SINERGISMO POTENZIALE DELL’APPROCCIO REICHIANO E ROGERSIANO di Luigi De Marchi
In quest’articolo, cerco di spiegare in modo più articolato, anche se necessariamente sommario e preliminare, quali sono ai miei occhi i motivi specifici di questo interesse e le potenzialità di sviluppo reciproco intrinseche ad una integrazione creativa tra approccio reichiano e approccio rogersiano.
Per cominciare a comprendere i rapporti attuali e potenziali tra psicologia umanistica e terapie reichiano e post-reichiane si può rifarsi ad alcuni principi originari dell’approccio rogersiano, confrontandoli poi con quelli dell’approccio reichiano.
Ai fini della nostra analisi, cinque vitali principi mi sembrano particolarmente rilevanti:
1) Finalizzazione del trattamento al massimo sviluppo del potenziale umano presente in ciascun individuo.
2) Smedicalizzazione del rapporto terapeutico
3) Dilatazione di tale rapporto nel sociale
4) Rivalutazione dell’intuizione e della sensazione come strumento diagnostico
5) Rivalutazione della fondamentale “bontà” dell’essere umano.
Ai fini della nostra analisi, cinque vitali principi mi sembrano particolarmente rilevanti:
1) Finalizzazione del trattamento al massimo sviluppo del potenziale umano presente in ciascun individuo.
2) Smedicalizzazione del rapporto terapeutico
3) Dilatazione di tale rapporto nel sociale
4) Rivalutazione dell’intuizione e della sensazione come strumento diagnostico
5) Rivalutazione della fondamentale “bontà” dell’essere umano.
1) E’ evidente che il massimo sviluppo del potenziale umano non può scaturire che da una piena vitalizzazione della psiche e del corpo e da una loro profonda armonia.
Poiché con le terapie di derivazione reichiana si sono messi a punto validi strumenti per individuare e risolvere i radicamenti somatici dei disturbi psichici, per riarmonizzare le nostre realtà psichiche e fisiche e per ripristinare i processi naturali di autoregolazione dell’organismo, la crescente integrazione tra terapie del corpo e psicologia umanistica era ed è nella logica delle cose.
Con le terapie del corpo, infatti, si affrontano nodi in aggredibili con le terapie puramente verbali e, soprattutto, si può promuovere lo sviluppo del potenziale umano nella sua globalità psicofisica.
2) Anche a liberare il rapporto psicoterapeutico dai modelli medici (cioè direttivi e autoritaristici) in cui era invischiato prima dell’avvento della psicologia umanistica, le terapie del corpo possono contribuire costruttivamente. Abolendo il tabù del contatto fisico, avvicinando terapista e cliente come esseri umani affratellati dalla loro fisicità, la terapia del corpo demolisce quella barriera di distacco, di intangibilità, di contactlessness dietro cui lo psicoterapista direttivo e convenzionale si è a lungo trincerato per esaltare la sua autorità.
3) La dilatazione della psicologia umanistica nel sociale è avvenuta essenzialmente in due modi: attraverso l’attenzione per le forme generalizzate di alienazione e attraverso il gruppo di incontro o di terapia. Anche a questi livelli l’apporto dell’approccio corporeo di derivazione reichiana è stato prezioso.
Già negli anni ’30 e ’40 Reich segnalava il carattere generalizzato di certe distorsioni della personalità e della convivenza sociale (basti pensare a Psicologia di massa del fascismo).
Inoltre, l’approccio corporeo reichiano e post-reichiano offre nel gruppo un essenziale strumento di comunicazione, contatto e catarsi, tanto che oggi è praticamente inattuabile un “gruppo” che escluda la corporeità.
4) “L’esperienza-scrive Carl Rogers in On becoming a person– è per me la suprema autorità…
Ho imparato che la mia percezione organismica totale di una situazione è più valida del mio intelletto, come strumento di conoscenza”. Sono parole che ricalcano analoghe dichiarazioni di Wilhelm Reich. Ma è evidente che ai fini di questa “percezione organismica totale”, l’approccio corporeo è indispensabile, sia nel momento diagnostico che in quello terapeutico.
5) “Uno dei concetti più rivoluzionari che emergono dalla nostra esperienza clinica-afferma ancora Carl Rogers nell’opera citata- è il riconoscimento sempre più chiaro del fatto che il nucleo più profondo dell’essere umano, gli strati più interni della sua personalità, le basi della sua “natura animale” sono sostanzialmente buone e positive, improntate alla socialità, al realismo e alla razionalità”.
Di nuovo, si tratta di espressioni che si incontrano di continuo nelle più diverse opere di Reich: da Funzione dell’organismo ad Analisi del carattere, da Individuo e Stato ad Ascolta, piccolo uomo.
Reich aveva anzi articolato una teoria della personalità a livello politico, che vedeva nella personalità “progressista” di stampo convenzionale lo strato più esterno e superficiale della stratificazione caratteriale odierna; in quella totalitaria e fanatica, lo strato intermedio, ancora in contatto, seppure in modo perverso e distorto, col nucleo biologico istintuale della natura umana; e in quella “genitale”, cioè in armonia con i propri impulsi d’amore e d’aggressività e con l’ambiente, il nucleo biologico stesso, fondamentalmente buono e autoregolato, dell’uomo.
Fin qui le affinità, più o meno consapevoli, ma ormai chiaramente assimilate, tra psicologia umanistica e approccio corporeo e quello umanistico che potranno scambiarsi con reciproco vantaggio.
A mio parere, dalla psicologia umanistica le terapie di ispirazione reichiana potranno imparare una sempre maggiore e più salutare smitizzazione della figura del terapista, che nel modello reichiano (e spesso anche in quello post-reichiano) resta troppo direttiva e carismatica.
Inoltre, penso che le terapie di ispirazione reichiana potranno trarre un grande vantaggio da quello che a mio parere costituisce il massimo contributo dell’approccio rogersiano alla psicoterapia: cioè il concetto di empatia, di partecipazione emozionale, come strumento terapeutico.
Quando ebbe l’idea semplicemente geniale di imitare l’espressione facciale e corporea dei clienti per meglio comprendere, al di là delle dichiarazioni verbali, quali fossero le loro emozioni profonde, Reich di fatto intuì e insegnò che per comprendere fino in fondo lo stato d’animo e la condizione del cliente il terapista deve riuscire a viverlo in prima persona, nel proprio corpo.
Nella tecnica mimetica di Reich, dunque, il concetto di empatia è implicito: ma solo implicito. Gli manca quella carica di empatia e incondizionata partecipazione umana che si estende in Rogers a tutto il rapporto terapista-cliente e che da all’empatia le sue preziose virtù terapeutiche. Infine, penso che la spinta rogersiana alla smedicalizzazione del rapporto terapeutico abbia un suo essenziale corrispettivo nel sociale: il rifiuto, cioè, dei ruoli salvazionisti, degli atteggiamenti didattici, dei dogmatismi teorici anche in campo politico. Purtroppo ne’ Reich ne’ la maggior parte dei suoi continuatori ortodossi o eretici hanno saputo sottrarsi, sul piano personale, alle lusinghe e alle trappole del messianismo, ma per parte mia ritengo che lo spirito autentico dell’opera reichiana sia libertario (si pensi del resto alle pagine bellissime sul “nuovo leader” ) e che, proprio in quanto finalizzato alla ricerca della verità, sia antidogmatico, inconciliabile con i concetti di “vera Chiesa” o di “sacro testo”.
A sua volta la psicologia umanistica potrà attingere dalle terapie di derivazione reichiana un recupero del passato e dell’inconscio pienamente conciliabile con la particolare attenzione rogersiana al “qui e adesso”. Attraverso il trattamento corporeo, i nodi emozionali sommersi eppure attivi (troppe volte esorcizzati ma non risolti dal costante appello umanistico alla coscienza e alla responsabilità) possono trovare finalmente espressione e soluzione se, come diceva Reich, “il nostro corpo racchiude nei suoi blocchi muscolari la storia del nostro inconscio”.
E per analogia, dall’approccio corporeo la psicologia umanistica potrà trarre indicazioni preziose per una “lettura” appunto corporea delle distorsioni caratteriali.
Del resto, si tratta di scambi teorici e tecnici in via di crescente diffusione tra le varie scuole.
Concludendo, vorrei solo accennare brevemente a un rischio inerente a certi riciclaggi del pensiero reichiano e del suo approccio corporeo nel grande crogiuolo della psicologia umanistica.
Nato in America, questo movimento risente di un certo ottimismo programmatico che ha sempre caratterizzato la cultura americana. La carica critica e riformatrice del pensiero reichiano rischia di perdere quindi molto del suo mordente e della sua incisività (come è accaduto anche nel pensiero freudiano) nelle ibridazioni di stampo californiano e newyorkese.
Ma dotto questo profilo noi europei possiamo, e a mio parere dobbiamo, cercare di dare un contributo correttivo e costruttivo.
Poiché con le terapie di derivazione reichiana si sono messi a punto validi strumenti per individuare e risolvere i radicamenti somatici dei disturbi psichici, per riarmonizzare le nostre realtà psichiche e fisiche e per ripristinare i processi naturali di autoregolazione dell’organismo, la crescente integrazione tra terapie del corpo e psicologia umanistica era ed è nella logica delle cose.
Con le terapie del corpo, infatti, si affrontano nodi in aggredibili con le terapie puramente verbali e, soprattutto, si può promuovere lo sviluppo del potenziale umano nella sua globalità psicofisica.
2) Anche a liberare il rapporto psicoterapeutico dai modelli medici (cioè direttivi e autoritaristici) in cui era invischiato prima dell’avvento della psicologia umanistica, le terapie del corpo possono contribuire costruttivamente. Abolendo il tabù del contatto fisico, avvicinando terapista e cliente come esseri umani affratellati dalla loro fisicità, la terapia del corpo demolisce quella barriera di distacco, di intangibilità, di contactlessness dietro cui lo psicoterapista direttivo e convenzionale si è a lungo trincerato per esaltare la sua autorità.
3) La dilatazione della psicologia umanistica nel sociale è avvenuta essenzialmente in due modi: attraverso l’attenzione per le forme generalizzate di alienazione e attraverso il gruppo di incontro o di terapia. Anche a questi livelli l’apporto dell’approccio corporeo di derivazione reichiana è stato prezioso.
Già negli anni ’30 e ’40 Reich segnalava il carattere generalizzato di certe distorsioni della personalità e della convivenza sociale (basti pensare a Psicologia di massa del fascismo).
Inoltre, l’approccio corporeo reichiano e post-reichiano offre nel gruppo un essenziale strumento di comunicazione, contatto e catarsi, tanto che oggi è praticamente inattuabile un “gruppo” che escluda la corporeità.
4) “L’esperienza-scrive Carl Rogers in On becoming a person– è per me la suprema autorità…
Ho imparato che la mia percezione organismica totale di una situazione è più valida del mio intelletto, come strumento di conoscenza”. Sono parole che ricalcano analoghe dichiarazioni di Wilhelm Reich. Ma è evidente che ai fini di questa “percezione organismica totale”, l’approccio corporeo è indispensabile, sia nel momento diagnostico che in quello terapeutico.
5) “Uno dei concetti più rivoluzionari che emergono dalla nostra esperienza clinica-afferma ancora Carl Rogers nell’opera citata- è il riconoscimento sempre più chiaro del fatto che il nucleo più profondo dell’essere umano, gli strati più interni della sua personalità, le basi della sua “natura animale” sono sostanzialmente buone e positive, improntate alla socialità, al realismo e alla razionalità”.
Di nuovo, si tratta di espressioni che si incontrano di continuo nelle più diverse opere di Reich: da Funzione dell’organismo ad Analisi del carattere, da Individuo e Stato ad Ascolta, piccolo uomo.
Reich aveva anzi articolato una teoria della personalità a livello politico, che vedeva nella personalità “progressista” di stampo convenzionale lo strato più esterno e superficiale della stratificazione caratteriale odierna; in quella totalitaria e fanatica, lo strato intermedio, ancora in contatto, seppure in modo perverso e distorto, col nucleo biologico istintuale della natura umana; e in quella “genitale”, cioè in armonia con i propri impulsi d’amore e d’aggressività e con l’ambiente, il nucleo biologico stesso, fondamentalmente buono e autoregolato, dell’uomo.
Fin qui le affinità, più o meno consapevoli, ma ormai chiaramente assimilate, tra psicologia umanistica e approccio corporeo e quello umanistico che potranno scambiarsi con reciproco vantaggio.
A mio parere, dalla psicologia umanistica le terapie di ispirazione reichiana potranno imparare una sempre maggiore e più salutare smitizzazione della figura del terapista, che nel modello reichiano (e spesso anche in quello post-reichiano) resta troppo direttiva e carismatica.
Inoltre, penso che le terapie di ispirazione reichiana potranno trarre un grande vantaggio da quello che a mio parere costituisce il massimo contributo dell’approccio rogersiano alla psicoterapia: cioè il concetto di empatia, di partecipazione emozionale, come strumento terapeutico.
Quando ebbe l’idea semplicemente geniale di imitare l’espressione facciale e corporea dei clienti per meglio comprendere, al di là delle dichiarazioni verbali, quali fossero le loro emozioni profonde, Reich di fatto intuì e insegnò che per comprendere fino in fondo lo stato d’animo e la condizione del cliente il terapista deve riuscire a viverlo in prima persona, nel proprio corpo.
Nella tecnica mimetica di Reich, dunque, il concetto di empatia è implicito: ma solo implicito. Gli manca quella carica di empatia e incondizionata partecipazione umana che si estende in Rogers a tutto il rapporto terapista-cliente e che da all’empatia le sue preziose virtù terapeutiche. Infine, penso che la spinta rogersiana alla smedicalizzazione del rapporto terapeutico abbia un suo essenziale corrispettivo nel sociale: il rifiuto, cioè, dei ruoli salvazionisti, degli atteggiamenti didattici, dei dogmatismi teorici anche in campo politico. Purtroppo ne’ Reich ne’ la maggior parte dei suoi continuatori ortodossi o eretici hanno saputo sottrarsi, sul piano personale, alle lusinghe e alle trappole del messianismo, ma per parte mia ritengo che lo spirito autentico dell’opera reichiana sia libertario (si pensi del resto alle pagine bellissime sul “nuovo leader” ) e che, proprio in quanto finalizzato alla ricerca della verità, sia antidogmatico, inconciliabile con i concetti di “vera Chiesa” o di “sacro testo”.
A sua volta la psicologia umanistica potrà attingere dalle terapie di derivazione reichiana un recupero del passato e dell’inconscio pienamente conciliabile con la particolare attenzione rogersiana al “qui e adesso”. Attraverso il trattamento corporeo, i nodi emozionali sommersi eppure attivi (troppe volte esorcizzati ma non risolti dal costante appello umanistico alla coscienza e alla responsabilità) possono trovare finalmente espressione e soluzione se, come diceva Reich, “il nostro corpo racchiude nei suoi blocchi muscolari la storia del nostro inconscio”.
E per analogia, dall’approccio corporeo la psicologia umanistica potrà trarre indicazioni preziose per una “lettura” appunto corporea delle distorsioni caratteriali.
Del resto, si tratta di scambi teorici e tecnici in via di crescente diffusione tra le varie scuole.
Concludendo, vorrei solo accennare brevemente a un rischio inerente a certi riciclaggi del pensiero reichiano e del suo approccio corporeo nel grande crogiuolo della psicologia umanistica.
Nato in America, questo movimento risente di un certo ottimismo programmatico che ha sempre caratterizzato la cultura americana. La carica critica e riformatrice del pensiero reichiano rischia di perdere quindi molto del suo mordente e della sua incisività (come è accaduto anche nel pensiero freudiano) nelle ibridazioni di stampo californiano e newyorkese.
Ma dotto questo profilo noi europei possiamo, e a mio parere dobbiamo, cercare di dare un contributo correttivo e costruttivo.
Tratto dal numero 4 del giugno 1979 della rivista “Pulsazione”, rassegna dell’Istituto di bioenergetica “W. Reich”.