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Paura della leggerezza. Note sulle difese masochistiche di Gianfranco Ravaglia


Molto è stato scritto sul masochismo, ma il filone delle ricerche sulla struttura caratteriale masochistica o sui tratti caratteriali masochistici è sostanzialmente riconducibile agli studi di Wilhelm Reich e degli analisti che sono partiti dalle sue ricerche.

INDICE

1.Oralità e masochismo sul piano caratteriale
2.Dolore, depressione e difese masochistiche
3.La strategia difensiva masochistica
4.Atteggiamenti caratteriali masochistici presenti in complesse strategie difensive
5. Alcune sedute
6. Alcuni momenti di un percorso analitico

1. Oralità e masochismo sul piano caratteriale

Molto è stato scritto sul masochismo, ma il filone delle ricerche sulla struttura caratteriale masochistica o sui tratti caratteriali masochistici è sostanzialmente riconducibile agli studi di Wilhelm Reich e degli analisti che sono partiti dalle sue ricerche.

Opponendosi alla concezione speculativa freudiana relativa all’ipotesi di una pulsione di morte (S.Freud,1920), che era teoricamente insostenibile ed epistemologicamente inconsistente, Wilhelm Reich ha dimostrato la possibilità di ricondurre i comportamenti autodistruttivi e quindi anche gli atteggiamenti masochistici ad una logica difensiva (W.Reich,1945,cap.XI) ed ha istituito l’effettiva possibilità di un lavoro analitico su disturbi che precedentemente risultavano semplicemente incomprensibili. I suoi allievi hanno proseguito l’indagine sulle strutture caratteriali (E.Baker,1969, A.Nelson,1975, 1976, 1979) ed altri studiosi influenzati comunque dal pensiero reichiano hanno portato avanti in contesti teorici relativamente distinti la ricerca sulle difese caratteriali (A.Lowen,1958, R.Kurtz-H.Prestera,1976, D.Boadella,1976, D.Boadella,1987, D.Boadella-J.Liss,1986).

Una linea di ricerca più attenta alle modalità di interazione che alle rigidità caratteriali, si è aperta con l’analisi transazionale (E.Berne,1967, E.Berne,1972) e ciò ha aiutato gli analisti interessati al lavoro sulle difese caratteriali ad approfondire il loro approccio ed a considerare quindi gli atteggiamenti caratteriali più come strategie che come “strutture” (G.Ravaglia-A.Torre,1996).

In queste pagine mi propongo di riconsiderare le difese di tipo masochistico e di prendere spunto da questo specifico argomento per giustificare in generale l’opportunità di subordinare l’analisi del carattere all’analisi dell’intenzionalità difensiva. Tra le tante strutture caratteriali che meriterebbero esame altrettanto accurato, ho scelto questa semplicemente perché il disagio espresso dalle persone che manifestano delle difese masochistiche viene spesso confuso anche da psicologi e psichiatri con quello delle persone che manifestano difese depressive.

A differenza del carattere orale che in modi lievi o gravi protegge la persona da un senso di vuoto e di privazione, il carattere masochista protegge la persona da un senso di colpevolezza, inadeguatezza e da un vissuto di svalutazione.

Le persone con caratteristiche orali tendono alla depressione (lieve o grave) perché la depressione è un atteggiamento di rifiuto della realtà percepita come intollerabile in quanto non appagante i bisogni elementari di appoggio, riconoscimento, accoglienza. Le persone con un carattere orale sprofondano in sintomatologie depressive quando falliscono nella loro negazione del vuoto. Tale negazione è riconducibile fondamentalmente a due modalità: quella della dipendenza “ottimistica” e della controdipendenza.

La dipendenza “ottimistica” delle persone “orali” si manifesta con una irrealistica speranza di poter trovare nella vita adulta una compensazione soddisfacente per vissuti di deprivazione. In tale atteggiamento c’è la pretesa, cioè la rabbiosa convinzione che finalmente ci debba ben essere ciò che si sente come mancante.

Nella controdipendenza, al contrario, le persone ostentano un atteggiamento altrettanto irrealistico secondo il quale mostrano di non dipendere affettivamente da nessuno e di bastare a se stesse. In realtà la controdipendenza costituisce l’altro lato della stessa medaglia, definibile come dipendenza patologica. La persona controdipendente è semplicemente terrorizzata dalla possibilità di dipendere affettivamente e di essere poi abbandonata.

Nella realtà della vita adulta tutti dipendiamo affettivamente dalle persone care e tolleriamo tale situazione che ci rende vulnerabili ma anche soddisfatti dei reali buoni rapporti. Una volta che proiettiamo sulle relazioni adulte possibilità di appagamento o frustrazione relative al senso “sicurezza” (possibili solo nella prima infanzia nel rapporto con la figura materna) piuttosto che realistiche possibilità di incontro e di gratificazione, viviamo in modo irrazionale l’effettiva relazione e possiamo solo scegliere fra immaginarla ottimisticamente come una possibile salvezza o temerla e negarla.

La persona depressa detesta (difensivamente) se stessa per mantenere l’idea che se fosse migliore otterrebbe quel che vuole oppure detesta (difensivamente) il mondo perché privo di senso in quanto “inadempiente” (salvando così l’illusione che il mondo “dovrebbe” dare l’appagamento necessario).

Nelle versioni psicotiche di questi atteggiamenti difensivi, troviamo una negazione delle coordinate essenziali della realtà e quindi una totale negazione del valore di se stessi e del mondo oppure un altrettanto infondato senso di onnipotenza.

Di fatto, in un modo o nell’altro le persone con caratteristiche orali evitano il lutto relativo ad una esperienza di carenza, e restano inchiodate al passato e fermamente convinte di aver diritto (anche con venti o cinquant’anni di ritardo) a quella “pienezza” che solo una madre accettante avrebbe potuto dare nella prima infanzia.

Nelle forme nevrotiche o psicotiche, la problematica orale rinvia comunque ad una fase precoce dello sviluppo affettivo in cui il bambino non ha ancora ricevuto abbastanza sostegno da poter elaborare il dolore riconoscendosi come soggetto portatore di una specifica sofferenza. Per questo le persone con caratteristiche orali, sia che risultino semplicemente “appiccicose”, sia che si mostrino depresse, sia che fuggano nella controdipendenza, manifestano un senso basilare di fragilità.

Le persone con struttura caratteriale masochistica, al contrario non sono e non sembrano fragili e non cadono facilmente nella follia o in patologie nevrotiche gravi, anche se si difendono da vissuti dolorosi dell’infanzia in modi che possono essere più o meno marcati e distruttivi.

Dobbiamo subito sgombrare il terreno da qualsiasi confusione fra masochismo caratteriale e perversioni masochistiche; poiché queste ultime implicano una sessualizzazione di problemi affettivi ed una non adeguata considerazione per la integrità personale, rientrano in genere nel quadro di personalità borderline, anche se con tratti caratteriali masochistici.

Il classico carattere masochistico tanto discusso in letteratura è abbastanza raro, mentre i tratti caratteriali masochistici sono molto diffusi e rientrano quasi sempre in personalità abbastanza mature. Anche se il termine “masochismo” suona molto male e può dar l’idea di una grave “malattia”, o fa pensare (erroneamente) ad una “stupida” volontà di soffrire, rinvia in realtà a problematiche psicologiche significative ma non particolarmente “gravi”. Le persone che presentano aspetti masochistici nei loro atteggiamenti difensivi rivelano una sicurezza di base relativa al valore della loro vita e della vita in generale, sono affidabili per molti aspetti delle relazioni interpersonali e sono anche capaci di dare (magari in modo eccessivo e condizionato). Chiaramente soffrono e soffrono in modo irragionevole perché comunque non hanno elaborato dei vissuti molto penosi con cui non vogliono entrare in contatto, ma possono trarre giovamenti (a volte anche rapidi) da un lavoro analitico ben condotto.

Se nell’oralità il problema “antico” è costituito dalla mancanza di un rapporto capace di dare sicurezza, nel masochismo il problema “antico” è costituito dall’angoscia di incontrare rifiuto, svalutazione e colpevolizzazione in un rapporto comunque solido con una figura materna. Il masochista lotta contro se stesso per non compromettere con la propria rabbia una situazione stabile che comunque sente di aver conquistato. Si opprime controllando una profonda ostilità pur di mantenere anche nella vita adulta rapporti che sono insoddisfacenti e potrebbero essere semplicemente interrotti. A volte teme rapporti molto gratificanti in cui si troverebbe spiazzato perché non potrebbe sentirsi vittima. Infatti l’irrigidimento nel ruolo di vittima, per quanto penoso, ha coinciso nell’infanzia con la scoperta della capacità personale di “tollerare” delle difficoltà senza toccare un dolore troppo profondo e temuto. Le persone con carattere masochistico, avendo evitato una grande pena immobilizzandosi, temono di perdere la loro immobilità.

Le caratteristiche più evidenti dell’atteggiamento masochistico sono quindi riconducibili alla percezione di un forte senso di oppressione ed alla manifestazione frequente di lamentele che forniscono un piccolo sollievo alla “pressione interna” avvertita come insopportabile. Nella strategia masochistica rispetto alle altre persone ha invece un ruolo fondamentale la ricerca di situazioni insoddisfacenti a cui attribuire (vittimisticamente) il senso di oppressione (ed a cui reagire) e la tendenza a deteriorare le situazioni soddisfacenti perché esse sono percepite come angoscianti e pericolose (come se la felicità fosse una colpa e la leggerezza fosse un pericolo).

Il senso d’oppressione in questione non deve essere considerato “effetto” di reali oppressioni o maltrattamenti del passato (a meno che questi ultimi siano intesi in un senso tanto ampio da essere rintracciabili nelle famiglie di qualsiasi persona nevrotica, cioè nella quasi totalità delle famiglie). Reali oggettive situazione di maltrattamento conducono facilmente a disturbi di tipo borderline piuttosto che a difese masochistiche. Il senso d’oppressione accusato dalla persona con difese masochistiche deve al contrario essere considerato una esatta percezione dell’auto-oppressione (anche muscolare) che la persona stessa ha costruito per mantenersi in una posizione di “resistenza” rispetto a specifiche frustrazioni, manipolazioni, svalutazioni.

2. Dolore, depressione e difese masochistiche

Spesso gli atteggiamenti masochistici vengono confusi da medici (ma anche da psicologi e psichiatri) con quelli depressivi e ciò dà luogo a gravi errori sia nella terapia farmacologia che nella psicoterapia.

Per capire esattamente le differenze tra vari tipi di difese, dato che comunque si tratta di difese dal dolore, occorre ovviamente avere qualche idea ragionevole relativa al dolore, ma ciò è tutt’altro che scontato. Infatti, a volte, anche nei testi di psicoterapia non si contrappone adeguatamente il dolore (o la tristezza) alle difese depressive.

Robert White e Robert Galliland, ad esempio, in un noto testo scrivono che “La depressione è uno dei più comuni sintomi psichiatrici” (White-Galliland, 1975, p.149), ma dopo poche pagine esprimono un pensiero che contraddice radicalmente la precedente corretta affermazione: “La perdita produce depressione. L’emozione della depressione segnala la presenza di una perdita o la sua imminenza. Quando la depressione non raggiunge un grado chiaramente morboso, l’emozione e le sue concomitanti fisiologiche vanno semplicemente considerate una risposta biologicamente innata alla perdita” (p.154). In queste poche parole riscontriamo purtroppo sia una logica discutibilmente causale che presenta le emozioni come effetti di situazioni anziché come attive ed intenzionali risposte delle persone alle situazioni, sia una negazione delle differenze sostanziali fra tristezza, dolore, disperazione da un lato e depressione dall’altro. Gli autori suggeriscono che sia tutto una questione di “grado”, ovvero che essere depressi significhi essere “troppo tristi”. E questa è una ovvia sciocchezza, dato che ci sono persone molto addolorate in situazioni di perdita che non fanno nulla di assimilabile a quello che fanno normalmente le persone depresse. Una persona può aver perso un figlio e svolgere normalmente il suo lavoro, amare la moglie, piangere spesso guardando le foto o i vecchi giocattoli del figlio; un’altra persona può aver semplicemente perso l’opportunità di una promozione in ufficio e svegliarsi sempre tardi con la ferrea convinzione che la vita “non meriti di essere vissuta”. Sarebbe assurdo dire che la seconda persona esibisce una “eccessiva tristezza” poiché in realtà manifesta rabbia (silenziosa) per una (piccola) perdita che non accetta, non sente amore, rivela segni fisiologici di tensione, mentre la prima persona sta cercando di abituarsi ad una (grande) perdita che ha accettato come definitiva, ama sia sé che il figlio deceduto che le altre persone della sua vita, è rilassata e impegnata nella vita anche se ovviamente non dà segni di allegria.

Considerare la depressione una “forte” tristezza è errato come considerare la guerra una “intensa” pace. Si deve invece ragionevolmente sottolineare la netta contrapposizione delle due emozioni considerando la tristezza come una sincera accettazione di una reale perdita e la depressione come il rifiuto di una perdita e quindi considerando la tristezza come una emozione fondamentale e la depressione come una emozione difensiva e in ultima analisi come una difesa o una collezione di sintomi.

Sta di fatto che sono scarse nella letteratura specialistica le esplicite definizioni del dolore psicologico inteso come fenomeno soggettivo radicalmente opposto alla depressione ed ai vari stati d’animo “penosi” difensivi.

I bambini soffrono perché sono come gli adulti esseri umani con bisogni e desideri che la realtà a volte frustra. A differenza degli adulti però non possono accettare ed elaborare il dolore, a meno che non trovino il sostegno e l’appoggio di una figura genitoriale. In assenza di tale appoggio, e soprattutto quando proprio la figura genitoriale è fonte di sofferenza, i bambini interrompono il contatto con il dolore. Fanno questo nel modo più economico ed efficace, dato che non costruiscono atteggiamenti difensivi più gravi del necessario, ma lo fanno con competenza e determinazione. In altre parole sono fin dal primo giorno “dotati” delle capacità necessarie per interrompere il contatto con il dolore, ma sono privi delle capacità necessarie per elaborare ed integrare le perdite dolorose. Costruiscono atteggiamenti e progetti difensivi “senza scadenza”, e quindi (se non rivedono in un percorso analitico la loro strategia) continuano nella vita adulta a scappare (irragionevolmente) dalle emozioni penose che avevano (ragionevolmente) evitato nell’infanzia. Diventano adulti limitati nella capacità di accettare il dolore inevitabile, nella capacità di essere empatici coi figli e di dare sicurezza e sostegno ai figli. Diventano adulti che portano anche i loro figli a confrontarsi (senza il necessario appoggio) con esperienze dolorose e quindi a costruire le difese necessarie. Questo accade e continua ad accadere e chiarisce perché nella maggior parte delle relazioni interpersonali e dei rapporti sociali prevalgano in modo così marcato aspetti irrazionali e distruttivi che contraddicono il livello di maturazione intellettuale e culturale delle persone e le potenzialità costruttive dei gruppi.

Il dolore è sentito (se non vengono attivate delle difese) quando un bisogno o un desiderio incontrano una risposta frustrante che non può essere modificata. Quando la frustrazione è provvisoria o solo probabile, la risposta emotiva è quella della paura, ovvero della preparazione ad un possibile dolore. Quando la frustrazione può essere superata, la risposta emotiva è quella della rabbia, ovvero del rifiuto di una situazione sentita come insoddisfacente. Quando la frustrazione è insuperabile, la risposta emotiva è il dolore e la persona che prova un dolore profondo o lieve ha bisogno di tempo (di un tempo speso bene) per abituarsi a convivere con una sensazione di mancanza, di perdita irreparabile.

Nel lavoro del lutto la persona si abitua a continuare a vivere una vita che non è quella che aveva desiderato, poiché improvvisamente la vita implica la perdita di qualcosa che era stato ottenuto o l’impossibilità di realizzare ciò che era desiderato. Col lavoro del lutto la persona si abitua a sentire una mancanza; in altre parole col lavoro del lutto sviluppato in un tempo adeguato, la persona ristruttura sul piano cognitivo e su quello del sentire il suo orizzonte di vita. Il pianto costituisce l’espressione più compiuta del dolore. Col pianto la persona esprime il dolore, si abitua a sentirlo, si organizza interiormente per accettarlo dato che non può né combattere né restare “sospesa” nell’incertezza. Negare un dolore (ovvero evitare il lavoro del lutto) è irragionevole come negare un fatto evidente. Se nascessimo con le capacità degli adulti non interromperemmo mai il contatto di fronte al dolore, ma nasciamo senza quelle capacità e quindi abbiamo bisogno o di essere gratificati o di essere sostenuti nel confronto con aspetti dolorosi della realtà. Il sostegno degli adulti non produce un apprendimento in senso stretto, così come la comunicazione linguistica produce l’apprendimento di una lingua. Esso costituisce più che un apprendimento un aiuto: l’adulto aiuta il bambino ad affrontare una cosa più grande di lui “prestandogli inizialmente le sue risorse”, così come l’adulto si carica il bambino sulle spalle se questi deve raggiungere un posto troppo lontano per le sue gambe. Il bambino vede “come si fa”, ma mentre lo fa riceve l’aiuto cognitivo e l’accoglienza fisica ed emotiva che gli permettono di stare “intero” di fronte all’intera situazione dolorosa senza sentirsene travolto. Crescendo saprà “come si fa” e gradualmente riuscirà a farlo da solo.

Quando un adulto attraversa un periodo di lutto, non sente “di non farcela”, non è arrabbiato, non è confuso, non ha speranze, non è distaccato: è in contatto con una tristezza o un dolore che non vorrebbe sentire ma che comunque fa parte della sua vita e va accettato. In ogni lutto l’adulto scopre di poter vivere senza qualcosa che aveva o voleva, ovvero scopre di poter tollerare una mancanza, che resta tale ma che non toglie significato a ciò che resta.

L’epoca e le modalità delle frustrazioni, così come le situazioni interpersonali che creano le frustrazioni, portano il bambino a provare specifici tipi di sofferenza e rendono necessarie specifiche reazioni difensive. Le difese sono molte e l’insieme delle modalità difensive di una persona è unico. A grandi linee si può dire che per non soffrire la persona può fare tante cose, più o meno gravi: irrigidirsi e sentire meno, pretendere rabbiosamente una compensazione, modificarsi sperando di avere il potere di cambiare ciò che non può cambiare, distaccarsi, confondersi, e così via.

Parlando di depressione e di atteggiamenti masochistici parliamo di due delle varie modalità difensive che hanno una cosa in comune: per molti aspetti assomigliano alla tristezza pur essendo un modo per non sentirsi realmente tristi, addolorati, disperati. Esse danno luogo ad una pseudodisperazione che serve proprio a “non di-sperare”. Il depresso spera perché protesta e pretende e nega che la mancanza sia definitiva. La persona con atteggiamenti masochistici si concentra sulla sua fatica ad accettare qualcosa mentre in realtà non accetta né la situazione né la propria impotenza, e fatica proprio per mantenere quella reazione dura e rigida di opposizione alla realtà penosa.

Sia nella depressione che nel “pantano masochistico” c’è quindi una (pseudo)sofferenza esibita che copre un dolore molto profondo; in altre parole la sofferenza esibita, per quanto penosa, è superficiale e gestita dalla persona per impedire il contatto con quel dolore profondo che nell’infanzia fu classificato intollerabile e che irrazionalmente viene in modo automatico allontanato dalla coscienza anche nella vita adulta. In entrambi i casi ci può essere lamentazione senza pianto o con “crisi” (non autentiche) di pianto; in entrambi i casi c’è molta rabbia non espressa apertamente. Tuttavia, la situazione di base, quella veramente dolorosa e più antica, che si evita di accettare, quella per cui non si fa un vero lutto (e che quindi non si supera) è molto diversa nei due casi.

La persona con carattere masochista non scappa da un senso di vuoto, di inconsistenza, di mancanza, ma da una esperienza di solitudine caratterizzata da rapporti basilari forti ma condizionali nei quali non si è sentita libera di esprimersi se non a rischio di trovarsi svalutata o derisa o colpevolizzata. Quindi, si è aggrappata al brutto rapporto autoimponendosi un blocco dell’espansione emozionale, per sentirsi vittima di una ingiustizia ma capace di sopportare l’ingiustizia e in diritto di aspettarsi di più.

La persona con un carattere orale pretende un rapporto soddisfacente, ma irreale perché sente di avere alle spalle una mancanza di rapporto, mentre il masochista cerca un rapporto insoddisfacente per non sentirsi nella condizione di precarietà e di libertà che associa alla perdita del controllo.

Mentre il depresso denuncia una “non sensatezza” e “non accettabilità” di sé o della sua vita in generale, il masochista, con il suo tipico atteggiamento da vittima rinvia in modo distorto, ma in qualche misura realistico, ad una persona o situazione oggettiva da cui si sente intrappolato, oppresso, svilito. Anche se il problema depressivo parte da una frustrazione subita da una persona reale, il depresso più che evidenziare un vittimismo rabbioso rispetto ad una persona mette in evidenza l’intollerabilità delle conseguenze di ciò che è accaduto. Il depresso pretende di essere salvato mentre il masochista scarica (poca) rabbia pretendendo solo di essere giustificato o compatito.

Le persone con carattere orale sono percepibili come deboli ed infantili, mentre quelle con carattere masochistico sono percepibili come solide e affidabili: infatti queste ultime hanno “avuto di più” ed hanno imparato ad usare il loro capitale iniziale per non perdere tutto. Sono costantemente insoddisfatte ma sicure di non crollare (anche se magari si lamentano dicendo di “non farcela”) e si sentono vittime in quanto non riconoscono di essere responsabili di ciò che fanno per restare ferme in situazioni penose. In tale non riconoscimento c’è un fondamento (storico) di realtà: infatti, nell’infanzia hanno fatto una scelta, ma sotto il peso di un ricatto affettivo. Il problema che portano nella vita adulta è però un po’ diverso: fanno scelte perdenti per mantenersi nel loro pantano rassicurante senza sentirsi responsabili della loro attuale autolimitazione ed “auto-compressione”.

Nelle situazioni frustranti della vita adulta il depresso si ritira in una rabbia silenziosa distruttiva ed autodistruttiva (esprimendo indirettamente una protesta che nega significato alla realtà), mentre il masochista si lamenta di qualcosa che non accetta ma che non tenta nemmeno di cambiare.

Nelle situazioni gratificanti della vita adulta, il depresso diventa avido, prende tutto senza essere davvero mai contento o grato, perché sente di ricevere comunque poco ed in ritardo. Il masochista invece teme la gratificazione, l’amore, l’accettazione perché tali esperienze lo lasciano disarmato e disorientato. Per questo sono tipici dei masochisti due atteggiamente apparentemente incomprensibili: la propensione a cacciarsi “ingenuamente” nei guai e la capacità di rovinare le belle occasioni. L’orale cerca l’amore e non sa che farsene, mentre il masochista crede di cercarlo mentre lo evita.

Sul piano fisico le persone con carattere orale tendono ad essere “molli”; hanno anche ipertonia muscolare localizzata (ad esempio nella bocca), ma fondamentalmente sono poco “toniche”. Tendono per il loro aspetto a far tenerezza ed a sollecitare atteggiamenti protettivi.

Sul piano fisico le persone con carattere masochistico tendono ad essere “pesanti”; hanno masse muscolari molto sviluppate (ad esempio nella zona delle spalle e delle gambe); possono anche tendere all’obesità per ragioni diverse da quelle degli orali “food-addicted”. Tendono per il loro aspetto ad infondere sicurezza, perché sono comunque anche capaci di dare.

3. La strategia difensiva masochistica

Fatta questa premessa in cui ho cercato di delineare le difese masochistiche contrapponendole a quelle orali, prenderò in considerazione alcuni tratti specifici del modo di sentire e di agire delle persone con atteggiameti caratteriali masochistici.

Dopo Wilhelm Reich ha perso credibilità, anche per molti psicoanalisti, l’ipotesi freudiana di una ipotetica “pulsione di morte” che avrebbe dovuto “spiegare” l’autodistruttività, ed in particolare i tipici comportamenti masochistici.

Il filo rosso da seguire nella comprensione delle persone con carattere masochista è quindi quello della loro ricerca del piacere, anche se essa si dipana in modo apparentemente contraddittorio. In situazioni estreme star male può essere vantaggioso, se permette di non entrare in contatto con una situazione peggiore.

Preferirei evitare la descrizione del carattere masochista fatta sulla base di un particolare caso clinico, perché le persone con difese masochistiche possono essere molto diverse nei loro comportamenti e possono avere storie molto diverse. Non mi interessa quindi sottolineare storie di clienti che sono stati bambini ben curati ma costretti ad una precoce educazione sfinterica da una madre sadica, o bambini poco coccolati ma ipernutriti, o bambini umiliati e svergognati per la loro vitalità (giocosità, rumorosità, sessualità, ecc.), o bambini costretti a tacere l’espressione del loro dolore perché una madre pienamente calata nel ruolo di vittima li induceva a negare che soffrivano più di lei. In questi ed altri casi tipici, i bambini imparano ad ingoiare un immenso “no!” (pericoloso perché rivolto ad un genitore anche generoso e comunque indispensabile); imparano a fare del loro meglio per diventare ordinati, responsabili, protettivi. Tutto ciò comporta una sensazione di oppressione che corrisponde ad una reale oppressione: quella che il bambino stesso crea rispetto all’espressione della propria genuina protesta, del proprio bisogno, del proprio dolore.

La situazione esterna è più dolorosa che opprimente. L’oppressione veramente significativa non è “esterna”, ma è creata dal bambino per evitare di deteriorare un rapporto a cui questi non si sente di rinunciare. Per questo l’auto-oppressione (presente anche fisicamente come ipertonia muscolare massiccia o “corazza caratteriale”) si protrae nella vita adulta e si consolida come tendenza all’autocontrollo. Questa sottigliezza può sembrare eccessiva o ingiustificata, ma se in analisi si concepisce l’atteggiamento masochistico come “l’effetto” di una oppressione esterna, si entra nel gioco del cliente e si finisce inevitabilmente per solidarizzare col vittimismo del cliente ostacolando la comprensione del suo modo di bloccare la rabbia, le richieste e l’espressione del dolore. Anche se in un certo senso la famiglia delle persone con atteggiamenti masochistici era opprimente, di fatto gratificava e frustrava, sollecitando il bambino a bloccarsi per mantenere qualcosa di buono a cui questi non voleva rinunciare. La madre vittimistica non impediva in modo diretto l’espansione emozionale del figlio, ma otteneva quel risultato in modi molto diversi, ad esempio stando in mezzo alla stanza a piagnucolare o dicendo di essere stanca di vivere ecc. Il bambino (o la bambina) decideva di chiudere la sua gola per non lasciarsi sfuggire un “no!” a causa del quale si sarebbe sentito colpevolizzato e svalutato. Con tale autocostrizione chiudeva la gola (in senso stretto, con l’ipertonia dei muscoli scaleni), incurvava le sue spalle (perché sentiva il “peso” di doversi proteggere da solo) e si “inchiodava” o si “impantanava” (irrigidendo le gambe) in una situazione orribile in cui però sapeva come andare avanti.

Consideriamo ora questo bambino dopo dieci, venti o cinquant’anni. In una situazione difficile teme di “andar via” perché in tal caso dovrebbe affrontare un antico terrore di restare senza punti di riferimento, brutti, ma sicuri. In una situazione particolarmente bella teme di lasciarsi andare al piacere perché in tal caso dovrebbe sentirsi “colpevole” di essere fortunato, libero e soggetto al disprezzo di chi (dal passato) lo accusa di pensare solo a se stesso. Finisce quindi per affezionarsi alle situazioni di oppressione che risultano sgradevoli, ma che può sostenere con le acquisite capacità di sopportazione maturate in anni di allenamento. Pur sentendosi molto attratto da tutto ciò che è riconducibile all’espansione ed alla libertà, di fatto fa di tutto per trovarsi in situazioni “da sopportare”. In esse si lamenta, si agita, si prefigura situazioni migliori, ma evita di fare drastici cambiamenti percependo di “non riuscire” a muoversi. Tende a non percepire la sua intenzionale propensione a rendere impossibili i cambiamenti auspicati e a non sentirsi responsabile del suo comportamento oggettivamente paralizzante ed autodistruttivo.

Questo atteggiamento può anche produrre disturbi fisici: senso di oppressione alla gola ed al petto, difficoltà nella respirazione profonda, facile affaticamento nel movimento fisico, voce piagnucolosa, ecc. Tali disturbi non hanno nulla a che fare né col cosiddetto “bolo isterico” né con i disturbi psicosomatici in senso stretto perché sono semplicemente disturbi “somatici”. Per essi, tuttavia, i medici possono fare poco. Se essi intuiscono una dinamica psicologica, facilmente vedono una inesistente depressione quando la persona si lamenta della sua “pena di vivere” (che è reale e dovuta all’auto-oppressione e non è di tipo depressivo) e possono quindi prescrivere inutili antidepressivi o ansiolitici che comunque non risolvono il problema. La soluzione elettiva per questi problemi è una psicoterapia analitica e non sintomatica, a condizione che almeno l’analista non scambi il tono lamentoso del masochista per un segnale di depressione, non faccia l’errore di “capire” la (pseudo)sofferenza esibita ed abbia molta determinazione nel cercare la sofferenza profonda che sta “oltre” la rabbia vittimistica.

E’ necessario che l’analista sia abbastanza empatico da rispettare la persona, ma abbastanza lucido da capire che la sofferenza del cliente è l’effetto di un’auto-repressione (con la quale il cliente evita di accettare il suo dolore antico).

Il lavoro analitico con queste persone si sviluppa prima di tutto nel difficile compito di far capire al cliente che egli sta costruendo la sua sofferenza attuale e non la sta “subendo”; quindi nel chiarire la rabbia implicita nell’autocontrollo; poi nell’accompagnare il cliente nel luogo della sua vera sofferenza, quella che “gli è davvero capitata”, e di cui è davvero vittima, anche se non può “dare la colpa” a nessuno. Sua madre era così, e magari anche suo padre non era un gran che. Tutto qui: avrebbe voluto una vera famiglia mentre in realtà i genitori erano più presi dai loro conflitti infantili che dalla loro reale responsabilità genitoriale. L’elaborazione del dolore profondo attraverso un vero lutto rende superflue le difese ed i sintomi che allontanavano dal contatto con i vissuti più temuti. Il cliente impara quindi a convivere con un dolore antico che aveva sempre evitato e non teme più che esso possa riaffiorare. Non ottiene alcuna “riparazione” per la vecchia sofferenza, ma diventa libero dalla paura di ricordare (e “ri-sentire”) e quindi può dedicarsi alla sua vita presente piuttosto che continuare a proteggersi dalla sua vita passata.

Per il lavoro con le persone che manifestano atteggiamenti masochistici sono stati suggeriti da Reich, Lowen ed altri particolari accorgimenti atti a prevenire una caduta della collaborazione cliente-analista ed a facilitare l’allentamento delle difese (sul piano fisico oltre che psicologico).

Una delle cose da tener presenti è la consolidata abitudine del cliente ad incurvare le spalle, stringere la gola e stare in un atteggiamento anche fisico di “sopportazione”. Egli è abituato a questa posizione e non la sente più come innaturale, e quindi, anche se si sente oppresso (deve sospirare spesso, oltre che lamentarsi) non percepisce di essere oggi responsabile di una auto-oppressione specificamente fisica.

Se l’analista si appoggia con tutto il suo peso sulle spalle del cliente facilita una maggior percezione da parte del cliente del suo blocco. Capita in genere che in questa situazione il cliente non avverta subito l’esigenza di liberarsi dal peso dell’analista, ma che “automaticamente” si ponga in una posizione di resistenza, di sopportazione che va subito notata e analizzata. Paradossalmente egli si impegna a sopportare e non pensa immediatamente di potersi liberare e magari avanza scuse del tipo “credevo che l’esercizio consistesse nel sostenere il tuo peso”. In tal caso si deve sottolineare che questa è una delle tante ipotesi possibili ed è l’unica che gli è venuta in mente, forse non a caso. Nella fase successiva del lavoro, invitando il cliente a liberarsi del peso dell’analista si produce un senso di sollievo. In tal caso non si deve considerare “terapeutico” questo risultato sul piano del benessere, ma si deve invitare il cliente a riflettere sul fatto che egli evita sempre di raggiungere questo tipo di sensazione proprio accettando pesi (psicologici) che potrebbe evitare. Il lavoro fisico, in casi di questo genere, serve infatti a produrre una comprensione profonda di ciò che il cliente fa e di ciò che il cliente di fatto evita; non serve a farlo “star bene” o ad “educarlo”. Con un banale e forse anche buffo lavoro fisico di questo genere si può indurre una certa consapevolezza del fatto che la persona in questione teme la “leggerezza”, la “libertà”, l’autoaffermazione, poiché associa tali sensazioni ad antiche svalutazioni, ridicolizzazioni o colpevolizzazioni.

Poiché le persone con carattere masochista tendono a sottolineare sempre ciò che li opprime per mantenere una situazione che è spiacevole, ma che sanno gestire, evitano accuratamente di chiarire cosa desiderano. L’espressione chiara di un desiderio conduce inevitabilmente al “che bello!” o “che peccato”, a seconda della risposta ottenuta, cioè conduce a stati emotivi in cui comunque la persona non “gestisce” nulla: sente una dipendenza piacevole o spiacevole che è un puro fatto reale. In analisi occorre abituare il cliente ad essere consapevole di avere dei desideri e di poterli esprimere e ciò richiede una certa insistenza da parte dell’analista, data la resistenza del cliente. Se l’analista chiede “perché sei venuto qui oggi?”, il cliente probabilmente dirà “perché dovevo rispettare l’appuntamento” e non “perché volevo lavorare su un dato problema”; se l’analista chiede “cosa vorresti? il cliente in genere risponde “non lo so” o comincia a descrivere le cose che non vuole. Occorre molta pazienza per aiutare il cliente a dare risposte pertinenti.

L’ostinazione a non concludere le cose avviate, dimenticare le sedute utili, minimizzare i risultati positivi non deve portare l’analista ad irritarsi, ma a continuare a fare il suo lavoro accettando che il cliente senta il bisogno di stare fermo. Tra l’altro il cliente tende proprio ad irritare l’analista, per poi cadere dalle nuvole, stupirsi per il “maltrattamento”, sentirsi vittima di un’ingiustizia ed infuriarsi “con la ragione dalla sua parte”. Le persone con atteggiamenti caratteriali masochistici sono (da sempre) così infuriate ed abituate a non arrabbiarsi nelle situazioni in cui ciò sarebbe costruttivo che cercano di provocare l’altro a “giustificare” una loro “reazione”. Il lavoro sulle provocazioni, ovviamente non è finalizzato a far “pentire” i clienti, ma a far loro capire per cosa sono davvero arrabbiati, da quanto tempo e con chi.

La sollecitazione ad ammettere o manifestare i desideri (ed anche a lavorare fisicamente assumendo posizioni di “richiesta” (come ad esempio il mantenimento delle braccia protese, o il “chiedere con gli occhi”, o il gesto di “tirare a sé” il braccio dell’analista che si oppone) producono o una (antica) emozione di dolore e di impotenza o una apparentemente incomprensibile rabbia. In entrambi i casi occorre giungere al chiarimento dei vissuti non elaborati. L’espressione del dolore col pianto produce uno stato di leggerezza ed anche di benessere che il cliente non è abituato a sentire. Ovviamente dopo una seduta “illuminante” egli può ripresentarsi la volta successiva con un senso di pesantezza e con una forte diffidenza per la possibilità di ottenere “risultati soddisfacenti” col lavoro analitico. Tutto ciò è da prevedere e da gestire in modo lineare senza scoraggiamenti inutili. Infatti il lavoro su tali atteggiamenti caratteriali va ripetuto e ripetuto finché il cliente non “mette assieme” tutti gli elementi cognitivi ed emotivi collezionati, in modo da poter ristrutturare tutto il suo quadro di riferimento.

Alberto Torre nei suoi seminari di formazione ricordava sempre che le persone con atteggiamenti masochistici tendono a non chiedere, ma chiedono facilmente di “essere aiutati a cambiare”. In ciò cedono all’analista la responsabilità dei loro cambiamenti attivandosi per una sfida. Se l’analista comincia a “sentirsi responsabile” farà di tutto ansiosamente con l’unico risultato di cozzare contro una insormontabile resistenza passiva. Alberto Torre suggeriva di sottolineare il fatto che il cliente chiede un miracolo e suggeriva di chiarire che in seduta si può solo lavorare assieme. I clienti tendono ad alternare atteggiamenti insoddisfatti e minimizzanti per il lavoro analitico e atteggiamenti di sottomissione e ammirazione (irrealistica) per l’analista. La iper-considerazione dell’analista è una trappola che serve solo a delegare all’analista la responsabilità di fare miracoli ed anche a far sentire importante l’analista per poi farlo sentire un vero incapace. In quest’ultimo gioco il cliente esprime una sorta di competizione sleale con l’analista in cui, senza rischiare nulla, “supera” l’analista dimostrando che questi è più incapace di lui. Infatti le persone che si umiliano, si avviliscono e si svalutano, celano da qualche parte una forte arroganza competitiva. Alberto Torre sottolineava sempre anche il fatto che il lamento delle persone con difese caratteriali masochistiche funzionava come una esibizione al negativo. Il lamento serve in tale prospettiva a soddisfare impulsi esibizionistici nell’unica modalità tollerata dal genitore frustrante (o “castrante”). Si può dire che in questa prospettiva le persone che agiscono difese masochistiche evitano di affermarsi: sono impegnate non già ad ottenere soddisfazioni “attuali” ma ad evitare di sentire un dolore antico. Inevitabilmente l’elaborazione dei vissuti ricolloca emotivamente le persone nel presente, e nel presente l’autoaffermazione è necessaria ed anche possibile.

Nella chiave di lettura vegetoterapica, il carattere masochistico implica un blocco importante nella gola ed un altro nel bacino (posto che è presente anche una forte tensione diaframmatica). Nel lamento la persona ottiene una scarica della tensione molto limitata verso l’alto e nell’orgasmo “controllato” ottiene una scarica limitata della tensione verso il basso. Alberto Torre ricordava che spesso i clienti (soprattutto maschi) con forti atteggiamenti masochistici tendono ad aumentare l’eccitazione sessuale ed a scaricarla nell’orgasmo mantenendo una forte contrazione delle gambe e del bacino, come se il piacere sessuale dovesse venir “spremuto” piuttosto che “espresso” o “liberato”. Invitava a consigliare ai clienti di evitare quella ricerca parziale della scarica genitale nel sesso, di cercare un piacere sessuale legato alla tenerezza, di lasciarsi quindi “inondare” dall’eccitazione. In tal modo i clienti potevano anche attraversare un periodo di impotenza, ma una volta accettate le sensazioni profonde di eccitazione crescente, potevano poi tollerare anche la scarica involontaria e completa dell’orgasmo.

Ci sono due difficoltà da considerare nel lavoro sugli atteggiamenti masochistici: da un lato si deve tener presente che finché l’analisi non approda ad una solida conclusione, ogni miglioramento è temporaneo e seguito da un ritorno (pure temporaneo) al pantano di partenza; da un altro lato si deve prevedere che ogni cambiamento profondo del cliente cozzerà con le aspettative nevrotiche del/della partner.

Per lasciare al cliente la responsabilità dei suoi cambiamenti, quando egli manifesta soddisfazione per i miglioramenti ottenuti, è opportuno sottolineare che il lavoro non è finito e che ci saranno altre difficoltà da superare. In questo modo, nella “ricadute” sarà più facile superare il senso di sconforto ed evitare la delusione accusatoria e l’incrinatura nella collaborazione analitica. Per affrontare nei tempi e modi necessari gli ostacoli che prima o poi il/la partner produrrà al cambiamento, bisogna tener conto di un fatto: le persone con un carattere masochistico sono persone noiose e pesanti, anche se piene di tante qualità; quindi il partner che le ha scelte presumibilmente trae dei vantaggi psicologici dagli atteggiamenti lamentosi e dagli eventuali sintomi esibiti. Nel caso di cambiamenti profondi, il/la partner si troverà spiazzato e perderà il suo tornaconto infantile in una relazione “patologica”. E’ importante, nel caso di una crisi nel rapporto sentimentale, aiutare la persona in analisi a capire che il/la partner ha dei problemi e non è “il nemico” o “l’oppressore” e che egli deve accettare il dolore di una crisi o di certi rifiuti per poi assumersi la responsabilità di affrontare nel modo più costruttivo la situazione”.

Quando l’analisi arriva ad una ristrutturazione della “concezione della realtà” del cliente e ad un cambiamento (nel senso di una maggior profondità) della sua dimensione emozionale, questi si sente libero di rifiutare qualsiasi ricatto: infatti se ha la capacità di piangere (non di fare “crisi di pianto”) per ciò che non può avere e di dire “no!” a ciò che non vuole … è anche libero di dire dei “sì” e di correre i rischi che ogni slancio positivo comporta. In questa nuova condizione, la persona non ha più bisogno delle tensioni con cui controllava il pianto e la rabbia. Affiorano sensazioni di leggerezza e diventano possibili le relazioni soddisfacenti.

Altri cambiamenti significativi possono riguardare il più ampio modo di essere nel mondo. Vivere nell’autocontrollo, cercare situazioni insoddisfacenti in cui sentirsi trattati ingiustamente era facilitato da scelte perdenti o inconcludenti. A volte le persone con carattere masochistico pur avendo brillanti capacità “giocano male le loro carte” o “perdono le buone occasioni” per evitare di occupare posizioni sociali soddisfacenti o di realizzare relazioni interpersonali appaganti. Spesso le persone con carattere masochista non concludono (magari con delle buone scuse) gli studi e si trovano a dover poi occupare posizioni lavorative non adatte alle loro capacità (consolandosi con l’idea di essere più intelligenti o capaci dei loro capi); oppure (con altre scuse) non si impegnano con un partner veramente desiderato e sposano un partner poco attraente. In altri casi fanno una buona carriera ma poi riescono a rovinarla o distruggono un rapporto sentimentale molto solido e soddisfacente. La paura di essere felici (e di perdere la possibilità di lamentarsi) e la paura di essere più “fortunati” di un genitore che ostentava la sofferenza per la brutta vita che “doveva sopportare” sono potenti molle che strutturano copioni di vita perdenti. Una volta che la persona si libera dal bisogno di sentirsi umiliato (e di reagire silenziosamente con rabbia e sopportazione), può permettersi anche un sano “esibizionismo” che non è sfrontatezza o competitività, ma rispetto per la propria vita, anche se ciò può non piacere ad un (reale o immaginario) pubblico di vittime.

Atteggiamenti masochistici sono presenti anche in persone piuttosto integrate e mature che si affermano in alcuni ambiti della loro vita e che falliscono solo nelle relazioni lavorative o sessuali.

Quando un determinato ambito della vita non viene gestito in modo costruttivo e quando i fallimenti vengono accolti come se fossero “previsti” o “scontati” è presente una descrizione della vita non realistica che porta all’autocompatimento.

La rabbia presente nel lamento masochistico è riconducibile alla convinzione che “ciò non è giusto”, come la rabbia tipica dell’atteggiamento depressivo. Questo accade semplicemente perché qualsiasi tipo di rabbia difensiva equivale sul piano cognitivo all’identificazione di una (presunta) ingiustizia. La rabbia “espansiva” e “costruttiva” nelle situazioni in cui è ragionevole combattere rinvia invece ad una premessa cognitiva del tutto diversa riassumibile nell’espressione “io non voglio tutto ciò”. Nella rabbia non difensiva c’è una piena assunzione di responsabilità per un proprio rifiuto di qualcosa che non corrisponde ad aspettative irrinunciabili. Tuttavia, mentre il “non è giusto” implicito nell’atteggiamento masochistico si accompagna alla convinzione che ci sarà un’ennesima cosa da sopportare, nella situazione depressiva si accompagna alla convinzione che, essendo la realtà insopportabile, deve esserci una salvezza (esterna). La persona con atteggiamenti caratteriali masochistici deve ritrovare al di là del lamento superficiale (“non è giusto”) la sua rabbia profonda e mai espressa: “tutto ciò non mi va bene!”

Solo l’accettazione del dolore rende (da adulti) davvero presenti nella realtà, dato che la realtà è stata e continua ad essere (anche) dolorosa. Rende possibile arrendersi se una sconfitta è inevitabile e rende possibile combattere se una vittoria è possibile.

La vita non è semplicemente bella o dolorosa, perché è un misto di opposti che ci rendono comunque intensamente coinvolti con gli altri nei momenti belli ed in quelli brutti. Un copione vincente non rende la vita bella come una favola, ma rende noi stessi liberi di accettare sia i momenti belli che ci capitano e che ci costruiamo, sia quelli brutti che sono inevitabili. L’uscita dal binario del masochismo rende quindi le persone più inclini a soffrire in modo semplice e autentico nei momenti dolorosi, ma le rende anche libere di ampliare per quanto è possibile la classe delle esperienze piacevoli e di approfondire la capacità di godere in esse.

Il lavoro analitico non porta queste persone ad acquisire un senso di integrità e sicurezza (che già hanno), ma a percepire un profondo senso di libertà e di leggerezza che renderà anche “normale” il buon umore. Permetterà inoltre di non sentire alcun pericolo o colpevolezza nell’ammettere e accettare di poter essere più felici di altri. Ovviamente le renderà molto competenti nell’evitare le trappole colpevolizzanti delle persone simili alla figura genitoriale rispetto a cui si erano arrese, perché avendo elaborato il lutto per la mancanza antica sentiranno come tollerabile la separazione da chi, lamentandosi, le vuole manipolare.

4. Atteggiamenti caratteriali masochistici presenti in complesse strategie difensive

Il limite fondamentale costituito dai trattati di psicoterapia classici centrati sulla tipologia caratteriale sta nel fatto che non rispecchiano alcuna effettiva realtà clinica. Il “carattere masochistico”, come qualsiasi carattere “puro”, non esiste. Non solo si hanno differenze “quantitative”, a seconda dell’intensità dell’atteggiamento difensivo in questione (per cui una persona gravemente masochistica può essere realmente insopportabile ed una persona lievemente masochistica può essere decisamente gradevole pur manifestando a volte momenti di chiusura); si hanno soprattutto differenze “qualitative” poiché le persone presentano un unico e personalissimo orizzonte esistenziale in cui rientra anche un complesso intreccio di atteggiamenti difensivi, tra i quali possono avere un ruolo quelli masochistici.

Personalmente trovo molto difficile (se possibile) una diagnosi caratterologica comprensiva delle varie “componenti” caratteriali e non credo comunque che l’accuratezza diagnostica, per quanto importante, costituisca l’elemento determinante per lo svolgimento di un buon lavoro analitico. I “reichiani ortodossi” della scuola statunitense si sono orientati verso una sorta di estremismo classificatorio cercando di incasellare i clienti in base ad una struttura caratteriale specifica e ad un ulteriore “blocco” qualificante (“represso” o “insoddisfatto”) descrivendo ad esempio casi di “carattere X con blocco Y represso o insoddisfatto”. Essi ottengono la parvenza di una sistematicità che sembra chiarire le radici dei disturbi individuali, mentre in realtà le situazioni problematiche delle persone sono sempre particolarissime e irriducibili a qualsiasi schema. Anche nelle presentazioni meno biologistiche, il carattere è comunque concepito come una “struttura che limita l’espansione individuale” e tale prospettiva rischia di non cogliere adeguatamente la dimensione intenzionale di qualsiasi difesa o sintomo.

Nell’infanzia, i bambini che devono fronteggiare situazioni più o meno gravi ma comunque troppo dolorose, assumono atteggiamenti difensivi in un modo attivo, intenzionale, che si traduce in qualcosa che è anche struttura, ma soprattutto progetto. Il bambino sceglie cosa sentire, come sentirlo, come percepirsi, come pensarsi, come mostrarsi, verso cosa orientarsi, cosa evitare e come. Non si limita a bloccare o frenare dei comportamenti (o la sua “energia”) ma si proietta in un certo modo verso gli altri, verso la vita, verso il futuro.

Nel lavoro analitico, mentre costruiamo la “mappa” delle difese osservando cosa una persona cerca di ottenere agendo in modo non costruttivo, delineiamo gradualmente anche la “mappa” delle specifiche sofferenze con cui la persona non vuole entrare in contatto e che presumibilmente sono state intollerabili nell’infanzia. Questo lavoro non porta mai a “collocare” le persone in una particolare casella di un sistema generale, ma a lavorare in modi che potrebbero essere definiti “su misura”. L’osservazione degli atteggiamenti riconducibili alle varie dinamiche caratteriali rientra in questo processo come uno dei vari aspetti da considerare, perché, se collocato troppo in rilievo rischia di reificare il cliente rendendolo un “dato oggettivo”, ovvero un individuo che “porta in sé” “qualcosa su cui intervenire” secondo modalità prevedibili.

In altre parole, mentre l’analisi dell’intenzionalità difensiva lascia sempre al cliente il ruolo di persona ed all’analista la responsabilità di confrontarsi con tale cliente sulle ragioni del suo agire, l’incasellamento caratteriale produce almeno la tentazione di trattare il cliente come un “caso clinico” a cui “applicare” la “giusta terapia”. Credo in altre parole che il superamento della concezione caratterologica renda possibile un approccio più rispettoso perché meno oggettivante.

Ho riscontrato strategie masochistiche in persone molto diverse fra loro e quasi mai in persone ragionevolmente riconducibili al tipico “carattere masochistico”. La tendenza a prediligere situazioni spiacevoli scartando precise opportunità di realizzazione personale, l’esibizione di rabbia vittimistica, l’evitamento di scelte adatte a modificare una situazione insoddisfacente, la preferenza per rapporti distruttivi, l’evitamento di rapporti appaganti (e tali da rendere intensa la reale dipendenza affettiva) e persino la presenza di fantasie masochistiche di tipo sessuale sono facilmente riscontrabili in persone molto diverse. Anche il lavoro analitico ha esiti diversissimi a seconda dell’insieme delle risorse adulte disponibili e delle altre tendenze difensive di ogni cliente. Un atteggiamento masochistico può essere facilmente gestibile con un cliente che manifesta un discreto contatto con la realtà mentre può essere molto difficile da affrontare con un cliente che usa spesso e con grande efficacia le difese più “primitive”.

Le domande fondamentali che comunque l’analista si deve fare sono le seguenti:

– cosa risulta incomprensibile (irragionevole) nella strategia di vita del cliente?
– come tale cosa incomprensibile può risultare comprensibile in una logica difensiva?
– quali obiettivi la persona sta di fatto perseguendo?
– quali vissuti sta evitando?
– come aiutare questa persona ad entrare in contatto con tali vissuti fino a non temerli più?

In questo processo analitico, pur tenendo presenti le componenti caratteriali manifestate, è soprattutto importante cercare la logica, lo scopo dell’agire di una particolare persona che ha attraversato l’infanzia prima di trovarsi nella vita adulta e che continua da allora a cercare le cose (allora) indispensabili e ad evitare le cose (allora) intollerabili. In altre parole la cosa essenziale da considerare è che la persona con cui facciamo un lavoro analitico non è “affetta” da una determinata “malattia” o “limitata” da una precisa e catalogabile struttura caratteriale, ma sta agendo e costruendo un unico percorso esistenziale perseguendo sia obiettivi realistici dipendenti da desideri attuali, sia obiettivi stabiliti nel suo passato quando le sue risorse erano ben più limitate.

5. Alcune sedute

Con un cliente, che chiamerò Renato, avevo lavorato per circa un anno, senza però affrontare i risvolti masochistici della sua strategia difensiva. Mi ero concentrato più sulla sua accondiscendenza (e sulla sua illusione di essere amato in quanto capace di soddisfare le aspettative materne) che sull’atteggiamento lamentoso col quale indirettamente dichiarava di essere schiacciato dalle responsabilità della vita. Il quadro generale delle sue varie difese potrebbe essere sintetizzato così: condivideva le svalutazioni materne considerandosi “indegno” di essere accettato; si attivava per eccellere nelle situazioni interpersonali di studio e di lavoro; si sentiva oppresso e si lamentava di tutto (del caldo, del traffico, del troppo lavoro, ecc.). Avendo capito in una psicoterapia precedente la profondità dell’ostilità di sua madre rispetto a lui (oltre che rispetto al marito ed a tutto il mondo), egli parlava della distruttività materna con lieve tristezza o ironia o distacco. Nell’anno di lavoro con me aveva toccato sentimenti di profondo dolore per la distruttività materna, sulla quale ormai non scherzava più ed aveva cominciato ad accettare l’idea che il suo impegno poteva renderlo stimato ma non amato. Tuttavia, poiché non si era ancora confrontato con tutto il dolore della sua infanzia, e non si era liberato della fatica di piacere agli altri, utilizzava ancora le sue modalità lamentose che lo facevano sentire comunque “forte” nel ruolo difensivo di chi ha molta “resistenza” nelle situazioni avverse. Lo stato d’animo che ne risultava lo proteggeva dal dolore profondo di non sentirsi amato ovvero dall’impotenza ad ottenere ciò che più desiderava (indipendentemente dal fatto irrilevante di essere molto “potente” a “sopportare” le situazioni pesanti).

In una seduta del secondo anno di analisi decisi di affrontare il lato masochistico del suo carattere, partendo da una sua comunicazione iniziale.

R. In questi giorni mi ero chiuso con la mia ragazza, che aveva avuto un atteggiamento critico nei miei confronti, ed in quello stato d’animo mi ero trovato a fare involontariamente dei guai a cui lei aveva reagito con ulteriori proteste. Più temevo di sbagliare e più risultavo “imbranato”. Sono però riuscito a vuotare il sacco e a parlarle di quanto mi ferisse il suo atteggiamento da maestrina. Ho pianto con lei e anche lei ha pianto con me. Ci siamo ritrovati vicini, e in qualche modo leggeri dopo quelle poche giornate di “guerra fredda”. Ho poi sognato che qualcuno voleva aggredirmi, ma mi sentivo protetto dalla mia fidanzata.

GF. Puoi collegare questi due personaggi del sogno a due parti di te?
R. Quando mi tengo dentro tutto in qualche modo mi aggredisco.
GF. Tu sai fare ad aggredirti, magari per proteggerti dal dolore, opprimendoti, controllando la tua espansione. Per fortuna sai anche fare a “vuotare il sacco” e a dire cosa non vuoi e cosa desideri. Normalmente però comunichi solo di essere stanco, troppo impegnato, stressato. Ti lamenti. Fai qualcosa di irrilevante sul piano della realtà, come quando dici “Non se ne può più di questo caldo” ad una persona che ovviamente è già a conoscenza della situazione. Se fai interventi irragionevoli di questo tipo, cerchi solo di dare un sollievo minimo a quella pressione che tu stesso crei nel petto e nella gola trattenendo le cose più significative
R. Nella gola e nel collo sento infatti spesso della tensione. Un po’ anche ora.
GF. Forse lì leghi l’apertura del “sacco”. Vuoi lavorare un po’ su quella tensione?

Qui Renato comincia a fare un po’ di difficoltà, a suggerire di rinviare il lavoro a quando avremo più tempo, ma alla fine si rende conto di temere che il lavoro fisico possa aggirare il suo controllo.

Lo invito ad urlare con tutta la sua voce appena sentirà il dolore provocato da una lieve pressione che farò in un punto delicato e presumibilmente ipertonico all’interno della sua bocca. Come spesso accade smette di urlare appena interrompo la pressione e gli ricordo che non deve interrompere l’urlo. Al secondo tentativo lascia uscire un grido prolungato e molto forte che lo lascia un po’ spiazzato, date le sue consuete “difficoltà” rispetto al lavoro fisico ed all’uso forzato della voce. Avverte un profondo senso di rilassamento e di “leggerezza”. Non piange, ma sembra stia controllando un pianto molto profondo.

Cerco di spostare la sua attenzione dal superficiale benessere ottenuto al fatto di aver sempre evitato le possibilità espansive capaci da farlo sentire bene. Mi propongo quindi di arrivare a fargli sentire quanto avrebbe voluto sperimentare il contatto piacevole e quanto sia stato determinato a irrigidirsi in un autocontrollo che lo faceva sentire oppresso ma forte.

GF. Chi vorresti qui, con te, a condividere il piacere di questa leggerezza?
R. Mia madre. Però lei non potrebbe stare con me in questa sensazione così delicata.
GF. Mi piacerebbe darti qualcosa che potesse ripagarti di questa mancanza. Il mio affetto e la mia partecipazione vanno però all’unico Renato che conosco, cioè all’uomo. Niente può giungere al bambino che senti dentro ma che non esiste più nella realtà e che non può quindi ricevere più nulla.
R. Lo so. Lo so.

Mi abbraccia e si lascia andare ad un pianto lungo e profondo.

Nella seduta successiva torna sull’argomento e mi comunica che si è sentito bene nel toccare più in profondità il suo dolore e nell’esprimere liberamente l’emozione, ma è stato molto colpito anche dal fatto di scoprire che è una persona che tende a lamentarsi. Non ne aveva consapevolezza.

Il “pantano masochistico” pur implicando comunque una logica difensiva diversa da quelle appartenenti ad altri atteggiamenti caratteriali, può manifestarsi in modi molto diversi. Il “pantano” può ridursi ad un ritiro dalla vita sociale apparentemente autoaccusatorio o in ripetute comunicazioni agli altri relative alle difficoltà della vita. In altre persone il pantano può manifestarsi in lamentele melodrammatiche decisamente esibizionistiche e tali da risultare addirittura ridicole. I momenti di apertura e di empatia possono essere molti o pochi, superficiali o profondi. L’intenzionalità difensiva può quindi realizzarsi secondo modalità anche molto diverse.

Sedute “significative” sono a mio avviso anche sedute in cui non si arriva a nessun esito limpido, veramente chiarificatore o tale da toccare emozioni profonde. Tali sedute illustrano il fatto che il lavoro analitico in generale e quindi anche quello sulle difese masochistiche non è un insieme di sedute “epiche”. Le sedute emotivamente più significative costituiscono l’esito di un lento processo di indagine sui vari ambiti in cui il cliente attua certe difese. Ogni elemento rilevante sul piano cognitivo e/o emotivo prepara la strada ad una ristrutturazione della visione della realtà.

In questa seduta, una cliente che chiamerò Delia esordisce riprendendo ciò che era stato sottolineato nell’incontro precedente.

D. Mi riconosco nella posizione di persona “piantata in terra”, di cui avevamo parlato. Però non vedo alternative. Quando penso alla possibilità di dire sempre quel che penso o anche di provare qui, nella seduta, ad urlare le cose che sento dentro … mi sembra di essere incapace.
GF. Se quando hai suonato il campanello del mio studio io non avessi risposto e se mi avessi visto dall’altra parte della strada che ti gridavo “Sto arrivando, puoi aspettarmi?”, cosa avresti fatto?
D. Ti avrei risposto di sì.
GF. E come ti saresti fatta capire in mezzo a quel traffico?
D. So dove vuoi arrivare. Avrei urlato “sì”. Però…
GF. Dunque sei capace di urlare. Il problema vero è un altro: cosa senti o vedi dentro di te se pensi alla possibilità di urlare?
D. Se mi vedo urlare vedo mia madre che “tira su il muro”. Non c’è più. E’ lì ma è come se non ci fosse.
GF. E cosa ti dice con quel “muro”.
D. Che non valgo niente.[Le trema la voce e le si inumidiscono gli occhi]
GF. In quella scena c’è il tuo dolore. In momenti di quel tipo, da piccola, hai deciso di non urlare e hai deciso così perché sentivi di non tollerare quella svalutazione e perché sentivi di tollerare il tuo autocontrollo. Obbedendo e considerandoti vittima di un ricatto hai sentito di essere forte e di avere diritto a qualche “risarcimento” E ti sei affezionata a questa modesta ma positiva sensazione di forza.
D. E’ così.
GF. In quello stato d’animo da vittima, per quanto a disagio, senti di avere una capacità di gestire la situazione, di portarla avanti senza sorprese. Quel “pantano” ti opprime ma ti affascina anche. Puoi quindi cercare di riprodurre anche con me quel braccio di ferro. Io ti invito al lavoro fisico e tu resti buona e zitta. Mantieni la tua ribellione nella passività, nel trattenerti. Fai la brava venendo alle sedute, ma non me la dai mai vinta, come se io fossi il tuo nemico anziché una persona che lavora con te su tua richiesta. Inoltre, eviti di sentire dei vissuti che hai già classificato a suo tempo come troppo dolorosi.
D. D’accordo, potrei lavorare un’ora qui con te urlando come una matta quello che voglio, ma non so nemmeno cosa voglio!
GF. Forse sei nevrotica, ma non stupida. Anche adesso non mi dici la verità.

Il dialogo prosegue su questa linea. Delia mi dà risposte che sono più provocazioni che vere risposte, prende tempo, esita, ascolta e riflette, fino alla fine dell’ora. A volte sta per piangere, ma lascia uscire solo due lacrime più per mostrarmi che soffre che per esprimere la sua vera sofferenza. Noto quel che fa, si asciuga le lacrime e prosegue sulla stessa linea di “non dialogo”. Alla fine dell’ora non ha ceduto su nulla, ma ha almeno ammesso di essere ostinata e di fare una opposizione che la fa sentire forte.

Una cliente che chiamerò Bianca inizia la seduta comunicandomi di aver fatto il lavoro a casa che le avevo suggerito. Poiché il tema dell’incontro precedente era stato quello dei “no” trattenuti, le avevo suggerito di scrivere i “no” che in tutte le epoche della sua vita aveva evitato di esprimere.

All’inizio mi elenca varie frasi riconducibili al rifiuto del ruolo attribuitole dalla madre: Bianca non solo doveva arrangiarsi da bambina quando era in difficoltà o aveva paura, ma doveva anche rassicurare la madre ed assisterla quando questa manifestava le sue paure infantili e nevrotiche. In sostanza, queste varie frasi (raggruppabili nell’insieme x) riguardano il rifiuto di continuare a nascondere la paura e la protesta per il dovere di fare da madre alla madre.

Poi mi racconta una serie di episodi (raggruppabili nell’insieme y) di violenze subite: dai clisteri che per la madre sembrava guarissero tutto, alle proibizioni paterne relative alle uscite serali nell’adolescenza. A tutte queste violenze aveva sempre reagito con rabbia, con prontezza e con un discreto successo. Dopo la prima volta, fin da piccola non aveva più subito clisteri (scappando, urlando, chiudendosi in camera) e da adolescente aveva mantenuto l’idea che le repressioni paterne fossero irragionevoli.

Faccio notare a Bianca che rispetto alle situazioni del gruppo x era diventata obbediente, mentre rispetto a quelle del gruppo y era stata sempre ribelle.

B. Nelle situazioni del gruppo y era chiara la violenza. Forse nelle situazioni x non capivo quanto fosse penoso adattarmi.
GF. Non credo; i bambini capiscono benissimo queste cose.
B. Io avevo bisogno che lei stesse con me. Se mi ribellavo ad una richiesta particolare si arrabbiava, ma non succedeva nient’altro. Se invece rifiutavo quel ruolo mi sentivo colpevole.
GF. Forse venivi realmente colpevolizzata anziché semplicemente sgridata.
B. Sì. Anche se non temevo che mia madre mi abbandonasse, temevo che potesse star male per colpa mia. Credo che qualche volta mi abbia detto che la facevo piangere.
GF. Tu temi il dolore della colpevolizzazione e preferisci sentirti infuriata in silenzio, magari senza dirlo nemmeno a te stessa. Nel ruolo di vittima senti di avere una capacità di resistere che temi di non avere nel ruolo del “carnefice di tua madre”. Hai imparato a controllarti e in tal modo a star male senza soffrire davvero.
B. Così, ripetendo la solita scena evito di correre dei rischi.
G. Già.

6 Alcuni momenti di un percorso analitico

Descriverò alcuni passaggi significativi tratti dal percorso analitico di un cliente che chiamerò Michele, il quale manifestava una marcata componente masochistica tra i suoi atteggiamenti difensivi. Egli dichiarò fin dal colloquio iniziale di voler essere “guarito” da un disturbo che egli (in modo inesatto) definiva “depressione” e con cui in realtà manifestava una spiccata tendenza a restare ostinatamente in un “pantano” caratterizzato da pseudo-incapacità ad agire, noia, insoddisfazione e vittimismo. Evidenzierò, riportando sedute molto distanti nel tempo, che questa persona riusciva a tornare al punto di partenza quando, dopo aver fatto dei sensibili miglioramenti, sentiva con angoscia di poter abbandonare del tutto la sua identità di “persona in difficoltà” e di potersi pensare come soggetto adulto, quindi libero di accettare o abbandonare le persone con le quali si sentiva coinvolto affettivamente.

All’inizio del nostro rapporto aveva trentacinque anni, faceva un lavoro indipendente, non aveva figli. Era sposato, ma riusciva a mantenere con la moglie un equilibrio basato soprattutto sulla reciproca silenziosa sopportazione. Tale equilibrio comportava anche occasionali scontri ma escludeva di fatto qualsiasi reale chiarimento.

In una delle prime sedute mi disse alcune frasi che ora riporto perché risultano indicative del suo modo di “aggiustarsi le cose”.

M. Mi sento più o meno come l’altra volta, anche se un po’ più calmo. Starei volentieri zitto e fermo.

GF. OK, partiamo da qui. Vuoi lavorare un po’ su questo tuo stato d’animo?
M. Va bene.
GF. Allora, stenditi e ripeti la frase “ho voglia di stare zitto e fermo” alcune volte, in modo da entrarci bene in contatto.
M. [Dopo aver ripetuto alcune volte la frase] Io sono un salsicciotto, zitto e fermo. Sono anche teso e temo che qualcosa possa venir fuori. Mi considero inutile e scontento, schiavo di me stesso. Sento tensione al collo e nella zona lombare.
GF. Cosa senti di volere, ora?
M. Vorrei essere lasciato in pace. Mi viene in mente la situazione tipica in cui sto male con Piera [la moglie] e le chiedo di lasciarmi solo. Mi sento anche un po’ in colpa perché potresti pensare che chiedo a te di lasciarmi in pace. C’è però una cosa: io vorrei essere aiutato da te, ma tu mi dici sempre che sta a me fare le cose o non farle.
GF. Vorresti il mio aiuto per quale obiettivo?
M. Per venirne fuori.
GF. Sei troppo generico.
M. Non so. Vorrei che tu mi dicessi cosa fare.
GF. Prova a ripetere la frase “farò quel che mi dici”, fino a sentirla bene.
M. [Lo fa] Vorrei che tu mi facessi entusiasmare per qualcosa.
GF. Dunque vuoi che ti faccia sentire una cosa diversa da quella che senti, cioè che ti faccia diventare un altro Michele. Ma questo Michele cosa vuole da me, realmente?
M. Io vorrei che mi parlassi delle cose che ti piacciono, così, forse diventerei più positivo.
GF. Cioè, tu pensi di far schifo, ma di poter diventare più “positivo” grazie ad una mia spinta.
M. Così come sono non credo di poter essere accettato, amato. Credo di essere amabile solo se dò certe cose agli altri. A volte è come se mettessi alla prova Piera: esaspero la mia negatività per vedere se mi ama lo stesso.
GF. Questa è una sfida, è una guerra. Forse non sei così d’accordo sul fatto di essere amabile solo se diventi qualcun altro.
M. Non so. Se però Piera è dolce con me, sento subito il dovere di attivarmi per fare all’amore e poi mi sento irritato. E Piera si irrita per la mia irritazione.
GF. Immagina di essere nato da poco e di essere in braccio a tua madre senza dover far niente.
M. Mi è difficile immaginare questa scena. Credo che lei non sia capace di amare. Forse ho della rabbia. In passato quando rompevo con una ragazza protestando per quel che non andava fra noi, dicevo di non volerla vedere mai più, ma speravo che lei insistesse per restare con me, nonostante il mio rifiuto. Vorrei essere amato anche se mi comporto male. Ora lo faccio di meno, ma un po’ lo faccio ancora. Non credo di essere amabile e se mi si dimostra amore non ci credo e voglio una dimostrazione.

In questa conversazione iniziale risulta evidente la chiave di lettura bizzarra che il cliente usa per “spiegare” il suo comportamento. Dice di voler “prove d’amore” perché non si sente amabile. In realtà cerca di dimostrare che non è amato trovando prove nel fatto che in genere la gente lo rifiuta per il suo comportamento rifiutante. La sua ammissione di una certa ostilità verso la madre o la moglie indica che in realtà egli non crede affatto di non essere amabile, ma crede (ai margini della sua consapevolezza) di essere amabile e di essere ingiustamente rifiutato. La modalità difensiva per l’evitamento del dolore relativo al rifiuto subito consiste 1)nel sentirsi pregiudizialmente non amato e pregiudizialmente infuriato, 2)nel negare la rabbia e 3) nell’esprimere indirettamente la rabbia con la pretesa di essere amato mentre rende difficile la vita alle persone da cui desidera l’amore. Ovviamente ottiene rifiuti che in parte (a parole) comprende e che in profondità giudica ingiusti e resta in una posizione di immobilità ostile in cui sa di poter resistere senza soffrire davvero perché comunque gestisce sia l’autosvalutazione superficiale, sia il disprezzo profondo per gli altri in una chiave vittimistica.

Questo gioco ha molte varianti nelle diverse persone. C’è chi non pretende l’accettazione se mostra i lati peggiori, ma si accontenta di essere accondiscendente per poi dichiararsi vittima di una forma di sfruttamento. C’è chi rimane stabilmente nel pantano concedendosi occasionali “sfoghi” e c’è chi dopo un po’ rompe il rapporto rabbiosamente per poi cercare un altro rapporto identico. Tuttavia è tipico il senso di oppressione attribuito ad una situazione interpersonale mentre in realtà tale oppressione è dovuta ad una forma di accondiscendenza e autocontrollo.

In una seduta svolta tre anni dopo l’inizio del lavoro, Michele mi comunica la sua soddisfazione per aver finalmente parlato alla moglie con franchezza e mi dice che facendo all’amore ha avuto la consapevolezza (del tutto nuova) di fare un’esperienza personale, totale, e non un semplice atto riguardante parti del corpo specifiche. Mi comunica anche di aver sentito astio in una particolare occasione rispetto a Piera e quindi di aver riattivato una “vecchia chiusura”. Lavorando su questa situazione emotiva protesta contro un presunto “soffocamento”, ma poi, ammette di essere arrabbiato (e, più in profondità, addolorato) per il fatto che la moglie negli incontri sessuali manifesta un’apertura che poi blocca nella vita quotidiana.

GF. Allora il problema non è il “soffocamento” ma la distanza che lei mette.
M. E’ vero. Quando sento molto dolore scappo ancora arrabbiandomi nel modo “comodo”, cioè dichiarando che voglio stare in pace. La verità è che starei con lei e soffro quando avverto quella distanza.

Comunicandomi questa comprensione della sua difesa è commosso. Non ha ancora preso familiarità con il pianto e non ha quindi esplorato l’intensità del suo sentimento. Tuttavia è ormai consapevole delle sue emozioni difensive e superficiali e di quelle profonde e autentiche.

Come accennavo, i cosiddetti “passi avanti” sono sempre precari finché tutta l’impalcatura della strategia difensiva masochistica non è crollata. A riprova di ciò, riporto una seduta verificatasi pochi mesi dopo questi miglioramenti.

M. A volte lotto ancora col mio dolore e divento passivo ritirandomi nel non far niente, nel guardare la TV e cose simili. Forse vorrei esprimere rabbia e non lo faccio. Finisco per arrabbiarmi con me stesso per il fatto che spreco il mio tempo.

Lo invito a lavorare sull’espressione fisica della rabbia, ma è meccanico, svogliato, non collaborativo. Noto queste cose e mi risponde che è stufo di lavorare sempre sulle solite cose e che vorrebbe solo stare in pace. Rispondo che posso andare nell’altra stanza per un po’, per lasciarlo “in pace” e che può chiamarmi appena sente di voler riprendere il lavoro con me. Si infuria, getta sul tavolo il denaro per il mio onorario e si dirige verso la porta mettendo l’impermeabile mentre procede lungo il corridoio.

Lo raggiungo e lo blocco fisicamente invitandolo con molta fermezza ad interrompere subito questa sceneggiata. Gli ricordo che ha già tutti gli strumenti per capire che non sta “esprimendo” nulla di se stesso ma sta solo cercando di portare al limite estremo un gioco vittimistico. Gli ricordo soprattutto che dobbiamo lavorare su quel gioco anziché fare quel gioco.

GF. Quindi, ti prego, non fingere di voler essere lasciato in pace, come se fossimo estranei. Cerca di avere il coraggio di dire cosa vuoi davvero.
M. Io voglio essere trattato con comprensione, con dolcezza. E invece vanno tutti via.

Qui egli compie il passaggio da un desiderio (anche) attuale ad un bisogno antico che era stato frustrato dalla madre con l’indifferenza o con il disprezzo. Mi chiede un abbraccio e piange con lacrime e singhiozzi. Il pianto non è del tutto fluido e completo ma sentito e in certa misura liberatorio.

A quel punto, negli ultimi minuti della seduta ricapitoliamo le cose fatte ed il significato degli atteggiamenti e dei comportamenti difensivi. Chiariamo che sta a lui la decisione di sentirsi vittima di ingiusti rifiuti (peraltro da lui stesso provocati) o accettare il suo vissuto di rifiuto e verificare nel presente se, quando, quanto e come si sente accettato e da chi. La madre lo “accettava” solo se egli non esprimeva bisogni, desideri, entusiasmi o sofferenze e se quindi non disturbava il suo passatempo preferito che era quello di recitare la parte della “moglie che soffre tanto per il marito”.

Se affrontiamo in modo realistico e adulto, un nuovo incontro, cerchiamo prima di tutto di essere corretti, educati, efficienti, ovvero di meritare la stima e rendere possibile l’intero sviluppo del rapporto. All’interno dell’esperienza della relazione, verifichiamo 1) se otteniamo rispetto, simpatia, affetto, amore e 2) se noi proviamo simpatia, affetto, amore per l’altra persona. Quindi distinguiamo rigorosamente la stima (considerazione, approvazione, ecc.) che dipende dal nostro modo di agire e l’amore (affetto, calore, ecc.) che dipende essenzialmente dalla capacità di amare altrui (e che non possiamo conquistarci). Siamo quindi curiosi di sapere come stanno le cose e non ansiosi di farle andare bene, poiché abbiamo comunque la capacità di darci da soli il minimo necessario di amore e non siamo interessati a (pseudo)rapporti basati su equivoci e manipolazioni.

Nell’atteggiamento masochistico, invece, il desiderio di essere amati è percepito come pericolosissimo (dato il vissuto doloroso ad esso associato). La persona, quindi, anziché orientarsi a capire se è amata o no, cerca semplicemente una gratificazione a livello di potere: vuole dimostrare di essere vittima di una situazione di rifiuto in cui comunque “riesce” a resistere. Cerca anche di scaricare ostilità (indirettamente), al fine di mantenere una pretesa e di evitare un lutto.

Il lavoro analitico sulle difese caratteriali masochistiche comporta pazienza e coinvolgimento, oltre che un atteggiamento inflessibile rispetto alle manovre. Occorre che il cliente verifichi che l’analista è sempre disponibile a capire e rispettare il suo dolore, così come è sempre disinteressato alle sue pretese vittimistiche (e determinato a lavorarci).

Nel lavoro analitico si devono considerare inevitabili moltissime sedute dedicate a riportare piccoli dettagli al quadro generale: un sospiro che serve solo a ottenere pietà per le “fatiche” sopportate, un sorriso amaro che serve solo a confermare che “la vita non va come dovrebbe”, il risentimento ogni volta che l’analista rifiuta di colludere in un gioco, l’insoddisfazione, la pesantezza nel modo di camminare ed anche di parlare. Si devono considerare fondamentali sia le sedute in cui il gioco viene spezzato e le emozioni profonde affiorano, sia quelle in cui si riprende il filo di un cambiamento avviato e poi soffocato.

L’obiettivo da perseguire con il cliente è sempre la “leggerezza”, ovvero la sua capacità di accogliere sia la gioia per aver ricevuto o per aver agito, sia il dolore. La leggerezza implica il crollo di una struttura pesante, grigia, opprimente.

In una delle ultime sedute, Michele mi ha raccontato un sogno che voglio riportare a conclusione di queste brevi osservazioni sul suo percorso analitico.

“Sono con degli amici in un grande cinema ricavato da un’antico palazzo. Qualcuno mi fa notare che cade della sabbia dall’alto e vedo una crepa che progressivamente si espande nel soffitto. Osservo la scena, ma sono tranquillo. Crolla una piccola porzione della superficie e mi dico che non è possibile un crollo così limitato, perché se c’è un cedimento, cadrà tutto il soffitto. In effetti cadono pezzi di intonaco, mattoni, travi e osservo la scena come a rallentatore. Non c’è polvere e sono comunque al sicuro. E’ come se osservassi un parto”.

Bibliografia

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tratto da http://www.risorse-psicoterapia.org

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