una seduta del secondo anno di analisi decisi di affrontare il lato masochistico del suo carattere, partendo da una sua comunicazione iniziale.

R. In questi giorni mi ero chiuso con la mia ragazza, che aveva avuto un atteggiamento critico nei miei confronti, ed in quello stato d’animo mi ero trovato a fare involontariamente dei guai a cui lei aveva reagito con ulteriori proteste. Più temevo di sbagliare e più risultavo “imbranato”. Sono però riuscito a vuotare il sacco e a parlarle di quanto mi ferisse il suo atteggiamento da maestrina. Ho pianto con lei e anche lei ha pianto con me. Ci siamo ritrovati vicini, e in qualche modo leggeri dopo quelle poche giornate di “guerra fredda”. Ho poi sognato che qualcuno voleva aggredirmi, ma mi sentivo protetto dalla mia fidanzata.

GF. Puoi collegare questi due personaggi del sogno a due parti di te?
R. Quando mi tengo dentro tutto in qualche modo mi aggredisco.
GF. Tu sai fare ad aggredirti, magari per proteggerti dal dolore, opprimendoti, controllando la tua espansione. Per fortuna sai anche fare a “vuotare il sacco” e a dire cosa non vuoi e cosa desideri. Normalmente però comunichi solo di essere stanco, troppo impegnato, stressato. Ti lamenti. Fai qualcosa di irrilevante sul piano della realtà, come quando dici “Non se ne può più di questo caldo” ad una persona che ovviamente è già a conoscenza della situazione. Se fai interventi irragionevoli di questo tipo, cerchi solo di dare un sollievo minimo a quella pressione che tu stesso crei nel petto e nella gola trattenendo le cose più significative
R. Nella gola e nel collo sento infatti spesso della tensione. Un po’ anche ora.
GF. Forse lì leghi l’apertura del “sacco”. Vuoi lavorare un po’ su quella tensione?

Qui Renato comincia a fare un po’ di difficoltà, a suggerire di rinviare il lavoro a quando avremo più tempo, ma alla fine si rende conto di temere che il lavoro fisico possa aggirare il suo controllo.

Lo invito ad urlare con tutta la sua voce appena sentirà il dolore provocato da una lieve pressione che farò in un punto delicato e presumibilmente ipertonico all’interno della sua bocca. Come spesso accade smette di urlare appena interrompo la pressione e gli ricordo che non deve interrompere l’urlo. Al secondo tentativo lascia uscire un grido prolungato e molto forte che lo lascia un po’ spiazzato, date le sue consuete “difficoltà” rispetto al lavoro fisico ed all’uso forzato della voce. Avverte un profondo senso di rilassamento e di “leggerezza”. Non piange, ma sembra stia controllando un pianto molto profondo.

Cerco di spostare la sua attenzione dal superficiale benessere ottenuto al fatto di aver sempre evitato le possibilità espansive capaci da farlo sentire bene. Mi propongo quindi di arrivare a fargli sentire quanto avrebbe voluto sperimentare il contatto piacevole e quanto sia stato determinato a irrigidirsi in un autocontrollo che lo faceva sentire oppresso ma forte.

GF. Chi vorresti qui, con te, a condividere il piacere di questa leggerezza?
R. Mia madre. Però lei non potrebbe stare con me in questa sensazione così delicata.
GF. Mi piacerebbe darti qualcosa che potesse ripagarti di questa mancanza. Il mio affetto e la mia partecipazione vanno però all’unico Renato che conosco, cioè all’uomo. Niente può giungere al bambino che senti dentro ma che non esiste più nella realtà e che non può quindi ricevere più nulla.
R. Lo so. Lo so.

Mi abbraccia e si lascia andare ad un pianto lungo e profondo.

Nella seduta successiva torna sull’argomento e mi comunica che si è sentito bene nel toccare più in profondità il suo dolore e nell’esprimere liberamente l’emozione, ma è stato molto colpito anche dal fatto di scoprire che è una persona che tende a lamentarsi. Non ne aveva consapevolezza.

Il “pantano masochistico” pur implicando comunque una logica difensiva diversa da quelle appartenenti ad altri atteggiamenti caratteriali, può manifestarsi in modi molto diversi. Il “pantano” può ridursi ad un ritiro dalla vita sociale apparentemente autoaccusatorio o in ripetute comunicazioni agli altri relative alle difficoltà della vita. In altre persone il pantano può manifestarsi in lamentele melodrammatiche decisamente esibizionistiche e tali da risultare addirittura ridicole. I momenti di apertura e di empatia possono essere molti o pochi, superficiali o profondi. L’intenzionalità difensiva può quindi realizzarsi secondo modalità anche molto diverse.

Sedute “significative” sono a mio avviso anche sedute in cui non si arriva a nessun esito limpido, veramente chiarificatore o tale da toccare emozioni profonde. Tali sedute illustrano il fatto che il lavoro analitico in generale e quindi anche quello sulle difese masochistiche non è un insieme di sedute “epiche”. Le sedute emotivamente più significative costituiscono l’esito di un lento processo di indagine sui vari ambiti in cui il cliente attua certe difese. Ogni elemento rilevante sul piano cognitivo e/o emotivo prepara la strada ad una ristrutturazione della visione della realtà.

In questa seduta, una cliente che chiamerò Delia esordisce riprendendo ciò che era stato sottolineato nell’incontro precedente.

D. Mi riconosco nella posizione di persona “piantata in terra”, di cui avevamo parlato. Però non vedo alternative. Quando penso alla possibilità di dire sempre quel che penso o anche di provare qui, nella seduta, ad urlare le cose che sento dentro … mi sembra di essere incapace.
GF. Se quando hai suonato il campanello del mio studio io non avessi risposto e se mi avessi visto dall’altra parte della strada che ti gridavo “Sto arrivando, puoi aspettarmi?”, cosa avresti fatto?
D. Ti avrei risposto di sì.
GF. E come ti saresti fatta capire in mezzo a quel traffico?
D. So dove vuoi arrivare. Avrei urlato “sì”. Però…
GF. Dunque sei capace di urlare. Il problema vero è un altro: cosa senti o vedi dentro di te se pensi alla possibilità di urlare?
D. Se mi vedo urlare vedo mia madre che “tira su il muro”. Non c’è più. E’ lì ma è come se non ci fosse.
GF. E cosa ti dice con quel “muro”.
D. Che non valgo niente.[Le trema la voce e le si inumidiscono gli occhi]
GF. In quella scena c’è il tuo dolore. In momenti di quel tipo, da piccola, hai deciso di non urlare e hai deciso così perché sentivi di non tollerare quella svalutazione e perché sentivi di tollerare il tuo autocontrollo. Obbedendo e considerandoti vittima di un ricatto hai sentito di essere forte e di avere diritto a qualche “risarcimento” E ti sei affezionata a questa modesta ma positiva sensazione di forza.
D. E’ così.
GF. In quello stato d’animo da vittima, per quanto a disagio, senti di avere una capacità di gestire la situazione, di portarla avanti senza sorprese. Quel “pantano” ti opprime ma ti affascina anche. Puoi quindi cercare di riprodurre anche con me quel braccio di ferro. Io ti invito al lavoro fisico e tu resti buona e zitta. Mantieni la tua ribellione nella passività, nel trattenerti. Fai la brava venendo alle sedute, ma non me la dai mai vinta, come se io fossi il tuo nemico anziché una persona che lavora con te su tua richiesta. Inoltre, eviti di sentire dei vissuti che hai già classificato a suo tempo come troppo dolorosi.
D. D’accordo, potrei lavorare un’ora qui con te urlando come una matta quello che voglio, ma non so nemmeno cosa voglio!
GF. Forse sei nevrotica, ma non stupida. Anche adesso non mi dici la verità.

Il dialogo prosegue su questa linea. Delia mi dà risposte che sono più provocazioni che vere risposte, prende tempo, esita, ascolta e riflette, fino alla fine dell’ora. A volte sta per piangere, ma lascia uscire solo due lacrime più per mostrarmi che soffre che per esprimere la sua vera sofferenza. Noto quel che fa, si asciuga le lacrime e prosegue sulla stessa linea di “non dialogo”. Alla fine dell’ora non ha ceduto su nulla, ma ha almeno ammesso di essere ostinata e di fare una opposizione che la fa sentire forte.

Una cliente che chiamerò Bianca inizia la seduta comunicandomi di aver fatto il lavoro a casa che le avevo suggerito. Poiché il tema dell’incontro precedente era stato quello dei “no” trattenuti, le avevo suggerito di scrivere i “no” che in tutte le epoche della sua vita aveva evitato di esprimere.

All’inizio mi elenca varie frasi riconducibili al rifiuto del ruolo attribuitole dalla madre: Bianca non solo doveva arrangiarsi da bambina quando era in difficoltà o aveva paura, ma doveva anche rassicurare la madre ed assisterla quando questa manifestava le sue paure infantili e nevrotiche. In sostanza, queste varie frasi (raggruppabili nell’insieme x) riguardano il rifiuto di continuare a nascondere la paura e la protesta per il dovere di fare da madre alla madre.

Poi mi racconta una serie di episodi (raggruppabili nell’insieme y) di violenze subite: dai clisteri che per la madre sembrava guarissero tutto, alle proibizioni paterne relative alle uscite serali nell’adolescenza. A tutte queste violenze aveva sempre reagito con rabbia, con prontezza e con un discreto successo. Dopo la prima volta, fin da piccola non aveva più subito clisteri (scappando, urlando, chiudendosi in camera) e da adolescente aveva mantenuto l’idea che le repressioni paterne fossero irragionevoli.

Faccio notare a Bianca che rispetto alle situazioni del gruppo x era diventata obbediente, mentre rispetto a quelle del gruppo y era stata sempre ribelle.

B. Nelle situazioni del gruppo y era chiara la violenza. Forse nelle situazioni x non capivo quanto fosse penoso adattarmi.
GF. Non credo; i bambini capiscono benissimo queste cose.
B. Io avevo bisogno che lei stesse con me. Se mi ribellavo ad una richiesta particolare si arrabbiava, ma non succedeva nient’altro. Se invece rifiutavo quel ruolo mi sentivo colpevole.
GF. Forse venivi realmente colpevolizzata anziché semplicemente sgridata.
B. Sì. Anche se non temevo che mia madre mi abbandonasse, temevo che potesse star male per colpa mia. Credo che qualche volta mi abbia detto che la facevo piangere.
GF. Tu temi il dolore della colpevolizzazione e preferisci sentirti infuriata in silenzio, magari senza dirlo nemmeno a te stessa. Nel ruolo di vittima senti di avere una capacità di resistere che temi di non avere nel ruolo del “carnefice di tua madre”. Hai imparato a controllarti e in tal modo a star male senza soffrire davvero.
B. Così, ripetendo la solita scena evito di correre dei rischi.
G. Già.

6 Alcuni momenti di un percorso analitico

Descriverò alcuni passaggi significativi tratti dal percorso analitico di un cliente che chiamerò Michele, il quale manifestava una marcata componente masochistica tra i suoi atteggiamenti difensivi. Egli dichiarò fin dal colloquio iniziale di voler essere “guarito” da un disturbo che egli (in modo inesatto) definiva “depressione” e con cui in realtà manifestava una spiccata tendenza a restare ostinatamente in un “pantano” caratterizzato da pseudo-incapacità ad agire, noia, insoddisfazione e vittimismo. Evidenzierò, riportando sedute molto distanti nel tempo, che questa persona riusciva a tornare al punto di partenza quando, dopo aver fatto dei sensibili miglioramenti, sentiva con angoscia di poter abbandonare del tutto la sua identità di “persona in difficoltà” e di potersi pensare come soggetto adulto, quindi libero di accettare o abbandonare le persone con le quali si sentiva coinvolto affettivamente.

All’inizio del nostro rapporto aveva trentacinque anni, faceva un lavoro indipendente, non aveva figli. Era sposato, ma riusciva a mantenere con la moglie un equilibrio basato soprattutto sulla reciproca silenziosa sopportazione. Tale equilibrio comportava anche occasionali scontri ma escludeva di fatto qualsiasi reale chiarimento.

In una delle prime sedute mi disse alcune frasi che ora riporto perché risultano indicative del suo modo di “aggiustarsi le cose”.

M. Mi sento più o meno come l’altra volta, anche se un po’ più calmo. Starei volentieri zitto e fermo.

GF. OK, partiamo da qui. Vuoi lavorare un po’ su questo tuo stato d’animo?
M. Va bene.
GF. Allora, stenditi e ripeti la frase “ho voglia di stare zitto e fermo” alcune volte, in modo da entrarci bene in contatto.
M. [Dopo aver ripetuto alcune volte la frase] Io sono un salsicciotto, zitto e fermo. Sono anche teso e temo che qualcosa possa venir fuori. Mi considero inutile e scontento, schiavo di me stesso. Sento tensione al collo e nella zona lombare.
GF. Cosa senti di volere, ora?
M. Vorrei essere lasciato in pace. Mi viene in mente la situazione tipica in cui sto male con Piera [la moglie] e le chiedo di lasciarmi solo. Mi sento anche un po’ in colpa perché potresti pensare che chiedo a te di lasciarmi in pace. C’è però una cosa: io vorrei essere aiutato da te, ma tu mi dici sempre che sta a me fare le cose o non farle.
GF. Vorresti il mio aiuto per quale obiettivo?
M. Per venirne fuori.
GF. Sei troppo generico.
M. Non so. Vorrei che tu mi dicessi cosa fare.
GF. Prova a ripetere la frase “farò quel che mi dici”, fino a sentirla bene.
M. [Lo fa] Vorrei che tu mi facessi entusiasmare per qualcosa.
GF. Dunque vuoi che ti faccia sentire una cosa diversa da quella che senti, cioè che ti faccia diventare un altro Michele. Ma questo Michele cosa vuole da me, realmente?
M. Io vorrei che mi parlassi delle cose che ti piacciono, così, forse diventerei più positivo.
GF. Cioè, tu pensi di far schifo, ma di poter diventare più “positivo” grazie ad una mia spinta.
M. Così come sono non credo di poter essere accettato, amato. Credo di essere amabile solo se dò certe cose agli altri. A volte è come se mettessi alla prova Piera: esaspero la mia negatività per vedere se mi ama lo stesso.
GF. Questa è una sfida, è una guerra. Forse non sei così d’accordo sul fatto di essere amabile solo se diventi qualcun altro.
M. Non so. Se però Piera è dolce con me, sento subito il dovere di attivarmi per fare all’amore e poi mi sento irritato. E Piera si irrita per la mia irritazione.
GF. Immagina di essere nato da poco e di essere in braccio a tua madre senza dover far niente.
M. Mi è difficile immaginare questa scena. Credo che lei non sia capace di amare. Forse ho della rabbia. In passato quando rompevo con una ragazza protestando per quel che non andava fra noi, dicevo di non volerla vedere mai più, ma speravo che lei insistesse per restare con me, nonostante il mio rifiuto. Vorrei essere amato anche se mi comporto male. Ora lo faccio di meno, ma un po’ lo faccio ancora. Non credo di essere amabile e se mi si dimostra amore non ci credo e voglio una dimostrazione.

In questa conversazione iniziale risulta evidente la chiave di lettura bizzarra che il cliente usa per “spiegare” il suo comportamento. Dice di voler “prove d’amore” perché non si sente amabile. In realtà cerca di dimostrare che non è amato trovando prove nel fatto che in genere la gente lo rifiuta per il suo comportamento rifiutante. La sua ammissione di una certa ostilità verso la madre o la moglie indica che in realtà egli non crede affatto di non essere amabile, ma crede (ai margini della sua consapevolezza) di essere amabile e di essere ingiustamente rifiutato. La modalità difensiva per l’evitamento del dolore relativo al rifiuto subito consiste 1)nel sentirsi pregiudizialmente non amato e pregiudizialmente infuriato, 2)nel negare la rabbia e 3) nell’esprimere indirettamente la rabbia con la pretesa di essere amato mentre rende difficile la vita alle persone da cui desidera l’amore. Ovviamente ottiene rifiuti che in parte (a parole) comprende e che in profondità giudica ingiusti e resta in una posizione di immobilità ostile in cui sa di poter resistere senza soffrire davvero perché comunque gestisce sia l’autosvalutazione superficiale, sia il disprezzo profondo per gli altri in una chiave vittimistica.

Questo gioco ha molte varianti nelle diverse persone. C’è chi non pretende l’accettazione se mostra i lati peggiori, ma si accontenta di essere accondiscendente per poi dichiararsi vittima di una forma di sfruttamento. C’è chi rimane stabilmente nel pantano concedendosi occasionali “sfoghi” e c’è chi dopo un po’ rompe il rapporto rabbiosamente per poi cercare un altro rapporto identico. Tuttavia è tipico il senso di oppressione attribuito ad una situazione interpersonale mentre in realtà tale oppressione è dovuta ad una forma di accondiscendenza e autocontrollo.

In una seduta svolta tre anni dopo l’inizio del lavoro, Michele mi comunica la sua soddisfazione per aver finalmente parlato alla moglie con franchezza e mi dice che facendo all’amore ha avuto la consapevolezza (del tutto nuova) di fare un’esperienza personale, totale, e non un semplice atto riguardante parti del corpo specifiche. Mi comunica anche di aver sentito astio in una particolare occasione rispetto a Piera e quindi di aver riattivato una “vecchia chiusura”. Lavorando su questa situazione emotiva protesta contro un presunto “soffocamento”, ma poi, ammette di essere arrabbiato (e, più in profondità, addolorato) per il fatto che la moglie negli incontri sessuali manifesta un’apertura che poi blocca nella vita quotidiana.

GF. Allora il problema non è il “soffocamento” ma la distanza che lei mette.
M. E’ vero. Quando sento molto dolore scappo ancora arrabbiandomi nel modo “comodo”, cioè dichiarando che voglio stare in pace. La verità è che starei con lei e soffro quando avverto quella distanza.

Comunicandomi questa comprensione della sua difesa è commosso. Non ha ancora preso familiarità con il pianto e non ha quindi esplorato l’intensità del suo sentimento. Tuttavia è ormai consapevole delle sue emozioni difensive e superficiali e di quelle profonde e autentiche.

Come accennavo, i cosiddetti “passi avanti” sono sempre precari finché tutta l’impalcatura della strategia difensiva masochistica non è crollata. A riprova di ciò, riporto una seduta verificatasi pochi mesi dopo questi miglioramenti.

M. A volte lotto ancora col mio dolore e divento passivo ritirandomi nel non far niente, nel guardare la TV e cose simili. Forse vorrei esprimere rabbia e non lo faccio. Finisco per arrabbiarmi con me stesso per il fatto che spreco il mio tempo.

Lo invito a lavorare sull’espressione fisica della rabbia, ma è meccanico, svogliato, non collaborativo. Noto queste cose e mi risponde che è stufo di lavorare sempre sulle solite cose e che vorrebbe solo stare in pace. Rispondo che posso andare nell’altra stanza per un po’, per lasciarlo “in pace” e che può chiamarmi appena sente di voler riprendere il lavoro con me. Si infuria, getta sul tavolo il denaro per il mio onorario e si dirige verso la porta mettendo l’impermeabile mentre procede lungo il corridoio.

Lo raggiungo e lo blocco fisicamente invitandolo con molta fermezza ad interrompere subito questa sceneggiata. Gli ricordo che ha già tutti gli strumenti per capire che non sta “esprimendo” nulla di se stesso ma sta solo cercando di portare al limite estremo un gioco vittimistico. Gli ricordo soprattutto che dobbiamo lavorare su quel gioco anziché fare quel gioco.

GF. Quindi, ti prego, non fingere di voler essere lasciato in pace, come se fossimo estranei. Cerca di avere il coraggio di dire cosa vuoi davvero.
M. Io voglio essere trattato con comprensione, con dolcezza. E invece vanno tutti via.

Qui egli compie il passaggio da un desiderio (anche) attuale ad un bisogno antico che era stato frustrato dalla madre con l’indifferenza o con il disprezzo. Mi chiede un abbraccio e piange con lacrime e singhiozzi. Il pianto non è del tutto fluido e completo ma sentito e in certa misura liberatorio.

A quel punto, negli ultimi minuti della seduta ricapitoliamo le cose fatte ed il significato degli atteggiamenti e dei comportamenti difensivi. Chiariamo che sta a lui la decisione di sentirsi vittima di ingiusti rifiuti (peraltro da lui stesso provocati) o accettare il suo vissuto di rifiuto e verificare nel presente se, quando, quanto e come si sente accettato e da chi. La madre lo “accettava” solo se egli non esprimeva bisogni, desideri, entusiasmi o sofferenze e se quindi non disturbava il suo passatempo preferito che era quello di recitare la parte della “moglie che soffre tanto per il marito”.

Se affrontiamo in modo realistico e adulto, un nuovo incontro, cerchiamo prima di tutto di essere corretti, educati, efficienti, ovvero di meritare la stima e rendere possibile l’intero sviluppo del rapporto. All’interno dell’esperienza della relazione, verifichiamo 1) se otteniamo rispetto, simpatia, affetto, amore e 2) se noi proviamo simpatia, affetto, amore per l’altra persona. Quindi distinguiamo rigorosamente la stima (considerazione, approvazione, ecc.) che dipende dal nostro modo di agire e l’amore (affetto, calore, ecc.) che dipende essenzialmente dalla capacità di amare altrui (e che non possiamo conquistarci). Siamo quindi curiosi di sapere come stanno le cose e non ansiosi di farle andare bene, poiché abbiamo comunque la capacità di darci da soli il minimo necessario di amore e non siamo interessati a (pseudo)rapporti basati su equivoci e manipolazioni.

Nell’atteggiamento masochistico, invece, il desiderio di essere amati è percepito come pericolosissimo (dato il vissuto doloroso ad esso associato). La persona, quindi, anziché orientarsi a capire se è amata o no, cerca semplicemente una gratificazione a livello di potere: vuole dimostrare di essere vittima di una situazione di rifiuto in cui comunque “riesce” a resistere. Cerca anche di scaricare ostilità (indirettamente), al fine di mantenere una pretesa e di evitare un lutto.

Il lavoro analitico sulle difese caratteriali masochistiche comporta pazienza e coinvolgimento, oltre che un atteggiamento inflessibile rispetto alle manovre. Occorre che il cliente verifichi che l’analista è sempre disponibile a capire e rispettare il suo dolore, così come è sempre disinteressato alle sue pretese vittimistiche (e determinato a lavorarci).

Nel lavoro analitico si devono considerare inevitabili moltissime sedute dedicate a riportare piccoli dettagli al quadro generale: un sospiro che serve solo a ottenere pietà per le “fatiche” sopportate, un sorriso amaro che serve solo a confermare che “la vita non va come dovrebbe”, il risentimento ogni volta che l’analista rifiuta di colludere in un gioco, l’insoddisfazione, la pesantezza nel modo di camminare ed anche di parlare. Si devono considerare fondamentali sia le sedute in cui il gioco viene spezzato e le emozioni profonde affiorano, sia quelle in cui si riprende il filo di un cambiamento avviato e poi soffocato.

L’obiettivo da perseguire con il cliente è sempre la “leggerezza”, ovvero la sua capacità di accogliere sia la gioia per aver ricevuto o per aver agito, sia il dolore. La leggerezza implica il crollo di una struttura pesante, grigia, opprimente.

In una delle ultime sedute, Michele mi ha raccontato un sogno che voglio riportare a conclusione di queste brevi osservazioni sul suo percorso analitico.

“Sono con degli amici in un grande cinema ricavato da un’antico palazzo. Qualcuno mi fa notare che cade della sabbia dall’alto e vedo una crepa che progressivamente si espande nel soffitto. Osservo la scena, ma sono tranquillo. Crolla una piccola porzione della superficie e mi dico che non è possibile un crollo così limitato, perché se c’è un cedimento, cadrà tutto il soffitto. In effetti cadono pezzi di intonaco, mattoni, travi e osservo la scena come a rallentatore. Non c’è polvere e sono comunque al sicuro. E’ come se osservassi un parto”.

Bibliografia

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S.Freud (1920), Al di là del principio di piacere, trad.it. in Opere, vol. IX, Boringhieri, 1977.
R.Kurtz-H.Prestera (1976), Il corpo rivela, trad.it. SugarCo, Milano, 1978. (cap VII).
A.Lowen (1958), Il linguaggio del corpo, trad.it.Feltrinelli, Milano, 1978 (capp.X e XI).
A.Nelson (1975), Psychotic Decompensation in Neurotic Structures, in Journal of Orgonomy, Vol.9,
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A.Nelson (1976), Manic-depressive Character and the Ocular Segment, in Journal of Orgonomy,
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G.Ravaglia-A-Torre (1996), Il cuore nascosto, Melusina, Roma.
W.Reich (1945), Analisi del carattere, trad.it. Sugar, Milano, 1973 (ristampa ampliata, in lingua inglese,
dello scritto del 1933).
R.White-R.Galliland (1975), I meccanismi di difesa, trad.it. Astrolabio, Roma, 1977.

tratto da http://www.risorse-psicoterapia.org

Riflessioni bioenergetiche sull’obesità maschile di Leonardo Moiser

Lo scritto è suddiviso in cinque parti. Mi è sembrato importante iniziare dando una definizione di obesità, per passare ad analizzare i fattori genetici e culturali che rivestono un’importanza nell’eziopatogenesi di questo sintomo. In quanto psicologo penso che non si può comunque dimenticare che il nostro corpo risponde a delle leggi anatomo-fisiologiche ed è inserito in un contesto culturale ben preciso. Entrambi questi fattori contribuiscono alla formazione dell’essere umano. Ma, appunto, in quanto psicologo, il mio ambito d’interesse è la peculiarità della singola persona, per cui ho poi approfondito le varie teorie psicologiche sull’obesità per passare, infine, ad una lettura bioenergetica di questo sintomo e ad un tentativo di direzione della cura secondo questo approccio.

Introduzione

La prima volta che sono entrato in contatto con il concetto di obesità visto da un’ottica bioenergetica è stato nel testo dei coniugi Lowen “Espansione e integrazione del corpo in Bioenergetica” del 1977. A pagina 27 è presente l’immagine di un pancione, rappresentativo di come una costrizione alla regione pelvica possa causare una stasi energetica così evidente a livello addominale.

Rimasi molto colpito dalla figura, poiché mi ci rispecchiavo pienamente. Avevo trovato una chiave di lettura del mio sovrappeso che non fosse solo mentale. Poiché questo sintomo coinvolge palesemente la sfera del corpo mi è sembrato interessante, o meglio entusiasmante, sapere che esiste una modalità di cura che non solo interroga il soggetto sul suo corpo, ma gli dà la possibilità di esperire quelle parti di sé difficilmente accessibili con altri approcci. La difficoltà nella percezione degli stimoli corporali da parte dei soggetti sovrappeso è riconosciuta da diversi autori (Bruch, 1973; Cosenza, 2008; Recalcati e Zuccardi Merli, 2006), ma un conto è averne coscienza a livello mentale, un altro è provarlo pienamente anche con la totalità del proprio organismo.

Questa tesina, dunque, nasce da una domanda intimamente personale, che ha trovato alcune risposte in parte dai testi letti, ma soprattutto nel mio percorso personale, analitico e di vita quotidiana. Tante idee che ho qui messo per iscritto nascono proprio dal mio lavoro bioenergetico individuale e di gruppo, e rappresentano per me delle verità intime e profonde. Ho provato ad estrapolare i concetti emersi e generalizzarli, basandomi anche sulla letteratura riguardante l’obesità.

Lo scritto è suddiviso in cinque parti. Mi è sembrato importante iniziare dando una definizione di obesità, per passare ad analizzare i fattori genetici e culturali che rivestono un’importanza nell’eziopatogenesi di questo sintomo. In quanto psicologo penso che non si può comunque dimenticare che il nostro corpo risponde a delle leggi anatomo-fisiologiche ed è inserito in un contesto culturale ben preciso. Entrambi questi fattori contribuiscono alla formazione dell’essere umano. Ma, appunto, in quanto psicologo, il mio ambito d’interesse è la peculiarità della singola persona, per cui ho poi approfondito le varie teorie psicologiche sull’obesità per passare, infine, ad una lettura bioenergetica di questo sintomo e ad un tentativo di direzione della cura secondo questo approccio.
È bene leggere questo elaborato, soprattutto gli ultimi capitoli, avendo ben chiaro che si tratta di una serie di idee e congetture, tutte da verificare e approfondire.
Probabilmente il mio futuro come clinico andrà in questa direzione.

Di che cosa stiamo parlando?

L’obesità può essere banalmente definita come un eccesso di peso corporeo dovuto ad un’eccedenza di massa grassa. Percentualmente il grasso corporeo dovrebbe aggirarsi intorno al 15-18% in un uomo adulto e al 22-25% in una donna adulta. Riuscire però ad identificare un criterio obiettivo che permetta una misurazione precisa dell’adipe non è affatto semplice. Ci si rende immediatamente conto che il semplice peso corporeo non può essere un fattore affidabile. Per poter parlare di obesità, infatti, è necessario che il peso eccedente sia dovuto alla massa grassa, il tessuto adiposo, da distinguere dalla massa magra, costituita da ossa, muscoli e organi. Un elevato peso corporeo potrebbe, ad esempio, essere causato da un eccesso di massa muscolare, come accade nei body builder.

Vi sono metodi molto raffinati per determinare la distribuzione regionale del grasso corporeo: sono la Tomografia Assiale Computerizzata e la Risonanza Magnetica Nucleare. Si tratta di procedure complesse e costose, usate quasi esclusivamente per scopi di ricerca ma non applicabili nella pratica clinica corrente.
Sebbene, quindi, il peso corporeo non sia un indice sufficientemente attendibile, è però quello più semplice da poter utilizzare. Lambert Quételet ha dunque ideato l’Indice di Massa Corporea, definito come il rapporto tra il peso in kg e il quadrato dell’altezza espresso in metri (BMI=kg/m2). Oggigiorno questo valore viene universalmente accettato come un buon indicatore della corpulenza di un individuo adulto. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha proposto una tabella di classificazione degli stati ponderali.

Si può quindi parlare di obesità quando l’IMC supera il valore di 30. La poca affidabilità dell’IMC non è ascrivibile al solo fatto che non distingue fra massa grassa e massa magra, ma anche al fatto che non prende in considerazione la localizzazione corporea dell’adipe, fattore fondamentale per le complicanze metaboliche e cardiovascolari che l’obesità comporta, come ha dimostrato Jean Vague in un suo articolo del 1947 (in Bosello e Cuzzolaro, 2006, p. 21). A parità di IMC, una localizzazione del grasso corporeo di tipo viscerale, centrale (soprattutto addominale, caratterizzante l’obesità di tipo androide) si associa a maggior rischio di malattie e di morte rispetto a una localizzazione di tipo sottocutaneo, periferico (concentrata nelle regioni delle anche, delle cosce e dei glutei, come nell’obesità ginoide). Un buon indice in grado di differenziare efficacemente fra questi due tipi di obesità è il rapporto tra circonferenza della vita e dei fianchi, che non dovrebbe superare il valore di 0,95 nell’uomo e 0,80 nella donna.

Obesità tra natura e cultura

L’obesità è dovuta ad un’introduzione eccessiva di alimenti senza essere controbilanciata da un consumo equivalente: si tratta sempre di un bilancio energetico positivo.
I fattori che entrano in gioco nel permettere che l’energia in ingresso sia superiore a quella in uscita sono numerosi: abbiamo a che fare con variabili genetiche, sociali, culturali, psicologiche. Queste ultime verranno trattate più approfonditamente nei prossimi capitoli, per ora analizzerò brevemente i fattori genetici (natura) e sociali (cultura) che possono avere un ruolo importante, e a volte fondamentale, nell’obesità.

Fattori genetici

L’adiposità non è un parametro genetico interamente predeterminato, anche se è stato calcolato che il patrimonio genetico rende conto del 40% circa della varianza della massa corporea (Rigamonti e Müller, 2006, p. 51).
Il concetto centrale per poter comprendere appieno l’importanza di questi fattori è quello di metabolismo, che può essere definito come l’insieme e il ritmo dei processi attraverso i quali il corpo consuma energia per mantenere la vita. Mediamente la spesa energetica quotidiana è suddivisa tra metabolismo basale (circa il 70%), termogenesi (circa il 15%) e attività motoria (circa il 15%). L’energia consumata nel metabolismo basale è quella che più delle altre è regolata da fattori genetici. Cosa succede nelle persone che soffrono di obesità? Perché il loro metabolismo basale consuma meno energia delle persone normopeso?

Prima del 1994 già si era capito che nei soggetti obesi mancava una sostanza capace di dare un feedback al SNC sulle precise quantità di grasso accumulate nel corpo, ma fu solo in quell’anno che Friedman e coll. riuscirono a isolare una molecola capace di veicolare tale informazione, e venne chiamata leptina (Rigamonti e Müller, ivi, pp. 55-57). Questa molecola viene prodotta direttamente dal tessuto adiposo, scoperta che portò a parlare di organo adiposo più che di tessuto: le cellule grasse non sono solo depositi inerti di scorte energetiche, ma sono un vero e proprio organo con un funzionamento attivo e, in particolare, una importante produzione di ormoni. Negli anni successivi sono state individuate numerose altre molecole in grado di controllare secondo diverse modalità il peso corporeo. Si tratta di una fitta rete di segnali costituiti da ormoni e da neurotrasmettitori. Essi si articolano, si potenziano e si inibiscono in funzione delle informazioni che giungono dalla periferia sullo stato delle riserve adipose e sul fabbisogno di energia.

Negli ultimi anni l’approccio medico si è attivato in maniera considerevole nel tentativo di riuscire a individuare dei farmaci che possano controllare il peso corporeo, ma poiché questo è un complesso processo poligenico e multifattoriale, sembra assai improbabile che un singolo approccio farmacologico possa essere in grado di risolvere il problema dell’obesità.

Tuttavia, nel mondo scientifico si è ottimisti nel ritenere che presto saranno disponibili più classi di farmaci antiobesità e che sarà possibile somministrare “cocktail” di molecole preparate, su base individuale, per il paziente obeso con una specifica storia clinica (Rigamonti e Müller ivi, p. 79).

Fattori sociali

Negli ultimi decenni la prevalenza dell’obesità è aumentata in misura epidemica. In molti paesi industrializzati la sua diffusione ha superato la soglia del 15% della popolazione, il limite critico al di là del quale l’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce un fenomeno epidemico ed impone interventi immediati (D’Amicis et al., 2006). Non è possibile pensare che in un lasso così breve di tempo siano avvenute mutazioni genetiche in tanti rappresentanti della nostra specie. Si è fatta strada nel pensiero scientifico l’ipotesi del gene suscettibile: le influenze genetiche sembrano esprimersi attraverso geni di suscettibilità che aumentano il rischio di sviluppare uno stato morboso ma non sono indispensabili per la sua espressione e, da soli, non sono sufficienti a spiegarlo.

Si deve pensare, insomma, che nella maggior parte dei casi di obesità non sia in gioco un difetto genetico particolare ma, piuttosto, un assetto genetico complessivo, molto diffuso fra gli organismi viventi, che nel corso di millenni si è sviluppato e perfezionato per far fronte, soprattutto, ai periodi di carestia. Tale profilo genetico rende la maggior parte degli esseri umani assai vulnerabili di fronte a un ambiente obesiogeno come quello attuale (Bosello e Cuzzolaro, 2006, p. 42).

Entrano in gioco, a questo punto, numerosi fattori ambientali e culturali che giocano un ruolo importante.
In primis va ricordata la grande transizione alimentare che ha caratterizzato gli ultimi decenni:  buona parte dell’umanità è passata da un’alimentazione dominata da cereali e ortaggi ad una ricca  di grassi e zuccheri semplici. Questo cambiamento di stile alimentare è stato favorito da numerosi cambiamenti sociali, quali l’aumento del reddito medio pro capite, la diminuzione dei costi di grassi e zuccheri, l’urbanizzazione, lo sviluppo da parte delle industrie alimentari di precise strategie di marketing e di tecniche pubblicitarie sempre più efficaci e aggressive.

Un secondo fattore che gioca una grande importanza è il ruolo che la sedentarietà assume nell’eziopatogenesi dell’obesità. Lo sviluppo tecnologico ha portato a una riduzione clamorosa del bisogno di muoversi a piedi e di lavorare manualmente, facendo spendere quindi meno energia.
Abbiamo visto nel capitolo precedente come la termogenesi, la capacità cioè di mantenere costante la temperatura corporea, contribuisca in modo sensibile al dispendio energetico. Il riscaldamento delle abitazioni e dei luoghi di lavoro sembra dunque contribuire all’aumento del peso corporeo.

Un fenomeno particolare che secondo vari ricercatori (Bosello e Cuzzolaro, 2006; D’Amicis et al.,2006) può aver contribuito all’aumento del sovrappeso e dell’obesità, almeno in alcuni paesi, è la riduzione della prevalenza del fumo di tabacco in seguito alle recenti campagne antifumo. Diversi studi epidemiologici hanno evidenziato come i fumatori, in media, pesino meno. Sembra che fumare e mangiare non vadano troppo d’accordo: in genere il fumo di tabacco tende ad associarsi ad un minor introito calorico giornaliero.
Il mondo scientifico è ormai concorde nel ritenere che i fattori genetici in sé non siano sufficienti a determinare in modo rigido la regolazione del peso corporeo. Chiaramente, l’adiposità non è un parametro genetico interamente predeterminato, così come i fattori sociali e culturali non agiscono inflessibilmente su ogni essere umano. Entrano qui in gioco altri fattori di tipo psicologico, che possono dare un senso al perché individui con lo stesso genoma e appartenenti al medesimo ambiente culturale non abbiano lo stesso peso. Numerosi studi citati da Rigamonti e Müller (2006, p. 51) indicano una concordanza media dell’IMC fra gemelli monozigoti del 74%. I fattori psicologici che entrano in gioco potrebbero spiegare efficacemente il 26% di discordanza.

Fattori psicologici nell’obesità

Ancora oggigiorno la comunità scientifica trova difficoltà a pensare l’obesità in termini psicologici. Ne è la riprova più lampante il fatto che il DSM-IV non la includa, e nemmeno ne accenni, tra i disturbi dell’alimentazione. Sembra che per questo sintomo godano di maggior consenso altri tipi di modello, che non quello psicologico. In particolare il modello morale, che considera i soggetti che soffrono di obesità come interamente responsabili della loro condizione, caratterizzandoli come esseri esclusivamente interessati alla ricerca del loro piacere, e il modello della malattia, che vede queste persone come aventi un’innata predisposizione all’obesità, sollevando il soggetto dalla responsabilità per il suo sintomo. Entrambi questi approcci non tengono conto delle variabili psicologiche che intervengono nell’obesità.

Questi tipi di interventi hanno trovato e trovano tutt’oggi numerosi consensi. Basti pensare alla teoria degli “esternalizzanti” di cui Weight Watchers è forse in questo campo l’esempio più significativo. Secondo questo approccio i soggetti che soffrono di obesità sono poco sensibili ai segnali interni e molto sensibili a quelli che provengono dall’ambiente circostante. Il programma di cura si declina, dunque, secondo una regolazione alimentare ottenuta con la padronanza dell’ambiente (Apfeldorfer, 1994)
A mio avviso, teorie che prendano in esame la responsabilità del soggetto coinvolto nei confronti del proprio sintomo possono spiegare in modo più profondo e preciso il problema dell’obesità. Farò dunque riferimento a tre importanti filoni teorici: il primo che, sulla falsariga degli studi di Karl Abraham, vede l’obesità come una patologia dell’oralità; un secondo approccio esemplificato dal lavoro di Hilde Bruch; un terzo che si situa nell’ambito del lavoro di Lacan ed ha inaugurato una clinica orientata alla comprensione delle Nuove Forme del Sintomo.

Il paradigma evolutivo-stadiale della pulsione

Karl Abraham, allievo di Freud, ha approfondito il modello di sviluppo psico-sessuale stadiale concettualizzato dalla psicoanalisi. L’idea di base è che l’essere umano evolve per diverse fasi, caratterizzate da una differente localizzazione dell’energia libidica. Per poter passare al livello successivo è necessario che la libido non sia invischiata ma possa fluire liberamente alla fase seguente. Si passerebbe dunque da un’iniziale momento di oralità ad una fase anale ed infine genitale. All’interno di questa complessa costruzione dottrinaria, il posto dei disturbi alimentari è inquadrato in un arresto dello sviluppo libidico allo stadio sadico-orale, contraddistinto da una relazione cannibalesca con l’oggetto.

Abraham (1916) arriva a queste conclusioni osservando il rifiuto del cibo tipico dei soggetti melanconici. Il paziente depresso, afferma l’autore, nel suo inconscio volge sul suo oggetto sessuale il desiderio d’incorporazione. Nel profondo del suo inconscio si trova la tendenza ad inghiottire l’oggetto, ad annientarlo.
Il melanconico si addossa pesanti autoaccuse per tenere fuori dalla coscienza i desideri cannibalici che sarebbero rivolti all’annientamento dell’oggetto d’amore e, dunque, intollerabili. Il rifiuto del cibo lo preserva da questa pulsione. L’individuo orale, infatti, è dominato da un intenso bisogno di incorporazione e divoramento. Il suo funzionamento mentale è caratterizzato dall’avidità, dall’incapacità di aspettare, dai comportamenti eccessivi, dalle reazioni su una modalità binaria, dalla grande versatilità dei sentimenti: gioia, tristezza, angoscia o collera si alternano senza sfumature.

Avendo difficoltà a distinguere tra sé e non-sé, l’individuo orale vive ogni relazione in modo fusionale, passivo e dipendente dall’altro, alternando l’avidità affettiva e il rigetto brutale. Il mangiare ingordo della persona che soffre di obesità diventa dunque un tentativo sadico di incorporare dentro di sé l’oggetto d’amore.

Il paradigma di Hilde Bruch

Hilde Bruch si colloca nel filone psicoanalitico, pur discostandosene parzialmente. La sua formazione dinamica si evince immediatamente dalle prime pagine di “patologia del comportamento alimentare” (1973), testo di riferimento negli studi sui disturbi dell’alimentazione. L’autrice afferma infatti che

l’obesità, pur rappresentando un difetto dell’adattamento, può servire da protezione contro una malattia più grande e rappresenta uno sforzo per restare sani o esser meno malati. Questi individui, indipendentemente dal loro peso corporeo, che può essere eccessivo o meno, non possono vivere una vita normale, a meno che i problemi che sono alla base della loro anomalia vengano chiariti e risolti. La perdita di peso è per loro una questione secondaria. (Bruch, 1973, p. 14)

Il sintomo come metafora di un conflitto inconscio, dunque. L’autrice si discosta però immediatamente dall’idea psicoanalitica di doverne svelare il significato attraverso l’interpretazione. La sua pratica clinica le mostra, infatti, che non è questa la strada più idonea per trattare questo sintomo. Per lei il disturbo fondamentale consiste in una cattiva discriminazione tra differenti sensazioni fisiche, bisogni corporali ed emozioni, fame, sazietà, angoscia o collera, che restano amalgamati.

Questi disturbi sarebbero la conseguenza di un cattivo apprendimento dell’infanzia, in cui la madre ha imposto i propri bisogni e desideri al bambino. Se alle sue necessità e desideri, inizialmente poco differenziati, sono mancati conferma e rafforzamento o se le risposte sono state contraddittorie e confuse, il bambino cresce pieno di perplessità ogni qualvolta tenti di distinguere i suoi disturbi nel campo biologico dalle esperienze emotive. Sarà così un individuo privo del senso del suo essere una creatura a sé stante, avrà difficoltà a crearsi dei confini e si sentirà in continua balia di forze esterne.

Se la madre offre cibo in risposta a segnali indicanti il bisogno di nutrimento, il bambino svilupperà gradualmente l’engramma di “fame”, quale sensazione diversa da altri stati di tensione o di bisogno. D’altro canto, se la reazione materna è sempre incongrua – a prescindere dal suo carattere di negligenza o di eccessiva sollecitudine, di costrizione o di permissività indiscriminata – il risultato per il bambino sarà una confusione che lo renderà sempre perplesso. Quando sarà più grande non saprà distinguere tra l’aver fame e l’essere sazio, tra il bisogno di mangiare e qualche altro stato di disagio o di tensione. (Bruch, 1973, p. 79).

La cura di questo sintomo, come precedentemente accennato, non può, a detta della Bruch, andare nella direzione classicamente psicoanalitica dell’interpretazione, che può rappresentare per il paziente la ripetizione catastrofica dell’esperienza che qualcuno sa meglio di lui quello che sente e prova, confermandogli il suo senso di inadeguatezza. Diventa importante, per l’autrice, permettere al paziente di parlare delle proprie emozioni senza che il terapeuta si posizioni come “soggetto supposto sapere”, per dirla con Lacan, permettendo al paziente di esaminare i vissuti che il problema del cibo maschera. Il paziente che soffre di obesità, infatti, tende ad incolpare il suo sovrappeso per tutti i problemi relazionali ed intrapersonali che ha. Crede fermamente che, una volta dimagrito, anche tutti i suoi problemi svaniranno. Ma la realtà clinica mostra che non è affatto così. Diventa importante, dunque, che la dieta dimagrante inizi quando il paziente è veramente pronto, quando può essere considerata come un compito razionale al fine di ridurre il peso corporeo e non come una forma di magia, atta a risolvere i problemi esistenziali.

Il paradigma delle Nuove Forme del Sintomo

Questo approccio viene introdotto con particolare riferimento alla clinica delle tossicomanie e mette in opera una lettura dell’Altro contemporaneo e delle nuove forme del disagio nella civiltà alla luce delle teorie e della clinica dell’ultimo Lacan. (Cosenza, 2008). Gli autori appartenenti a questa corrente riconoscono un’importante fattore sociale nell’eziopatogenesi dell’obesità. Essi affermano che l’imperativo sociale del dovere che caratterizzava l’epoca freudiana si è sostituito, nella società attuale, al godimento come dovere.

L’attuale programma della civiltà non esige affatto la rinuncia al soddisfacimento immediato, ma lo incentiva, lo comanda, lo richiede (Recalcati e Zuccardi Merli, 2006, p. 14).

Inoltre la nostra epoca si caratterizza per la metamorfosi della mancanza in vuoto: la mancanza strutturale che costituisce l’essere umano in quanto tale viene trasformata in un vuoto localizzato, come un contenitore che può e deve essere sempre riempito. È l’esempio che ci fornisce l’obesità, la quale in effetti riduce la mancanza dell’esistenza al vuoto anatomico dello stomaco che esige costantemente di essere riempito. Non esiste più, per questi soggetti, la possibilità di esperire il vuoto. Qui sta il paradosso: il paziente che soffre di obesità si sente vuoto anche se è pieno e viene imprigionato nel suo corpo, che diventa come un’armatura, una difesa paradossale dall’incontro inquietante col desiderio dell’Altro. Il corpo troppo pieno si difende dall’angoscia del vuoto, ma finisce per generare un’angoscia ancora più terribile: l’angoscia di un pieno che soffoca e cancella il soggetto (Recalcati, 2008).
Chi soffre delle nuove forme del sintomo palesa il rifiuto dell’Altro, si richiude autisticamente attorno alla sostanza di godimento, che nel caso dell’obesità, è il cibo. L’esperienza clinica lo mostra chiaramente su due versanti. Innanzitutto le abitudini alimentari, in particolare la tendenza a consumare il cibo in solitudine, ci mostrano un soggetto che non coinvolge l’Altro nel suo disagio. In secondo luogo il sintomo obeso si configura già come un tentativo di risposta ad un rapporto insostenibile con l’Altro, innanzitutto con l’Altro materno (Recalcati, 1997).
Il disturbo alimentare non si struttura come metafora del ritorno del rimosso, ma diventa qualcosa che per il suo forte potere denotativo sembra avere sostituito addirittura il nome del soggetto. Il paziente obeso non si presenta portando un sintomo, ma identificandosi con esso. “Sono obeso”, non “soffro di obesità”. Questa forte identificazione con il sintomo fa scomparire il soggetto, rendendo anonima la sua domanda. Sostenere di essere obesi è come operare una specie di desoggetivizzazione e di psichiatrizzazione del sintomo. In questa nominazione anonima il soggetto non esiste più, se non come obeso. Senza una separazione del soggetto dall’identificazione al sintomo non è possibile che prenda avvio nessuna domanda di cura.
L’analista non deve concentrare le sue attenzioni sul problema alimentare in sé. Si tratta di allentare con il tempo il legame con un godimento chiuso in se stesso, limitato al circuito del cibo, per riallacciare la persona a un legame sociale possibile. Attraverso il transfert, l’inconscio del paziente è messo al lavoro, spostando l’attenzione dal cibo alla soggettività. Questo non significa però che il sintomo venga lasciato nel suo stadio attuale, perché implica un danno che blocca la vita e la progettualità: guarire significa fare in modo di aumentare la consapevolezza sul suo senso, di renderlo meno invalidante per chi ne soffre, promuovendo la capacità di farne a meno, secondo modi e tempi assolutamente individuali e non prefissati in anticipo. Il problema del cibo solitamente è l’ultima cosa che va a posto. Esso si pacifica solo quando il soggetto entra in contatto col suo desiderio, quando lo rende più frequentabile. Per questo uno dei segni più indicativi della buona strada della cura è un improvviso innamoramento, che slega il soggetto dal circolo autistico fra sé e il suo sintomo (Recalcati e Zuccardi Merli, 2006).

4. L’approccio bioenergetico all’obesità

Durante il mio percorso analitico mi è capitato di lavorare sul problema della mia obesità. Ricordo ancora con chiarezza quando, dopo un esercizio di radicamento, ho percepito la mia pancia piena di energia pronta a scoppiare. Ho avuto un’immagine, forse Helferich (2001) la chiamerebbe visione terapeutica anche se non si è trattato di un episodio regressivo, in cui ho visto il mio addome come un palloncino eccessivamente dilatato che non trovava un modo per sgonfiarsi. Ho sentito che le contrazioni del diaframma e del bacino imprigionavano questa energia e così la mia pancia, per non scoppiare, aveva dovuto allargare i propri confini, proprio come fa un palloncino quando lo si gonfia. Questo è stato il primo momento in cui ho iniziato ad interrogarmi veramente sul mio sovrappeso.
Ciò che mi ripropongo in questo capitolo, dunque, è di condividere le mie riflessioni, sensazioni, impressioni riguardanti questo tema, parlando del significato simbolico della pancia secondo diversi autori psico-corporei e di come esistano dei tratti di ogni carattere loweniano che possono sovrapporsi ad alcune caratteristiche del soggetto che soffre di obesità.

La pancia

L’obesità maschile, a differenza di quella femminile, è caratterizzata da un accumulo adiposo nella regione del ventre, soprattutto quando insorge in età adulta (la cosiddetta pancetta di mezz’età). Per questo ritengo sia importante soffermarsi sul significato che questa zona simbolizza all’interno del corpo umano.
Innanzitutto vi è da fare una considerazione puramente anatomica: la cavità addominale è la zona meno protetta del nostro corpo. Essa contiene diversi organi vitali, ma nonostante ciò non ha strutture dure che la possano difendere. Se ci muovessimo ancora a quattro zampe sarebbe salvaguardata posteriormente dalla schiena, lateralmente dai fianchi e dagli arti e inferiormente dalla terra. Ma con l’assunzione della postura eretta l’essere umano ha finito per esporre il proprio ventre delicato al mondo (Dychtwald, 1977).

Diversi autori concordano nel ritenere che in questa zona hanno origine le nostre sensazioni. È un deposito di sentimenti, immagini, idee, desideri e intenzioni, spesso inespressi e non riconosciuti, tanto che Totton ed Edmondson (1988) l’hanno definito l’inconscio del corpo-mente. Qui sono presenti i sentimenti viscerali, la nostra parte più istintiva e primordiale. Gli stessi coniugi Lowen (1977) affermano che spesso le persone tengono la pancia in dentro per combattere la propria natura animale fondamentale, situata proprio in questa parte del corpo.
Brown, fondatore della psicologia organismica, asserisce che

il nucleo della condizione umana è costituito da quattro regioni del corpo che consentono distinte modalità di contatto emotivo-cognitivo tra soggetto e mondo: il torace, l’addome, la parte superiore e inferiore del corpo. […] La regione dell’addome è predisposta a rivolgersi all’interno, verso l’ampiezza e la profondità del mondo interiore dell’anima e del corpo. Gli organi addominali ci forniscono quei messaggi propriocettivi che comunicano momento per momento il vero modo di essere della nostra anima incarnata. Tali messaggi, originariamente trasmessi dalle ossa e dai muscoli, vengono poi filtrati internamente attraverso i visceri. La regione addominale media la compenetrazione del nostro essere e la percezione di una profonda armonia interna, veicolando un profondo amore ed accettazione di sé, attimo per attimo. Infine, quando si raggiunge una totale fusione tra psiche e anima essa rappresenta la sorgente del processo primario da cui scaturisce la serenità interiore (Brown, 1990, pp. 59-60)

Tra gli autori psico-corporei che si sono interessati a questa importante zona Gerda Boyesen occupa sicuramente un posto a parte. Questa autrice, nata nel 1922 a Bergen, in Norvegia, oltre alla fisioterapia ha studiato psicologia all’Università di Oslo e vegetoterapia con Ola Raknes; in seguito è stata vegetoterapeuta all’Istituto Bülow-Hansen e psicologa clinica in diversi ospedali psichiatrici norvegesi. A lei si deve la scoperta del significato psicologico delle peristalsi intestinali. Rifacendosi ad un articolo del 1964 del professor Johannes Setekleiv (in Boyesen, 1990) l’autrice inizia a concettualizzare la nozione di psicoperistalsi: le energie in eccesso trovano una via di scarica nei movimenti peristaltici dell’intestino. La Boyesen, infatti, asseriva che esistono quattro vie di scarica dell’energia, due ascendenti e due discendenti. Le vie superiori sono le urla (via forte) e la verbalizzazione (via debole), mentre quelle inferiori sono la diarrea (via forte) e la psicoperistalsi (via debole). Mi sembra interessante riportare di seguito un breve stralcio di come la Boyesen sia arrivata a questa teoria.

Continuavo a massaggiare i pazienti agendo unicamente sulle membrane cariche di fluido energetico. Riducevo la pressione di tale fluido e allora udivo i gorgoglii peristaltici. In questo modo, assistetti alla progressiva scomparsa dei sintomi e potei rendermi conto di cosa fosse la scarica vegetativa dolce che cercavo: una notte, ero sveglia e udii il rumore peristaltico nel ventre di mio marito. Compresi che si trattava della risposta del mio interrogativo: qual è la via dolce della scarica vegetativa? Ormai mi sembrava evidente che non era necessaria la diarrea per eliminare le tensioni nervose dell’organismo, dato che questo aveva i suoi meccanismi di regolazione delle tensioni da eliminare: la psicoperistalsi. Il canale istintuale ed emotivo, il canale dell”Es’, è anche la via della dissoluzione, della ‘fusione’ dell’energia emotiva (Boyesen, 1990, pp. 65-66).

La comprensione simbolica di questa zona corporea può dare significati nuovi all’obesità, visti secondo una luce bioenergetica. L’adipe accumulato nella pancia verrebbe ad essere una difesa del soggetto dal sentire, dall’essere vivo e luminoso, dall’essere carico ed energico. Si tratta di un vero e proprio scudo che il soggetto erige per non entrare in contatto con Hara, con la parte pulsionale di se stesso. Già la Bruch (1973) aveva notato come sia caratteristico di questi soggetti la difficoltà di contattare i propri desideri e le proprie pulsioni. Anche Lidell (1984) riconosce che un ventre obeso e pesante può soffocare le sensazioni sottostanti. Isolato dal suo centro vitale, un simile individuo può essere incapace di riconoscere e soddisfare le proprie esigenze.

Tratti caratteriali nell’obesità

Riflettendo sull’obesità in termini di strutture caratteriali bioenergetiche mi sono reso conto di come questo sintomo presenti delle caratteristiche ascrivibili a tutti e cinque i caratteri loweniani, dallo schizoide al rigido.
In questo capitolo mi ripropongo di analizzare uno per uno i cinque fondamentali caratteri per focalizzarmi sulle caratteristiche del sintomo obeso presenti in ciascuno di essi. Non mi soffermerò nella descrizione delle varie strutture, rimandando eventualmente a Lowen (1958, 1875), Johnson (1994) e Marchino e Mizrahil (2004) per un eventuale approfondimento.

Carattere schizoide

I punti che questo carattere si trova ad avere in comune con il sintomo obeso sono principalmente due: la negazione del corpo e la difficoltà ad avere dei confini ben strutturati.
Il primo punto è talmente caratterizzante lo schizoide che Lowen (1967) utilizza buona parte de “Il tradimento del corpo” per parlare della difficoltà di percepire sensazioni corporee tipica di questa tipologia caratteriale.

Si abbandona il corpo quando diventa fonte di dolore e umiliazione invece che di piacere e orgoglio. Si rifiuta allora di accettarlo o di identificarsi con esso. Ci si rivolta contro di lui. (Lowen, 1967, p. 223).

Lo schizoide è riuscito a rendere tollerabile il terrore di essere annientato semplicemente perché esiste annullando le sensazioni corporee.
Anche se le motivazioni di base possono essere differenti, il sintomo obeso si struttura in maniera simile. L’adipe in eccesso serve ad ovattare i bisogni emotivi ed affettivi perché intollerabili. Ciò che il soggetto che soffre di obesità ha dovuto compiere è annullare il corpo per non sentire i propri desideri. Hilde Bruch (1973) ha elaborato la sua clinica sulla difficoltà di questi pazienti ad ascoltare le sensazioni corporee.
Se, con Anzieau (1985), vogliamo leggere il significato simbolico della pelle come membrana che delimita i confini fra mondo interno e mondo esterno, ci si rende subito conto che nel carattere schizoide questo punto racchiude intense problematicità. L’energia è tutta congelata al centro e non è disponibile nelle parti periferiche. La pelle di questi soggetti è spesso fredda, scarica energeticamente e non ha la possibilità di adempiere alle principali funzioni che Anzieau (ibidem) le ha riconosciuto: superficie che delimita il dentro dal fuori e, di conseguenza, barriera che protegge dall’aggressività esterna.
Le persone che soffrono di obesità hanno tendenzialmente dei confini molto poco marcati. Ciò è ben visibile nella classica camminata ciondolante che li caratterizza. Il loro continuo dondolamento, più o meno visibile ma spesso presente, potrebbe significare una difficoltà a restare dentro dei limiti direzionali ben precisi, rappresentati dalla traiettoria in cui il corpo si muove. Il corpo enorme di questi pazienti può essere anche letto come un bisogno di estendere i propri limiti fisici, come se essi stessi non fossero in grado di percepire fin dove i loro confini arrivino.

Carattere orale

Il carattere orale, insieme a quello masochista, è quello che più profondamente incontra il sintomo obeso.
Il corpo del carattere orale è tendenzialmente molto sottile a causa delle forti deprivazioni di nutrimento affettivo. Accade però, talvolta, che dei caratteri orali abbiano compensato questo stato di denutrizione aumentando il loro stato corporeo fino all’obesità. Abbiamo già visto come la prima psicoanalisi, con Abraham (1916) in particolare, punti notevolmente sull’interpreta-zione dell’obesità come sadismo orale.
Il punto a mio avviso più pregnante che il carattere orale ha in comune con il sintomo obeso è la difficoltà ad incontrare e a reggere la propria mancanza. Questo soggetto, intimamente segnato dal bisogno d’amore negatogli all’inizio della sua vita, sviluppa un desiderio intenso di relazione con l’altro, ma con la paura concomitante di essere nuovamente abbandonato. Il carattere orale, dunque, tende, una volta instaurata una relazione, ad aggrapparsi al partner.

Quando non è ben difeso, o quando le sue difese non funzionano, l’orale si perde nell’amore. Quando la speranza di trovare il paradiso perduto si riaccende, la persona si perde nella simbiosi (Johnson, 1994, p. 138).

Le stesse dinamiche sono ravvisabili nel soggetto che soffre di obesità. La difficoltà a stare da solo lo possono portare a cercare delle relazioni affettive anche con partner non adeguati. La modalità privilegiata che questi soggetti utilizzano, però, è utilizzare il cibo come riempitivo del senso di solitudine che attanaglia loro l’anima.
Energeticamente c’è un aspetto che accomuna in maniera marcata il carattere orale e il soggetto che soffre di obesità. Nell’orale

l’energia scorre verso l’alto, non verso il basso. Le gambe sono insufficientemente caricate, e non si mantiene il contatto con il terreno. Non c’è aumento dell’eccitazione genitale. A causa di questa mancanza di contatto con il suolo, che è la controparte della mancanza psicologica di contatto con la realtà, si sente che questi individui sono “tra le nuvole”, “fluttuano nello spazio”, e con loro i contatti non si stabiliscono (Lowen, 1958, p. 157).

Una difficoltà riscontrata nel soggetto che soffre di obesità è l’impossibilità per l’energia di fluire verso il basso. La contrazione pelvica è talmente marcata che l’energia non può scaricarsi a terra e ristagna nel ventre. Con l’andare del tempo i muscoli superiori dell’addome si possono indebolire, trasformando la pancetta in pancione (Lowen e Lowen, 1977). Questa tensione cronica a livello pelvico serve a non percepire il desiderio sessuale ed è tipico anche del carattere orale.

Carattere psicopatico

Il carattere psicopatico potrebbe apparire quello che meno ha caratteristiche psicologiche, energetiche e relazionali in comune con il sintomo obeso. Il falso sé dello psicopatico basato sull’idea di essere il migliore sembra avere poco in comune con il senso di nullità con cui si percepisce il paziente che soffre di obesità. In realtà questo stile caratteriale può essere letto attraverso la polarità grandiosità-indegnità. Johnson  (1994, p. 193) afferma che

anche se la maggior parte delle descrizioni della personalità narcisistica si incentra sull’aspetto di compensazione di questa polarità (mancanza di umiltà, incapacità di accettare il fallimento, paura di essere impotenti, manipolazione, lotta per il potere e enfatizzazione della volontà), molti individui narcisistici evidenziano, spesso nella prima seduta di psicoterapia, la polarità opposta. Possono confessare il loro profondo senso di indegnità, il petulante rammarico di non essere o non avere mai abbastanza, il bisogno di procurarsi un valore provvisorio e la profonda invidia per chi percepiscono sano e di successo. All’interno di questa confessione c’è spesso l’ammissione di ingannare gli altri attraverso lo sfoggio di forza, competenza e felicità.

I conflitti di base dello psicopatico e del soggetto che soffre di obesità sono dunque simili. Quest’ultimo vive costantemente nell’idea di essere inferiore a chiunque altro, di non avere alcun valore per nessuno. Lo psicopatico ha messo però in atto una difesa che lo caratterizza profondamente, la formazione reattiva, con lo scopo di allontanare dalla sua coscienza la percezione dei suoi vissuti di inettitudine. Questo stile difensivo, infatti, consiste nel tenere lontano un desiderio od impulso inaccettabile adottando un tratto di carattere diametralmente opposto. Il paziente che soffre di obesità, invece, non ha fatto proprio questo stile difensivo, identificandosi pienamente con i suoi vissuti di inidoneità.
Queste similitudini sono riscontrabili anche negli stili d’attaccamento simili: sia lo psicopatico che il soggetto che soffre di obesità sono caratterizzati da un caregiver che sapeva meglio di loro qual era il loro bene. La Bruch (1973) analizza a fondo le famiglie dei suoi pazienti, osservando che sono per la maggior parte caratterizzate da madri che imponevano ai figli i propri desideri, seducendoli e facendo loro credere che questi desideri fossero loro. Lowen (1975), parlando del carattere psicopatico, sottolinea come il fattore più importante nell’eziologia di questa condizione sia la seduzione coperta del genitore nei confronti del bambino al fine di soddisfare i propri bisogni narcisistici. In questa condizione il bambino si trova costretto a fare propri questi desideri, in quanto le sue percezioni ed emozioni non vengono riconosciute e sostenute dal mondo esterno.

Carattere masochista

Come già anticipato questo carattere è quello, insieme all’orale, che ha più affinità con il sintomo obeso.
Innanzitutto a livello di tensioni energetiche ci sono delle similitudini evidenti: il blocco tra la bocca dello stomaco e l’ano li caratterizza entrambi. Marchino e Mizrahil (2004) parlano di questa energia compressa paragonandola al vapore di una pentola a pressione. Anche nel soggetto che soffre di obesità è presente una pressione talmente forte che il ventre, non trovando un modo per sfogarla, si deve espandere a livello addominale per mantenere la tensione energetica a livelli accettabili. I due autori continuano parlando del carattere masochista, affermando che

il suo diaframma, proprio come fosse il coperchio di una pentola a pressione, si irrigidisce, impedendogli di espirare in modo completo. Se espirasse si svuoterebbe, entrando in contatto con la propria vulnerabilità, ma il masochista non sopporta di percepire la sua fragilità. Ama invece sentirsi pieno e forte, e la sua energia compressa gli dà un senso di solidità (Marchino e Mizrahil, ibidem, p. 134).

Il soggetto che soffre di obesità sembra incarnare facilmente la maschera della vittima tipica del masochista. Questi pazienti tendono a pensare che tutti i loro problemi siano dovuti al loro eccesso di peso, lamentandosene spesso. Sanno di essere responsabili, con le loro alterate abitudini alimentari, della loro obesità, ma si sentono in balia di forze potenti che non permettono loro di esercitare alcun controllo sull’ingestione del cibo. Johnson, parlando del carattere masochista, sembra delineare uno spaccato preciso del soggetto che soffre di obesità.

L’essenza della soggettività masochistica è l’impotente sensazione di essere intrappolati in un circolo vizioso di sforzi che terminano sempre nella frustrazione. Questo stallo vitale cronico e stremante genera impotenza, pessimismo, disperazione, profonda sfiducia riguardo al futuro. Questa cronica sofferenza per una realtà sempre uguale viene di solito affrontata solo sopportandola e condividendola con chiunque sia disposto ad ascoltare (Johnson, 1994, p. 243)

Eziologicamente il carattere masochista ha delle caratteristiche comuni al soggetto che soffre di obesità. Ad entrambi viene negato il diritto di imporsi con i propri desideri, colpevolizzando ogni movimento spontaneo. L’atteggiamento intrusivo materno emerge chiaramente nel campo dell’alimentazione. Il bambino che diventerà masochista viene forzato a mangiare anche quando è pieno, facendo propri questi desideri di cibo, pena la colpevolizzazione da parte del genitore. Tipica è la frase: “mangia la pappa che ti ho preparato con tanto amore, altrimenti mi fai diventare triste”. Il bambino deve dunque imparare a tenere giù il cibo, a mangiare anche quando è pieno. Questo comportamento gli permette di non contattare la rabbia che può provare nei confronti della madre che lo obbliga a mangiare, poiché probabilmente sarebbe insostenibile. Da qui nasce il senso di colpa che caratterizza le vita emotiva del masochista: il costante giudizio negativo della madre fa emergere la profonda sensazione nel bambino che in lui ci sia qualcosa di sbagliato. Questa emozione caratterizza fortemente anche la vita emotiva del soggetto che soffre di obesità, che si sente spesso in colpa per le sue azioni, soprattutto per quel che riguarda il cibo.

Carattere rigido

Questo carattere è quello che, a mio avviso, ha meno caratteristiche comuni con il sintomo obeso. Probabilmente ciò è dovuto al fatto che l’eziologia dell’obesità è in parte caratterizzata da traumi in fasi precoci della vita del bambino. Il carattere rigido, invece, situa la sua eziologia nella fase edipica, dopo i tre anni, ed è contraddistinto dalla mancanza di esperienze particolarmente nocive con il caregiver nel periodo di vita precedente. La tipologia rigida che ha dei punti in comune con il sintomo obeso è quella dell’ossessivo-compulsivo, che Lowen (1958, p. 260) definisce come

la forma estrema di rigidità a livello psicologico,

quindi la meno evoluta. Le ossessioni possono essere definite come pensieri egodistonici ricorrenti, mentre le compulsioni sono delle azioni ritualizzate che devono essere fatte per alleviare l’ansia. Nel paziente che soffre di obesità si ritrova tutto questo: l’ossessione per il cibo  e il ricorso compulsivo ad esso per non entrare in contatto con l’ansia che potrebbe scaturire dal sentire la propria mancanza.

Una possibile direzione bioenergetica della cura

Si tratta di una malattia dell’amore e non dell’appetito
Recalcati e Zaccardi Merli, Anoressia, bulimia e obesità

Questo ultimo capitolo vuole essere una trattazione succinta dei principali punti di orientamento nella cura del soggetto che soffre di obesità dalla prospettiva dell’analisi bioenergetica.
Nella cura del sintomo obeso penso sia necessario concentrarsi inizialmente sull’analisi della domanda portata dal paziente. Questo, infatti, tendenzialmente sarà propenso a chiedere un aiuto nel dimagrire, convinto che in questo modo tutti i suoi problemi svaniranno automaticamente. È invece importante che l’analista non colluda con questa sua fantasia e chiarisca adeguatamente sin dall’inizio che l’analisi non porterà necessariamente ad un calo ponderale, ma che in questo spazio si possono valutare, analizzare e contattare le emozioni, i desideri, le aspettative che questo sintomo porta con sé. Probabilmente questa posizione dell’analista attiverà delle difese nel paziente. Il compito del terapeuta è quello di trasformare la domanda iniziale di aiuto nella ricerca, all’interno della relazione transferale, delle cause della genesi della malattia, ricordando gli eventi salienti della sua vita e il modo in cui li ha vissuti, affinché il sapere che elabora durante questo percorso lo spinga a modificare le scelte che ha fatto e i vantaggi paradossali che ottiene dal suo disagio.

Si tratta di allentare con il tempo il legame con un godimento chiuso in se stesso, limitato al circuito del cibo […] per riallacciare la persona a un legame sociale possibile. […] Attraverso il tranfert, unico vero motore della cura, l’inconscio della paziente è messo al lavoro, spostando l’attenzione dal cibo alla soggettività, dall’ossessione per il corpo all’essere della persona (Recalcati, Zuccardi Merli, 2006, p. 108).

A livello corporeo penso sia necessario lavorare su diversi fronti.
Innanzitutto sono convinto dell’importanza per questi soggetti di frequentare costantemente delle classi di esercizi. Le tensioni che li caratterizzano, infatti, hanno bisogno di un lavoro duraturo e persistente. I punti su cui lavorare sono principalmente due: l’autopercezione corporea e la scarica a terra.
Il primo fattore è una condizione necessaria a qualunque possibile cambiamento. Il soggetto che soffre di obesità, come abbiamo infatti visto con la Bruch (1973), si caratterizza per una difficoltà nel riconoscere sensazioni e movimenti interni. Dargli la possibilità di iniziare a differenziare questi stati perennemente mischiati tra loro può permettere a questi pazienti di riconoscere l’utilizzo smodato del cibo come riempitivo slegato dal circuito della fame: l’ansia può iniziare ad essere percepita come ansia e la fame come fame, senza confusione. Un lavoro corporeo basato sull’attenzione costante alla verità del proprio corpo, al respiro, alla percezione delle tensioni è, dunque, un’indispensabile base da cui poter protrarre il lavoro bioenergetico con questi pazienti.

Un’importanza rilevante assume anche la possibilità di scaricare a terra l’energia in eccesso, anche se probabilmente si tratta di un passaggio da attuare in un secondo tempo nel percorso analitico. Come abbiamo visto precedentemente, infatti, la tensione al bacino non permette all’energia di scendere. Un lavoro costante sul radicamento è necessario per attivare il processo vibratorio di scarica. Questo, infatti, a mio avviso, è la scarica dolce che invece la Boyesen (1990) ha individuato nella psicoperistalsi. La caratteristica di attività che contraddistingue la vibrazione, a differenza della passività dei processi peristaltici, può aiutare il soggetto a ritrovare una forma di capacità di controllo sul proprio corpo. Tutti quegli esercizi che attivano la vibrazione, dunque, sono i più indicati con questi pazienti. Piegare le gambe nell’inspirazione e risalire nell’espirazione, in particolare, è l’attività che più si addice a questo compito. Penso, infatti,  che tutti quegli esercizi di scarica forte, come lo scalciare da sdraiati, rendano difficoltosa la percezione fine dei propri movimenti interni, che dovrebbe invece caratterizzare il lavoro con questi pazienti.
Penso possa essere utile, inoltre, l’utilizzo di massaggi relazionali, come il massaggio a farfalla di Eva Reich. Questo tipo di contatto, infatti, è molto utile nel lavoro sui confini corporei (Reich, Zornànsky, 1997). Applicando il principio dello stimolo minimo si permette al paziente di esperirsi in modo dolce, senza toccare dei nuclei eccessivamente dolorosi che potrebbero ulteriormente irrigidire la corazza del paziente.

Conclusioni

Mentre scrivevo questo elaborato mi è più volte sorto il dubbio di aver trattato poco la parte prettamente bioenergetica. Riflettendoci sono però arrivato alla conclusione che questo lavoro riunisce in sé due aspetti fondamentali dell’analisi bioenergetica: il lavoro mentale ed il lavoro corporeo. Spesso sono portato a credere che possa essere definito bioenergetico solo il lavoro corporeo, dimenticando l’origine psicoanalitica di questo approccio. Mi trovo invece d’accordo con Downing (1995) quando afferma che nelle terapie corporee è importante il lavoro corporeo, ma lo è altrettanto il lavoro analitico verbale. Un buon approccio terapeutico, quindi, penso non possa prescindere da una conoscenza non solo dei processi energetici, ma anche delle motivazioni inconsce che il sintomo nasconde. Rileggendo la tesina una volta terminata mi sembra che tenga debitamente in considerazione entrambi questi aspetti.
Per tutto l’elaborato ho deliberatamente deciso di non parlare mai di soggetto obeso, ma di soggetto che soffre di obesità. Questo per non colludere con l’aspetto identificatorio che fa del peso di questi pazienti l’unico aspetto in cui si possono riconoscere.

Ho inoltre sempre parlato di obesità come sintomo: sono infatti convinto che non si tratti di un semplice quadro nosografico, come la linea seguita dal DSM IV potrebbe proporre, ma sia il risultato di un processo di costruzione inconscia in cui il soggetto che ne patisce ne è implicato, anche se può non saperlo e rifiutare di riconoscerlo.
Come accennato nell’introduzione, questa tesina nasce dal bisogno e dal desiderio di fermarmi a riflettere su questo sintomo che il mio inconscio ha scelto per me. Durante la stesura ho scoperto varie cose di cui non ero consapevole e vari spunti da poter portare nel mio lavoro analitico.
Grazie a tutti coloro che mi hanno dato la possibilità di avvicinarmi un po’ di più a me stesso.

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“Riflessioni bioenergetiche sull’obesità maschile”, tratto in data 01-12-2008 da Obiettivo Psicologia. Formazione, lavoro e aggiornamento per psicologi

Il corpo che siamo… vivere come morire di Gianfranco Inserra

In questi giorni molto si è parlato del vivere e del morire e credo che nessuno di noi sia rimasto indifferente ad un tema che in fondo ci riguarda tutti profondamente.
Lontano dalle polemiche alle quali abbiamo assistito vorrei lasciare qualche riflessione, condivisibile o non condivisibile, ma di certo accorata.
Per me, che da anni lavoro per l‘affermazione della Vita nell‘esistenza di chi a me si rivolge, mi sono parse alienanti e piene di ipocrisia e retorica molte delle affermazioni ascoltate in questi giorni in difesa della Vita e mi sono tornati in mente, con il rammarico di chi sa che nulla è cambiato, i primi scritti di Wilhelm Reich.

Chi di voi ha un po’ di conoscenza del suo pensiero sa quanto egli avesse rispetto per quello Spirito Vitale che vedeva rigoglioso nei bambini e martoriato da quelle sovrastrutture, da quella pseudo educazione che nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza cercano di darci, addomesticandoci e trincerandoci in corazze che poi richiederanno anni per essere smantellate. Ai bambini è dato lo scorrere libero dell’Energia Vitale, la naturalezza dell’innocenza, l’innocenza di chi non attribuisce a nulla etichette di “male” e di “bene“, ma vive semplicemente secondo natura, secondo l’innata capacità di essere al mondo totalmente, con lo Spirito e con il Corpo tramite il quale esso si manifesta, l‘uno parte integrante dell’altro.

In quella male-educazione persecutoria e colpevolizzante del “bene” e del “male”, a cui tutti, chi più chi meno, siamo stati sottoposti, si cela il supremo attentato alla Vita negli uomini, quella Vita che, per natura, ci appartiene e che, per morale, ci viene sottratta. E’ in questa espropriazione della nostra reale natura che si realizza il più grave torto alle nostre esistenze, perché quando si priva il Corpo della sua Vitalità gli si sottrae la sua essenza e lo si riduce ad un semplice pezzo di carne, oggettivando la Vita al di fuori di esso, come un concetto, un’idea, un miraggio.

E si sottrae all’uomo la sua Verità, perchè così come il Corpo diventa carne, l’abbraccio genitale diventa sporca sessualità, il piacere diventa peccato, la pulsione di Vita diventa pulsione di Morte. Quando nelle nostre Chiese vediamo le parole che Cristo pronunciò “io sono la Via, la Verità e la Vita” confinate sui nostri altari, si rende chiara tale oggettivazione e la sua messa a distanza da noi.

Quel Cristo che è in noi, in tutti gli uomini, viene oggettivato e posto fuori da noi stessi, dal Corpo che siamo, dal Corpo con il quale viviamo e che, dagli stessi religiosi, viene considerato come un “Tempio”. Solo nell’ottica di una tale oggettivazione, solo in questo allontanamento della Vita dal Corpo, ridotto ad un insieme di cellule, tessuti, vasi sanguigni, muscoli, si può considerare vitale un Corpo che non può più amare, che non può più sentire, guardare, toccare, gustare, che non può più godere della natura, dell’arte, dell’amore e di tutto ciò che rende davvero vivo un Uomo.

Solo in questa perversione dell’idea di Uomo, si può considerare Vita un Corpo che può solo ricevere il nutrimento essenziale per la sua sopravvivenza e che è destinato esclusivamente al degrado che il tempo farà subire alle sue carni, la cui cura è totalmente assegnata a terzi, nella più completa privazione anche di quella dignità che ognuno vorrebbe conservare sia nel proprio vivere che nel proprio morire.

In questo atteggiamento, in questa considerazione del Corpo come un pezzo di carne e non come il sacro strumento di cui ci serviamo per vivere, come fa sapientemente un musicista con il suo pianoforte, con il suo violino, per suonare la sua musica, la sua melodia, ho rivisto, purtroppo, le parole di Reich ancora pienamente attuali.

Mi chiedo se chi ha così strenuamente opposto la sua voce a quanto poi si è realizzato, continua nelle proprie case ad annaffiare quelle piante che ormai sono morte solo perché c’è ancora un vaso con della terra secca all’interno o se invece considera vive solo quelle che germogliano, che fioriscono, che liberano profumi nell’aria e che continuano a mutare con le stagioni.

Chi come me, da anni lavora con il Corpo ed ha fatto esperienza, grazie ai propri pazienti, di come nel Corpo sia scritta la propria storia, la storia di un padre assente, di una madre distante, di una separazione, di un marito alcolizzato, di una violenza subita, non può che augurarsi che in futuro, lontano dalla demagogia dei politicanti e dalla morale dei religiosi, di esso si possa avere una nuova e più dignitosa considerazione e che la Vita, quella che interi ci abita e ci abbraccia, possa davvero essere difesa, nella sua forma più nobile, più alta, più vera, a cominciare da quella che fiorisce naturalmente nei nostri figli.

(“Il corpo che siamo… …vivere come morire”, tratto in data 24-03-2009 da Obiettivo Psicologia. Formazione, lavoro e aggiornamento per psicologi)

Corporeità e Cultura: essere grounded nella storia e nel presente di Livia Geloso

L’Analisi Bioenergetica, dal punto di vista della storia delle idee e delle pratiche sociali, non è un fenomeno a sé stante, ma appartiene a un variegato ed ampio movimento che può essere denominato “filone culturale corporeo. Questo “filone” attraversa come un fil rouge la modernità occidentale, dalle sue origini nel XVI° secolo ai giorni nostri, costituendone la figura dell’antagonista, dell’Altro rispetto al “filone culturale mentale“, nella contrapposizione fondativa tra razionalità e irrazionalità, tra mente e corpo, tra ragione e istinto, tra cultura e natura, tra uomo e donna, ecc. Da alcuni anni, mi sto dedicando alla definizione e alla diffusione della storia di questo “filone” con una particolare attenzione alla posizione che l’Analisi Bioenergetica ricopre all’interno di tale contesto storico e socio-culturale.

Da notare che alla definizione dell’insostenibilità di un modello universale e unitario della ragione umana ha dato e continua a dare un particolare contributo il fatto che l’antropologia culturale si sia riconvertita da disciplina al servizio del colonialismo a ponte tra il nostro mondo occidentale e modalità diverse di pensare, di sentire e di comportamentarsi, insegnandoci a guardare a noi stessi/e con altri occhi.

Anche i fautori a oltranza dell’assoluta superiorità assiologica (superiorità relativamente alla definizione dei valori) dell’atteggiamento razionale – così com’è definito nel pensiero occidentale moderno – rispetto agli altri possibili atteggiamenti, ammettono che il limite di demarcazione tra razionale e irrazionale non sia più così certo e sicuro. E non dimentichiamo che sotto l’etichetta di irrazionale erano stati posti il corpo e le emozioni!

Se, come ci ricorda Lowen, “impariamo studiando il passato” e “una persona può crescere solo rafforzando le proprie radici nel suo stesso passato” (“Bioenergetica”, Feltrinelli, 1991, p. 27), allora, credo sia arrivato il momento di sviluppare il nostro “grounding storico” come comunità non solo di lavoro ma anche di ricerca e di studio quale siamo. Anche perché appare sempre più chiaro come la psicologia e la psicoterapia mostrino evidenti e dannose carenze dal punto di vista della capacità di riflettere sulla propria storia all’interno della storia dell’epoca moderna, mentre intorno a noi, come reazione alle trasformazioni globali in atto, si viene manifestando un rinnovato interesse storiografico e sociologico, oltre che filosofico, in particolare intorno ai concetti di “società”, di “modernità” e di “ragione strumentale”.

Intanto, da parte delle neuroscienze e di diversi indirizzi psicoterapeutici, fino a ieri indifferenti e/o svalutanti verso l’approccio corporeo, arrivano manifestazioni di interesse per la dimensione corporea dell’esperienza terapeutica, manifestazioni che, data la quasi totale assenza di riferimenti al lavoro di Reich e di Lowen, sembrano considerare terra vergine il territorio che abbiamo contribuito a coltivare e che esiste dagli anni ’30 del secolo passato. Alla luce di tutte le riflessioni qui riportate in grande sintesi, il momento presente, a mio avviso, dispiega delle opportunità imperdibili per il “filone culturale corporeo”, per l’approccio corporeo in psicoterapia e, quindi, per l’Analisi Bioenergetica, ed è mio desiderio contribuire a far sì che tali opportunità vengano colte nel modo più grounded e significativo possibile.

Tratto dal blog Vita bioenergetica

Il Carattere di Cosimo Aruta

Il carattere

Dal greco karasso, che letteralmente significa incidere, è l’insieme delle caratteristiche individuali e delle disposizioni psichiche che distinguono un individuo. Può essere definito il modo costante e abituale di interagire di ognuno, la sintesi delle tendenze affettive che dirigono le reazioni del soggetto verso le condizioni dell’ambiente in cui vive.
Il carattere si costituisce come la risultante fra le disposizioni innate (temperamento) e l’effetto su di queste esercitato dall’ambiente, inteso come ambiente fisico, affettivo, sociale, educativo e culturale. Il concetto di carattere è, quindi, più ampio di quello di temperamento e più ristretto di quello di personalità. La personalità può essere definita la più o meno stabile e durevole organizzazione del carattere, del temperamento, dell’intelletto e del corpo di una persona: organizzazione che determina il suo adattamento totale all’ambiente.

Nell’ambito della letteratura psichiatrica e psicologica, si ritrovano trattazioni sul carattere in diversi autori.
Il fenomenologo Karl Theodor Jaspers, nella sua Psicopatologia generale (1913), afferma che il carattere è l’aspetto comprensibile del nucleo incomprensibile in cui è racchiusa l’essenza di ogni individuo.
Sigmund Freud, nella trattazione delle varie fasi dello sviluppo libidico nel bambino, associa a ciascuna di esse un insieme di caratteristiche, presenti anche più tardi nello sviluppo dell’uomo, che definisce carattere. Pertanto, il carattere orale è contraddistinto dalla fissazione alla fase orale e dunque alla gratificazione o meno delle prime necessità del bambino (nutrimento) che influenzerà la modalità ottimistica o pessimistica, fiduciosa o meno, di affrontare il mondo; il carattere anale, correlato al periodo di apprendimento del controllo sfinterico, è correlato con i tratti di ostinazione, parsimonia e ordine; il carattere fallico è contraddistinto da una sicurezza di sé correlata alle componenti narcisistiche e a una sessualità orientata alla dimostrazione di potenza; il carattere genitale viene introdotto da Freud per completare uno schema, quale termine ideale raggiunto con il superamento delle dipendenze infantili e l’acquisizione della capacità di soddisfare le proprie esigenze tenendo conto di quelle degli altri.
Ancora Freud parla di carattere isterico, riferendosi a un quadro psicopatologico caratterizzato da un’importante labilità emotiva, forte suggestionabilità, comportamenti poco controllati; e ancora di carattere ossessivo, quando l’individuo è estremamente controllato, guardingo, sospettoso, costantemente rigido. Secondo Melanie Klein possiamo ritrovare, nel carattere adulto, nuclei delle posizioni schizoparanoide e depressiva che caratterizzano la prima infanzia.
Alfred Adler ritiene che il carattere risulti dal conflitto tra volontà di potenza, forza motrice che opera a livello conscio e inconscio per l’affermazione individuale e sentimento sociale, caratterizzato dal bisogno di cooperazione.
L’ambiente socioculturale, le circostanze della vita e l’utilizzo dei meccanismi di difesa contribuiscono ulteriormente a delineare il carattere dell’individuo.
Wilhelm Reich attribuisce la formazione del carattere all’interazione di due principi, uno endogeno, l’energia sessuale o libido, matrice vitale dell’organismo vivente; l’altro esogeno, derivante dall’ordinamento sociale, cioè dall’educazione, dalla morale e dalle regole che, in ultima analisi, derivano dalla struttura economica della nostra società e dalle esigenze a questa correlate. Il carattere dipende dalle modalità adottate dall’individuo per risolvere il conflitto tra i due principi: avremo così:

  • il tipo isterico, nervoso, incostante, apprensivo;
  • il tipo coatto, inibito, tendente alla depressione;
  • il tipo fallico-narcisista, sicuro di sé, arrogante, elastico, vigoroso;
  • e il tipo masochista, che percepisce come piacere ciò che l’individuo normale considera dispiacere.

Erich Fromm, considerando il carattere come il risultato di un conflitto tra ricerca di sicurezza e bisogno di libertà, presentate come istanze antitetiche, identifica cinque tipi di carattere:

  • il parassita o sfruttatore che segue la legge del più forte, dimostrando tratti ostili e manipolativi;
  • il possessivo, che ritiene di essere ciò che arriva a possedere;
  • il mercantile, che dà importanza al ruolo sociale e alla sua commerciabilità;
  • il produttivo, meta ultima dello sviluppo storico dell’uomo che, dopo essere passato dal feudalesimo (carattere parassita), al capitalismo (possessivo) e alla borghesia calvinista-puritana (mercantile) tende idealmente a un progresso che comporti un certo grado di sicurezza coesistente con la libertà individuale.

La libertà umana é limitata dal nostro io, dai possessi e dalle opere; la libertà come condizione per la creatività comporta non avere legami che impediscono la propria autorealizzazione (Erich Fromm, Avere o Essere?, Mondadori, Milano 1977, pag.92).

Per l’analisi bioenergetica di Alexander Lowen, la struttura del carattere definisce il modo in cui un individuo tratta il proprio bisogno di amare, la sua ricerca di intimità e il suo desiderio di piacere. (Alexander Lowen, Bioenergetica, Feltrinelli, Milano, 2004, cap. V° – pag. 148).

Perchè piange? Di Dee Kassing

Il bimbo piccolo ha pochi mezzi per comunicare i suoi bisogni. Non importa se si tratta di fame, dolore o solitudine, per lui che non capisce cosa significhi il tempo, sono tutte esigenze ugualmente urgenti ed immediate. Quindi, quando ha un bisogno, apre la bocca e fa l’unico rumore che riesce a fare: è un meccanismo di sopravvivenza arcaica che si mette in atto. Fino a che non impara altri modi di comunicare, e i genitori non cominciano a comprenderli, distinguerli e a rispondere meglio, quindi, il piccolo piange, e può anche piangere spesso.

Cosa vorrà dire? Come farlo smettere?

Finché il bambino ed i suoi genitori non si conoscono meglio, bisogna provare le possibili alternative, una alla volta. Poiché i pianti dei bambini piccoli sono programmati per suscitare comportamenti di conforto o attaccamento nei genitori, le risposte sono praticamente “scritte” nel nostro inconscio. Sentiamo il bisogno di prendere il bambino in braccio, di attaccarlo al seno, di dondolarlo. A volte funziona, ma non sempre. Succede anche che a volte un bambino pianga talmente tanto che la madre, emotivamente e fisicamente esaurita, smette di rispondere nella maniera più adatta al bambino. Forse, una volta accertato che il bambino non ha nessun problema fisico, i genitori, stremati, dopo aver sentito più volte da persone estranee il consiglio di lasciar piangere il bambino perché “ha bisogno di piangere per far maturare i polmoni”, fanno proprio questo.

Prima o poi la maggior parte dei bambini tende a piangere meno. Ma il bambino chiaramente non ne riceve beneficio, e ricerche recenti hanno dimostrato che questo non è un bene per altri motivi.[1]

· Il bambino che piange molto sta consumando molte energie che potrebbero altrimenti essere utilizzate per la crescita.

· Le madri che decidono che i loro bambini sono difficili tendono a interagire meno facilmente con loro, parlando loro meno spesso. Queste interazioni sono invece molto importanti per lo sviluppo del linguaggio.

· In più, se il genitore evita il bambino, anche il bambino a sua volta tende a ritirarsi.

È importante quindi cercare di capire le motivazioni del pianto e cercare una soluzione.

Quali sono le motivazioni più frequenti per il pianto del neonato?

Qui di seguito potrete trovare alcune idee. Se una singola soluzione non funzionasse, può essere utile scegliere alcuni suggerimenti da mettere in pratica contemporaneamente.

Motivazioni possibili (solo alcune!) del pianto

1. L’uso di anestesia epidurale o di altri farmaci durante il parto può causare irrequietezza per un periodo che va da alcuni giorni ad alcune settimane dopo il parto.

2. Il bambino allattato al seno ha bisogno di essere allattato più spesso di un bambino nutrito artificialmente. Il latte materno viene digerito molto velocemente, perciò i bambini allattati al seno potrebbero richiedere poppate ogni due ore o più frequentemente. I bambini nutriti con formula artificiale tendono a poppare invece ogni tre-quattro ore.

3. Molti bambini hanno periodi di irrequietezza per alcune ore, di solito durante il pomeriggio o la sera.

4. Durante gli scatti di crescita, i bambini richiedono poppate più frequenti per alcuni giorni. Queste fasi solitamente si verificano intorno alle due settimane, alle sei settimane ed ai tre-quattro mesi del bambino.

5. Una produzione di latte troppo bassa è una causa frequente di pianti o irrequietezza nel bambino. Per assicurarsi una produzione adeguata di latte, è importante allattare a richiesta (vedi punto 2 qui sopra). Ci sono però altri fattori che influiscono sull’ abilità della madre di produrre latte a sufficienza:
– il fumo inibisce il riflesso di emissione del latte, e quindi gioca un ruolo nella diminuzione della quantità di latte prodotto.
– Un consumo eccessivo di caffeina può rendere nervoso il bambino, che quindi, non succhiando bene, può a sua volta provocare una riduzione della quantità di latte. Sul consumo di caffeina incide la quantità di caffè consumato, ma anche diverse bibite la contengono in quantità significative. Mentre certi bambini non sono sensibili, altri la tollerano molto poco.
– L’abilità di estrarre il latte dal seno potrebbe essere influenzata negativamente da problemi di suzione del bambino. Se il latte non viene rimosso dal seno, non è possibile aumentarne la quantità prodotta. Il dolore persistente ai capezzoli è spesso un indicatore affidabile di problemi di posizionamento e di suzione.
– Un livello di stress insolitamente alto nella mamma può avere effetti negativi sul riflesso di emissione. La maggior parte delle neo-mamme vive situazioni di stress “normali”, ma alcune di loro devono far fronte a stress aggiuntivi, per esempio, la morte di un membro della famiglia o un trasloco.
– L’uso di alcuni farmaci, p.e. diuretici, antistaminici o contraccettivi ormonali può avere un effetto negativo sulla quantità di latte prodotta.
– L’ipotiroidismo non diagnosticato e quindi non trattato potrebbe diminuire la produzione del latte nella madre, e in più può essere causa di una stanchezza eccessiva.
– Un’alimentazione adeguata, compreso un consumo di liquidi in quantità sufficiente, può aiutare la mamma ad affrontare meglio i bisogni del suo bambino.

6. Il bambino potrebbe avere male al pancino? I bambini succhiano anche per confortarsi, e questo significa che stanno mettendo ancora più latte nella pancia già piena.
– Il bambino è allergico a qualcosa nell’ambiente o nella dieta della mamma?
– La mamma sta passando troppo spesso il bambino da un seno all’altro durante la poppata, con il risultato che questi riceve troppo primo latte?
– La mamma ha un riflesso d’emissione troppo forte? Se il latte passa con molta forza dall’esofago allo stomaco, può irritare i tessuti. In più, se un bambino rimane attaccato al seno quando il latte esce con forza, potrebbe ingoiare tanta aria.

7. Il bambino è stato controllato da un medico per escludere eventuali problemi? È il caso di ricontrollare il bambino, se piange spesso o in maniera preoccupante senza motivi evidenti.

8. Il cosiddetto “bambino ad alto bisogno” richiede molto contatto fisico. Quando viene preso in braccio si tranquillizza.

9. Alcuni bambini si annoiano e richiedono di essere più stimolati. Il bambino piccolo non può intrattenersi da solo, e gradisce a volte un cambiamento di ambiente.

10. Altri bambini, invece, hanno bisogno di meno stimoli di quanti ne ricevono. Alcuni proprio non gradiscono luce e rumori forti, mentre altri ricevono talmente tante attenzioni che a volte è il caso di stabilire delle regole che limitino prevalentemente alla madre il compito di tenere il bambino in braccio.

Possibili soluzioni
Se il problema è effettivamente uno scatto di crescita o una produzione di latte insufficiente, sarà necessario semplicemente attaccare il bambino più spesso al seno, e tenerlo lì per più tempo. Se è necessario del tempo per lavorare a una soluzione, allora la madre ha anche bisogno di utilizzare strategie per calmare il bambino, in attesa di risolvere il problema. Ci vogliono alcuni giorni per far abbassare i livelli di caffeina, nicotina o sostanze allergeniche presenti nel corpo della madre, è necessaria forse anche una settimana se il bambino è stato malato e deve recuperare la salute, e a volte servono alcune settimane per crescere e superare problemi di suzione, di noia, o altri di origine sconosciuta.

L’esperienza insegna diverse tecniche utili ai genitori di bambini irrequieti. Sono utilizzabili da chiunque desideri calmare un bambino. Anche i bambini nutriti artificialmente piangono, e queste tecniche sono utili per calmare anche loro.

Non esiste alcuna tecnica che funzioni comunque per tutti i bambini e, spesso, anche per il medesimo bambino tutte le volte. A volte ciascuna tecnica funziona solo per pochi minuti, e quindi la madre dovrà sviluppare diversi approcci e scegliere quale usare in quale momento, cambiando ed alternando secondo il bisogno. È utile stabilire una sequenza da ripetere più volte, magari nelle prime ore del mattino: i bambini tendono spesso ad essere irrequieti e svegli durante la notte, e per una mamma molto stanca è più facile cavarsela se per calmare il bambino non è costretta ad inventare continuamente qualcosa di nuovo.

1. Tenere il bambino in una fascia o marsupio. Alcuni bambini preferiscono essere girati all’infuori da poter “vedere il mondo”. Provate entrambe le soluzioni, fascia e marsupio, per vedere che cosa il bambino preferisce.

2. Fasciare il bambino in una copertina o in un lenzuolo. Alcuni bambini sentono il bisogno di essere “tenuti insieme” con le braccia sul petto, altrimenti si sentono persi e “disorganizzati”.

3. Dondolare il bambino.

4. Camminare con il bambino.

5. Utilizzare un movimento oscillatorio. Con i piedi fermi e tenendo il bambino fra le braccia o sulla spalla, muovere i fianchi da un lato all’altro.

6. Dondolare il bambino in un’ “amaca”. Mettere il bambino in un lenzuolino o in una copertina, con due persone che muovono insieme le due estremità raccolte. Il movimento laterale è preferito da alcuni bambini.

7. Utilizzare l’aspirapolvere mentre il bambino è nel marsupio. Forse troverà calmante il movimento e il rumore basso e costante.

8. Fare un giro in macchina. Più genitori di quanto si immagini hanno dormito alcune ore seduti in macchina dopo aver addormentato il piccolo nel seggiolino facendo un giro dell’isolato.

9. Tenere il bambino in una posizione da dove potrà vedere un disegno interessante. I disegni in bianco e nero o quelli che contengono il colore rosso interessano alcuni bambini.

10. Farlo guardare allo specchio. Molti bambini si divertono guardando la loro faccia riflessa.

11. Se il tempo è bello, andare fuori a guardare le foglie che si muovono sugli alberi con il vento.

12. Fargli vedere altre cose interessanti, per esempio i pesci in un acquario.

13. Tenere il bambino in una di queste varianti della “presa per le coliche”:
· Tenere il bambino pancia in giù sull’avambraccio piegato all’altezza del gomito, con la testa al gomito, la mano che tiene la gamba, e la parte interna del polso contro la pancia. In questa maniera la pressione aiuta l’aria ad uscire dalla pancia.
· Se il bambino non gradisce la pressione sulla pancia, si può tenere il bambino nella stessa posizione tranne per il polso che rimane al lato cosicché la pancia è libera. Con entrambe le variazioni si può anche fare massaggi alla schiena o far “volare” avanti e indietro il bambino.
· L’avambraccio piegato contro la pancia della mamma funge da sedia per il bambino, che ha la schiena contro il petto della madre ed è sostenuto dall’altro braccio all’altezza del petto. Questa posizione tiene aperto il sederino del bambino permettendogli di far uscire più facilmente l’aria.
· Tenere il bambino a cavalcioni sul fianco della mamma, girato all’infuori, mentre questa fa i soliti lavori o giri.

14. Provare a fare il massaggio “I love you” (o “I-L-U”)[2]. Tenete il bambino sulla schiena, steso sul letto o per terra, con la testa vicina a voi e i piedi più lontani. Il primo passo è di massaggiare dolcemente il bambino al lato sinistro dell’addome, iniziando alla vita e spostando la mano fino all’inguine, ripetendo il movimento tre-quattro volte. Questo è la “I”. Poi viene la “L”: prima un movimento dalla destra alla sinistra, al livello dell’ombelico, poi giù fino all’inguine sinistro, sempre diverse volte. E poi viene la “U”, iniziando all’inguine destro, spostando la mano verso il lato destro fino all’altezza della vita, poi verso il fianco sinistro e giù all’inguine sinistro. Così facendo, seguendo il tracciato dell’intestino in tre fasi, l’aria esce gradualmente senza accumularsi o bloccarsi, il che potrebbe causare dolore all’intestino.

15. Tenendo il bambino sulla spalla, massaggiargli la schiena, invece di dargli colpetti. I colpetti sono utili quando si cerca di far fare il ruttino al bambino, ma possono anche disturbare alcuni bambini. Quando si tratta di calmare un bambino che piange, spesso funziona meglio un movimento liscio.

16. Alcuni bambini che hanno un bisogno forte di suzione possono beneficiare dell’uso del succhiotto. Tuttavia, visto il rischio di confondere la tecnica di suzione del bambino, il succhiotto non dovrebbe essere introdotto fino a che l’allattamento non è ben stabilito. Prima di questo momento, se il bambino dovesse avere bisogno di succhiare, la mamma può fargli succhiare un suo dito (ben pulito e con l’unghia tagliata).

17. Un bel bagno tiepido insieme può essere rilassante. È necessario tenere la zona dell’ombelico asciutta fino a che non è completamente cicatrizzata.

18. Cantare. I bambini amano la voce della mamma e non criticano mai!!

19. Ballare con il bambino.

Conclusioni

La ricetta per far smettere di piangere un bambino non sempre è nelle mani della mamma. Ci sono cause su cui non abbiamo nessun controllo. A volte una neo-mamma ci mette un po’ di tempo per capire che il suo bambino non sta piangendo perché lei lo lascia piangere. “Lasciarlo piangere” significa metterlo nella culla e andare via mentre lui strilla. A volte, tutto quello che si può fare è tenerlo in braccio, dondolandolo e cantandogli dolcemente nell’orecchio (una volta che i pianti si sono calmati). A volte, c’è solo da aspettare che smetta di piangere.

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  • Sears, W: Bambini “capricciosi” RED, 1996
  • Kitzinger, S. Quando il bambino piange, Sperling e Kupfer 1992

Note

[1] Vedere l’articolo “Non lasciate piangere i bambini – Rischi inerenti ai pianti dei lattanti” in L’allattamento moderno n. 14 primavera 1997, che sintetizza brevemente (elencando i riferimenti bibliografici) le ricerche disponibili ad oggi sugli effetti del pianto sul bambino piccolo. La pubblicazione in questione è disponibile presso le Consulenti de La Leche League.
[2] Questa tecnica è descritta nel libro della RED Bambini “capricciosi”, del dott. Sears.

Passione: al cuore del corpo adolescente di Denis Royer*

“Arrivato a casa, commisi la più grande stupidaggine mai commessa. Vado al treno
delle 16:45. E’ il treno di Annabelle. Perdo la testa e voglio vederla un attimo e mi
precipito come un pazzo con la mia bicicletta sul boulevard, poi mi riprendo a tempo
e torno indietro. Sono così umiliato da questo atto che non ho commesso ma che mi
è stato dettato da non so che cosa, che mi giuro di non agire mai più così.”

Vi ho letto un estratto del diario intimo di un adolescente di sedici anni. Per lui, tutto si frantuma. Egli scrive che non ha veramente fatto quello che racconta di aver fatto. Rifiuta di identificarsi con l’impulso che l’ha fatto montare sulla sua bici e che l’ha trasformato in un corridore folle che discende la strada a tutta velocità nella speranza di vedere Annabelle uscire dalla stazione. Prova il sentimento d’essere stato trasportato da una forza sconosciuta che gli ha dettato un tale comportamento irrazionale. La passione si è impadronita di lui. D’improvviso, il bisogno di vedere Annabelle ha dominato completamente il suo mondo interno e l’ha condotto a comportarsi in un modo che egli non riesce ad integrare con quello che conosce di se stesso.

Nella lingua francese arcaica, la parola “passione” aveva il significato di “sofferenza”, come quando si parla della Passione di Cristo. Si risale al verbo latino patior, soffrire di qualcosa che vi accade. E’ proprio questo tipo d’esperienza che l’autore del diario descrive. Attraverso il suo corpo adolescente, egli prova la sua prima passione. Come lo esprime chiaramente il titolo di questa comunicazione: la passione è al cuore del corpo adolescente.

Il tema di questo congresso internazionale “La passione e la persona” non poteva offrirmi migliore opportunità per condividere con voi il frutto della mia esperienza clinica e della mia riflessione sul posto assegnato al periodo dell’adolescenza nella terapia degli adulti. E’ il corpo adolescente che dà vita alla passione. Se faccio ricorso all’espressione corpo adolescente, è perché intendo mettere l’accento sulla dimensione corporea. Esso copre all’incirca quel periodo della vita che comincia con la pubertà e termina verso l’inizio della ventina. Poiché la passione prende forma nel corso di questi anni, lo studio del corpo adolescente può contribuire largamente alla sua comprensione. Io vedo il corpo adolescente come una pietra miliare sulla via dell’integrazione del corpo adulto.

Nel corso delle conferenze precedenti (Royer, 1988, 1996), ho parlato dei motivi che, lungo tutta la terapia, hanno spinto il paziente adulto a sposare la tradizione del silenzio di fronte agli anni di profonda trasformazione che l’adolescenza rappresenta. In nome della strategia terapeutica e della sua efficacia, io ho sostenuto il riconoscimento del corpo adolescente e del posto che gli spetta nella terapia bioenergetica con gli adulti. Nel quadro di questa conferenza, comincerei con un caso clinico che presenta un materiale eccezionale su questo tema. Esso mi permetterà di abbordare l’impatto della prima passione così come le resistenze adulte ad evocare i ricordi dell’adolescenza e a rivivere le emozioni che vi si sono innestate. In seguito parlerò delle forme più complesse della passione, le quali ispirano delle vite intere, cosa che mi condurrà ad esplicitare la relazione tra la funzione intellettuale e la funzione sessuale. Concluderò suggerendo come il modello del corpo adolescente può arricchire il nostro fondamentale paradigma mente-corpo

Torniamo al nostro estratto dal diario intimo che vi ho letto nell’introduzione. Si tratta del diario personale di un adolescente che doveva venire a consultarmi trentacinque anni più tardi. Avendo già raggiunto la cinquantina, al momento di venire a consultarmi non si ricordava affatto d’aver scritto quel diario. Fu per caso che ne fece la scoperta nel corso del secondo anno di terapia.

Quell’adolescente aveva cominciato a scrivere il suo diario intimo qualche mese prima dell’incidente che rivela che una certa Annabelle è diventata la causa dei suoi tormenti. Il contenuto dei giorni precedenti testimonia una lotta interiore di fronte all’attrazione per questa ragazza, combattimento che dura da qualche giorno. Il suo cuore palpita per lei, nel vederla, il suo corpo tutto intero reagisce con pulsazioni nuove. Egli si sente trasportato da un’attrazione passionale che sconfessa scrivendo di non aver pedalato da matto con la sua bicicletta per scorgere Annabelle uscire dalla stazione. Aggiunge che tutto ciò gli fu dettato da forze sconosciute con le quali non saprebbe identificarsi. Egli si identifica al contrario con la ferma risoluzione di rinforzare il suo controllo su quella forza sconosciuta che lo ha posseduto al punto da fargli perdere il controllo. Egli mette fine alla narrazione di quell’avvenimento sconcertante aggiungendo: “Io mi giuro di non agire mai più così”. Egli esprime così la sua determinazione a ristabilire l’ordine in casa propria, casa che si è vista assalita da pulsioni straniere. La pubertà ha fatto scattare un processo di metamorfosi e ha trasformato il suo corpo così profondamente che quest’ultimo è diventato “il nemico”, per riprendere l’espressione della psichiatra Annie Birraux (1994). A detta di Moses Laufer (1976, 1978, 1989), questo giovane di sedici anni è alle prese con il compito di costruire la sua organizzazione sessuale definitiva. Tale compito, secondo Laufer, costituisce la maggiore sfida di questo periodo di sviluppo. Con tutto che Laufer non è un analista bioenergetico, egli afferma che la questione centrale gravita intorno alla relazione che l’adolescente intrattiene con il suo corpo. Ed è nell’ambito di tutte queste trasformazioni che il corpo adolescente diventa il teatro della prima attrazione passionale verso un’altra persona. Nell’opera classica di Peter Blos (1962), quest’esperienza dell’amore tenero è riconosciuta come tipica della sottofase dell’adolescenza che l’autore chiama l’adolescenza propriamente detta.

Il dizionario Le Robert definisce ugualmente la passione in questo modo: “l’amore, quando appare come un sentimento potente e invadente”. Dicevo precedentemente che il nostro eroe era da qualche giorno in preda ad un conflitto al momento dell’eruzione di quella voglia improvvisa di precipitarsi verso la stazione ferroviaria. Egli ha avuto l’impressione di essere colpito da qualcosa, come se si trattasse di un tipo inedito di attacco cardiaco. Non scriveva forse nel suo diario qualche giorno prima:

“Prendo l’autobus delle 7 e 30 e dico buongiorno ad Annabelle sul marciapiedi della stazione. Una visione mi passa per la testa, Annabelle ed io sposati. Non riesco a capirmi certe volte. Io che sei mesi prima mi giuravo di non lasciarmi mai prendere da lei, sono soggiogato oggi dal solo vederla. Non so se sia un bene o un male, ma credo di amarla…”

Il cuore del corpo adolescente è un testimone di primo ordine rispetto a queste nuove esperienze di attrazione passionale verso un altro essere umano.

Abbiamo preso l’abitudine di affermare che il corpo è una storia vivente, che il corpo ricorda, che i muscoli non dimenticano. Che dovremmo dire riguardo alla memoria del muscolo cardiaco? Meglio di ogni altra parte del corpo questo muscolo conosce bene il movimento di espansione-contrazione in quanto movimento primario della vita. Il cuore, in effetti, si consacra a tempo pieno al lavoro di pompare gli ingredienti della vita così come i liquidi delle nostre passioni attraverso ciò che noi siamo. Quando Freud disse che l’amore e il lavoro erano le chiavi della salute, egli fece un’affermazione che si radicava nell’esperienza profonda del muscolo cardiaco.

L’esperienza clinica mi convince sempre più dell’importanza d’investigare tali esperienze intense del cuore nella terapia degli adulti in modo da radicare primariamente il paziente nel suo corpo adolescente. Noi lavoriamo allo stesso tempo ad aumentare il livello energetico del suo organismo. Postuliamo, infatti, che la quantità di energia costituisce un fattore determinante della salute e sappiamo, d’altra parte, che il cuore del corpo adolescente deve imparare a gestire intense esperienze di passione. E il muscolo del cuore riesce a rammentarsene con l’aiuto dell’analisi bioenergetica. Ci sono delle persone che si rivolgono all’analisi bioenergetica per lavorare con i loro corpi nella speranza di riconnettersi con la passione. Il corpo adolescente è il primo luogo da investigare per scoprire dove, quando e come essi hanno perso la passione. Ecco quello che ho appreso con numerosi pazienti e in particolare con Charles, l’autore del diario intimo. Egli è venuto a consultarmi all’inizio della cinquantina per un problema d’impotenza sessuale

 

35 anni più tardi…

Appresi ben presto che il sintomo non si manifestava soltanto con la moglie ma anche con la sua amante. Charles era segretamente innamorato di una giovane donna che era stata sua allieva in uno dei suoi corsi. Per qualche anno, la fiamma crescente per questa donna si era espressa principalmente attraverso uno scambio epistolare, essendo i due separati da migliaia di chilometri. Egli viveva un conflitto molto forte, diviso tra l’attrazione per questa giovane donna e i suoi valori morali relativi all’amore, al matrimonio e alla fedeltà coniugale, valori che avevano guidato la sua vita fino a lì. La vita sessuale nella sua coppia era morta da qualche tempo. All’in fuori di qualche rapporto sessuale con quest’altra donna, che si erano scalati su alcuni anni, si era ritrovato più o meno impotente. La sua amata era ormai sposata e madre di un figlio, il che non alleggeriva per niente la sua coscienza. Era in terapia da due anni quando scopri questo diario dimenticato. Avendo deciso di separarsi di sua moglie e di cambiare casa, lo scopri in una scatola mentre metteva ordine nelle sue cose personali.

Visto che avevamo già analizzato un aspetto del transfert riattivando memorie e emozioni legate alla relazione con il suo direttore spirituale quando era adolescente al collegio, Charles sapeva quanto questo tipo di materiale mi potesse interessare. Me diede una fotocopia del suo diario. Che fortuna! Una manna per un clinico! Anche perché inizia il suo diario verso i 15 anni e mezzo, sotto la forma di una lettera indirizzata al suo direttore spirituale. Era un prete che, benché di piccola statura, ispirava tanto timore ai suoi alunni da farlo soprannominare “ti-kill” (per Petit-killer = piccolo assassino). Questo documento mi ha dato l’occasione eccezionale di poter confrontare i miei appunti clinici riguardo all’evoluzione della terapia con quello che Charles aveva scritto nell’intimità più segreta di quel periodo della sua adolescenza. Questo documento fa venire a galla lo schema base della sua architettura caratteriologica, il quale riemergerà a 50 anni di fronte alla sua passione amorosa. La scoperta del suo diario influenzò l’andamento della sua terapia. Avendo maggior coscienza delle sue sensazioni e dei suoi sentimenti, la letture del suo diario lo invitava a riflettere su interi periodi della sua vita. Poté approfondire la comprensione di se stesso facendo luce sulla scelta che aveva fatto di diventare monaco per poi fare marcia indietro dopo qualche anno di vita monastica. Trovò nel suo diario materia per affrontare i suoi atteggiamenti caratterologici dominanti. Lo choc provocato nel mio paziente dalla scoperta casuale del diario ci dà informazioni utili sulle resistenze suscitate negli adulti quando devono riavvicinarsi al corpo adolescente.

 

Non riesco a credere che ho scritto questo di mio pugno.

Charles non fu affatto contento di leggere quel che aveva scritto 35 anni prima. Mostrava segni non verbali di malessere quando parlava di quell’ Annabelle della sua giovinezza. Secondo me, questo rinforza l’ipotesi che la rimozione, la repressione cosciente, la vergogna e il sentimento di umiliazione sono tra le numerose cause per le quali gli adulti non esplorano la loro adolescenza durante una terapia. Tale avventura sembra far vacillare l’immagine di sé che l’adulto si e costruito. Fu molto scosso dalla lettura dell’ultima pagina del suo diario, dove affermava la sua assoluta determinazione a non farsi coinvolgere da basse passioni. Tutta la sua rigidità morale si svela nell’ultima pagina del suo diario e pone decisamente fine alle sue tergiversazioni riguardanti il fatto di accettare o no l’invito di Annabelle di accompagnarla a un party. Vi lego ora un estratto di quest’ultima pagina. Pervade un tono formale che non è presente nel resto del documento.

“Nel 8 gennaio 1956, dopo aver guardato Asmodee di Mauriac, mio cuore ha trovato, credo, la soluzione al suo problema maggiore. Ci e voluto tutto il talento di Mauriac per farmi capire il senso reale del amore cristiano. Da oggi, basta con le storielle d’amore, basta con le serate passate a chiedermi che cosa fare, se devo lasciarmi andare nel pozzo senza fondo della passione fuggitiva; ci sono andato molto vicino, in un istante un solo passo forse mi avrebbe separato dal mio ideale. Il mio buon senso mi aveva allertato e sopratutto, Dio non mi abbandonò; dovevo però fare un passo decisivo, non potevo rimanere tra due mondi, impaurito e pieno di dubbi. Mauriac mi ha salvato. Mi ha fatto capire che se mai una creatura diventa mia moglie, avrà in qualche modo il carattere di Emmanuel, mi ha fatto capire che insozzare il mio cuore con leggerezze e bassezze non farebbe che allontanarmi irresistibilmente dal mio ideale, mi fa capire che devo lasciare perdere tutte le sue bassezze e correre dritto davanti a me; la vita è piena di promesse e cosi devo considerarla.”

Non riusciva a credere che aveva scritto questo di suo pugno. Era ovvio che la brusca fine di questo suo diario gli ricordava la sua decisione ulteriore di seguire il richiamo della sua vocazione religiosa. Si rendeva conto che aveva costruito una parte del suo sé adulto in base a una versione tronca del ruolo che avevano avuto i conflitti sorti di fronte alla sua sessualità nascente nella sua decisione di optare per la vita religiosa. La scoperta casuale del suo diario aveva lanciato una pietra nelle acque calme del suo confortevole sé adulto. Provava vergogna e disagio di fronte alle rivelazioni riguardanti l’esperienza vissuta dal suo corpo adolescente e la rigidità della propria posizione morale. Si sentiva umiliato di fronte a tutto ciò. Ha ripetuto più volte: “Non riesco a credere che abbia scritto questo. Anche se posso invocare a mia difesa la forte influenza che l’ambito cattolico ha esercitato su di me, non cambia nulla rispetto al fatto che non ero più un bambino. Avevo 17, 18 anni!” Circa 35 anni più tardi, rimaneva sbalordito dalla somiglianza che percepiva tra il suo dilemma attuale e quello che aveva vissuto di fronte ad Annabelle.

Secondo Kurt Eissler (1978), simile palese disagio è stato osservato in Freud ogni volta che doveva affrontare il ricordo di Gisela, il primo amore dei suoi 16 anni. Eissler scrive: “Inoltre, quando si trattava di Gisela, Freud aveva delle reazioni strane, assai inconsuete che fanno pensare che questa esperienza occupasse una posizione unica nella sua memoria.” (p. 469 della versione inglese). L’autore rileva il contrasto enorme che esiste tra la rivelazione di sé nel Freud de “L’interpretazione dei sogni” e la reticenza dello stesso a evocare l’avventura con Gisela. Le reazioni adulte di Freud all’evocazione del suo primo amore non sono di certo un’ eccezione.

I ricordi-schermo e l’innocenza dell’infanzia secondo Freud

Quando redasse il suo testo sui ricordi-schermo nel 1899, Freud doveva essere ben conscio delle resistenze suscitate dall’evocazione di ricordi dell’adolescenza. In questo testo, Freud descrive un’ interazione verbale dettagliata con un paziente per illustrare la sua ipotesi sul ruolo difensivo di ricordi che funzionano a volte come schermi di fronte ad altri ricordi. E stato però molto ben dimostrato (Eissler, 1978) che il caso clinico presentato da Freud era in realtà il racconto mascherato del suo primo amore. Immaginando un’ interazione con un paziente, Freud evoca il ricordo del suo “primo amore di giovane vitello”, come gli piaceva chiamarlo in età adulta. Egli dimostra come il ricordo di una scena d’infanzia può fare da schermo a un ricordo dell’adolescenza. A un certo punto, nel dialogo immaginato dal suo autore, il paziente chiede a Freud perché un ricordo dell’adolescenza si potrebbe nascondere sotto l’inganno di una scena dell’infanzia. E il maestro risponde: “Forse per la sua innocenza” (On account of its innocence perhaps – p. 63). Visto che Freud narra la propria storia, ci svela in realtà che non affronta i ricordi della sua adolescenza con la stessa innocenza dei suoi ricordi d’infanzia. E perciò fondato concludere che deve esser stato conscio del fatto che togliere la rimozione sul materiale dell’adolescenza avrebbe incontrato forti resistenze. In alcuni adulti, evocare l’adolescenza sembra mettere in pericolo le basi della stima in loro stessi. Potrebbe, perciò, essere utile esplorare il narcisismo adolescente e le enormi fluttuazioni della stima di sé che lo distinguono.

I nostri pazienti scelgono l’analisi bioenergetica nella speranza di riprendere possesso del proprio corpo e di sentirsi realmente sé stessi. Durante questo lungo periplo, si potranno trarre numerosi vantaggi indagando sul modo nel quale hanno imparato a gestire le loro passioni nascenti. In numerosi pazienti, le prime esperienze della passione hanno lasciato tracce che riemergono quando il loro organismo raggiunge alti livelli d’intensità. Alcune resistenze ad abbandonarsi al proprio corpo si possono affrontare tramite i ricordi scritti nel corpo adolescente.

Dal punto di vista dell’analisi caratteriale

Vi ho letto alcuni brani del contenuto di questo diario; adesso, soffermiamoci sulla forma, come ci invita a farlo l’analisi caratteriale. L’ultima pagina segna la fine di questa forma di espressione che Charles aveva sviluppato scrivendo ogni giorno. Il cambio di tono lascia intravedere come la forma definitiva del suo carattere imporrà severe restrizioni al suo modo di esprimersi. E vero che aveva iniziato questo diario come se fosse una lettera al suo direttore spirituale. Leggendo il documento intero, ci si accorge però di un cambiamento di tono quando Annabelle appare nella sua vita. Si istaura allora un dialogo con se stesso dal tono intimo, soffuso di compassione. Essendo il corpo adolescente testimone dello sboccio finale della struttura del carattere, questo illustra come il carattere limita l’espressione di sé. Numerosi miei pazienti adulti realizzano che hanno tralasciato, verso la fine della loro adolescenza, vari modi di espressione di sé – scrivere poesie, cantare, comporre canzoni o suonare uno strumento musicale[1]. Al momento della richiesta d’aiuto psicologico, questi adulti vivono uno stato di crisi che presenta varie analogie con quello che hanno conosciuto durante la loro adolescenza: quel che sembrava funzionare finora, non funziona più. Esplorare la loro adolescenza li aiuta a ritrovare i mezzi di espressione che avevano abbandonato. Penso a quell’uomo di 40 anni che ha ricominciato a suonare la chitarra elettrica mentre stava attraversando un periodo di depressione grave. Facendo così, alimentava la speranza di ritrovare, un giorno, una passione nella sua vita. In quel periodo della sua vita, la musica rimaneva il suo unico modo di espressione al di fuori del suo lavoro.

Le prime esperienze di attrazione passionale verso un altro essere umano mobilitano le difese

dell’io con una forza proporzionale a quella della passione. Ci aiutano di certo a capire la sessualità adulta, ma ci danno anche le chiavi per capire meglio la posta narcisistica. Se l’adolescenza corrisponde all’età dell’amore tenero e della passione, si presenta anche come un’epoca durante la quale il narcisismo raggiunge vette mai toccate. Sarebbe opportuno applicare il modello fondamentale espansione-contrazione a questo salire vertiginoso del narcisismo e a questi investimenti passionali verso alcune persone. Più pazienti fanno risalire la loro prima passione significativa verso il loro 16° compleanno.

Primo amore e rimozione appassionata

Vi ricordate quanti anni avevate quando avete vissuto il vostro primo colpo di fulmine? Vi ricordate del suo nome? Benché avesse avuto più di 40 anni, un paziente sognava ancora regolarmente il suo primo amore. E soltanto al termine di un lavoro di elaborazione della sua sessualità di fine adolescenza che ha preso coscienza della passione intensa che aveva provato per questa ragazza. Il peso dei suoi conflitti morali dinanzi alla sua sessualità lo aveva, allora, portato a una specie di crollo corporeo di fronte a tale pressione. Si ricordava, come molti altri, giochi sessuali infantili interrotti da una madre indignata, però questi ricordi non sfociavano in niente di veramente significante nella sua realtà adulta. Uno dei sogni che metteva in scena questo primo oggetto d’amore eliminò la rimozione: doveva ad ogni costo evitare di toccare la pelle dell’amata, pena una perdita totale di controllo. L’apertura di questo varco portò a una comprensione migliore, più approfondita delle sue tensioni lombari croniche, del tratto dominante del suo carattere e delle sue inibizioni sessuali. L’immagine che aveva costruito di se stesso adulto era quella di una persona che non aveva mai vissuto una grande passione per una donna. Che strano! La rimozione si era svolta con tale forza quando aveva 18 anni che si era mantenuta fino all’alba dei suoi 50 anni. Quando si decise di confidare questo segreto a sua moglie, essa gli disse che anche lei sognava di tanto in tanto il suo primo amore, che aveva conosciuto quando aveva 14 anni.

Queste prime esperienze rimangono cariche di un’intensità abbastanza forte da provocare disagi e manifestazioni fisiche di disagio e di angoscia nell’adulto che deve affrontare questi ricordi. Alcuni pazienti finiscono per confessare che non hanno mai parlato all’oggetto della loro prima passione. Sono rimasti lontani dalla persona desiderata e idealizzata per paura di crollare completamente sotto la forza delle loro reazioni emozionali e corporee. Si sentivano incapaci di gestire tali vampate di intensità. Non so se traggono conforto dal sentire che Freud avrebbe vissuto il suo primo amore in un modo analogo. Secondo Eissler (1978), il primo amore di Freud per Gisela fu un’esperienza traumatica.

Scoperta traumatica di un’attrazione omosessuale

Visto che le prime esperienze della passione – nel senso di sentimenti molto forti d’attrazione verso una persona dell’altro sesso – possono diventare abbastanza traumatiche per il sé di un’adolescente, immaginate come può essere l’esperienza di un adolescente che si scopre un’attrazione passionale per una persona dello stesso sesso. Ho potuto osservare che centrarmi sul corpo adolescente mi aiuta nell’esplorazione dei sentimenti che si innestano quando si scopre un orientamento omosessuale. Questo è particolarmente utile con pazienti della mia generazione che hanno spesso vissuto questa scoperta in modo estremamente traumatico, visto il contesto sociale prevalente durante la loro adolescenza.

Mi riferisco in questo caso a un uomo di 40 anni incapace di imbarcarsi in alcuna attività genitale con un partner. L’emergenza del ricordo seguente segnò un momento importante nella sua terapia: all’inizio della sua adolescenza, aveva scritto a una rivista popolare per ottenere maggiori informazioni su una castrazione chimica della quale aveva sentito parlare. Prese allora coscienza di essere riuscito a raggiungere, tramite tensioni muscolari croniche, l’obiettivo che non aveva potuto raggiungere in quel altro modo. Riassumendo, possiamo dire che l’esplorazione del corpo adolescente ha dato risultati molto buoni con i pazienti omosessuali.

Mettiamo da parte la “teoria della ricapitolazione” dell’adolescenza

Sapete quanta importanza diamo, nel nostro programma di formazione, alla buona conoscenza dello sviluppo del bambino. Propongo di aggiungerci anche il periodo dell’adolescenza. Per esempio, si potrebbero includere osservazioni come quelle fatte da Peter Blos (1962) sul periodo di orientamento bi-sessuale che precede la fase di consolidamento di un orientamento sessuale definitivo. Questo potrebbe migliorare la nostra comprensione delle sfide contro-trasferenziali nei pazienti omosessuali.

Sono anche convinto che un approccio bioenergetico al corpo adolescente farà luce sui problemi narcisistici che si manifestano nell’età adulta. Non è forse vero che Narciso, eroe del mito, aveva 16 anni quando fu ucciso dalla sua passione fatale per il riflesso dell’immagine del suo corpo nell’acqua? Tuttavia, se vogliamo giungere a tale comprensione del corpo adolescente, dobbiamo affrettarci a rivedere la nostra teoria dell’adolescenza, come l’ha fatto Peter Blos (1989). Come lui, dobbiamo allontanarci dalla teoria freudiana classica che vede nell’adolescenza una ricapitolazione delle sfide dell’infanzia.

Nel suo libro sull’adolescenza, Louise J. Kaplan (1984) scrive che la maggioranza dei terapeuti continua ad appoggiarsi su questa teoria della ricapitolazione. Spiega la grande influenza che hanno avuto su Freud le teorie de l’evoluzione di Haeckel. Afferma che dalla metà del 19° secolo fino a 1930 circa, la dottrina della ricapitolazione di Haeckel ha servito di principio organizzatore in embriologia, fisiologia, morfologia, e paleontologia. La teoria secondo la quale l’ontogenesi ricapitola la filogenesi viene da questa stessa dottrina. Anche l’idea secondo la quale i “primitivi” funzionerebbero allo stesso livello dei bambini europei scaturisce da questa dottrina. Fortunatamente, le nostre conoscenze sono migliorate dai tempi gloriosi di Haeckel.

Oggi, sappiamo che una delle caratteristiche fondamentali della vita sta nel movimento verso forme organizzative più evolute che si distinguono per dei livelli maggiori di complessità (E. Morin, 1973, 1977). Sicuramente, anche Lowen (1970) condivide questa stessa visione quando scrive: “Evolution and growth of each individual bear witness to the fact that life is an ongoing process toward greater organization and more energy. (p. 66). (L’evoluzione e la crescita di ogni individuo testimonia che la vita è un processo continuo verso una maggiore organizzazione e una maggiore energia).”

Bisogna, dunque, considerare il corpo adolescente come il frutto di tale movimento verso un’organizzazione più complessa di quella che prevale nel bambino. Ridurre l’adolescenza a una ripresa delle sfide dell’infanzia varrebbe a negare questa caratteristica del vivente. Al contrario, la tradizione reichiana è sempre voluta rimanere incollata alle caratteristiche essenziali della vita. La metamorfosi dell’adolescenza corrisponde a tale riorganizzazione verso una forma più complessa. Riponiamo, perciò, la teoria della ricapitolazione sul ripiano della storia passata delle nostre conoscenze.

La passione: un integrazione dell’emozione e dell’intelligenza

Finora, ho usato la parola passione con due significati diversi. Ho utilizzato il termine non solo nel senso di qualcosa di cui si soffre o che si prova passivamente, ma anche nel senso dell’amore quando si manifesta come un sentimento potente e ossessivo. Permettetemi di ricorrere alla parola “passione” in un terzo senso: quello di uno stato affettivo abbastanza potente da dominare la vita dello spirito, per l’intensità dei suoi effetti o per la permanenza della loro azione (Le Robert). Si definisce cosi la forte inclinazione verso la musica che avrà dominato la vita di un artista. E anche in questo senso che alcuni di noi potranno riconoscere di provare passione per l’analisi bioenergetica. Tale definizione unisce emozione e intelligenza. La presenza dell’intensità e della permanenza nel tempo ci rimanda alla funzione di contenitore. Ciò implica che la funzione intellettuale ha sviluppato nuove capacità che permettono all’adolescente d’intravedere il suo futuro e di guardare al suo passato. Però è, generalmente, soltanto durante l’adolescenza che la forma di pensiero necessaria all’emergenza di tali passioni raggiunge la sua piena maturità. E una delle ragioni per le quali considero il corpo adolescente come una scena dove entra in gioco questo tipo di passione. Il corpo adolescente fa nascere questo tipo di passione che ispirerà una vita intera. Condivido perciò il punto di vista di Eissler (1977) che colloca alla fine dell’adolescenza la fonte di ogni creatività ulteriore.

Il corpo adolescente: il paradigma corpo-mente rivisitato

Affronto, ora, la parte la più ardita della mia comunicazione. Voglio trattare dell’interazione tra funzione sessuale e funzione intellettuale durante l’adolescenza. Desidero anche parlare della parte che questa interazione ha nell’emergere di passioni durature.

Durante l’adolescenza, assistiamo a un cambiamento nel modo di pensare che accompagna la maturazione dell’apparato sessuale. Secondo Claes (1986), i ricercatori in questo campo concordano per dire che il pensiero adolescente subisce una modifica importante e che quest’evoluzione delle abilità cognitive è allo stesso tempo quantitativa, continua e multidimensionale. Piaget, da parte sua, vede in questo mutamento della struttura dell’intelligenza il fenomeno più importante di questo periodo della vita. Questi cambiamenti giungono di proposito,dotando l’io di uno strumento prezioso per consolidare tutto il sistema di difese minacciato dal vigore rinnovato delle pulsioni.

Il sorgere dell’intellettualizzazione, come difesa specifica di questo periodo dello sviluppo, è stato messo in evidenza da Anna Freud nel suo libro “Il sè e i meccanismi di difesa”. Il suo studio sottolinea l’importanza del cambiamento nella funzione intellettuale, in quanto questa modificazione sembra confermare l’instaurarsi di un meccanismo di difesa che non esisteva fino a quel momento. Nel momento in cui il corpo adolescente può assicurare la sopravivenza della specie mediante l’accoppiamento, la funzione intellettuale si trasforma e dà a l’individuo i mezzi per organizzare la memoria del suo passato e proiettare il suo avvenire nel futuro. Tali acquisizioni costituiscono senza dubbio un contributo alla funzione di contenitore. La capacità di ritardare una reazione si accresce. Diventa più facile porre una distanza tra le sensazioni immediate e le emozioni sentite, da una parte, e i gesti calmi dall’ altra. La passione prende l’aspetto di uno stato complesso e fragile dell’organismo che risulta da miscele, da fusioni tra energia sessuale e funzione intellettuale. La passione emerge dall’ interazione tra una profonda riorganizzazione del corpo sessuale, da una parte, e della mente, dall’altra, tramite una modifica nel modo di pensare. L’equilibrio raggiunto dal corpo adolescente richiederà di essere ridefinito durante tutta la vita. La necessità di rivedere incessantemente questo equilibrio complesso e fragile, garante di una passione viva, dovrebbe essere il primo argomento a favore di un’educazione continua.

Sessualità e intelligenza hanno molto in comune

Le funzioni sessuale e intellettuale hanno vari punti in comune. Ambedue attraversano varie tappe di sviluppo ben identificate prima di raggiungere la loro struttura definitiva durante l’adolescenza. Ambedue sono dotate di una ricchezza e di una complessità tali da continuare a svilupparsi durante tutta la vita. Esse sono dei mezzi preziosi al livello dell’espressione di sé, la quale è l’obiettivo della terapia bioenergetica. Queste due funzioni sono tra gli obiettivi maggiori delle strategie di socializzazione delle nostre istituzioni sociali. Calcolate il numero di ore, di mesi e di anni che avete passato a imparare come pensare e come comportarvi come persone sessuate. Vi accorgerete che le società hanno da tempo capito la potenza di queste due funzioni. Hanno deciso di consacrare anni alla loro formazione o addestramento.

Non condanniamo la sessualità, anche se denunciamo le sue numerose manifestazioni nevrotiche. Dovremmo adoperare la stessa attitudine con la funzione intellettuale malgrado i suoi difetti. Possiamo applicare lo stesso tipo di analisi alle due funzioni. Alcune forme di pensiero esercitano una forte seduzione del tipo Don Giovanni, però rimangono dissociate dal corpo. Il dottor Lowen (1965) ha denunciato la “sessualità sofisticata”. Esiste ugualmente il “pensiero sofisticato”. Pensare in un modo personale che sia l’espressione della propria esperienza di vita, pensare a partire dal proprio radicamento, in un modo che integri tutte le dimensioni dell’esperienza umana sono forme di pensiero creativo che possono essere tanto desiderabili, ma tanto rari quanto un orgasmo. Questa, almeno, è la mia esperienza. La meccanica del pensiero può essere esercitata come si può esercitare la performance sessuale; ma il pensiero creativo come forma di espressione di se è qualcosa che sorge, qualcosa che fluisce attraverso sè, qualcosa che emerge un po’ come un sentimento. Credo che si possa parlare di abbandonarsi al proprio pensiero come si dice abbandonarsi al proprio corpo. Però radicare il proprio pensiero non è un impresa più facile di quella di radicare la propria sessualità.

L’intelligenza gioca una parte estremamente importante per la funzione di contenitore. Si tratta di uno strumento sociale di potere. La tentazione di utilizzarla a fini difensivi è stata ben analizzata dal dottor Lowen (1983). Raggiunge lo stadio finale di maturazione durante l’adolescenza, quando l’organismo passa attraverso una riorganizzazione totale: crescita ossea, sviluppo muscolare, sviluppo degli organi sessuali, fisiologia, sistema endocrino, composizione del sangue, attività corticale, etc. Prendendo tutto ciò in considerazione, vedo che al corpo adolescente è richiesto il compito di esplorare sintesi che combinino sessualità e intelligenza. Si tratta della ricerca costante di un equilibrio che si traduce nelle passioni che ispireranno una vita.

Il corpo adolescente alle prime armi con la passione promette di diventare un modello de grande ricchezza per coloro che tra noi mantengono un legame appassionato con l’analisi bioenergetica. La passione sa essere un potente mezzo di contatto con un’altra persona e con gli umani in generale. Si trova all’opposto del ritiro narcisistico dell’eroe del mito, Narciso. Il narcisismo adolescente è senz’altro molto conosciuto, però è contemporaneo alla scoperta dell’amicizia e dell’amore. Quando un adolescente si scopre grandi doti intellettuali, questa capacità nuova che ha di porre una certa distanza con i propri sentimenti e emozioni può favorire il ritiro narcisistico. Tuttavia, questo pensiero detto obiettivo, che riposa su un possibile distanziamento, si rivela uno strumento di grande importanza nel nostro universo sociale.

Come terapeuti, supervisori e formatori, ci dobbiamo confrontare ogni giorno con situazioni che rimettono in questione il grado di radicamento del nostro proprio pensiero e della nostra identità sessuale. In tali situazioni, le lotte del corpo adolescente si ritrovano appena sotto la superficie del corpo adulto. Quando un supervisore o un formatore chiede a uno stagista di commentare il suo lavoro di apprendista terapeuta, può osservare la fragilità dell’equilibrio tra ritiro narcisistico e passione che tesse i legami con l’esterno. Lo stagista è frequentemente nell’incapacità di pensare. Possiamo tutti dare esempi che illustrano quanto facilmente può riattivarsi la vulnerabilità narcisistica del corpo adolescente in un adulto. Non dobbiamo dimenticare che le pressioni sociali hanno agito con la stessa forza sul nostro modo di pensare che sulla nostra maniera di vivere le nostra sessualità. Per me, formatore e insegnante, questa questione è fondamentale. Pensare deve essere capito bioenergeticamente come un modo di espressione di sé, come un mezzo potente di espressione di sé. Come ho già detto, per quanto ne so, il fatto di esprimersi con il pensiero è tanto desiderabile quanto un orgasmo completo; purtroppo, tale esperienza è rara quanto una scarica orgastica totale.

Alcuni modi di pensare stimolano la discussione teorica, altri l’esplorazione attiva e la sperimentazione. Alcune forme ispirano le persone che imparano la pratica dell’analisi bioenergetica, mentre altre invitano alla prudenza e dissuadono dal lanciarsi in un lavoro sul corpo. Visto che stiamo formando clinici e non professori di università, dovremmo essere doppiamente attenti riguardo ai tipi di pensiero che stimoliamo. Questo è un punto importante per tutti i professionisti che si iscrivono al nostro programma de formazione.

Conoscere tramite il corpo

Nel futuro, forse, si riconoscerà il contributo centrale dell’analisi bioenergetica, nel fatto che essa esplora la convinzione secondo la quale la conoscenza di sè viene dall’esperienza di contatto con i processi viventi del corpo. Una posizione rivoluzionaria in un campo chiamato “psico”terapia! Collochiamo l’esperienza della conoscenza nel corpo globale, non nella testa, nella mente o nella corteccia. In questo, siamo fedeli al senso dato nella Bibbia al verbo “conoscere”. Conoscere qualcuno nel senso biblico significava avere un’intimità sessuale con questa persona. La conoscenza implicava la pelle e la muscolatura attraverso gesti e movimenti; implicava la sessualità della persona quanto le sue abilità cognitive. Come terapeuti, cerchiamo di conoscere tramite il corpo e riusciamo, con la giusta dose di passione, a stabilire legami significativi con i nostri pazienti. E in un futuro prossimo, avremmo senz’altro qualcosa da dire sulla comunicazione non verbale.

In quest’avventura della conoscenza tramite il corpo, possiamo trovare un appoggio più recente di quello della Bibbia nel libro di Antonio Damasio (1994). Si tratta di un ricercatore di punta nel campo della neuropsicologia. Leggere il suo libro mi ha confortato nel credere che il processo di conoscenza è un fenomeno che ingloba il corpo intero. Giacché la conoscenza si radica nel corpo globale, è interessante ricordarsi che le strutture della funzione intellettuale raggiungono un grado inedito di complessità proprio quando il corpo si trasforma completamente.

Come modello teorico, il corpo adolescente invita a una comprensione approfondita della funzione dell’espressione di sé, una funzione centrale nel processo terapeutico. Come modello, il corpo adolescente aggiunge un grado di complessità al nostro paradigma corpo-mente.

A titolo illustrativo, ecco come l’aggiunta di questo modello potrebbe aiutare a trovare la soluzione di uno dei problemi sollevati dal dottor Lowen questi ultimi anni. Egli pensava che la gente che formavamo aveva tendenza a lavorare con strutture caratteriali piuttosto che con persone. Il modello del corpo adolescente ricorda che le differenze individuali si manifestano con più evidenza nell’adolescenza, e che la forma definitiva del carattere sboccia in quel periodo. Quest’affermazione non è poi estranea alla posizione di Lowen (1958), secondo la quale bisogna generalmente aspettare fin dopo la pubertà perchè la struttura masochista prenda la sua forma corporea finale (fully jelled) .

E’ anche vero che i numerosi volti dell’adolescenza cambiano cosi velocemente da una generazione all’altra che le generalizzazioni non possono durare a lungo. L’aggiunta di questo modello può spingerci a centrarci sulla persona e a concentrare la nostra attenzione sull’espressione corporea di questa persona, piuttosto che sulla nostra conoscenza della teoria dei caratteri.

Passione, verità e accecamento

Gli ultimi dieci anni della mia vita professionale sono state all’insegna di questo interesse per il corpo adolescente. Sono stato cieco di fronte ad altri aspetti della realtà? Trascinato dall’eccitazione generata dallo sviluppo di questo punto di vista, sento talvolta la tentazione di esagerare, di cercare di spiegare tutto con questo schema. La passione per la verità e il pericolo di essere posseduto dalla verità che uno crede di aver trovato sono molto vicine. Infatti, la passione poggia su uno stato emozionale e intellettuale estremamente fragile e complesso.

Tenteró di affidarmi alla sapienza di Edgar Morin (1986, 1990). Vedendo in ciò una specie di tallone di Achille, egli attrae la nostra attenzione su una dimensione della realtà dalla quale l’essere umano sembra incapace di imparare. Secondo lui, la storia dimostra che tutti i sistemi di credenze e conoscenze elaborati dagli essere umani hanno una vita breve. Ogni sistema contiene dei limiti e delle imperfezioni che saranno le cause della sua degenerazione. Se fossimo capaci di trarre lezioni dalla storia, dice Edgar Morin, ci sforzeremmo di identificare i limiti dei sistemi teorici che elaboriamo e identificheremmo cosi le debolezze che diventeranno senz’altro fatali in un futuro prossimo. Però gli umani si ostinano a elaborare sistemi che gli sembrano perfetti. Quest’incapacità umana di trarre profitto dalle lezioni che potrebbe insegnarci la storia si radica nella nostra passione per la conoscenza della verità e nel nostro bisogno di rassicurarci con sistemi di credenze o teorie. E molto difficile per noi riconoscere questo fatto storico: tutte queste elaborazioni sono mortali come noi.

E’ il corpo adolescente che genera le abilità intellettuali essenziali all’elaborazione di questi modelli teorici e di questi sistemi di credenze. Questa propensione umana a trincerarsi nella convinzione irremovibile di conoscere l’unica verità, potrebbe essere una delle manifestazioni più pericolose del narcisismo. In questo senso, il corpo adolescente come referenza teorica apre le porte a un’esplorazione molto promettente.

La passione che mi anima rispetto al tema del corpo adolescente è quella di un uomo che ha varcato la soglia dei cinquant’anni e non quella di un adolescente. E l’espressione del mio modo di dare un senso al mio universo attuale. Visto che la mia professione occupa un posto importante nella mia vita, il fatto di ridefinire il senso della mia vita professionale si mischia facilmente alla mia vita personale. Nei miei progetti a più lungo termine, il corpo adolescente è solo una tappa verso una comprensione approfondita del fatto che ogni ciclo dell’esperienza adulta ci invita, o talvolta ci obbliga, a rivedere il senso della nostra esistenza.

Sono nondimeno cosciente di rimanere fedele a un’esperienza fondamentale vissuta verso l’età di 17 anni. Era la fine di un corso e stavamo per uscire della classe. Non ricordo l’evento che aveva provocato questo stato interiore, però ricordo che mi sentivo molto critico verso gli adulti che avevo intorno. Avevo anche l’impressione di percepire in quel momento con molta acuità i loro limiti e le loro contraddizioni. Poi mi sono detto che avevano avuto la mia stessa età e che, forse, avevano sentito qualcosa di simile a quello che stavo vivendo in quel momento. Mi feci allora la domanda che continuo a pormi tuttora: “Quando avrò la loro età, avrò dimenticato quel che vivo ora come loro sembrano averlo dimenticato, o me ne ricorderò?” E probabilmente questa la ragione per la quale apprezzo così tanto la magnifica canzone di Jacques Brel, Les vieux amants “I vecchi amanti”). Concludo questa comunicazione ricordandovi le parole della fine di questa canzone:

“E in fin dei conti, (et finalement, finalement)
Ci è voluto tanto talento (il nous fallut bien du talent)
Per esser vecchi senz’esser adulti” (pour etre vieux sans etre adultes)
Ma per rimanere fedele a questa parte di me stesso, devo continuare e cantare il ritornello di questa canzone:
“O amore mio (O mon amour,)
Mio dolce, tenero, meraviglioso amore (mon doux, mon tendre, mon merveilleux amour)
Dall’alba chiara alla fine del dì (de l’aube claire jusqu’à la fin du jour)
Ti amo ancora, lo sai, ti amo (Je t’ aime encore, tu sais, je t’ aime)

 

Bibliografia

  • Birraux Annie (1994). L’ adolescent face à son corps. Paris : Ed. Bayard
  • Blos, P. (1962). On Adolescence. N.Y.: Free Press of Glencoe
  • Blos, P. (1989). The Place of the Adlolescent Process in the Analysis of the Adult.
  • Psychoan. Study of the Child. Vol 44
  • Cahn, R. (1998). L’adolescent dans la psychanalyse. Paris : Le Fil Rouge
  • Claes, M. (1986). L’expérience adolescente. Liège: Ed. P. Mardaga
  • Damasio, A. R. (1995). L’erreur de Descartes. Paris: Poches Odile Jacob
  • Eissler, K. (1978). Creativity and Adolescence. Psychoan. Study of the Child. Vol. 33
  • Freud, Anna (1946). The Ego and the Mechanisms of Defence. N.Y.: International University Press
  • Freud, S. (1899). Screen Memories. Collected Papers. Vol. 5 N.Y: Basic Books
  • Kaplan, Louise J. (1984). Adolescence. N.Y.: Simon and Schuster
  • Laufer, M. (1976). The Central Masturbation Fantasy, the Final Sexual Organization and Adolescence.
  • Psychoan. Study of the Child. Vol. 31
  • Laufer, M. (1989). Adolescent Sexuality. Psychoan. Study of the Child. Vol. 44
  • Lowen, A. (1958). The Language of the Body. N.Y.: Macmillan
  • Lowen, A. (1965). Love and Orgasm. N.Y.: Macmillan
  • Lowen, A. (1967). The Betrayal of the Body. N.Y. Macmillan
  • Lowen, A. (1970). Pleasure. A creative approach to life. N.Y.: Coward-McCann, Inc.
  • Lowen, A. (1983). Narcissism. N.Y.: Macmillan
  • Morin, E. (1973). Le paradigme perdu: la nature humaine. Paris : Editions du Seuil
  • Morin, E. (1986). La méthode. Vol. 3 : La connaissance de la connaissance. Paris : Seuil
  • Royer, D. (1988). Some Aspects of Narcissism Among French-Canadians.
  • Bioenergetic Analysis. Vol. 3, No. 2
  • Royer, D. (1988). Quelques visages du narcissisme chez les canadiens-français.
  • Corps et analyse. Vol. 2, No. 1 (Revue publiée par la SOBAB)
  • Royer, D. (1996). Making a Place for the Adolescent Body in the Process of Adult Therapy.
  • Bioenergetic Analysis. Vol. 7. No. 1
  • *Denis Royer, international trainer in bioenergetica.

 

Traduzione a cura di Livia Geloso, Trainer locale bioenergetica in collaborazione con Marie-Françoise Perez, traduttrice.

Bioenergetica e Trauma di Livia Geloso

Il trauma, la sua definizione e la terapia ad esso relativa, è una questione al centro di un ampio dibattito con effetti teorico-pratici ampi e profondi. Come il trauma, in quanto oggetto di riflessione nella teoria e nella pratica terapeutica ad esso correlata, abbia a che fare con noi analisti/e bioenergetici/che è il tema del presente articolo. L’obiettivo dell’articolo è quello di lanciare un rapido sguardo panoramico d’insieme attraverso l’elencazione di una serie di punti e un rapido sviluppo dei punti dell’elenco.

L’elenco dei punti (A-L)

A) La definizione di “trauma”;

B) la messa in questione della “catarsi” da parte delle teorizzazioni sul trauma (vedi art. di Angela Klopstech, “Catharsis and Self-Regulation Revisited: Scientific and Clinical Considerations.”, riv. IIBA, vol.15, 2005, pp.101-131);

C) la difficoltà specifica a lavorare a livello corporeo, come siamo abituati/e, soprattutto riguardo al contatto, oltre che rispetto all’attivazione, più o meno catartica;

D) la riflessione sul modo in cui la tematica del trauma si focalizza sul corpo, e di quale tipo di corpo si tratta (vedi art. di A.Klopstech, “So Which Body Is It? The Concepts of The Body in Psychotherapy.”, riv. IIBA, vol.19, 2009, pp.11-30);

E) qual è stato l’esito dei seminari di Sylvia Conant sul “Trattamento dello shock da trauma”?

F) forse c’è qualcosa da dire sulla definizione di Disturbo Post-traumatico da Stress (DPTS) che ha avuto tanto successo ed è stata inserita nel DSM IV (Bonnie Burstow, “A Critique of Post-Traumatic Stress Disorders and the DSM”, in Journal of Humanistic Psychology, 2005, 4:429-445; Giulio Fontò, “I disturbi di personalità: i nuovi mali dell’anima.”, VII° Seminario Apeiron, 2008);

G) l’importanza di raccogliere la nostra bibliografia sul lavoro bioenergetico con il trauma (ricordo il vol.1-1998 e il vol. 1-1999 della riv. IIBA dedicati al trauma; “Trauma and The Body” di Robert Lewis, riv. IIBA, vol.11 n°2, 2000, pp.61-75; ma c’è molto altro);

H) l’importanza di tenere conto della fase del ciclo di vita in cui la persona viene a richiedere il nostro aiuto, insieme ad una precisa individuazione del tipo di risorse e di debolezze che il sistema della sua personalità manifesta (facendoci aiutare dalle “metafore” che ci evoca);

I) riflessioni sull’ ipotesi che, grazie all’attenzione suscitata dalla questione del “trauma” e sugli ultimi sviluppi delle neuroscienze, si sia di fronte al processo di configurazione di una modalità conoscitivo-operativa definibile come “intelligenza istintuale”, così come negli anni passati si è assistito alla configurazione della “intelligenza emotiva” (“Teoria polivagale” di Porges, “The Second Brain. The Enteric Nervous System ENS” di Gershon, i “Neuroni a specchio” di Rizzolatti et al., ecc.). Tutte le volte che Lowen parla della “saggezza del corpo” e le affermazioni relative a tale “saggezza” potrebbero, in un futuro vicino, essere riconcettualizzate come manifestazioni dell'”intelligenza istintuale”;

L) il tema dell’istinto e del rapporto con la “parte selvaggia” che c’è in ognuno/a di noi, nella cornice del discorso sulla “modernità”, sulla “civilizzazione”, sulla “Wildnis/Wilderness” (vedi Ulla Sebastian, “From Horse(Wo)man to Centaur”, Atti Convegno EFBA-p, Frascati, Maggio 1995, pp.175-192; Clarissa Pinkola Estés, “Donne che corrono coi lupi. Il mito della donna selvaggia.”, Frassinelli, 1993; Hans Peter Duerr, “Nudità e vergogna. Il mito della civilizzazione”, Marsilio, 1991, e “Tempo di sogno”, Guerini e Associati, 1992; Claudio Risé, “Il maschio selvatico”, RED, 2002 ; Bruno Latour, “Non siamo mai stati moderni”, Elèuthera, 2009; ecc.);

 

SVILUPPO SINTETICO DEI PUNTI

Punto A) La definizione di trauma

Sul Dizionario della lingua italiana di G. Devoto e G.C. Oli si legge: “Trauma 1. lesione prodotta nell’organismo da cause esterne, capaci di azione improvvisa e rapidissima. 2. Trauma psichico: turbamento dello stato psichico causato da un’emozione improvvisa e violenta (dal greco trauma ‘ferita’).” Sul Dizionario di Psicologia curato da U. Galimberti si legge: “Trauma. Parola greca che significa “ferita”, “lacerazione”. Il termine è impiegato in medicina somatica dove indica le lesioni provocate da agenti meccanici la cui forza è superiore alla resistenza dei tessuti cutanei o degli organi che essi incontrano; in neuropsichiatria dove indica o una lesione del sistema nervoso o, per una trasposizione metaforica, una lesione dell’organismo psichico per effetto di eventi che irrompono bruscamente in modo distruttivo; in psicoanalisi dove la nozione di trauma è oggetto di una specifica teoria.” Sulla Enciclopedia della psicanalisi di J. Laplanche e J.-B. Pontalis si legge: “Trauma. Evento della vita del soggetto che è caratterizzato dalla sua intensità, dall’incapacità del  soggetto a rispondervi adeguatamente, dalla viva agitazione e dagli effetti patogeni durevoli che esso provoca nell’organizzazione psichica. In termini economici, il trauma è caratterizzato da un afflusso di eccitazioni che è eccessivo rispetto alla tolleranza del soggetto e alla sua capacità di dominare e di elaborare psichicamente queste eccitazioni. (…) La psicanalisi ha ripreso il termine usato in medicina e in chirurgia trasponendo sul piano psichico i suoi tre significati: quello di shock violento, quello di lacerazione, quello di conseguenze sull’insieme dell’organismo. (…) Freud ha dato in Al di là del principio di piacere (1920) una rappresentazione metaforica (…): la ‘vescicola vivente’ è mantenuta al riparo dalle eccitazioni esterne  mediante uno strato protettivo o schermo antistimolo che si lascia passare soltanto dalle eccitazioni tollerabili. Se questo strato subisce un’ampia lacerazione, si ha il trauma: l’apparato ha il compito di mobilitare tutte le forze disponibili per produrre controinvestimenti, fissare sul posto le quantità di eccitazione in eccedenza e consentire così il ripristino delle condizioni di funzionamento del principio di piacere (e del principio di costanza). (…) E’ consuetudine caratterizzare gli inizi della psicanalisi (tra il 1890 e il 1897) nel modo seguente: l’eziologia della nevrosi è attribuita ad esperienze traumatiche passate e la data di tali esperienze vien fatta risalire sempre più lontano, man mano che si approfondiscono le indagini analitiche, dall’età adulta all’infanzia; sul piano tecnico, l’efficacia della cura è cercata in una abreazione e in una elaborazione psichica delle esperienze traumatiche. (…) L’accento posto da Freud sul conflitto difensivo nella genesi dell’isteria e in generale  della neuropsicosi da difesa non infirma la funzione del trauma, ma ne rende più complessa la teoria. Va notato anzitutto che la tesi del carattere essenzialmente sessuale del trauma affiora durante gli anni 1895-97 e che, nello stesso periodo, il trauma originario è scoperto nella vita prepuberale. …vari testi di quel periodo espongono o suppongono una tesi ben precisa che tende a spiegare come l’evento traumatico susciti nell’Io, invece delle normali difese utilizzate contro un evento penoso (la deviazione dell’attenzione, per esempio), una “difesa patologica” – di cui la rimozione era allora per Freud il prototipo – che opera secondo il processo primario. L’azione del trauma è scomposta in vari elementi e suppone sempre l’esistenza di almeno due elementi: in una prima scena, detta di seduzione, il bambino subisce un tentativo sessuale  da parte dell’adulto, senza che ciò provochi eccitazione sessuale; una seconda scena, spesso di apparenza anodina, che si svolge dopo la pubertà, rievoca per qualche tratto associativo la prima. Il ricordo della prima provoca un afflusso di eccitazioni sessuali che travolge le difese dell’Io. Sebbene Freud chiami traumatica la prima scena, è evidente che, dal punto di vista strettamente economico, tale valore gli è conferito solo posteriormente; inoltre, è solo come ricordo che la prima scena diventa patogena, in quanto provoca un afflusso di eccitazioni interne. Tale teoria spiega il vero senso della famosa formula degli Studi sull’isteria ‘…gli isterici soffrono soprattutto di ricordi’. Contemporaneamente, la concezione del ruolo attribuito all’evento esterno diventa più articolata. Si attenua l’idea del trauma psichico calcato sul trauma fisico, in quanto la seconda scena non agisce per energia propria ma solo risvegliando un’eccitazione di origine endogena. In questo senso, la concezione di Freud che stiamo riassumendo apre già la via all’idea secondo cui gli eventi esterni traggono la loro efficacia dai fantasmi da essi attivati e dall’afflusso di eccitazione pulsionale che essi provocano.  (…) Negli anni seguenti, viene attenuata la portata eziologica del trauma a vantaggio della vita fantasmatica e delle fissazioni ai vari stati libidici. Il ‘punto di vista traumatico’, pur non essendo abbandonato, come sottolinea Freud stesso, si inserisce in una concezione che fa riferimento ad altri fattori, quali la costituzione e la storia infantile. (…) Infine, nella storia dell’angoscia rielaborata in Inibizione, sintomo e angoscia (1926) e in generale nella seconda topica, si accentua il valore della nozione di trauma indipendentemente da qualsiasi riferimento alla nevrosi traumatica propriamente detta. L’Io, provocando il segnale d’angoscia, cerca di evitare di essere travolto dall’insorgere dell’angoscia automatica, che definisce la situazione traumatica in cui l’Io è indifeso (vedi: Stato di impotenza). Secondo questa concezione, esiste una specie di simmetria tra il pericolo esterno e il pericolo interno: l’Io è attaccato dall’interno, cioè dalle eccitazioni pulsionali, come è attaccato dall’esterno. Non è quindi più valido il modello semplificato della vescicola, che Freud aveva utilizzato in Al di là del principio di piacere. Va notato infine che Freud individua il nucleo del pericolo in aumento, al di là del limite tollerabile, della tensione risultante da un afflusso di eccitazioni interne che richiedono di essere liquidate. E’ questa la spiegazione ultima, secondo Freud, del ‘trauma della nascita’.

Concludiamo con la definizione psichiatrica DSM IV che si costruisce intorno alla nozione di “evento psichicamente traumatico”, al di fuori dell’esperienza umana consueta, e di “sintomi derivati dall’esposizione all’evento traumatico”. L’elenco degli eventi traumatici comprende: lutti, malattie croniche, incidenti gravi, perdite finanziarie, conflitti coniugali, violenze o aggressioni fisiche, violenze sessuali, abusi psicologici, torture, combattimenti militari, disastri naturali e provocati dall’uomo. Si pone attenzione anche ad una componente fisica concomitante al trauma che può includere un danno diretto al SNC (per esempio, malnutrizione o trauma cranico). L’elenco dei sintomi comprende: il rivivere l’evento traumatico; l’attenuazione della responsività, o un ridotto coinvolgimento verso il mondo esterno; una varietà di sintomi neurovegetativi, disforici o cognitivi; senso di colpa se si è gli unici sopravvissuti, o in relazione alle azioni che si sono dovute compiere per sopravvivere; depressione; ansia; aumentata irritabilità con esplosioni di aggressività (in particolare nei veterani di guerra); comportamento impulsivo (viaggi improvvisi, assenze inspiegate, cambiamenti dello stile di vita o di residenza); deficit dell’attenzione e della memoria; mal di testa e vertigini; disturbi del sonno; difficoltà di vivere esperienze di intimità psicologica e fisica.

 

Punto B) Catarsi

Le mie riflessioni si sviluppano in dialogo con le tesi esposte nell’articolo di Angela Klopstech, “Catharsis and Self-Regulation revisited”, apparso sulla rivista dell’IIBA n° 15 del 2005 (pp.111-131). Freud trovò il concetto di “catarsi”, derivato da Aristotele, nella sua esperienza con il metodo ipnotico. Per Aristotele il concetto di “catarsi” descriveva l’effetto della tragedia sul pubblico, ovvero, la purificazione dalle passioni attraverso l’identificazione del pubblico ateniese con le vicende rappresentate.  Dopo aver abbandonato l’ipnosi, Freud si basò sul concetto di “catarsi”  per dare forma a un suo concetto: “l’abreazione degli affetti”, esperienza da raggiungere attraverso il metodo da lui messo a punto, la psicoanalisi. Anche dopo la revisione della veridicità dei ricordi traumatici riportati dai/lle pazienti, la “catarsi” rimase una delle dimensioni di ogni psicoterapia analitica, come intensa reviviscenza di alcuni ricordi, accompagnata da una scarica emozionale più o meno intensa (vedi: “Catartico, metodo”, Enciclopedia della psicanalisi, Laplanche e Pontalis, Laterza, 1968). Di recente, l’intervento sul trauma ha messo in discussione il ricorso alla “catarsi” e il senso della stessa che, come abbiamo detto, costituisce un fondamento importante dell’impianto teorico-pratico psicoanalitico. A noi qui interessa la vicenda della “catarsi” nel contesto della psicoterapia corporea di derivazione psicoanalitica. L’esperienza catartica ha costituito un obiettivo centrale sia per Reich che per Lowen. Le nostre tecniche di mobilizzazione sono state frequentemente utilizzate in vista dell’esperienza catartica, e si è spesso privilegiato un approccio fortemente attivante, il quale ha dato spunto allo stereotipo della Bioenergetica “batti-scalcia-urla” . Nella pratica, prima dell’emergere del dibattito sul trauma, l’avere a che fare con personalità sempre meno coese, a causa dell’indebolimento progressivo delle reti sociali, ci aveva già messo di fronte a situazioni in cui gli interventi fortemente attivanti, invece di portare alla catarsi, portavano a vissuti sopraffacenti, fino ad episodi di dissociazione, e provocavano comprensibili reazioni di rifiuto e di ritiro da parte dei/lle pazienti. In particolare, nel caso di pazienti traumatizzati/e, ora si ritiene – in accordo con gli altri approcci psicodinamici verbali – che l’induzione della catarsi possa risultare “ritraumatizzante”.

 

Punto C) Revisione del lavoro corporeo e del setting bioenergetico

La revisione del lavoro corporeo, che pone al centro la strutturazione, al posto dell’attivazione, a mio avviso, si collega con l’attenzione diffusa verso lo sviluppo, sia pratico che teorico, dell’esperienza dell’essere grounded, come ciò che identifica l’Analisi Bioenergetica e che la può portare ad evolvere in senso bipersonale. Proprio l’attenzione alla dimensione sociale del disagio umano, con lo sradicamento globale delle persone e delle comunità e l’attacco alla vita dello stesso pianeta, fa dell’esperienza del grounding qualcosa di sempre più valido. A questo riguardo, ho trovato interessante l’articolo di Mariano Pedrosa sull’applicazione della Bioenergetica nelle favelas brasiliane, “Bioenergetic Analysis nd Community Therapy. Expanding the paradigm.”, apparso sulla rivista dell’IIBA n° 20-2010 (pp. 79-112). Ho dedicato alla centralità del grounding e ai suoi sviluppi una relazione dal titolo “Grounding e integrazione della personalità”, disponibile su questo sito.  La difficoltà di lavorare a livello corporeo in modo attivante, come di lavorare attraverso il contatto corporeo tra noi e i/le pazienti, e, a volte, attraverso il lavoro corporeo tout court, paradossalmente – ma la vita è un paradosso, come ci insegna Lowen, “è fuoco che brucia nell’acqua” – ci sta aiutando a porre il fuoco sulla relazione tra terapeuta e paziente. Riassumo l’evoluzione del modello di relazione terapeuta-paziente negli approcci psicodinamici: si comincia con il modello monopersonale, il/la terapeuta si posiziona al di fuori del/la paziente per osservare, interpretare le dinamiche e suggerire esperienze guidate centrate sul/la paziente; poi, compare il modello a una-persona-e-mezza, il/la terapeuta si posiziona accanto al/la paziente esprimendo empatia; attualmente sta emergendo il modello bipersonale, il/la terapeuta si propone come partner autentico/a della relazione. In realtà, come sottolinea giustamente Helferich, nel suo articolo “Analisi bioenergetica in dialogo”,  i tre modelli possono essere considerati le tre facce di un “modello integrato”: “…ogni singolo modello, mentre focalizza un elemento base del processo terapeutico che manca agli altri due, rimanda implicitamente agli altri… le tre modalità di intervento terapeutico – interpretazione, esperienza, interazione – intendono provvedere il terapeuta di una opportunità per concettualizzare le sue scelte. (Si tratta) di una descrizione di ciò che sta già facendo’ (p. 30). La sperimentazione del modello bipersonale in analisi bioenergetica è testimoniato da Hilton nel suo articolo “Analisi bioenergetica e Modelli di intervento terapeutico”. Hilton sceglie proprio l’esperienza del grounding per spiegare come le tre modalità di intervento terapeutico si inseriscono all’interno del lavoro bioenergetico e spiega così la sua scelta: “Il grounding è un concetto che  Alexander Lowen  ha introdotto in bioenergetica come risultato del suo lavoro con Wilhelm Reich. Egli sentiva che le esperienze fatte con Reich non resistevano al tempo poiché dipendevano troppo dal potere di Reich in quanto figura carismatica e non erano abbastanza radicate nel corpo.” (pp. 66-67). La psicoterapia orientata sul corpo deve integrare al suo interno i concetti di organismo e di persona: “noi siamo molto più che organismi che si espandono e si contraggono” (p. 71), siamo totalità cariche di valori e di significati, siamo persone. “In quanto terapeuti bioenergetici abbiamo bisogno di essere pronti e preparati come persone …dotate di capacità terapeutiche, di sostegno, di affermazione della vita. (…) Noi tutti cerchiamo approvazione, affermazione ed una persona reale con cui relazionarci.” (p. 71). “Il modello bioenergetico monocorporeo non dispone di uno spazio per condividere le mutue esperienze tra terapeuta e paziente.” (p. 63). Lo spazio per condividere le mutue esperienze tra terapeuta e paziente è lo stesso spazio in cui nasce e cresce l’alleanza terapeutica.  Si vede qui, a mio avviso, come nella psicoterapia, in generale, si stia sviluppando un approccio collaborativo basato sull’incontro tra persone proveniente dal “principio dialogico” di Martin Buber, autore centrale nell’approccio fenomenologico-esistenziale . L’alleanza terapeutica allarga la visione relativa al rapporto terapeuta-paziente che era ristretta al transfert-controtransfert, come parte del nostro retaggio psicanalitico, e contribuisce a spingerci a dedicare una maggiore attenzione all’uso delle parole nella terapia bioenergetica, a come le parole ci toccano e danno forma alle nostre esperienze, in modo da sviluppare un grounding verbale come parte del grounding della testa (di cui si è occupato, dopo Lowen, in particolare, Robert Lewis) . Può essere interessante porre attenzione all’elaborazione della narrazione autobiografica e della narrazione collettiva nel setting bioenergetico.

 

Punto D) Di quale corpo si tratta?

Il dibattito sulla terapia del trauma, la “svolta relazionale” negli approcci psicodinamici e la “svolta affettiva” nelle neuroscienze sta portando in primo piano la corporeità, ciò fa sì che la comunità bioenergetica sviluppi un atteggiamento autoriflessivo e si chieda cosa indichiamo nelle varie situazioni con la parola corpo. Prendo spunto dall’articolo di Angela Klopstech, “Di che corpo parliamo? Il concetto di corpo in psicoterapia.” (rivista Idee in psicoterapia, vol. 3, N. 1-2010, pp. 33-48). Nelle psicoterapie orientate sul corpo, secondo Klopstech, troviamo diverse definizioni di corpo: il corpo energetico, “energetic body”, e il corpo strutturato caratterialmente, “character structured body” (Reich, Lowen, Kelley, Pierrakos); il corpo formativo, “formative body” (Keleman); il corpo flusso energetico, “energy flow body” (Boadella); il corpo gesturale, “gestural body” (terapia della Gestalt). Klopstech ci suggerisce di riflettere su un ulteriore elenco: il corpo dei comportamenti, il corpo dell’energia, il corpo del respiro, il corpo del movimento, il corpo scientifico, il corpo medico e psicosomatico, il corpo sessuale, il corpo appassionato. Sono d’accordo sulla necessità di confrontarci sulla ricchezza dell’esperienza a cui la parola corpo si riferisce. Mi sembra anche importante cogliere gli spunti che provengono dall’antropologia culturale e dalla storia dei costumi riguardo alla de-sacralizzazione e ri-sacralizzazione del corpo in Occidente, così come riguardo all’impatto della tecnologia, quella medica in particolare, delle telecomunicazioni e del cybermondo ( internet, social network, realtà virtuali, ecc.) sulla percezione corporea.

 

Punto E) I seminari di Sylvia Conant

Sylvia Conant ha lavorato all’integrazione della Bioenergetica con il metodo di Peter A. Levine- il cui libro di riferimento è “Traumi e shock emotivi, come uscire dall’incubo” – per curare lo shock da trauma e ha tenuto, negli anni scorsi, dei seminari presso la SIAB. Io ho partecipato a due incontri e ho apprezzato il suo lavoro e il garbo che le è caratteristico. Si è trattato di un lavoro di grande finezza, di tessitura, di un lavoro sulla strutturazione. Il lavoro di Levine si concentra sul favorire l’azione autocurativa del processo naturale dell’energia vitale che si muove in modo spiraliforme: il trauma, a suo avviso, scinde in due il vortice energetico,  la cura consiste nel mettere in contatto i due vortici, in modo che vengano reintegrati nella corrente principale. Credo che possa essere interessante condividere, a distanza di alcuni anni, l’effetto di quell’esperienza. Potrebbe essere interessante sapere da lei se ha continuato ad occuparsene.

 

Punto F) La definizione proposta dal DSM IV di Disturbo Post-traumatico da Stress (DPTS)

Il DSM IV non deve essere considerato uno strumento neutro, come ogni repertorio psicodiagnostico veicola una Weltanschauung (visione del mondo), dalla quale deriva la teoria e la prassi terapeutica. In generale, il DSM IV applica il modello medico alla sofferenza psichica e in questo modo sposa un atteggiamento riduzionista nei confronti dello studio della condizione umana. In particolare, il DSM IV pone il DPTS nella categoria dei Disturbi d’ansia e fornisce 6 criteri diagnostici. Il Criterio A ci dice che dobbiamo ricercare eventi implicanti morte, rischio di morte, minaccia dell’integrità fisica propria o altrui, e che dobbiamo verificare se la persona ha reagito con paura intensa, orrore e senso d’impotenza. I tre criteri seguenti, B-C-D, riportano quella che è definita la triade sintomatologica del DPTS: reviviscenza, evitamento, aumentato arousal psicofisiologico. Gli ultimi due criteri, E-F, riguardano la durata dei disturbi e il loro impatto sulla vita della persona: la durata deve essere superiore ad un mese, altrimenti si tratta di Disturbo da Stress Acuto; “Il disturbo causa disagio clinicamente significativo o menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti.” (DSM IV, pp. 473-474) Negli ultimi dieci anni, è in atto un dibattito sull’adeguatezza e sulla fondatezza della diagnosi di DPTS, a partire dall’inclusione all’interno dei Disturbi d’ansia, categoria considerata generica e basata sulla visione dell’ansia solo come sintomo da debellare e non, invece, come messaggio da interpretare e come funzione dell’area della personalità relativa al coping, così come gli incubi ricorrenti e le strategie di evitamento. Le reazioni delle persone traumatizzate vengono decontestualizzate, private del loro valore adattivo e definite come sintomi di un disturbo. Ciò è particolarmente evidente nel caso del Criterio C riguardante i sintomi di evitamento e la diminuzione della reattività, ne vengono elencati sette (ne servono tre per porre la diagnosi). Il fatto di cercare di evitare pensieri, attività, luoghi e persone associate all’evento traumatico sono sicuramente azioni dotate di senso il cui valore adattivo deve essere rivendicato e, quindi, restituito alla persona per non renderla ancora più vittima del trauma e per promuovere il processo di recupero della padronanza di sé. La visione medicalizzata che disarticola l’unitarietà del soggetto umano e lo riduce a meccanismo inceppato va di pari passo con la proposta di terapie farmacologiche e di psicoterapie che hanno come obiettivo l’estirpazione dei presunti sintomi.

 

Punto G) La nostra bibliografia sul trauma

Sarebbe opportuno raccogliere la nostra bibliografia sul trauma e, magari, ricavarne un testo collettaneo. Parto dal volume n. 1-1998 della rivista dell’IIBA, il primo dei due volumi dedicati dalla rivista al trauma dal punto di vista individuale (il primo) e dal punto di vista collettivo (il secondo). Ne riporto l’indice tradotto da me: Introduzione, John Conger; Il trauma dello shock cefalico, Robert Lewis; Trauma e recupero, Marvin H. Berman; Emorragia cerebrale e amicizia, Charles Lustfield; Potatura (poesia), Susan Downe; Il complesso del Disturbo da Stress Post-Traumatico: rimettere insieme i pezzi, Louise Frechette; Chirone (poesia), Zoé de Frietas; Urlo e violenza: un esempio di uso del lavoro corporeo bioenergetico, Alice Kalen Ladas; Lavorare con le persone abusate sessualmente: come agire con questi/e clienti, Doerte Laschinsky; Leda (poesia), Susan Downe; Il pronto soccorso emozionale: curare il trauma della nascita, Silja Wendelstadt; La traumatizzazione vicaria: prevenzione e cura, Barbara E. Davis; L’inaccettabile orrore dell’inconcepibile, Pierre Rotschild. Il secondo volume, n. 1-1999 ha il seguente indice: Introduzione, John Conger; Murciélagos (poesia), Kristin Rosekrans; Politiche incarnate: il conflitto israelo-palestinese e la mia personale guarigione dal DPTS, Dave Berceli; Il trauma e il riflesso di trasalimento: sua creazione e risoluzione, Dave Berceli; Lavorare in un Paese di Passione con un Popolo di Passione (la Palestina), Geoffrey Whitfield; L’emorragia cerebrale: il mio racconto, Gay Mallon Lustfield; Passi tra la vita e la morte, Knut Brakert; La Bioenergetica applicata alla clinica sociale (in Brasile), Grace Wanderly de Barros Correia, Jayme Panerai Alves, Gedalva Rapela, Lucina Araujo; Il caso di una sopravvissuta alla tortura politica (in El Salvador), Maryanna Eckberg (direttrice del servizio clinico in un Centro di cura per sopravvissuti alla tortura politica); Trattamento dello shock traumatico. Una prospettiva somatica, Maryanna Eckberg; La traumatizzazione di una società. La lotta in El Salvador continua, Kristin Rosekrans. Poi, mi viene in mente l’articolo di Robert Lewis, Il trauma e il corpo, apparso sulla rivista dell’IIBA, vol. 11, n° 2-2000, e il suo scritto del 1988 Ricollocare la testa nel suo posto reale sulle spalle: un primo passo del grounding del falso Sé  (traduzione di Nives Garuffi ad uso interno della SIAB), e i 2 seminari da lui tenuti sull’argomento a cui ho partecipato, quello di Roma, nel novembre del 1995, organizzato in collaborazione dall’Associazione “Il Laboratorio”, diretta da Salvatore Scollo, e dalla SIAB che ha ospitato il seminario nei suoi locali, e quello di Taormina, nell’aprile del 1997, organizzato sempre dall’associazione “Il Laboratorio”.  Come nel caso dei seminari di Sylvia Conant, citati al punto d), sarebbe interessante, a mio avviso, raccogliere gli effetti che la partecipazione ai seminari di Robert Lewis ha avuto su quelli/e di noi che vi hanno partecipato, sia a livello personale che nel lavoro bioenergetico con i/le nostri/e clienti. Nel n. 2-2008 della nostra rivista è apparso l’articolo di Guy Tonella, Paradigmi per l’analisi bioenergetica all’alba del XXI secolo, al  Paradigma V – Un modello metodologico per il trauma, l’autore cita: il concetto di “shock cefalico” di Robert Lewis; il lavoro di Maryanna Eckberg con i torturati politici (anche lei ha integrato le tecniche di Levine con le nostre); il lavoro sul trauma con i grandi gruppi di Dave Berceli. Inoltre, Tonella cita un articolo di Robert Lewis, Human Trauma, apparso sulla rivista Energy and Character, n. 3-2003 (pp. 32-40), in cui Lewis discute l’approccio alla cura del trauma di Peter Levine considerando il modello incompleto perché privo di riferimenti alla teoria dell’attaccamento. Ma c’è sicuramente altro.

 

Punto H) Trauma, ciclo di vita, risorse personali e uso delle metafore

Perché il vissuto traumatico venga reintegrato nel processo esistenziale delle persone, invece che ridotto a collezione di sintomi da estirpare, può essere molto utile tenere in particolare conto la fase del ciclo di vita in cui la persona inizia il lavoro terapeutico, così come il momento del ciclo di vita in cui la persona ha incontrato l’evento traumatico. E’ importante, infatti, che ad ogni fase di vita vengano collegate competenze e finalità. Ciò serve a ristabilire e a sviluppare il rapporto con il tempo, rapporto stravolto dal trauma. Fare il punto della fase di vita in cui si trova, aiuta la persona a radicarsi nel tempo, a rifarci pace. Lo sviluppo dell’alleanza terapeutica risulta particolarmente centrale nella terapia del trauma e di tale sviluppo è parte integrante l’individuazione esplicita, condotta in modo cooperativo, delle risorse e dei limiti della personalità della persona traumatizzata. E’ risultato molto importante anche l’approfondimento della relazione nel senso della Bioenergetica bi-personale. L’attenzione alla relazione in senso bi-personale comprende, come detto sopra, l’attenzione alla comunicazione verbale, nel senso di cooperare alla costruzione della narrazione terapeutica, attraverso la condivisione di metafore che traducono i vissuti corporeo-emozionali condivisi.

 

Punto I) Ultimi sviluppi delle neuroscienze: neuroni a specchio, Gershon, Porges.

“…Peter Brook ha dichiarato in un’intervista che con la scoperta dei neuroni a specchio le neuroscienze avevano cominciato a capire quello che il teatro sapeva da sempre. Per il grande drammaturgo e regista britannico il lavoro dell’attore sarebbe vano se egli non potesse condividere, al di là della barriera linguistica o culturale, i suoni e i movimenti del proprio corpo con gli spettatori, rendendoli parte di un evento che loro stessi debbono contribuire a creare. Su questa immediata condivisione il teatro avrebbe costruito la propria realtà e la propria giustificazione, ed è ad essa che i neuroni a specchio, con la loro capacità di attivarsi sia quando si compie un’azione in prima persona sia quando la si osserva compiere da altri, verrebbero a dare base biologica.”  Si legge questo nella prima pagina del libro di G.Rizzolatti e C.Sinigaglia, “So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni a specchio.” (Cortina, 2006), in cui descrivono la loro interessante scoperta di rilevanza internazionale. Di questo brano mi preme sottolineare l’affermazione che si tratta di mettere a fuoco la “base biologica” e non di fornire una “spiegazione biologica”, ovvero che non si tratta della riduzione di un fenomeno complesso ad uno solo dei suoi aspetti, quello biologico, appunto, in quanto gli autori affermano a chiare lettere che questo aspetto ne rappresenta specificamente la base. Ciò non diminuisce di certo l’interesse di questa scoperta, piuttosto, a mio avviso, le conferisce il giusto valore e le attribuisce il posto che le spetta nel campo che comprende i tentativi di descrivere la complessità del vissuto umano. Inoltre, mi sembra che vada nella stessa direzione antiriduzionista anche il fatto che gli autori abbiano voluto introdurre il frutto del loro lavoro facendo riferimento a quell’importantissima manifestazione culturale rappresentata dal teatro. Il teatro, infatti, costituisce una somma di espressioni artistiche e, in questo senso, può essere considerato una delle più interessanti espressioni del desiderio di integrare e rappresentare, nell’insieme dei suoi vari aspetti, l’esperienza umana. In un altro punto (p.3), gli autori, affermano che non si deve più parlare di “meri movimenti” ma sempre di “atti” quando si studia il comportamento motorio umano. Anche questa affermazione appare animata dal desiderio di rispettare la complessità umana. Un atto, infatti, è qualcosa che ha un’origine e un fine, ovvero, qualcosa che spalanca un mondo di affetti, di credenze e valori nonché di condotte.

La parola “attore” deriva proprio dal verbo “agire” e definisce chi compie degli “atti”. Se, dunque, ogni movimento ha un’origine e un fine, in quanto ha la dignità di “atto”, il movimento stesso può essere definito, con termini teatrali, una “messa in scena” di noi stessi/e, e in questa definizione rientra anche la postura, come risultato del rapporto tra zone motorie, così come la mimica, la qualità dello sguardo e la qualità del suono della nostra voce. La corporeità, nel suo insieme di emozioni e azioni, risulta intrinsecamente espressiva. “Al pari delle azioni, anche le emozioni risultano immediatamente condivise (attraverso l’attivazione di specifici circuiti specchio): la percezione del dolore o del disgusto (per es.) attivano le stesse aree della corteccia cerebrale che sono coinvolte quando siamo noi a provare dolore e disgusto. Ciò mostra quanto radicato e profondo sia il legame che ci unisce agli altri, ovvero quanto bizzarro sia concepire un io senza un noi.” (p.4) Il sistema dei neuroni a specchio ci permette, dunque, di empatizzare – di provare le stesse cose -, ma fa ancora di più perché ci permette, allo stesso tempo, di immaginare intenzioni, aspettative e motivazioni altrui e tutto questo “senza far ricorso ad alcun tipo di ragionamento, basandosi unicamente sulle proprie competenze motorie.” (p.4). Si tratterebbe di “un sistema di risonanza”(p.113) – quante volte ci ritroviamo ad usare nel lavoro bioenergetico questa parola “risonanza”! – e sarebbe alla base dell’esperienza di “uno spazio d’azione condiviso, all’interno del quale ogni atto e ogni catena d’atti, nostri e altrui, appaiono immediatamente iscritti e compresi senza che ciò richieda alcuna esplicita o deliberata azione conoscitiva.”(p.127). In altre parole, si tratterebbe dell’instaurarsi di un “terreno di esperienza comune”(p.4), che potremmo anche definire una scena condivisa. Tale esperienza trova, dunque, immediatamente posto dentro di noi al di fuori del controllo cosciente, e, in un secondo momento, grazie al processo della narrazione che noi costruiamo insieme a qualcun/a altro/a, o anche da soli/e, ma sempre in previsione della comunicazione interpersonale, l’esperienza diventa cosciente e va a far parte della storia della vita e, quindi, fonda la parte cosciente della nostra identità, come è ben illustrato da Adriana Cavarero nel suo “Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione.” (2005).

E con questo veniamo ad una necessaria incursione nell’ambito della riflessione sul concetto di “coscienza”. Quando diciamo, nel lavoro su noi stessi/e, che occorre ricongiungere il pensare e il sentire, mi sembra che spesso identifichiamo il pensare con l’attività cosciente, come se tutto il lavoro di organizzare l’esperienza fosse a carico dell’aspetto cosciente della personalità. Ma come abbiamo cominciato a mettere a fuoco, grazie agli accenni al lavoro di Rizzolatti e Sinigaglia, sembrerebbe che le cose stiano in tutt’altra maniera. Può essere interessante, a questo punto, aggiungere alle nostre fonti di riflessione l’interessante disamina di cosa non è la coscienza, offerta da Julian Jaynes nel suo libro “Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza.” (pp.37-110).

In estrema sintesi, l’autore afferma, sulla base di fonti sperimentali, che:

– la coscienza non è l’intera attività mentale, al contrario la maggior parte dell’attività mentale si svolge benissimo senza il suo intervento;

– la coscienza non è una copia dell’esperienza, piuttosto è una ricostruzione dell’esperienza da un punto di vista esterno, di un osservatore;

– la coscienza non è necessaria per l’apprendimento, piuttosto “essa opera decidendo cosa va imparato, o creando regole per imparare meglio, o verbalizzando coscientemente certi aspetti del problema”;

– la coscienza non è necessaria per il pensiero o il ragionamento, infatti, “le soluzioni appaiono improvvisamente come se saltassero fuori dal nulla”. In particolare, Jaynes fa riferimento alle ricerche della Scuola del pensiero senza immagini di Wurzburg (Germania, primi del ”900) e agli esperimenti di Ach, Watt, Kulge e altri.

Rispetto alla scoperta del secondo cervello nella pancia, riporto solo alcune riflessioni relative alla lettura del lavoro di Gershon, neurobiologo presso la Columbia-Presbyterian Medical Center di New York. Gershon si muove nello spazio di intersezione tra neurobiologia e fisiologia dell’apparato digerente, dimostrando come tutto intorno al tubo digerente ci sia una specie di cervello in forma di rete, indipendente dal sistema nervoso centrale, in grado di utilizzare una complessa trama di neurotrasmettitori, di controllare la motilità, la secrezione, l’assorbimento gastrointestinale, di immagazzinare ricordi, stati d’animo e di influire in modo decisivo sull’umore e il benessere psicofisico. L’autore si sofferma sul “riflesso peristaltico”, che è stato centrale nella costruzione del modello reichiano, che Lowen ha ereditato. Inoltre, ci fa notare come al contrario di ciò che avviene per la cosiddetta attività nervosa “volontaria”, nell’attività nervosa cosiddetta “involontaria”, tipica del sistema nervoso autonomo, il segnale non si trasmette secondo lo schema “tutto o niente”, ma può essere, amplificato, indebolito, ovvero, modulato attraverso processi che accadono nelle sinapsi del SNA, tutto ciò permette un istantaneo adattamento alle circostanze in mutamento. Se non è saggezza questa?! E quanto somiglia alla metis greca, soppiantata dal logos nella modernità occidentale al servizio della cosiddetta “civilizzazione”: “La metis è una forma di intelligenza e di pensiero, un modo di conoscere: essa implica un insieme complesso, ma molto coerente, di atteggiamenti mentali, di comportamenti intellettuali, che combinano l’intuito, la sagacia, la previsione, la spigliatezza mentale, la finzione, la capacità di trarsi d’impaccio, la vigile attenzione, il senso dell’opportunità, l’abilità in vari campi, un’esperienza acquisita dopo lunghi anni, essa si applica a realtà fugaci, mobili, sconcertanti e ambigue, che non si prestano alla misura precisa, né al calcolo esatto, né al ragionamento rigoroso. (…) Essa appare sempre più o meno ‘in profondo’, immersa in una pratica che non si preoccupa mai, anche quando l’utilizza, di renderne esplicita la natura né di giustificarne il modo di procedere.” Ho trovato la definizione della “metis” nel libro di M. Detienne e J.-P. Vernant, “Le astuzie della ragione nell’antica Grecia.” (Laterza, 1984, p. XI).

La teoria polivagale di Porges ci interessa anche perché si sta già collegando alla terapia del trauma. Stephen W. Porges, allievo di Paul McLean, dirige il Brain-Body Center del Dipartimento di Psichiatria dell’Università dell’Illinois a Chicago. Si deve al suo lavoro un modello neurofisiologico innovativo del rapporto tra sistema nervoso autonomo (SNA) e dinamica delle emozioni, denominato “Teoria polivagale”. Porges ipotizza, infatti, 3 livelli di regolazione dell’esperienza viscerale-emotiva, dal basso verso l’alto:

  1. a) il primo livello è il sistema vago-dorsale (Dorsal Vagal Complex DVC),

composto dal Nucleo Solitario, il nucleo di ricezione dell’input, e dal Nucleo motorio-dorsale del nervo vago, il nucleo di trasmissione degli output;

  1. b) il secondo livello è costituito dall’Amigdala, un centro nervoso superiore subcorticale, la quale invia messaggi verso l’alto alla corteccia cognitiva, orizzontalmente verso i gangli basali, verso il basso al nucleo preventricolare dell’ipotalamo (paraventricolar nucleus), il quale, a sua volta, invia messaggi tramite il simpatico direttamente alla colonna vertebrale e, in questo modo, oltrepassando i nuclei viscerali dell’asse cerebrale (brainstem), arriva ai vari organi viscerali;
  2. c) il terzo livello è detto sistema ventro-vagale (Ventral Vagal Complex VVC),

è regolato dall’Ambiguous Nucleus nel brainstem e possiede forti connessioni con i livelli encefalici più elevati, quali il lobo orbitofrontale e il giro cingolato, a causa di ciò mette in relazione la dimensione viscerale con la dimensione relazionale, andando a costituire una parte fondamentale della regolazione interattiva delle esperienze viscerali-emozionali.

Porges con la sua “Teoria polivagale” descrive l’attività del nervo Vago in modo molto più ricco che in passato, erede di Paul McLean, dimostra l’importanza della funzione degli afferenti del Vago per la regolazione delle strutture cerebrali superiori, concentrando l’attenzione sul legame fra i cambiamenti filogenetici nel Sistema Nervoso Autonomo (SNA) e il comportamento sociale. Il Vago viene considerato un “sistema funzionale”, un sistema neurale integrato che comunica in modo bidirezionale fra visceri e cervello. Il Vago eserciterebbe una funziona fondamentale nella regolazione neurale dello stato viscerale. La definizione più ampia del SNA proposta da Porges consente di valutare l’influenza del Vago in situazioni comportamentali e fisiologiche associate al comportamento sociale e ai disordini psichiatrici.

Porges si collega agli studi etologici sui mammiferi che descrivono i “comportamenti orientati alla sopravvivenza” associandoli a specifici “stati neurocomportamentali”, i quali, a loro volta, definiscono:

– la distanza a cui i mammiferi possono essere avvicinati,

– se conviene loro comunicare,

– o stabilire nuove alleanze.

Infatti, i mammiferi sanno distinguere gli amici dai nemici, sanno valutare la sicurezza dell’ambiente e sanno comunicare con la loro unità sociale. I primati, in particolare, gli animali più simili a noi umani, possiedono un tipo di organizzazione neurale che regola lo stato viscerale per adeguarsi ad un comportamento sociale. Sulla base di tale collegamenti, la Teoria polivagale sottolinea la connessione esistente tra i nervi che controllano i muscoli del viso e del collo, detti efferenti viscerali speciali, perché i loro nuclei terminali, situati nell’asse cerebrale (brainstem), agiscono direttamente su un sistema neurale inibitorio che rallenta il ritmo cardiaco, diminuisce la pressione sanguigna e favorisce il mantenimento di stati di calma. Le strutture dell’asse cerebrale funzionerebbero da “portale”, raccogliendo informazioni sensoriali che contribuiscono alla regolazione delle strutture cerebrali superiori, le quali, a loro volta, come in qualsiasi sistema di feedback, partecipano alla regolazione dell’asse centrale in una comunicazione bidirezionale. Tale insieme sarebbe alla base dei comportamenti di adattamento.

Dunque, il sistema del Vago potrebbe costituire un portale che controlla e stimola i processi neurali superiori. Attraverso il “freno vagale”, che agisce sul ritmo cardiaco, infatti, viene modulato lo stato viscerale consentendo all’individuo di assumere e interrompere rapidamente interazioni con oggetti e altri individui. Porges ipotizza che possa influenzare anche il ritmo respiratorio. Forme di stimolazioni vagali sono le rotazioni e le oscillazioni del capo, tali manovre possono costituire forme di strategia vitale di compensazione di un’insufficienza funzionale del sistema vagale, come si osserva in pazienti con diagnosi di autismo. Su adulti normali si è notato che, dopo un periodo di scuotimento oscillatorio ritmico, si verifica un aumento del tono vagale cardiaco. In accordo con la Teoria polivagale, risulterebbe, dunque, che la stimolazione degli afferenti del Vago migliori la qualità della componente somato-sensoria e, forse, anche di quella viscero-motoria del Sistema di Ingaggio Sociale (SIS). Il SIS è il sistema formato dalle strutture neurali che presiedono ai comportamenti sociali. Il SIS comprende positivi comportamenti sociali volontari basati sull’espressione della capacità di comunicare con l’ambiente sociale. L’attivazione del SIS e della connessa abilità relazionale sarebbe, dunque, una proprietà intrinseca dell’apparato biologico, e sarebbe favorita dalla percezione da parte dell’individuo di una condizione di sicurezza dell’ambiente. In caso di pericolo, verrebbero, invece, adottate più facilmente strategie di comportamento “combatti-o-fuggi” o di “immobilizzazione”. In quest’ultimo caso, si verifica un deterioramento della funzione del SIS, una limitazione delle sue connessioni con la corteccia, che non riesce così ad impegnarsi nella regolazione della comunicazione. In sintesi, si ritiene che il SIS moduli lo stato fisiologico di sostegno a un comportamento sociale positivo. La Teoria polivagale si offre come piattaforma teoretica neurofisiologica al comportamento sociale, ritenendo che il comportamento sociale sia una proprietà intrinseca dello sviluppo filogenetico del Sistema Nervoso Autonomo (SNA). La Teoria polivagale adotta alcune idee fondamentali di McLean, quali: l’importanza dell’evoluzione, le strutture limbiche e gli afferenti vagali, su cui costruisce una piattaforma preliminare per lo studio dei rapporti tra il Vago e il comportamento sociale, fornendo anche interessanti spunti per la comprensione degli aspetti fisiologici e comportamentali caratteristici dello stress, del trauma, e di disturbi psichiatrici come l’autismo.

Si ritiene che il concetto di SNA Triuno di Porges possa radicare l’importanza del legame materno e dell’intimità nell’anatomia e nella filogenesi. Il lavoro di Porges viene combinato con il metodo di Levine di risoluzione del trauma. Le tre branche del SNA vengono individuate dagli/lle operatori/trici in modo da guidare il/la cliente a soddisfare gli impulsi relativi al livello attivo, in modo da restaurare la capacità di agire a tutti e tre livelli. Il terzo livello viene definito anche “Sistema nervoso sociale”, competente per costruire legami, e modulare l’emotività e i comportamenti in relazione all’ambiente umano e naturale. E’ centrato sulla voce, l’udito, il contatto visivo e l’espressione del viso, le quali hanno la capacità di far rilasciare i neurotrasmettitori che inducono sensazioni di piacere in colei/lui a cui ci si rivolge per ricevere un comportamento di attenzione affettuosa e di cura, con uno stretto rapporto con le funzioni precognitive. Porges ha dimostrato che sotto stress il “sistema umano” cerca di mettere in atto per prima la parte più nuova, filogeneticamente parlando, e maggiormente sofisticata del suo equipaggiamento, ma se questo tentativo fallisce, ricorre alle risorse più antiche: dunque, sotto stress, l’essere umano prima adotta le tattiche socio-relazionali, se falliscono, adotta la tattica “attacco/fuga” e, se anche questa fallisce, si immobilizza. A causa di un trauma la capacità di usare le strategie più nuove e sofisticate può venire erosa cosicché le strategie più antiche diventano la base abituale della risposta. Le esperienze che inducono la “devoluzione” verso il livello della strategia simpatica (iper-) o parasimpatica (ipo-) inducono l’amigdala ad aspettarsi il tradimento nelle situazioni di intimità.

Il portale del parasimpatico è il nervo Vago e il dorso; il portale del simpatico sono i muscoli degli arti; il portale del “sociale” sono i nervi cranici V, VII, IX e XI, identificabili con la struttura embriologica detta “Arco faringeo”. Si lavora sul parasimpatico attraverso il respiro e il movimento della pancia ad esso connesso. Si lavora sul parasimpatico impegnando i muscoli delle braccia e delle gambe, poi, si sperimenta il rilassamento. Si lavora sul “sociale” suggerendo al/lla cliente di ricordare una persona cara o un animale domestico e di usare l’immaginazione, in modo da indurre le calde sensazioni del riconoscimento sorridente, “smiling recognition”, (nervi cranici V e VII). Il lavoro di Porges sta venendo integrato col metodo di Levine, con il Focusing, con la terapia della Gestalt e con l’ipnosi.

 

Punto L) L’istinto e l’intelligenza istintuale, la parte selvaggia e il processo di civilizzazione.

“Non esiste una definizione univoca di intelligenza, ma…ogni definizione risente dell’orientamento di pensiero che la formula.”, scrive Galimberti nel Dizionario di Psicologia da lui curato (p. 487), e alla voce ‘Istinto’ inizia così: “Risposta organizzata di una specie, filogeneticamente adattata a una determinata situazione ambientale.” (ivi p. 517). Una definizione molto estesa e interessante è quella che ne dà Alain Delanay nell’Enciclopedia Einaudi (p. 1032): “Il concetto di istinto si trova sul punto di confluenza di numerosi problemi:

– la teoria della conoscenza,

– lo studio delle ‘abitudini’ dell’uomo e degli animali,

– la teoria dell’evoluzione e la sua rilettura in chiave genetica,

– la psicologia sperimentale e i suoi rapporti con la neurofisiologia,

– l’approccio psicanalitico dell’Io,

– e, infine, l’interpretazione eto-ecologica del comportamento.”

Nozione ormai controversa e che è andata scomparendo nei trattati di etologia, “l’idea di istinto conserva tutta la sua forza e la sua influenza sulla soggettività. Non si tratta di un ritardo dell’opinione sulla scienza, ma piuttosto dell’affermazione più o meno cosciente nel cuore del soggetto, secondo cui la scienza non affronta mai il problema reale e non fa che respingerlo…E’ dal centro dell’Io nel suo rapporto col mondo che l’istinto viene vissuto come enigma, enigma dell’animalità e – per un gioco di specchi – enigma dell’umanità. (…) l’istinto può essere concepito come una minaccia di animalità all’interno dell’Io (…) Ma l’istinto può anche apparire come una promessa di apertura sul mondo. Allora è lo slancio salvifico di ogni essere umano, che gli consente di lasciarsi portare dalla propria natura verso le cose, e di coglierle in un rapporto d’intimità. In questo senso l’istinto sarebbe…il mezzo col quale l’essere umano sfugge al mostro oggettivo.” (ivi pp. 1032-33).

La disamina del concetto di “istinto” richiede di porre un’attenzione particolare alla teoria dell’evoluzione e alla definizione di “riflesso”, secondo una catena logica del tipo: riflessi-tropismi-istinti-intelligenza. La suddetta disamina esula ovviamente dai limiti di questo contributo e va rimandata ad un contesto specifico. E’ il caso, invece, qui di ricordare che la ridefinizione della dimensione istintuale nell’essere umano si situa nell’orizzonte della “sfida della complessità” e della “crisi delle certezze”. La realtà torna ad essere ufficialmente considerata imprevedibile; la presa che la scienza occidentale credeva di avere su di essa si allenta vieppiù, mascherata a stento dal rutilante e commerciale spettacolo del progresso tecnologico.

Vorrei condividere adesso un esempio di come potrebbe cambiare l’atteggiamento scientifico ufficiale. Negli anni ’50, Barbara McClintock, eminente citogenetista, individuò una funzione sconosciuta studiando i loci genetici soggetti a mutazione dei cromosomi del granturco, cosa che le valse il premio Nobel: alcuni elementi genetici apparvero capaci di una “trasposizione autonoma”, non indotta dall’esterno. Ma la cosa per noi più interessante è il modo in cui la McClintock descrisse il suo “orientamento centrato sull’organismo”. Nelle interviste che le sono state fatte, la biologa ha utilizzato ripetutamente espressioni come: “lasciare che la materia ti parli”; “lasciare che sia la materia stessa a dirti cosa fare”, nel suo caso si trattava della pianta del mais. Dopo avere avuto cura di “conoscere” una per una le piante di mais a sua disposizione, osservandole fin dall’inizio e in ogni fase del loro ciclo di vita – perché, a suo dire, ognuna è diversa dall’altra e le differenze sono importanti come le somiglianze -, una volta al lavoro con i cromosomi, per ore ed ore china sul microscopio, li vide diventare grandi tanto che si sentì insieme a loro nello stesso ambiente: “Io non ero più al di fuori, ma mi trovavo lì con loro, ero parte del sistema.”; “Mi sentivo proprio come se fossi lì, e loro fossero miei amici.” Proprio questa “sensibilità (feeling) per l’organismo”, a suo dire, le permise di cogliere una caratteristica che fino ad allora era sfuggita alla ricerca, come se le piante del mais si fossero fatte “conoscere” da lei, dato il particolare rapporto che lei aveva instaurato con loro. La ricercatrice, infatti, aveva deposto spontaneamente l’atteggiamento di arroganza manipolatrice tipico del sapere occidentale e si era rivolta alle piante con sentimento di rispetto e comunanza, con il sentimento di appartenere allo stesso mondo-comunità. L’esperienza della McClintock è, a mio avviso, un esempio della direzione in cui l’atteggiamento conoscitivo occidentale dominante, chiamato “scienza”, potrebbe muoversi; infatti, parte fondamentale del rinnovamento dell’atteggiamento esistenziale-cognitivo occidentale sembra risiedere proprio nel recupero del sentimento di “sentirsi parte”.

Il sentimento di “comunanza-appartenenza” può essere coltivato facendo danzare insieme il sentire, il pensare e l’immaginare, e questa danza è ciò che ci fa sentire profondamente e pienamente in contatto con noi stessi/e. Dunque, paradossalmente rispetto a certe convinzioni superficiali, proprio l’esperienza di essere profondamente e pienamente in contatto con noi stessi/e non si risolve in una chiusura individualistica, ma stimola, invece, risorse interiori che ci spalancano a vissuti di coappartenenza e di coevoluzione col nostro ambiente relazionale e naturale. In un clima siffatto, le opposizioni “società/natura” e “individuo/comunità” potrebbero trasformarsi in rapporto fecondo tra polarità esistenziali-relazionali. Ed è questo il messaggio bioenergetico, il quale auspica l’avvento del “pensiero funzionale” capace di mettere in dialogo le polarità: “La nostra logica vede solo le cose come dualità, come causa ed effetto. La comprensione del paradosso dell’unità e della dualità è competenza del pensiero funzionale, il quale richiede una nuova forma di coscienza.”, come scrive Lowen in “Bioenergetica” (p. 295). Questa nuova forma di coscienza e di conoscenza si può manifestare, secondo Lowen, solo attraverso la resa dell’Io al Sé. E il processo inizia col riconoscimento da parte dell’Io occidentale della sua corporeità e del suo legame con la terra, la natura e il cosmo grazie al rapporto mediato all’inizio dalle nostre madri e dalla comunità umana e, poi, da adulti/e, stabilito anche in modo diretto con la Madre Terra e con la spinta vitale dentro di noi. “Noi siamo creature della terra, animate dallo spirito dell’universo. La nostra umanità dipende da questa connessione con la terra. (…) Più ci allontaniamo dal suolo, tanto più si ingigantisce l’immagine di noi stessi (del nostro Io).” (p. 234). Ciò produce un “mondo” illusorio. “In questo mondo illusorio non ci sono sentimenti di tristezza o di gioia, di dolore o di gloria. Non ci sono sentimenti reali solo sentimentalismi.” (p. 234) ” Essere più in contatto con il corpo significa essere in contatto con i sentimenti e permette di sviluppare la padronanza nella loro espressione, questa è la base della “pace interiore” (p.235).

La corporeità bioenergetica connessa con la terra, la natura e il cosmo permette di abbandonare i falsi valori dell’Io occidentale – il potere sulla natura e sugli altri esseri umani, il possesso di beni materiali, il successo e la fama -, falsi valori centrati su una forma di conoscenza che mira al dominio, e di recuperare i veri valori dell’Io: la dignità, l’onore, il rispetto, il senso della comunità, tutto questo è frutto del riconoscimento del fatto che l’Io è al servizio del Sé, dunque, dell’esperienza della resa dell’Io (p. 237). Ma l’Io da sacrificare deve essere in buona salute, altrimenti siamo ancora nel mondo delle illusioni dell’Io occidentale! In questo consiste l’aspetto paradossale del processo bioenergetico: curare l’Io occidentale rigido, scisso, frammentato, gonfiato, sbrindellato, vaporizzato per dedicarlo appassionatamente alla manifestazione del Sé corporeo. Ma solo uno sguardo occidentale resta bloccato davanti al paradosso in questione, poiché il paradosso è il segnale del dialogo tra gli opposti, abilità che l’Occidente sembra aver cominciato a perdere 2500 anni fa proprio alla sua nascita. La Bioenergetica appare così dedicata a ripristinare questa abilità sapienziale – il dialogo tra gli opposti – attraverso la riconcettualizzazione dell’esperienza in Occidente. La pratica bioenergetica si presenta, infatti, in quest’ottica, come un atto di riconcettualizzazione dell’esperienza occidentale. Se, dunque, la “svolta affettiva” in campo cognitivo ha fatto sì che le neuroscienze stiano identificando un’ampia gamma di ‘sistemi istintivi’ relativi a: l’autoprotezione, il legame sociale, la raccolta di risorse, i comportamenti sessuali, le risposte di sopravvivenza, ecc.; e che si ritenga, oggi, che ognuno di questi ‘sistemi adattivi’ sia dotato di una sofisticata ed unica forma di “intelligenza adattiva”, perché non cominciare, noi bioenergetici/che, a parlare di “intelligenza istintuale”, rivendicando la nostra esperienza e la nostra pratica al riguardo?

La revisione del concetto di ‘istinto’ in connessione con lo sviluppo del “filone culturale corporeo”, di cui l’analisi bioenergetica fa parte, come illustro nel mio articolo “L’analisi bioenergetica e il discorso sulla modernità”, non può non prendere in considerazione le elaborazioni in altre discipline, come la storia, l’etnologia, l’antropologia culturale, la sociologia, ecc., le quali si occupano della dimensione collettiva complessiva dell’esperienza umana. Parliamo del dibattito intorno ai concetti di Wilderness, inglese, e di Wildnis, tedesco, equivalenti. “Wilderness: la natura allo stato selvaggio non alterata dall’intervento dell’uomo, con riferimento ad un ambiente indispensabile alla conservazione della biodiversità”, scrive Tullio De Mauro nel Grande dizionario italiano dell’uso (Torino, 1999). In realtà, si tratta di qualcosa di più, di una filosofia di vita, molto precedente alla cultura ecologista contemporanea. In italiano non abbiamo un corrispettivo del termine inglese o tedesco, “a meno che non si voglia tradurlo con selvatico, ambiente primitivo, selvatichezza in genere”, come ci suggerisce G. Zanghellini in Wilderness come esperienza di vita su Documenti Wilderness (anno XVI, n.1, 1999, p. 1). Significa ritrovare il senso del rapporto con la terra, sentendosi “come un albero nel bosco”, per “trovare il bosco dentro di noi”, per risentirci “ospiti” e “parte” dei luoghi naturali, cercando di non lasciare tracce del nostro passaggio, sintonizzandosi con i ritmi naturali, cercando di “sentire l’ambiente”. “Il singolo non occupa più nella società il posto che l’albero occupa nel bosco: egli ricorda invece il passeggero di una veloce imbarcazione che potrebbe chiamarsi Titanic o anche Leviatano”, scriveva Ernst Juenger, alla fine dell’Ottocento. Egli considera il bosco una sorta di  “cellula primaria” a cui fare riferimento per recuperare il contatto con la nostra stessa essenza. La Wilderness-Wildniss è contrapposta alla “civilizzazione”, intesa proprio come il processo che ha soffocato la natura dentro di noi. Negli Stati Uniti, Henry David Thoreau (1817-1862) rappresenta l’autore di riferimento dal 1854 ad oggi, anno in cui pubblicò “Walden, ovvero la vita nei boschi”.

Il bosco è un luogo di iniziazione e uno spazio sacro nelle religioni della natura. Nel nostro mondo le immagini simboliche che subito ci vengono in mente sono Artemide-Diana e le ninfe, Pan e i fauni. Il culto di Diana rimase vivo nelle campagne fino alla fine del Quattrocento, fino a ché non venne attaccato massicciamente sia dai tribunali religiosi, cattolici e protestanti, sia dai rappresentanti della scienza occidentale in ascesa, demonizzando corporeità, sessualità e immaginazione e inventando la figura della “strega”. Il recupero della parte istintuale-selvaggia dentro di noi anima il “filone corporeo”, prima di tutto in ambito artistico e, poi, grazie a Reich e Lowen, in chiave corporea, appunto, e a Jung, in chiave simbolico-verbale, si è manifestato anche nel campo della psicoterapia. Pensiamo, infatti, come è importante per noi il simbolo dell’albero e l’identificazione con esso nelle nostre esperienze di “radicamento”.

Un contributo recente al riconoscimento del “filone corporeo” come parte integrante del panorama culturale occidentale, è venuto, a mio avviso, dal lavoro dell’antropologo francese Bruno Latour, il quale ha affermato nel suo libro di successo Non siamo mai stati moderni: “In effetti, la società ‘moderna’ non ha mai funzionato in modo coerente con la grande scissura su cui si fonda il suo sistema di presentazione del mondo: quella che oppone natura e cultura. (…) è proprio questo paradigma fondatore che bisogna rimettere in discussione per riuscire a capire il nostro mondo.”(p. 22).

 

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* Dott.ssa Livia GELOSO
Local Trainer in Analisi Bioenergetica (S.I.A.B.)
Membro del Direttivo dell’EFBA-P
(European Federation for Bioenergetic Analysis-Psychotherapy)

La Tecnica Points & Positions di Will Davis

Questa tecnica assume la forma di un massaggio, un tocco diretto e delicato del corpo del paziente steso su un materassino. Il tocco avviene attraverso la pressione su punti specifici e con l’uso di specifici posizionamenti del corpo. Le Posizioni provengono dalla tecnica di manipolazione fisica sviluppata dal dottor Lawrence Jones, un osteopata americano. L’idea che sta alla base delle Posizioni è che la tensione muscolare non sia solo un disturbo strutturale di tipo meccanico ma una disfunzione di tipo neuromuscolare.

P&P accoglie le teorie di Jones e le sviluppate ulteriormente fino ad arrivare all’idea di disfunzione/equilibrio di tipo energetico. Prima di Jones, l’idea comune per rilasciare la contrazione muscolare era di forzare fisicamente il muscolo a rilassarsi applicando una pressione diretta sull’area contratta e forzandola a “rilassarsi”. Con la tecnica di Jones, il muscolo contratto viene isolato e compresso senza dolore, così da accorciare il muscolo contratto stesso: in un certo senso, aumentandone la contrazione. Questo crea una risposta neuromuscolare che rilascia la contrazione muscolare in modo spontaneo.

Da un punto di vista bioenergetico, poiché il muscolo è ora artificialmente tenuto nel suo stato contratto,“al sicuro”, dal terapeuta, la persona può permettere che più energia fluisca attraverso il muscolo. Nello stesso tempo, l’energia che è stata sottratta e utilizzata nel processo iniziale di blocco, è ora libera di ricongiungersi al flusso di energia principale ed è di nuovo disponibile per l’organismo. La seconda parte della tecnica di manipolazione fisica, i Punti, è stata invece sviluppata in modo indipendente. Vi sono alcuni elementi in comune , con i punti dell’agopuntura e dello shiatsu, ma si tratta di una coincidenza.

Dal punto di vista anatomico, i punti si trovano spesso all’inizio e all’inserzione dei muscoli e occasionalmente nel tessuto connettivo formato nel muscolo stesso. L’enfasi non è nelle contrazioni muscolari, ma nella strutturazione del tessuto connettivo. Le contrazione volontarie e involontarie a breve termine sono muscolari, mentre le contrazioni a lungo termine e i trattenimenti che vediamo e con cui lavoriamo nel processo di strutturazione del caratteriale – non sono contrazioni muscolari in sé, ma una accresciuta strutturazione di fasce connettive.

Un muscolo cronicamente stressato si rinforzerà sviluppando strati ulteriori di fasce di tessuto connettivo al suo interno e li riassorbirà una volta che lo stress è finito. Di fatto, il lavoro di liberazione delle ”contrazioni muscolari”, come vengono generalmente chiamate, è in realtà un lavoro sulle fasce ed è più efficace quando si lavora direttamente sulle fasce. I muscoli reagiranno di conseguenza.

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