
Bioenergetica e Trauma di Livia Geloso
Il trauma, la sua definizione e la terapia ad esso relativa, è una questione al centro di un ampio dibattito con effetti teorico-pratici ampi e profondi. Come il trauma, in quanto oggetto di riflessione nella teoria e nella pratica terapeutica ad esso correlata, abbia a che fare con noi analisti/e bioenergetici/che è il tema del presente articolo. L’obiettivo dell’articolo è quello di lanciare un rapido sguardo panoramico d’insieme attraverso l’elencazione di una serie di punti e un rapido sviluppo dei punti dell’elenco.
L’elenco dei punti (A-L)
A) La definizione di “trauma”;
B) la messa in questione della “catarsi” da parte delle teorizzazioni sul trauma (vedi art. di Angela Klopstech, “Catharsis and Self-Regulation Revisited: Scientific and Clinical Considerations.”, riv. IIBA, vol.15, 2005, pp.101-131);
C) la difficoltà specifica a lavorare a livello corporeo, come siamo abituati/e, soprattutto riguardo al contatto, oltre che rispetto all’attivazione, più o meno catartica;
D) la riflessione sul modo in cui la tematica del trauma si focalizza sul corpo, e di quale tipo di corpo si tratta (vedi art. di A.Klopstech, “So Which Body Is It? The Concepts of The Body in Psychotherapy.”, riv. IIBA, vol.19, 2009, pp.11-30);
E) qual è stato l’esito dei seminari di Sylvia Conant sul “Trattamento dello shock da trauma”?
F) forse c’è qualcosa da dire sulla definizione di Disturbo Post-traumatico da Stress (DPTS) che ha avuto tanto successo ed è stata inserita nel DSM IV (Bonnie Burstow, “A Critique of Post-Traumatic Stress Disorders and the DSM”, in Journal of Humanistic Psychology, 2005, 4:429-445; Giulio Fontò, “I disturbi di personalità: i nuovi mali dell’anima.”, VII° Seminario Apeiron, 2008);
G) l’importanza di raccogliere la nostra bibliografia sul lavoro bioenergetico con il trauma (ricordo il vol.1-1998 e il vol. 1-1999 della riv. IIBA dedicati al trauma; “Trauma and The Body” di Robert Lewis, riv. IIBA, vol.11 n°2, 2000, pp.61-75; ma c’è molto altro);
H) l’importanza di tenere conto della fase del ciclo di vita in cui la persona viene a richiedere il nostro aiuto, insieme ad una precisa individuazione del tipo di risorse e di debolezze che il sistema della sua personalità manifesta (facendoci aiutare dalle “metafore” che ci evoca);
I) riflessioni sull’ ipotesi che, grazie all’attenzione suscitata dalla questione del “trauma” e sugli ultimi sviluppi delle neuroscienze, si sia di fronte al processo di configurazione di una modalità conoscitivo-operativa definibile come “intelligenza istintuale”, così come negli anni passati si è assistito alla configurazione della “intelligenza emotiva” (“Teoria polivagale” di Porges, “The Second Brain. The Enteric Nervous System ENS” di Gershon, i “Neuroni a specchio” di Rizzolatti et al., ecc.). Tutte le volte che Lowen parla della “saggezza del corpo” e le affermazioni relative a tale “saggezza” potrebbero, in un futuro vicino, essere riconcettualizzate come manifestazioni dell'”intelligenza istintuale”;
L) il tema dell’istinto e del rapporto con la “parte selvaggia” che c’è in ognuno/a di noi, nella cornice del discorso sulla “modernità”, sulla “civilizzazione”, sulla “Wildnis/Wilderness” (vedi Ulla Sebastian, “From Horse(Wo)man to Centaur”, Atti Convegno EFBA-p, Frascati, Maggio 1995, pp.175-192; Clarissa Pinkola Estés, “Donne che corrono coi lupi. Il mito della donna selvaggia.”, Frassinelli, 1993; Hans Peter Duerr, “Nudità e vergogna. Il mito della civilizzazione”, Marsilio, 1991, e “Tempo di sogno”, Guerini e Associati, 1992; Claudio Risé, “Il maschio selvatico”, RED, 2002 ; Bruno Latour, “Non siamo mai stati moderni”, Elèuthera, 2009; ecc.);
SVILUPPO SINTETICO DEI PUNTI
Punto A) La definizione di trauma
Sul Dizionario della lingua italiana di G. Devoto e G.C. Oli si legge: “Trauma 1. lesione prodotta nell’organismo da cause esterne, capaci di azione improvvisa e rapidissima. 2. Trauma psichico: turbamento dello stato psichico causato da un’emozione improvvisa e violenta (dal greco trauma ‘ferita’).” Sul Dizionario di Psicologia curato da U. Galimberti si legge: “Trauma. Parola greca che significa “ferita”, “lacerazione”. Il termine è impiegato in medicina somatica dove indica le lesioni provocate da agenti meccanici la cui forza è superiore alla resistenza dei tessuti cutanei o degli organi che essi incontrano; in neuropsichiatria dove indica o una lesione del sistema nervoso o, per una trasposizione metaforica, una lesione dell’organismo psichico per effetto di eventi che irrompono bruscamente in modo distruttivo; in psicoanalisi dove la nozione di trauma è oggetto di una specifica teoria.” Sulla Enciclopedia della psicanalisi di J. Laplanche e J.-B. Pontalis si legge: “Trauma. Evento della vita del soggetto che è caratterizzato dalla sua intensità, dall’incapacità del soggetto a rispondervi adeguatamente, dalla viva agitazione e dagli effetti patogeni durevoli che esso provoca nell’organizzazione psichica. In termini economici, il trauma è caratterizzato da un afflusso di eccitazioni che è eccessivo rispetto alla tolleranza del soggetto e alla sua capacità di dominare e di elaborare psichicamente queste eccitazioni. (…) La psicanalisi ha ripreso il termine usato in medicina e in chirurgia trasponendo sul piano psichico i suoi tre significati: quello di shock violento, quello di lacerazione, quello di conseguenze sull’insieme dell’organismo. (…) Freud ha dato in Al di là del principio di piacere (1920) una rappresentazione metaforica (…): la ‘vescicola vivente’ è mantenuta al riparo dalle eccitazioni esterne mediante uno strato protettivo o schermo antistimolo che si lascia passare soltanto dalle eccitazioni tollerabili. Se questo strato subisce un’ampia lacerazione, si ha il trauma: l’apparato ha il compito di mobilitare tutte le forze disponibili per produrre controinvestimenti, fissare sul posto le quantità di eccitazione in eccedenza e consentire così il ripristino delle condizioni di funzionamento del principio di piacere (e del principio di costanza). (…) E’ consuetudine caratterizzare gli inizi della psicanalisi (tra il 1890 e il 1897) nel modo seguente: l’eziologia della nevrosi è attribuita ad esperienze traumatiche passate e la data di tali esperienze vien fatta risalire sempre più lontano, man mano che si approfondiscono le indagini analitiche, dall’età adulta all’infanzia; sul piano tecnico, l’efficacia della cura è cercata in una abreazione e in una elaborazione psichica delle esperienze traumatiche. (…) L’accento posto da Freud sul conflitto difensivo nella genesi dell’isteria e in generale della neuropsicosi da difesa non infirma la funzione del trauma, ma ne rende più complessa la teoria. Va notato anzitutto che la tesi del carattere essenzialmente sessuale del trauma affiora durante gli anni 1895-97 e che, nello stesso periodo, il trauma originario è scoperto nella vita prepuberale. …vari testi di quel periodo espongono o suppongono una tesi ben precisa che tende a spiegare come l’evento traumatico susciti nell’Io, invece delle normali difese utilizzate contro un evento penoso (la deviazione dell’attenzione, per esempio), una “difesa patologica” – di cui la rimozione era allora per Freud il prototipo – che opera secondo il processo primario. L’azione del trauma è scomposta in vari elementi e suppone sempre l’esistenza di almeno due elementi: in una prima scena, detta di seduzione, il bambino subisce un tentativo sessuale da parte dell’adulto, senza che ciò provochi eccitazione sessuale; una seconda scena, spesso di apparenza anodina, che si svolge dopo la pubertà, rievoca per qualche tratto associativo la prima. Il ricordo della prima provoca un afflusso di eccitazioni sessuali che travolge le difese dell’Io. Sebbene Freud chiami traumatica la prima scena, è evidente che, dal punto di vista strettamente economico, tale valore gli è conferito solo posteriormente; inoltre, è solo come ricordo che la prima scena diventa patogena, in quanto provoca un afflusso di eccitazioni interne. Tale teoria spiega il vero senso della famosa formula degli Studi sull’isteria ‘…gli isterici soffrono soprattutto di ricordi’. Contemporaneamente, la concezione del ruolo attribuito all’evento esterno diventa più articolata. Si attenua l’idea del trauma psichico calcato sul trauma fisico, in quanto la seconda scena non agisce per energia propria ma solo risvegliando un’eccitazione di origine endogena. In questo senso, la concezione di Freud che stiamo riassumendo apre già la via all’idea secondo cui gli eventi esterni traggono la loro efficacia dai fantasmi da essi attivati e dall’afflusso di eccitazione pulsionale che essi provocano. (…) Negli anni seguenti, viene attenuata la portata eziologica del trauma a vantaggio della vita fantasmatica e delle fissazioni ai vari stati libidici. Il ‘punto di vista traumatico’, pur non essendo abbandonato, come sottolinea Freud stesso, si inserisce in una concezione che fa riferimento ad altri fattori, quali la costituzione e la storia infantile. (…) Infine, nella storia dell’angoscia rielaborata in Inibizione, sintomo e angoscia (1926) e in generale nella seconda topica, si accentua il valore della nozione di trauma indipendentemente da qualsiasi riferimento alla nevrosi traumatica propriamente detta. L’Io, provocando il segnale d’angoscia, cerca di evitare di essere travolto dall’insorgere dell’angoscia automatica, che definisce la situazione traumatica in cui l’Io è indifeso (vedi: Stato di impotenza). Secondo questa concezione, esiste una specie di simmetria tra il pericolo esterno e il pericolo interno: l’Io è attaccato dall’interno, cioè dalle eccitazioni pulsionali, come è attaccato dall’esterno. Non è quindi più valido il modello semplificato della vescicola, che Freud aveva utilizzato in Al di là del principio di piacere. Va notato infine che Freud individua il nucleo del pericolo in aumento, al di là del limite tollerabile, della tensione risultante da un afflusso di eccitazioni interne che richiedono di essere liquidate. E’ questa la spiegazione ultima, secondo Freud, del ‘trauma della nascita’.
Concludiamo con la definizione psichiatrica DSM IV che si costruisce intorno alla nozione di “evento psichicamente traumatico”, al di fuori dell’esperienza umana consueta, e di “sintomi derivati dall’esposizione all’evento traumatico”. L’elenco degli eventi traumatici comprende: lutti, malattie croniche, incidenti gravi, perdite finanziarie, conflitti coniugali, violenze o aggressioni fisiche, violenze sessuali, abusi psicologici, torture, combattimenti militari, disastri naturali e provocati dall’uomo. Si pone attenzione anche ad una componente fisica concomitante al trauma che può includere un danno diretto al SNC (per esempio, malnutrizione o trauma cranico). L’elenco dei sintomi comprende: il rivivere l’evento traumatico; l’attenuazione della responsività, o un ridotto coinvolgimento verso il mondo esterno; una varietà di sintomi neurovegetativi, disforici o cognitivi; senso di colpa se si è gli unici sopravvissuti, o in relazione alle azioni che si sono dovute compiere per sopravvivere; depressione; ansia; aumentata irritabilità con esplosioni di aggressività (in particolare nei veterani di guerra); comportamento impulsivo (viaggi improvvisi, assenze inspiegate, cambiamenti dello stile di vita o di residenza); deficit dell’attenzione e della memoria; mal di testa e vertigini; disturbi del sonno; difficoltà di vivere esperienze di intimità psicologica e fisica.
Punto B) Catarsi
Le mie riflessioni si sviluppano in dialogo con le tesi esposte nell’articolo di Angela Klopstech, “Catharsis and Self-Regulation revisited”, apparso sulla rivista dell’IIBA n° 15 del 2005 (pp.111-131). Freud trovò il concetto di “catarsi”, derivato da Aristotele, nella sua esperienza con il metodo ipnotico. Per Aristotele il concetto di “catarsi” descriveva l’effetto della tragedia sul pubblico, ovvero, la purificazione dalle passioni attraverso l’identificazione del pubblico ateniese con le vicende rappresentate. Dopo aver abbandonato l’ipnosi, Freud si basò sul concetto di “catarsi” per dare forma a un suo concetto: “l’abreazione degli affetti”, esperienza da raggiungere attraverso il metodo da lui messo a punto, la psicoanalisi. Anche dopo la revisione della veridicità dei ricordi traumatici riportati dai/lle pazienti, la “catarsi” rimase una delle dimensioni di ogni psicoterapia analitica, come intensa reviviscenza di alcuni ricordi, accompagnata da una scarica emozionale più o meno intensa (vedi: “Catartico, metodo”, Enciclopedia della psicanalisi, Laplanche e Pontalis, Laterza, 1968). Di recente, l’intervento sul trauma ha messo in discussione il ricorso alla “catarsi” e il senso della stessa che, come abbiamo detto, costituisce un fondamento importante dell’impianto teorico-pratico psicoanalitico. A noi qui interessa la vicenda della “catarsi” nel contesto della psicoterapia corporea di derivazione psicoanalitica. L’esperienza catartica ha costituito un obiettivo centrale sia per Reich che per Lowen. Le nostre tecniche di mobilizzazione sono state frequentemente utilizzate in vista dell’esperienza catartica, e si è spesso privilegiato un approccio fortemente attivante, il quale ha dato spunto allo stereotipo della Bioenergetica “batti-scalcia-urla” . Nella pratica, prima dell’emergere del dibattito sul trauma, l’avere a che fare con personalità sempre meno coese, a causa dell’indebolimento progressivo delle reti sociali, ci aveva già messo di fronte a situazioni in cui gli interventi fortemente attivanti, invece di portare alla catarsi, portavano a vissuti sopraffacenti, fino ad episodi di dissociazione, e provocavano comprensibili reazioni di rifiuto e di ritiro da parte dei/lle pazienti. In particolare, nel caso di pazienti traumatizzati/e, ora si ritiene – in accordo con gli altri approcci psicodinamici verbali – che l’induzione della catarsi possa risultare “ritraumatizzante”.
Punto C) Revisione del lavoro corporeo e del setting bioenergetico
La revisione del lavoro corporeo, che pone al centro la strutturazione, al posto dell’attivazione, a mio avviso, si collega con l’attenzione diffusa verso lo sviluppo, sia pratico che teorico, dell’esperienza dell’essere grounded, come ciò che identifica l’Analisi Bioenergetica e che la può portare ad evolvere in senso bipersonale. Proprio l’attenzione alla dimensione sociale del disagio umano, con lo sradicamento globale delle persone e delle comunità e l’attacco alla vita dello stesso pianeta, fa dell’esperienza del grounding qualcosa di sempre più valido. A questo riguardo, ho trovato interessante l’articolo di Mariano Pedrosa sull’applicazione della Bioenergetica nelle favelas brasiliane, “Bioenergetic Analysis nd Community Therapy. Expanding the paradigm.”, apparso sulla rivista dell’IIBA n° 20-2010 (pp. 79-112). Ho dedicato alla centralità del grounding e ai suoi sviluppi una relazione dal titolo “Grounding e integrazione della personalità”, disponibile su questo sito. La difficoltà di lavorare a livello corporeo in modo attivante, come di lavorare attraverso il contatto corporeo tra noi e i/le pazienti, e, a volte, attraverso il lavoro corporeo tout court, paradossalmente – ma la vita è un paradosso, come ci insegna Lowen, “è fuoco che brucia nell’acqua” – ci sta aiutando a porre il fuoco sulla relazione tra terapeuta e paziente. Riassumo l’evoluzione del modello di relazione terapeuta-paziente negli approcci psicodinamici: si comincia con il modello monopersonale, il/la terapeuta si posiziona al di fuori del/la paziente per osservare, interpretare le dinamiche e suggerire esperienze guidate centrate sul/la paziente; poi, compare il modello a una-persona-e-mezza, il/la terapeuta si posiziona accanto al/la paziente esprimendo empatia; attualmente sta emergendo il modello bipersonale, il/la terapeuta si propone come partner autentico/a della relazione. In realtà, come sottolinea giustamente Helferich, nel suo articolo “Analisi bioenergetica in dialogo”, i tre modelli possono essere considerati le tre facce di un “modello integrato”: “…ogni singolo modello, mentre focalizza un elemento base del processo terapeutico che manca agli altri due, rimanda implicitamente agli altri… le tre modalità di intervento terapeutico – interpretazione, esperienza, interazione – intendono provvedere il terapeuta di una opportunità per concettualizzare le sue scelte. (Si tratta) di una descrizione di ciò che sta già facendo’ (p. 30). La sperimentazione del modello bipersonale in analisi bioenergetica è testimoniato da Hilton nel suo articolo “Analisi bioenergetica e Modelli di intervento terapeutico”. Hilton sceglie proprio l’esperienza del grounding per spiegare come le tre modalità di intervento terapeutico si inseriscono all’interno del lavoro bioenergetico e spiega così la sua scelta: “Il grounding è un concetto che Alexander Lowen ha introdotto in bioenergetica come risultato del suo lavoro con Wilhelm Reich. Egli sentiva che le esperienze fatte con Reich non resistevano al tempo poiché dipendevano troppo dal potere di Reich in quanto figura carismatica e non erano abbastanza radicate nel corpo.” (pp. 66-67). La psicoterapia orientata sul corpo deve integrare al suo interno i concetti di organismo e di persona: “noi siamo molto più che organismi che si espandono e si contraggono” (p. 71), siamo totalità cariche di valori e di significati, siamo persone. “In quanto terapeuti bioenergetici abbiamo bisogno di essere pronti e preparati come persone …dotate di capacità terapeutiche, di sostegno, di affermazione della vita. (…) Noi tutti cerchiamo approvazione, affermazione ed una persona reale con cui relazionarci.” (p. 71). “Il modello bioenergetico monocorporeo non dispone di uno spazio per condividere le mutue esperienze tra terapeuta e paziente.” (p. 63). Lo spazio per condividere le mutue esperienze tra terapeuta e paziente è lo stesso spazio in cui nasce e cresce l’alleanza terapeutica. Si vede qui, a mio avviso, come nella psicoterapia, in generale, si stia sviluppando un approccio collaborativo basato sull’incontro tra persone proveniente dal “principio dialogico” di Martin Buber, autore centrale nell’approccio fenomenologico-esistenziale . L’alleanza terapeutica allarga la visione relativa al rapporto terapeuta-paziente che era ristretta al transfert-controtransfert, come parte del nostro retaggio psicanalitico, e contribuisce a spingerci a dedicare una maggiore attenzione all’uso delle parole nella terapia bioenergetica, a come le parole ci toccano e danno forma alle nostre esperienze, in modo da sviluppare un grounding verbale come parte del grounding della testa (di cui si è occupato, dopo Lowen, in particolare, Robert Lewis) . Può essere interessante porre attenzione all’elaborazione della narrazione autobiografica e della narrazione collettiva nel setting bioenergetico.
Punto D) Di quale corpo si tratta?
Il dibattito sulla terapia del trauma, la “svolta relazionale” negli approcci psicodinamici e la “svolta affettiva” nelle neuroscienze sta portando in primo piano la corporeità, ciò fa sì che la comunità bioenergetica sviluppi un atteggiamento autoriflessivo e si chieda cosa indichiamo nelle varie situazioni con la parola corpo. Prendo spunto dall’articolo di Angela Klopstech, “Di che corpo parliamo? Il concetto di corpo in psicoterapia.” (rivista Idee in psicoterapia, vol. 3, N. 1-2010, pp. 33-48). Nelle psicoterapie orientate sul corpo, secondo Klopstech, troviamo diverse definizioni di corpo: il corpo energetico, “energetic body”, e il corpo strutturato caratterialmente, “character structured body” (Reich, Lowen, Kelley, Pierrakos); il corpo formativo, “formative body” (Keleman); il corpo flusso energetico, “energy flow body” (Boadella); il corpo gesturale, “gestural body” (terapia della Gestalt). Klopstech ci suggerisce di riflettere su un ulteriore elenco: il corpo dei comportamenti, il corpo dell’energia, il corpo del respiro, il corpo del movimento, il corpo scientifico, il corpo medico e psicosomatico, il corpo sessuale, il corpo appassionato. Sono d’accordo sulla necessità di confrontarci sulla ricchezza dell’esperienza a cui la parola corpo si riferisce. Mi sembra anche importante cogliere gli spunti che provengono dall’antropologia culturale e dalla storia dei costumi riguardo alla de-sacralizzazione e ri-sacralizzazione del corpo in Occidente, così come riguardo all’impatto della tecnologia, quella medica in particolare, delle telecomunicazioni e del cybermondo ( internet, social network, realtà virtuali, ecc.) sulla percezione corporea.
Punto E) I seminari di Sylvia Conant
Sylvia Conant ha lavorato all’integrazione della Bioenergetica con il metodo di Peter A. Levine- il cui libro di riferimento è “Traumi e shock emotivi, come uscire dall’incubo” – per curare lo shock da trauma e ha tenuto, negli anni scorsi, dei seminari presso la SIAB. Io ho partecipato a due incontri e ho apprezzato il suo lavoro e il garbo che le è caratteristico. Si è trattato di un lavoro di grande finezza, di tessitura, di un lavoro sulla strutturazione. Il lavoro di Levine si concentra sul favorire l’azione autocurativa del processo naturale dell’energia vitale che si muove in modo spiraliforme: il trauma, a suo avviso, scinde in due il vortice energetico, la cura consiste nel mettere in contatto i due vortici, in modo che vengano reintegrati nella corrente principale. Credo che possa essere interessante condividere, a distanza di alcuni anni, l’effetto di quell’esperienza. Potrebbe essere interessante sapere da lei se ha continuato ad occuparsene.
Punto F) La definizione proposta dal DSM IV di Disturbo Post-traumatico da Stress (DPTS)
Il DSM IV non deve essere considerato uno strumento neutro, come ogni repertorio psicodiagnostico veicola una Weltanschauung (visione del mondo), dalla quale deriva la teoria e la prassi terapeutica. In generale, il DSM IV applica il modello medico alla sofferenza psichica e in questo modo sposa un atteggiamento riduzionista nei confronti dello studio della condizione umana. In particolare, il DSM IV pone il DPTS nella categoria dei Disturbi d’ansia e fornisce 6 criteri diagnostici. Il Criterio A ci dice che dobbiamo ricercare eventi implicanti morte, rischio di morte, minaccia dell’integrità fisica propria o altrui, e che dobbiamo verificare se la persona ha reagito con paura intensa, orrore e senso d’impotenza. I tre criteri seguenti, B-C-D, riportano quella che è definita la triade sintomatologica del DPTS: reviviscenza, evitamento, aumentato arousal psicofisiologico. Gli ultimi due criteri, E-F, riguardano la durata dei disturbi e il loro impatto sulla vita della persona: la durata deve essere superiore ad un mese, altrimenti si tratta di Disturbo da Stress Acuto; “Il disturbo causa disagio clinicamente significativo o menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti.” (DSM IV, pp. 473-474) Negli ultimi dieci anni, è in atto un dibattito sull’adeguatezza e sulla fondatezza della diagnosi di DPTS, a partire dall’inclusione all’interno dei Disturbi d’ansia, categoria considerata generica e basata sulla visione dell’ansia solo come sintomo da debellare e non, invece, come messaggio da interpretare e come funzione dell’area della personalità relativa al coping, così come gli incubi ricorrenti e le strategie di evitamento. Le reazioni delle persone traumatizzate vengono decontestualizzate, private del loro valore adattivo e definite come sintomi di un disturbo. Ciò è particolarmente evidente nel caso del Criterio C riguardante i sintomi di evitamento e la diminuzione della reattività, ne vengono elencati sette (ne servono tre per porre la diagnosi). Il fatto di cercare di evitare pensieri, attività, luoghi e persone associate all’evento traumatico sono sicuramente azioni dotate di senso il cui valore adattivo deve essere rivendicato e, quindi, restituito alla persona per non renderla ancora più vittima del trauma e per promuovere il processo di recupero della padronanza di sé. La visione medicalizzata che disarticola l’unitarietà del soggetto umano e lo riduce a meccanismo inceppato va di pari passo con la proposta di terapie farmacologiche e di psicoterapie che hanno come obiettivo l’estirpazione dei presunti sintomi.
Punto G) La nostra bibliografia sul trauma
Sarebbe opportuno raccogliere la nostra bibliografia sul trauma e, magari, ricavarne un testo collettaneo. Parto dal volume n. 1-1998 della rivista dell’IIBA, il primo dei due volumi dedicati dalla rivista al trauma dal punto di vista individuale (il primo) e dal punto di vista collettivo (il secondo). Ne riporto l’indice tradotto da me: Introduzione, John Conger; Il trauma dello shock cefalico, Robert Lewis; Trauma e recupero, Marvin H. Berman; Emorragia cerebrale e amicizia, Charles Lustfield; Potatura (poesia), Susan Downe; Il complesso del Disturbo da Stress Post-Traumatico: rimettere insieme i pezzi, Louise Frechette; Chirone (poesia), Zoé de Frietas; Urlo e violenza: un esempio di uso del lavoro corporeo bioenergetico, Alice Kalen Ladas; Lavorare con le persone abusate sessualmente: come agire con questi/e clienti, Doerte Laschinsky; Leda (poesia), Susan Downe; Il pronto soccorso emozionale: curare il trauma della nascita, Silja Wendelstadt; La traumatizzazione vicaria: prevenzione e cura, Barbara E. Davis; L’inaccettabile orrore dell’inconcepibile, Pierre Rotschild. Il secondo volume, n. 1-1999 ha il seguente indice: Introduzione, John Conger; Murciélagos (poesia), Kristin Rosekrans; Politiche incarnate: il conflitto israelo-palestinese e la mia personale guarigione dal DPTS, Dave Berceli; Il trauma e il riflesso di trasalimento: sua creazione e risoluzione, Dave Berceli; Lavorare in un Paese di Passione con un Popolo di Passione (la Palestina), Geoffrey Whitfield; L’emorragia cerebrale: il mio racconto, Gay Mallon Lustfield; Passi tra la vita e la morte, Knut Brakert; La Bioenergetica applicata alla clinica sociale (in Brasile), Grace Wanderly de Barros Correia, Jayme Panerai Alves, Gedalva Rapela, Lucina Araujo; Il caso di una sopravvissuta alla tortura politica (in El Salvador), Maryanna Eckberg (direttrice del servizio clinico in un Centro di cura per sopravvissuti alla tortura politica); Trattamento dello shock traumatico. Una prospettiva somatica, Maryanna Eckberg; La traumatizzazione di una società. La lotta in El Salvador continua, Kristin Rosekrans. Poi, mi viene in mente l’articolo di Robert Lewis, Il trauma e il corpo, apparso sulla rivista dell’IIBA, vol. 11, n° 2-2000, e il suo scritto del 1988 Ricollocare la testa nel suo posto reale sulle spalle: un primo passo del grounding del falso Sé (traduzione di Nives Garuffi ad uso interno della SIAB), e i 2 seminari da lui tenuti sull’argomento a cui ho partecipato, quello di Roma, nel novembre del 1995, organizzato in collaborazione dall’Associazione “Il Laboratorio”, diretta da Salvatore Scollo, e dalla SIAB che ha ospitato il seminario nei suoi locali, e quello di Taormina, nell’aprile del 1997, organizzato sempre dall’associazione “Il Laboratorio”. Come nel caso dei seminari di Sylvia Conant, citati al punto d), sarebbe interessante, a mio avviso, raccogliere gli effetti che la partecipazione ai seminari di Robert Lewis ha avuto su quelli/e di noi che vi hanno partecipato, sia a livello personale che nel lavoro bioenergetico con i/le nostri/e clienti. Nel n. 2-2008 della nostra rivista è apparso l’articolo di Guy Tonella, Paradigmi per l’analisi bioenergetica all’alba del XXI secolo, al Paradigma V – Un modello metodologico per il trauma, l’autore cita: il concetto di “shock cefalico” di Robert Lewis; il lavoro di Maryanna Eckberg con i torturati politici (anche lei ha integrato le tecniche di Levine con le nostre); il lavoro sul trauma con i grandi gruppi di Dave Berceli. Inoltre, Tonella cita un articolo di Robert Lewis, Human Trauma, apparso sulla rivista Energy and Character, n. 3-2003 (pp. 32-40), in cui Lewis discute l’approccio alla cura del trauma di Peter Levine considerando il modello incompleto perché privo di riferimenti alla teoria dell’attaccamento. Ma c’è sicuramente altro.
Punto H) Trauma, ciclo di vita, risorse personali e uso delle metafore
Perché il vissuto traumatico venga reintegrato nel processo esistenziale delle persone, invece che ridotto a collezione di sintomi da estirpare, può essere molto utile tenere in particolare conto la fase del ciclo di vita in cui la persona inizia il lavoro terapeutico, così come il momento del ciclo di vita in cui la persona ha incontrato l’evento traumatico. E’ importante, infatti, che ad ogni fase di vita vengano collegate competenze e finalità. Ciò serve a ristabilire e a sviluppare il rapporto con il tempo, rapporto stravolto dal trauma. Fare il punto della fase di vita in cui si trova, aiuta la persona a radicarsi nel tempo, a rifarci pace. Lo sviluppo dell’alleanza terapeutica risulta particolarmente centrale nella terapia del trauma e di tale sviluppo è parte integrante l’individuazione esplicita, condotta in modo cooperativo, delle risorse e dei limiti della personalità della persona traumatizzata. E’ risultato molto importante anche l’approfondimento della relazione nel senso della Bioenergetica bi-personale. L’attenzione alla relazione in senso bi-personale comprende, come detto sopra, l’attenzione alla comunicazione verbale, nel senso di cooperare alla costruzione della narrazione terapeutica, attraverso la condivisione di metafore che traducono i vissuti corporeo-emozionali condivisi.
Punto I) Ultimi sviluppi delle neuroscienze: neuroni a specchio, Gershon, Porges.
“…Peter Brook ha dichiarato in un’intervista che con la scoperta dei neuroni a specchio le neuroscienze avevano cominciato a capire quello che il teatro sapeva da sempre. Per il grande drammaturgo e regista britannico il lavoro dell’attore sarebbe vano se egli non potesse condividere, al di là della barriera linguistica o culturale, i suoni e i movimenti del proprio corpo con gli spettatori, rendendoli parte di un evento che loro stessi debbono contribuire a creare. Su questa immediata condivisione il teatro avrebbe costruito la propria realtà e la propria giustificazione, ed è ad essa che i neuroni a specchio, con la loro capacità di attivarsi sia quando si compie un’azione in prima persona sia quando la si osserva compiere da altri, verrebbero a dare base biologica.” Si legge questo nella prima pagina del libro di G.Rizzolatti e C.Sinigaglia, “So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni a specchio.” (Cortina, 2006), in cui descrivono la loro interessante scoperta di rilevanza internazionale. Di questo brano mi preme sottolineare l’affermazione che si tratta di mettere a fuoco la “base biologica” e non di fornire una “spiegazione biologica”, ovvero che non si tratta della riduzione di un fenomeno complesso ad uno solo dei suoi aspetti, quello biologico, appunto, in quanto gli autori affermano a chiare lettere che questo aspetto ne rappresenta specificamente la base. Ciò non diminuisce di certo l’interesse di questa scoperta, piuttosto, a mio avviso, le conferisce il giusto valore e le attribuisce il posto che le spetta nel campo che comprende i tentativi di descrivere la complessità del vissuto umano. Inoltre, mi sembra che vada nella stessa direzione antiriduzionista anche il fatto che gli autori abbiano voluto introdurre il frutto del loro lavoro facendo riferimento a quell’importantissima manifestazione culturale rappresentata dal teatro. Il teatro, infatti, costituisce una somma di espressioni artistiche e, in questo senso, può essere considerato una delle più interessanti espressioni del desiderio di integrare e rappresentare, nell’insieme dei suoi vari aspetti, l’esperienza umana. In un altro punto (p.3), gli autori, affermano che non si deve più parlare di “meri movimenti” ma sempre di “atti” quando si studia il comportamento motorio umano. Anche questa affermazione appare animata dal desiderio di rispettare la complessità umana. Un atto, infatti, è qualcosa che ha un’origine e un fine, ovvero, qualcosa che spalanca un mondo di affetti, di credenze e valori nonché di condotte.
La parola “attore” deriva proprio dal verbo “agire” e definisce chi compie degli “atti”. Se, dunque, ogni movimento ha un’origine e un fine, in quanto ha la dignità di “atto”, il movimento stesso può essere definito, con termini teatrali, una “messa in scena” di noi stessi/e, e in questa definizione rientra anche la postura, come risultato del rapporto tra zone motorie, così come la mimica, la qualità dello sguardo e la qualità del suono della nostra voce. La corporeità, nel suo insieme di emozioni e azioni, risulta intrinsecamente espressiva. “Al pari delle azioni, anche le emozioni risultano immediatamente condivise (attraverso l’attivazione di specifici circuiti specchio): la percezione del dolore o del disgusto (per es.) attivano le stesse aree della corteccia cerebrale che sono coinvolte quando siamo noi a provare dolore e disgusto. Ciò mostra quanto radicato e profondo sia il legame che ci unisce agli altri, ovvero quanto bizzarro sia concepire un io senza un noi.” (p.4) Il sistema dei neuroni a specchio ci permette, dunque, di empatizzare – di provare le stesse cose -, ma fa ancora di più perché ci permette, allo stesso tempo, di immaginare intenzioni, aspettative e motivazioni altrui e tutto questo “senza far ricorso ad alcun tipo di ragionamento, basandosi unicamente sulle proprie competenze motorie.” (p.4). Si tratterebbe di “un sistema di risonanza”(p.113) – quante volte ci ritroviamo ad usare nel lavoro bioenergetico questa parola “risonanza”! – e sarebbe alla base dell’esperienza di “uno spazio d’azione condiviso, all’interno del quale ogni atto e ogni catena d’atti, nostri e altrui, appaiono immediatamente iscritti e compresi senza che ciò richieda alcuna esplicita o deliberata azione conoscitiva.”(p.127). In altre parole, si tratterebbe dell’instaurarsi di un “terreno di esperienza comune”(p.4), che potremmo anche definire una scena condivisa. Tale esperienza trova, dunque, immediatamente posto dentro di noi al di fuori del controllo cosciente, e, in un secondo momento, grazie al processo della narrazione che noi costruiamo insieme a qualcun/a altro/a, o anche da soli/e, ma sempre in previsione della comunicazione interpersonale, l’esperienza diventa cosciente e va a far parte della storia della vita e, quindi, fonda la parte cosciente della nostra identità, come è ben illustrato da Adriana Cavarero nel suo “Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione.” (2005).
E con questo veniamo ad una necessaria incursione nell’ambito della riflessione sul concetto di “coscienza”. Quando diciamo, nel lavoro su noi stessi/e, che occorre ricongiungere il pensare e il sentire, mi sembra che spesso identifichiamo il pensare con l’attività cosciente, come se tutto il lavoro di organizzare l’esperienza fosse a carico dell’aspetto cosciente della personalità. Ma come abbiamo cominciato a mettere a fuoco, grazie agli accenni al lavoro di Rizzolatti e Sinigaglia, sembrerebbe che le cose stiano in tutt’altra maniera. Può essere interessante, a questo punto, aggiungere alle nostre fonti di riflessione l’interessante disamina di cosa non è la coscienza, offerta da Julian Jaynes nel suo libro “Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza.” (pp.37-110).
In estrema sintesi, l’autore afferma, sulla base di fonti sperimentali, che:
– la coscienza non è l’intera attività mentale, al contrario la maggior parte dell’attività mentale si svolge benissimo senza il suo intervento;
– la coscienza non è una copia dell’esperienza, piuttosto è una ricostruzione dell’esperienza da un punto di vista esterno, di un osservatore;
– la coscienza non è necessaria per l’apprendimento, piuttosto “essa opera decidendo cosa va imparato, o creando regole per imparare meglio, o verbalizzando coscientemente certi aspetti del problema”;
– la coscienza non è necessaria per il pensiero o il ragionamento, infatti, “le soluzioni appaiono improvvisamente come se saltassero fuori dal nulla”. In particolare, Jaynes fa riferimento alle ricerche della Scuola del pensiero senza immagini di Wurzburg (Germania, primi del ”900) e agli esperimenti di Ach, Watt, Kulge e altri.
Rispetto alla scoperta del secondo cervello nella pancia, riporto solo alcune riflessioni relative alla lettura del lavoro di Gershon, neurobiologo presso la Columbia-Presbyterian Medical Center di New York. Gershon si muove nello spazio di intersezione tra neurobiologia e fisiologia dell’apparato digerente, dimostrando come tutto intorno al tubo digerente ci sia una specie di cervello in forma di rete, indipendente dal sistema nervoso centrale, in grado di utilizzare una complessa trama di neurotrasmettitori, di controllare la motilità, la secrezione, l’assorbimento gastrointestinale, di immagazzinare ricordi, stati d’animo e di influire in modo decisivo sull’umore e il benessere psicofisico. L’autore si sofferma sul “riflesso peristaltico”, che è stato centrale nella costruzione del modello reichiano, che Lowen ha ereditato. Inoltre, ci fa notare come al contrario di ciò che avviene per la cosiddetta attività nervosa “volontaria”, nell’attività nervosa cosiddetta “involontaria”, tipica del sistema nervoso autonomo, il segnale non si trasmette secondo lo schema “tutto o niente”, ma può essere, amplificato, indebolito, ovvero, modulato attraverso processi che accadono nelle sinapsi del SNA, tutto ciò permette un istantaneo adattamento alle circostanze in mutamento. Se non è saggezza questa?! E quanto somiglia alla metis greca, soppiantata dal logos nella modernità occidentale al servizio della cosiddetta “civilizzazione”: “La metis è una forma di intelligenza e di pensiero, un modo di conoscere: essa implica un insieme complesso, ma molto coerente, di atteggiamenti mentali, di comportamenti intellettuali, che combinano l’intuito, la sagacia, la previsione, la spigliatezza mentale, la finzione, la capacità di trarsi d’impaccio, la vigile attenzione, il senso dell’opportunità, l’abilità in vari campi, un’esperienza acquisita dopo lunghi anni, essa si applica a realtà fugaci, mobili, sconcertanti e ambigue, che non si prestano alla misura precisa, né al calcolo esatto, né al ragionamento rigoroso. (…) Essa appare sempre più o meno ‘in profondo’, immersa in una pratica che non si preoccupa mai, anche quando l’utilizza, di renderne esplicita la natura né di giustificarne il modo di procedere.” Ho trovato la definizione della “metis” nel libro di M. Detienne e J.-P. Vernant, “Le astuzie della ragione nell’antica Grecia.” (Laterza, 1984, p. XI).
La teoria polivagale di Porges ci interessa anche perché si sta già collegando alla terapia del trauma. Stephen W. Porges, allievo di Paul McLean, dirige il Brain-Body Center del Dipartimento di Psichiatria dell’Università dell’Illinois a Chicago. Si deve al suo lavoro un modello neurofisiologico innovativo del rapporto tra sistema nervoso autonomo (SNA) e dinamica delle emozioni, denominato “Teoria polivagale”. Porges ipotizza, infatti, 3 livelli di regolazione dell’esperienza viscerale-emotiva, dal basso verso l’alto:
- a) il primo livello è il sistema vago-dorsale (Dorsal Vagal Complex DVC),
composto dal Nucleo Solitario, il nucleo di ricezione dell’input, e dal Nucleo motorio-dorsale del nervo vago, il nucleo di trasmissione degli output;
- b) il secondo livello è costituito dall’Amigdala, un centro nervoso superiore subcorticale, la quale invia messaggi verso l’alto alla corteccia cognitiva, orizzontalmente verso i gangli basali, verso il basso al nucleo preventricolare dell’ipotalamo (paraventricolar nucleus), il quale, a sua volta, invia messaggi tramite il simpatico direttamente alla colonna vertebrale e, in questo modo, oltrepassando i nuclei viscerali dell’asse cerebrale (brainstem), arriva ai vari organi viscerali;
- c) il terzo livello è detto sistema ventro-vagale (Ventral Vagal Complex VVC),
è regolato dall’Ambiguous Nucleus nel brainstem e possiede forti connessioni con i livelli encefalici più elevati, quali il lobo orbitofrontale e il giro cingolato, a causa di ciò mette in relazione la dimensione viscerale con la dimensione relazionale, andando a costituire una parte fondamentale della regolazione interattiva delle esperienze viscerali-emozionali.
Porges con la sua “Teoria polivagale” descrive l’attività del nervo Vago in modo molto più ricco che in passato, erede di Paul McLean, dimostra l’importanza della funzione degli afferenti del Vago per la regolazione delle strutture cerebrali superiori, concentrando l’attenzione sul legame fra i cambiamenti filogenetici nel Sistema Nervoso Autonomo (SNA) e il comportamento sociale. Il Vago viene considerato un “sistema funzionale”, un sistema neurale integrato che comunica in modo bidirezionale fra visceri e cervello. Il Vago eserciterebbe una funziona fondamentale nella regolazione neurale dello stato viscerale. La definizione più ampia del SNA proposta da Porges consente di valutare l’influenza del Vago in situazioni comportamentali e fisiologiche associate al comportamento sociale e ai disordini psichiatrici.
Porges si collega agli studi etologici sui mammiferi che descrivono i “comportamenti orientati alla sopravvivenza” associandoli a specifici “stati neurocomportamentali”, i quali, a loro volta, definiscono:
– la distanza a cui i mammiferi possono essere avvicinati,
– se conviene loro comunicare,
– o stabilire nuove alleanze.
Infatti, i mammiferi sanno distinguere gli amici dai nemici, sanno valutare la sicurezza dell’ambiente e sanno comunicare con la loro unità sociale. I primati, in particolare, gli animali più simili a noi umani, possiedono un tipo di organizzazione neurale che regola lo stato viscerale per adeguarsi ad un comportamento sociale. Sulla base di tale collegamenti, la Teoria polivagale sottolinea la connessione esistente tra i nervi che controllano i muscoli del viso e del collo, detti efferenti viscerali speciali, perché i loro nuclei terminali, situati nell’asse cerebrale (brainstem), agiscono direttamente su un sistema neurale inibitorio che rallenta il ritmo cardiaco, diminuisce la pressione sanguigna e favorisce il mantenimento di stati di calma. Le strutture dell’asse cerebrale funzionerebbero da “portale”, raccogliendo informazioni sensoriali che contribuiscono alla regolazione delle strutture cerebrali superiori, le quali, a loro volta, come in qualsiasi sistema di feedback, partecipano alla regolazione dell’asse centrale in una comunicazione bidirezionale. Tale insieme sarebbe alla base dei comportamenti di adattamento.
Dunque, il sistema del Vago potrebbe costituire un portale che controlla e stimola i processi neurali superiori. Attraverso il “freno vagale”, che agisce sul ritmo cardiaco, infatti, viene modulato lo stato viscerale consentendo all’individuo di assumere e interrompere rapidamente interazioni con oggetti e altri individui. Porges ipotizza che possa influenzare anche il ritmo respiratorio. Forme di stimolazioni vagali sono le rotazioni e le oscillazioni del capo, tali manovre possono costituire forme di strategia vitale di compensazione di un’insufficienza funzionale del sistema vagale, come si osserva in pazienti con diagnosi di autismo. Su adulti normali si è notato che, dopo un periodo di scuotimento oscillatorio ritmico, si verifica un aumento del tono vagale cardiaco. In accordo con la Teoria polivagale, risulterebbe, dunque, che la stimolazione degli afferenti del Vago migliori la qualità della componente somato-sensoria e, forse, anche di quella viscero-motoria del Sistema di Ingaggio Sociale (SIS). Il SIS è il sistema formato dalle strutture neurali che presiedono ai comportamenti sociali. Il SIS comprende positivi comportamenti sociali volontari basati sull’espressione della capacità di comunicare con l’ambiente sociale. L’attivazione del SIS e della connessa abilità relazionale sarebbe, dunque, una proprietà intrinseca dell’apparato biologico, e sarebbe favorita dalla percezione da parte dell’individuo di una condizione di sicurezza dell’ambiente. In caso di pericolo, verrebbero, invece, adottate più facilmente strategie di comportamento “combatti-o-fuggi” o di “immobilizzazione”. In quest’ultimo caso, si verifica un deterioramento della funzione del SIS, una limitazione delle sue connessioni con la corteccia, che non riesce così ad impegnarsi nella regolazione della comunicazione. In sintesi, si ritiene che il SIS moduli lo stato fisiologico di sostegno a un comportamento sociale positivo. La Teoria polivagale si offre come piattaforma teoretica neurofisiologica al comportamento sociale, ritenendo che il comportamento sociale sia una proprietà intrinseca dello sviluppo filogenetico del Sistema Nervoso Autonomo (SNA). La Teoria polivagale adotta alcune idee fondamentali di McLean, quali: l’importanza dell’evoluzione, le strutture limbiche e gli afferenti vagali, su cui costruisce una piattaforma preliminare per lo studio dei rapporti tra il Vago e il comportamento sociale, fornendo anche interessanti spunti per la comprensione degli aspetti fisiologici e comportamentali caratteristici dello stress, del trauma, e di disturbi psichiatrici come l’autismo.
Si ritiene che il concetto di SNA Triuno di Porges possa radicare l’importanza del legame materno e dell’intimità nell’anatomia e nella filogenesi. Il lavoro di Porges viene combinato con il metodo di Levine di risoluzione del trauma. Le tre branche del SNA vengono individuate dagli/lle operatori/trici in modo da guidare il/la cliente a soddisfare gli impulsi relativi al livello attivo, in modo da restaurare la capacità di agire a tutti e tre livelli. Il terzo livello viene definito anche “Sistema nervoso sociale”, competente per costruire legami, e modulare l’emotività e i comportamenti in relazione all’ambiente umano e naturale. E’ centrato sulla voce, l’udito, il contatto visivo e l’espressione del viso, le quali hanno la capacità di far rilasciare i neurotrasmettitori che inducono sensazioni di piacere in colei/lui a cui ci si rivolge per ricevere un comportamento di attenzione affettuosa e di cura, con uno stretto rapporto con le funzioni precognitive. Porges ha dimostrato che sotto stress il “sistema umano” cerca di mettere in atto per prima la parte più nuova, filogeneticamente parlando, e maggiormente sofisticata del suo equipaggiamento, ma se questo tentativo fallisce, ricorre alle risorse più antiche: dunque, sotto stress, l’essere umano prima adotta le tattiche socio-relazionali, se falliscono, adotta la tattica “attacco/fuga” e, se anche questa fallisce, si immobilizza. A causa di un trauma la capacità di usare le strategie più nuove e sofisticate può venire erosa cosicché le strategie più antiche diventano la base abituale della risposta. Le esperienze che inducono la “devoluzione” verso il livello della strategia simpatica (iper-) o parasimpatica (ipo-) inducono l’amigdala ad aspettarsi il tradimento nelle situazioni di intimità.
Il portale del parasimpatico è il nervo Vago e il dorso; il portale del simpatico sono i muscoli degli arti; il portale del “sociale” sono i nervi cranici V, VII, IX e XI, identificabili con la struttura embriologica detta “Arco faringeo”. Si lavora sul parasimpatico attraverso il respiro e il movimento della pancia ad esso connesso. Si lavora sul parasimpatico impegnando i muscoli delle braccia e delle gambe, poi, si sperimenta il rilassamento. Si lavora sul “sociale” suggerendo al/lla cliente di ricordare una persona cara o un animale domestico e di usare l’immaginazione, in modo da indurre le calde sensazioni del riconoscimento sorridente, “smiling recognition”, (nervi cranici V e VII). Il lavoro di Porges sta venendo integrato col metodo di Levine, con il Focusing, con la terapia della Gestalt e con l’ipnosi.
Punto L) L’istinto e l’intelligenza istintuale, la parte selvaggia e il processo di civilizzazione.
“Non esiste una definizione univoca di intelligenza, ma…ogni definizione risente dell’orientamento di pensiero che la formula.”, scrive Galimberti nel Dizionario di Psicologia da lui curato (p. 487), e alla voce ‘Istinto’ inizia così: “Risposta organizzata di una specie, filogeneticamente adattata a una determinata situazione ambientale.” (ivi p. 517). Una definizione molto estesa e interessante è quella che ne dà Alain Delanay nell’Enciclopedia Einaudi (p. 1032): “Il concetto di istinto si trova sul punto di confluenza di numerosi problemi:
– la teoria della conoscenza,
– lo studio delle ‘abitudini’ dell’uomo e degli animali,
– la teoria dell’evoluzione e la sua rilettura in chiave genetica,
– la psicologia sperimentale e i suoi rapporti con la neurofisiologia,
– l’approccio psicanalitico dell’Io,
– e, infine, l’interpretazione eto-ecologica del comportamento.”
Nozione ormai controversa e che è andata scomparendo nei trattati di etologia, “l’idea di istinto conserva tutta la sua forza e la sua influenza sulla soggettività. Non si tratta di un ritardo dell’opinione sulla scienza, ma piuttosto dell’affermazione più o meno cosciente nel cuore del soggetto, secondo cui la scienza non affronta mai il problema reale e non fa che respingerlo…E’ dal centro dell’Io nel suo rapporto col mondo che l’istinto viene vissuto come enigma, enigma dell’animalità e – per un gioco di specchi – enigma dell’umanità. (…) l’istinto può essere concepito come una minaccia di animalità all’interno dell’Io (…) Ma l’istinto può anche apparire come una promessa di apertura sul mondo. Allora è lo slancio salvifico di ogni essere umano, che gli consente di lasciarsi portare dalla propria natura verso le cose, e di coglierle in un rapporto d’intimità. In questo senso l’istinto sarebbe…il mezzo col quale l’essere umano sfugge al mostro oggettivo.” (ivi pp. 1032-33).
La disamina del concetto di “istinto” richiede di porre un’attenzione particolare alla teoria dell’evoluzione e alla definizione di “riflesso”, secondo una catena logica del tipo: riflessi-tropismi-istinti-intelligenza. La suddetta disamina esula ovviamente dai limiti di questo contributo e va rimandata ad un contesto specifico. E’ il caso, invece, qui di ricordare che la ridefinizione della dimensione istintuale nell’essere umano si situa nell’orizzonte della “sfida della complessità” e della “crisi delle certezze”. La realtà torna ad essere ufficialmente considerata imprevedibile; la presa che la scienza occidentale credeva di avere su di essa si allenta vieppiù, mascherata a stento dal rutilante e commerciale spettacolo del progresso tecnologico.
Vorrei condividere adesso un esempio di come potrebbe cambiare l’atteggiamento scientifico ufficiale. Negli anni ’50, Barbara McClintock, eminente citogenetista, individuò una funzione sconosciuta studiando i loci genetici soggetti a mutazione dei cromosomi del granturco, cosa che le valse il premio Nobel: alcuni elementi genetici apparvero capaci di una “trasposizione autonoma”, non indotta dall’esterno. Ma la cosa per noi più interessante è il modo in cui la McClintock descrisse il suo “orientamento centrato sull’organismo”. Nelle interviste che le sono state fatte, la biologa ha utilizzato ripetutamente espressioni come: “lasciare che la materia ti parli”; “lasciare che sia la materia stessa a dirti cosa fare”, nel suo caso si trattava della pianta del mais. Dopo avere avuto cura di “conoscere” una per una le piante di mais a sua disposizione, osservandole fin dall’inizio e in ogni fase del loro ciclo di vita – perché, a suo dire, ognuna è diversa dall’altra e le differenze sono importanti come le somiglianze -, una volta al lavoro con i cromosomi, per ore ed ore china sul microscopio, li vide diventare grandi tanto che si sentì insieme a loro nello stesso ambiente: “Io non ero più al di fuori, ma mi trovavo lì con loro, ero parte del sistema.”; “Mi sentivo proprio come se fossi lì, e loro fossero miei amici.” Proprio questa “sensibilità (feeling) per l’organismo”, a suo dire, le permise di cogliere una caratteristica che fino ad allora era sfuggita alla ricerca, come se le piante del mais si fossero fatte “conoscere” da lei, dato il particolare rapporto che lei aveva instaurato con loro. La ricercatrice, infatti, aveva deposto spontaneamente l’atteggiamento di arroganza manipolatrice tipico del sapere occidentale e si era rivolta alle piante con sentimento di rispetto e comunanza, con il sentimento di appartenere allo stesso mondo-comunità. L’esperienza della McClintock è, a mio avviso, un esempio della direzione in cui l’atteggiamento conoscitivo occidentale dominante, chiamato “scienza”, potrebbe muoversi; infatti, parte fondamentale del rinnovamento dell’atteggiamento esistenziale-cognitivo occidentale sembra risiedere proprio nel recupero del sentimento di “sentirsi parte”.
Il sentimento di “comunanza-appartenenza” può essere coltivato facendo danzare insieme il sentire, il pensare e l’immaginare, e questa danza è ciò che ci fa sentire profondamente e pienamente in contatto con noi stessi/e. Dunque, paradossalmente rispetto a certe convinzioni superficiali, proprio l’esperienza di essere profondamente e pienamente in contatto con noi stessi/e non si risolve in una chiusura individualistica, ma stimola, invece, risorse interiori che ci spalancano a vissuti di coappartenenza e di coevoluzione col nostro ambiente relazionale e naturale. In un clima siffatto, le opposizioni “società/natura” e “individuo/comunità” potrebbero trasformarsi in rapporto fecondo tra polarità esistenziali-relazionali. Ed è questo il messaggio bioenergetico, il quale auspica l’avvento del “pensiero funzionale” capace di mettere in dialogo le polarità: “La nostra logica vede solo le cose come dualità, come causa ed effetto. La comprensione del paradosso dell’unità e della dualità è competenza del pensiero funzionale, il quale richiede una nuova forma di coscienza.”, come scrive Lowen in “Bioenergetica” (p. 295). Questa nuova forma di coscienza e di conoscenza si può manifestare, secondo Lowen, solo attraverso la resa dell’Io al Sé. E il processo inizia col riconoscimento da parte dell’Io occidentale della sua corporeità e del suo legame con la terra, la natura e il cosmo grazie al rapporto mediato all’inizio dalle nostre madri e dalla comunità umana e, poi, da adulti/e, stabilito anche in modo diretto con la Madre Terra e con la spinta vitale dentro di noi. “Noi siamo creature della terra, animate dallo spirito dell’universo. La nostra umanità dipende da questa connessione con la terra. (…) Più ci allontaniamo dal suolo, tanto più si ingigantisce l’immagine di noi stessi (del nostro Io).” (p. 234). Ciò produce un “mondo” illusorio. “In questo mondo illusorio non ci sono sentimenti di tristezza o di gioia, di dolore o di gloria. Non ci sono sentimenti reali solo sentimentalismi.” (p. 234) ” Essere più in contatto con il corpo significa essere in contatto con i sentimenti e permette di sviluppare la padronanza nella loro espressione, questa è la base della “pace interiore” (p.235).
La corporeità bioenergetica connessa con la terra, la natura e il cosmo permette di abbandonare i falsi valori dell’Io occidentale – il potere sulla natura e sugli altri esseri umani, il possesso di beni materiali, il successo e la fama -, falsi valori centrati su una forma di conoscenza che mira al dominio, e di recuperare i veri valori dell’Io: la dignità, l’onore, il rispetto, il senso della comunità, tutto questo è frutto del riconoscimento del fatto che l’Io è al servizio del Sé, dunque, dell’esperienza della resa dell’Io (p. 237). Ma l’Io da sacrificare deve essere in buona salute, altrimenti siamo ancora nel mondo delle illusioni dell’Io occidentale! In questo consiste l’aspetto paradossale del processo bioenergetico: curare l’Io occidentale rigido, scisso, frammentato, gonfiato, sbrindellato, vaporizzato per dedicarlo appassionatamente alla manifestazione del Sé corporeo. Ma solo uno sguardo occidentale resta bloccato davanti al paradosso in questione, poiché il paradosso è il segnale del dialogo tra gli opposti, abilità che l’Occidente sembra aver cominciato a perdere 2500 anni fa proprio alla sua nascita. La Bioenergetica appare così dedicata a ripristinare questa abilità sapienziale – il dialogo tra gli opposti – attraverso la riconcettualizzazione dell’esperienza in Occidente. La pratica bioenergetica si presenta, infatti, in quest’ottica, come un atto di riconcettualizzazione dell’esperienza occidentale. Se, dunque, la “svolta affettiva” in campo cognitivo ha fatto sì che le neuroscienze stiano identificando un’ampia gamma di ‘sistemi istintivi’ relativi a: l’autoprotezione, il legame sociale, la raccolta di risorse, i comportamenti sessuali, le risposte di sopravvivenza, ecc.; e che si ritenga, oggi, che ognuno di questi ‘sistemi adattivi’ sia dotato di una sofisticata ed unica forma di “intelligenza adattiva”, perché non cominciare, noi bioenergetici/che, a parlare di “intelligenza istintuale”, rivendicando la nostra esperienza e la nostra pratica al riguardo?
La revisione del concetto di ‘istinto’ in connessione con lo sviluppo del “filone culturale corporeo”, di cui l’analisi bioenergetica fa parte, come illustro nel mio articolo “L’analisi bioenergetica e il discorso sulla modernità”, non può non prendere in considerazione le elaborazioni in altre discipline, come la storia, l’etnologia, l’antropologia culturale, la sociologia, ecc., le quali si occupano della dimensione collettiva complessiva dell’esperienza umana. Parliamo del dibattito intorno ai concetti di Wilderness, inglese, e di Wildnis, tedesco, equivalenti. “Wilderness: la natura allo stato selvaggio non alterata dall’intervento dell’uomo, con riferimento ad un ambiente indispensabile alla conservazione della biodiversità”, scrive Tullio De Mauro nel Grande dizionario italiano dell’uso (Torino, 1999). In realtà, si tratta di qualcosa di più, di una filosofia di vita, molto precedente alla cultura ecologista contemporanea. In italiano non abbiamo un corrispettivo del termine inglese o tedesco, “a meno che non si voglia tradurlo con selvatico, ambiente primitivo, selvatichezza in genere”, come ci suggerisce G. Zanghellini in Wilderness come esperienza di vita su Documenti Wilderness (anno XVI, n.1, 1999, p. 1). Significa ritrovare il senso del rapporto con la terra, sentendosi “come un albero nel bosco”, per “trovare il bosco dentro di noi”, per risentirci “ospiti” e “parte” dei luoghi naturali, cercando di non lasciare tracce del nostro passaggio, sintonizzandosi con i ritmi naturali, cercando di “sentire l’ambiente”. “Il singolo non occupa più nella società il posto che l’albero occupa nel bosco: egli ricorda invece il passeggero di una veloce imbarcazione che potrebbe chiamarsi Titanic o anche Leviatano”, scriveva Ernst Juenger, alla fine dell’Ottocento. Egli considera il bosco una sorta di “cellula primaria” a cui fare riferimento per recuperare il contatto con la nostra stessa essenza. La Wilderness-Wildniss è contrapposta alla “civilizzazione”, intesa proprio come il processo che ha soffocato la natura dentro di noi. Negli Stati Uniti, Henry David Thoreau (1817-1862) rappresenta l’autore di riferimento dal 1854 ad oggi, anno in cui pubblicò “Walden, ovvero la vita nei boschi”.
Il bosco è un luogo di iniziazione e uno spazio sacro nelle religioni della natura. Nel nostro mondo le immagini simboliche che subito ci vengono in mente sono Artemide-Diana e le ninfe, Pan e i fauni. Il culto di Diana rimase vivo nelle campagne fino alla fine del Quattrocento, fino a ché non venne attaccato massicciamente sia dai tribunali religiosi, cattolici e protestanti, sia dai rappresentanti della scienza occidentale in ascesa, demonizzando corporeità, sessualità e immaginazione e inventando la figura della “strega”. Il recupero della parte istintuale-selvaggia dentro di noi anima il “filone corporeo”, prima di tutto in ambito artistico e, poi, grazie a Reich e Lowen, in chiave corporea, appunto, e a Jung, in chiave simbolico-verbale, si è manifestato anche nel campo della psicoterapia. Pensiamo, infatti, come è importante per noi il simbolo dell’albero e l’identificazione con esso nelle nostre esperienze di “radicamento”.
Un contributo recente al riconoscimento del “filone corporeo” come parte integrante del panorama culturale occidentale, è venuto, a mio avviso, dal lavoro dell’antropologo francese Bruno Latour, il quale ha affermato nel suo libro di successo Non siamo mai stati moderni: “In effetti, la società ‘moderna’ non ha mai funzionato in modo coerente con la grande scissura su cui si fonda il suo sistema di presentazione del mondo: quella che oppone natura e cultura. (…) è proprio questo paradigma fondatore che bisogna rimettere in discussione per riuscire a capire il nostro mondo.”(p. 22).
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* Dott.ssa Livia GELOSO
Local Trainer in Analisi Bioenergetica (S.I.A.B.)
Membro del Direttivo dell’EFBA-P
(European Federation for Bioenergetic Analysis-Psychotherapy)